DIVENTEREMO TUTTI BARBARI?

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DIVENTEREMO TUTTI BARBARI?
DIVENTEREMO TUTTI BARBARI? PLURALISMO CULTURA E INTERCULTURALITÀ
Simposio di Studia Patavina
Introduzione
A piccoli passi verso l’interculturalità
In un mondo dagli equilibri stravolti e diviso non più tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud,
ma tra paesi dominati dal risentimento e paesi dominati dalla paura, è quanto meno opportuno, se
non necessario, riprendere la riflessione sulla possibile convivenza con l’altro, il diverso, lo straniero, chi provenendo da un paese e da una cultura differente dalla nostra finisce spesso per essere visto e classificato come barbaro. Così facendo, però, non diventeremo tutti barbari? Non finiremo
per diventare barbari anche noi?
È la domanda che attraversa da capo a fondo il saggio di Tzvetan Todorov, La paura dei barbari (Garzanti, Milano 2009), che Studia Patavina ha scelto e proposto come punto di partenza e stimolo alla riflessione a quanti hanno partecipato al consueto simposio annuale, un appuntamento entrato ormai nella storia della rivista che ha avuto luogo il 19 novembre dello scorso anno. Sono stati
invitati a portare un loro contributo al simposio il sociologo Enzo Pace, dell’università di Padova, il
filosofo Valerio Bortolin, della facoltà teologica del Triveneto, e due teologi, Riccardo Battocchio e
Giuliano Zatti, sempre della stessa facoltà. Il dibattito si è svolto di fronte ad un pubblico qualificato e attento ed ha offerto spunti interessanti di analisi su pluralismo cultura e interculturalità, temi
apparentemente scontati, ma non per questo meno importanti e degni di essere ripresi e ulteriormente approfonditi.
1. Il contributo dei relatori
I lavori hanno preso avvio dalla storia e da un’analisi previa del termine barbaro, tanto ricorrente quanto equivocabile nel linguaggio comune. A farsi carico di questo contributo è stato Riccardo
Battocchio, che ha brevemente analizzato e illustrato la plausibilità semantica, in senso descrittivo,
che il termine barbaro assume nel discorso pubblico, soprattutto in riferimento ad alcuni ambiti linguistici e interpretativi. Sulla scorta di un’opera di R.-P. Droit, Généalogie des barbares (Odile Jacob, Paris 2007), segnalata e citata in nota dallo stesso Todorov, il relatore ha invitato a intendere il
termine non come «concetto», ma come «operatore», e cioè indicatore di una precisa funzione: separare un gruppo da un altro, un centro e una periferia, un dentro e fuori di una civiltà, di una cultura, dello stesso soggetto.
Il relatore ha anche offerto alcune esemplificazioni chiarificatrici. Se ad esempio x è la lingua
greca, la funzione «fuori da x» assegnerà alla lingua latina lo statuto e la denominazione di lingua
barbara. Se x è la civiltà romana, la funzione «fuori da x» porterà a considerare barbaro chi non è
cittadino romano. Se x è l’umanesimo rinascimentale o l’illuminismo europeo diventerà barbara la
scolastica medievale o la filosofia dogmatica. E se infine x è la coscienza del soggetto, la funzione
«fuori da x» definirà barbaro tutto ciò che non rientra o sfugge alla coscienza del soggetto. Non è
difficile comprendere in questa prospettiva come nella modernità la figura del barbaro sia venuta
costituendosi non solo «fuori da x», ma anche «dentro a x», «all’interno» di uno stesso soggetto: si
pensi all’inconscio; di una stessa cultura o società: si pensi ai gruppi marginali; di una stessa confessione o religione: si pensi ai cosiddetti irregolari. «Barbaro» allora – si chiede Battocchio – è forse
una figura necessaria perché il sé si costituisca in rapporto all’altro, al diverso? L’imporsi dell’idea
di barbarie è forse direttamente proporzionale alla scomparsa della rappresentazione dei barbari?
Sembrerebbe questa la convinzione di R.-P. Droit, che scrive: «Man mano che scompare l’idea di
una disparità di natura fra noi e gli altri – fra gente di fuori e gente di dentro, fra civilizzati e non civilizzati – si installa e diventa centrale l’idea di barbarie ed essa può applicarsi un po’ a tutti, finendo per definire in primo luogo lo stesso Occidente» (p. 287).
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A partire da questa chiarificazione semantica sembra non vi siano problemi per il sociologo Enzo Pace: egli potrà usare il termine barbaro per designare di volta in volta ciò che un gruppo intende
opponendosi ad altri gruppi. Ad esempio ciò che gli americani Wasp (White Anglosaxon Protestant) intendono opponendosi ai «latinos». Oppure ciò che gli europei occidentali intendono opponendosi agli europei orientali o ai non-europei. Per gli americani Wasp barbari sono i «latinos», che
minacciano la loro identità, la loro cultura, la loro religione. Non importa che sul tronco protestante
bianco e anglosassone si siano poi innestati cattolici, hindù, buddisti, islamici, sikh, ecc. Il modello
funziona, in quanto la storia della democrazia americana finisce sempre per inglobare le differenze
riducendole ad una sorta di «melting pot» indistinto e non più percepibile in termini di stile di vita,
di comportamenti sociali, culturali e religiosi. Più o meno la stessa cosa è avvenuta e sta avvenendo
in Europa. Se oggi per gli europei occidentali sono barbari gli «europei-orientali», gli «africani», gli
«asiatici», un domani, quando costoro saranno diventati a tutti gli effetti «europei occidentali», diventerà barbaro ogni «extra europeo», ogni immigrato di diversa provenienza, più o meno tutti gli
immigrati che arrivano da fuori dell’Europa, con le loro identità, le loro culture, le loro religioni.
È quanto si può ricavare anche dall’ultimo rapporto dell’European Monitoring the Xenofobia
and Racism Committee, dove si legge che su un campione rappresentativo della popolazione europea (si parla ancora dell’Europa dei 15) la metà circa degli europei ritiene che le diversità culturali e
religiose non costituiscano affatto una risorsa per la società, anzi per ben due terzi degli europei
l’aumento di tale diversità non sarebbe più tollerabile, né sostenibile, in futuro. L’aumento del tasso
di diversità culturale e religiosa sembra andare, secondo Pace, di pari passo con l’aumento del tasso
di ostilità nei confronti di ciò che tale diversità induce nella maggioranza della popolazione, e cioè
un senso di spaesamento, addirittura l’idea di un’invasione, di una minaccia, di un progressivo imbarbarimento dell’Europa.
Ma se allo storico e al sociologo lo schema interpretativo di R.-P. Droit non crea problemi, anzi
può essere di aiuto, ne crea invece, e più di uno, al filosofo Valerio Bortolin, secondo il quale il termine barbaro è sì un ordinatore, un indicatore di funzioni, ma è anche e prima di tutto un concetto,
un’idea, una visione dell’altro, che rinvia ad una precisa concezione di uomo e di mondo. Per il filosofo è barbaro chiunque compia atti disumani, indegni dell’uomo, non rispettosi dell’altro. È solo
assumendo il termine con questo significato che si potrà continuare a denunciare, non solo descrivere, la barbarie di tanti totalitarismi, genocidi e terrorismi, di tante carcerazioni arbitrarie, censure e
violazioni dei diritti umani. In caso contrario ci si dovrà limitare a prendere atto dei fatti, delle situazioni, delle tradizioni culturali e religiose, in una parola di ciò che accade, ma senza presumere di
valutare, giudicare, tanto meno condannare regimi politici, costumi tradizionali, comportamenti invidiali e collettivi, che violano i diritti umani o negano la fonte da cui tal diritti scaturiscono, la dignità di ogni individuo, di ogni persona.
Sembra questa, secondo il relatore, la tesi centrale del libro di Todorov, che non ha un carattere
fondamentalmente speculativo, ma risponde più che altro ad un’esigenza pratica, etico-politica. Il
suo obiettivo infatti è aiutare gli europei a superare la «paura dei barbari» mettendo bene in evidenza che lo scontro tra le civiltà non è un destino, un esito ineluttabile della nostra epoca, ma può diventare al contrario la base transculturale che permette di individuare nell’umano, nell’etica, un
punto di incontro tra culture e religioni diverse. In effetti sulla scia di Todorov Bortolin assume il
termine barbaro non come semplice ordinatore o indicatore di funzioni, ma come «cosa in sé», concetto, idea, criterio di valutazione e discernimento tra ciò che è «disumano», contrario alla dignità
dell’individuo, della persona, e ai diritti che ne conseguono, e ciò che invece è «umano», conforme
a tale dignità e ai diritti inerenti ad ogni individuo, ad ogni persona. Molto significativa, sotto questo profilo, la citazione di Erich Auerbach, tedesco esule in Turchia, che il relatore riporta verso la
fine del suo intervento: «L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale
tutto il mondo non è che un paese straniero».
Parole molto belle che aprono la strada al teologo Giuliano Zatti, per il quale viviamo tutti ormai all’interno di una «città plurale», per tutti la «globalizzazione» viene dal basso, tutti stiamo di2/8
ventando «cittadini diversamente abili». Abili a che cosa?, si chiede però subito il teologo. A imboccare scorciatoie mentali, semplificazioni della realtà, oppure ad abitare la «città plurale», a entrare in un processo di «globalizzazione» dal basso, senza per questo rinunciare alla propria identità
culturale e religiosa? Zatti denuncia il rischio del cristianesimo, in particolare della chiesa cattolica,
di avanzare «a rimorchio» di fatti, situazioni, umori, precedenze di altra provenienza, e pone una
questione teologica precisa: se la ripartizione tradizionale in ambito cristiano tra «missione» e «cura
pastorale» sia adeguata o non sia invece da riprendere e ripensare in quanto non più corrispondente
alla nuova situazione di pluralismo culturale e religioso. La teologia, ma ancor più la pastorale, è
oggi alle prese anche nei paesi di cultura cristiana con questioni tradizionalmente ritenute impegno
della «missione»: si pensi alle inevitabili domande che emergono quotidianamente dal semplice fatto di vivere a fianco o a contatto con credenti di altre culture, altre confessioni, altre religioni.
Ne consegue che una più chiara distinzione tra fede che salva e fede che testimonia può diventare il presupposto, la condizione di possibilità, che permette da una parte di relativizzare le forme
culturali e religiose della fede cristiana, dall’altra di riaffermare la necessità di una sua vera inculturazione a partire dal nuovo contesto culturale e religioso. Ciò che viene relativizzato, infatti, non è
la fede che salva, bensì il modello culturale e religioso attraverso cui questa fede si esprime. Non il
principio trascendente e fondante la verità, ma le forme culturali e religiose che la esprimono. Secondo il teologo, sul piano dell’operatività, la differenza e la diversità non vanno colte e accolte con
paura, ma come salutare provocazione a ripensare la propria identità religiosa, e l’identità religiosa
dell’altro. Non però come la vediamo noi, bensì come la vede e la vive l’altro. Ciò implica che si
deve imparare a discernere non solo una base comune di confronto, ma anche ambiti di interferenza
tra credenti diversi. Sotto questo profilo altro è il campo di interazione determinato da una missione
cristiana in una regione nuova, sconosciuta, altro quello costituito dalle nostre città e paesi. Altro il
confronto tra persone che vogliono portare la propria attenzione e testimonianza sul problema di
Dio e della fede, altro quello provocato da una convivenza forzata di immigrati in cerca di lavoro e
di pace. A livello pastorale il peggio che può capitare è dare risposte religiose a problemi e domande sociali; o viceversa dare risposte sociali a problemi e domande religiose, di fede. Dare invece risposte sociali a problemi e domande sociali e risposte religiose a problemi e domande religiose è il
presupposto che permette oggi alla pastorale di ripensare se stessa e ri-comprendere il suo compito
evitando inutili equivoci e strumentalizzazioni, per altro sempre possibili in situazioni di emergenza
o di conflitto.
2. Gli interventi dei partecipanti
Ai contributi dei relatori è seguita una serie di interventi da parte dei presenti che in parte hanno
ripreso le analisi fatte, in parte le hanno collocate all’interno di nuovi orizzonti. Il primo a prendere
la parola è stato il biblista Giuseppe Segalla, il quale ha osservato come nei vari interventi sia mancata, a suo parere, un’adeguata prospettiva storica. Ha pertanto proposto di assumere i termini civiltà e cultura in un’accezione alquanto diversa: civiltà non come fioritura, ma come prodotto della
cultura; viceversa cultura non come prodotto, ma come fioritura della civiltà. A partire da tale ridefinizione il biblista ha invitato a storicizzare maggiormente il concetto di civiltà facendo osservare
come nelle mani di un potere politico egemonico essa possa diventare fonte di scontro e di violenza.
Come di fatto è avvenuto molte volte nella storia. Ad esempio quando la civiltà occidentale è andata al potere, dapprima, in nome di grandi e nobili ideali di libertà, uguaglianza e fraternità: si pensi
alla rivoluzione francese; e successivamente nel nome di ideali non meno grandi e nobili come la
giustizia, la sovranità, la crescita economica, il progresso scientifico, ecc., impugnati di volta in volta da altre rivoluzioni che hanno seminato guerre e violenze un po’ ovunque in Europa e nel mondo.
A differenza della civiltà, che segue sempre più o meno le vicende del potere politico imperante che
la può difendere, ma anche imporre, la cultura è molto più libera dal potere in quanto si impone da
sé, con la sua autorevolezza, la forza delle sue idee, della conoscenza, del dialogo che instaura e
promuove.
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Avvalendosi di tale schema di analisi Segalla rilegge le vicende storiche del popolo ebraico e
traccia un breve schizzo di storia della cultura e della civiltà ebraica. Nelle sue intenzioni questa rilettura confermerebbe l’ipotesi da lui avanzata, il fatto cioè che la civiltà, in quanto cultura organizzata, non solo si impone, ma corre costantemente il pericolo di incentivare una serie di scontri di civiltà sia passivi o che attivi. Egli cita in tale prospettiva gli scontri che il popolo ebraico ha dovuto
subire a causa della conquista e dell’egemonia imposta rispettivamente dalla civiltà egiziana, babilonese, persiana, ellenistica, romana. Ma cita anche gli scontri che il popolo ebraico ha determinato
per imporre la sua civiltà nella terra di Canaan e in seguito per difenderla, anche con la forza, prima
contro Antioco IV nella lotta armata dei fratelli Maccabei, successivamente contro i romani nella
grande rivolta del 66-70 d.C., che porterà alla distruzione del tempio e della stessa città di Gerusalemme. Da allora, osserva il biblista, mentre la civiltà ebraica è scomparsa dalla scena della storia,
la cultura ebraica non solo non è scomparsa, ma è rifiorita ovunque nella diaspora: ora ritraendosi
per difendere meglio il patrimonio religioso accumulato, ora diffondendosi per entrare maggiormente in dialogo e fecondare altre culture.
Lungo questa linea di dialogo e fecondazione reciproca delle culture è intervenuto anche il teologo Roberto Tura. Riprendendo uno stimolo di Giuliano Zatti egli ha invitato i presenti a rivisitare
linguaggio e categorie del pensiero a partire da due forme simboliche della fede cristiana, il Crocifisso e il presepe, al centro oggi di un dibattito pubblico molto vivace, ma incentrato purtroppo quasi esclusivamente sulla questione se tali simboli cristiani, esposti nelle aule scolastiche o in altri spazi pubblici del nostro Paese, siano o meno da ritenere «barbari», offensivi nei confronti della dignità
e dei diritti di altro-credenti. In proposito il teologo ha offerto due spunti di riflessione e analisi. Il
primo vòlto a richiamare e a sottolineare storicità e variabilità di simboli ed espressioni simboliche
di ogni religione, quindi anche della religione cristiana, in riferimento alla quale non è difficile verificare come il simbolo della Croce sia sempre stato al centro di rivisitazioni e interpretazioni diverse lungo i secoli. Se nei primi secoli, ad esempio, si preferiva rappresentare la Croce come albero
fiorito che si nutre della linfa del sangue di Gesú o come Croce gemmata che celebra la sua risurrezione, in epoche successive, soprattutto con il francescanesimo, la Croce è stata riscoperta e interpretata come simbolo dell’umanità di Gesú, della sua condivisone al dramma e alle sofferenze
dell’umanità.
Tura invita dunque a non scambiare il contenuto con la forma: ciò che importa o dovrebbe importare al credente cristiano non è tanto la forma, il contenitore, ma il contenuto, il nucleo specifico
e proprio della fede cristiana. Che in riferimento al Crocifisso coincide con la memoria viva del Servo di Dio, dell’Agnello pasquale, che dona se stesso per salvare e far crescere l’umanità negli uomini. Più o meno la stessa cosa si può e deve dire in riferimento all’altra forma simbolica del cristianesimo, il presepe, anche questo, guarda caso, di origine francescana. E qui il teologo offre un secondo spunto di riflessione e analisi osservando come il dibattito sull’opportunità o meno di esporre il
crocifisso o di fare il presepe nelle aule scolastiche o in altri spazi pubblici possa diventare l’occasione per spiegare agli altro-credenti il significato profondo, teologico e antropologico insieme, dei
simboli cristiani. Senza per altro assolutizzarli e tanto meno imporli, ma offrendo agli altro-credenti
l’opportunità di conoscerli e comprenderli; e viceversa da parte loro di mostrare e spiegare a loro
volta il significato dei propri simboli, delle proprie tradizioni culturali e religiose. Si pensi in tale
contesto al significato del digiuno praticato durante il mese di Ramadan da tanti credenti di religione islamica.
Mostrare, ma soprattutto spiegare, i simboli della propria religione è sempre un’impresa difficile, anzi – osserva l’antropologo Aldo Natale Terrin – ultimamente impossibile. L’antropologia culturale post-moderna è giunta ormai a rifiutare ogni forma di fenomenologia immedesimativa ed empatica dell’altro. Ciò significa che si è finalmente compreso che parlare o scrivere è sempre un parlare e scrivere di se stessi, mai dell’altro in quanto altro. Che pertanto rimane, per chi lo avvicina,
sempre altro, un estraneo, titolare di un mondo che si potrà magari esplorare, indagare, imparare a
conoscere, ma mai comprendere e tanto meno possedere.
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Sulla base di questa premessa metodologica Terrin sviluppa alcune considerazioni sulla possibile strumentalizzazione del concetto di religione e sulla necessità di «storicizzare», «de-naturalizzare», le grandi religioni del mondo, in particolare il cristianesimo. Lavoro tanto più imprescindibile
in quanto la denominazione «religioni del mondo» nasce proprio in un contesto cristiano e serve
esclusivamente a riprodurre e perpetuare la riproduzione di una visione «euro-centrica» del mondo.
Visione, egli obietta, che promuove sotto altre vesti l’universalismo della religione cristiana dimenticando le differenze che ci sono, e sono enormi, tra un mondo detto «religioso» e altri mondi «religiosi». L’antropologo denuncia a questo punto il deficit endemico di tante analisi, costituito secondo lui dal concetto stesso di religione che una volta estrapolato dal contesto storico e culturale in cui
è nato crea il mito della «omogeneità» della religione, della sua «testualizzazione», inducendo a
scambiare più o meno consapevolmente il particolare con l’universale. Di qui una vera e propria
«aggressione» culturale e teologica dell’Occidente cristiano nei confronti di altri popoli, altre culture, altre religioni.
In forma meno radicale, ma non per questo meno rigorosa, si esprime lo storico della scienza
Paolo Campogalliani, che stabilisce una cauta analogia tra il procedere dell’etica, della filosofia,
della teologia, e quello della scienza, invitando eticisti, filosofi e teologi a non dimenticare che ogni
impresa conoscitiva è segnata inevitabilmente da una dipendenza culturale e non può, quindi, che
essere contrassegnata da storicità e pluralismo. Ciò non implica regredire nell’autoreferenzialità o
peggio ripiegarsi nel convincimento che il proprio patrimonio di conoscenze e di valori sia o possa
diventare il riferimento unico cui devono guardare le altre culture. Implica semmai il contrario, la
consapevolezza dei propri limiti all’interno di un processo dinamico di conoscenza sempre più attento al «diversamente umano» e disponibile al dialogo, al confronto, alla verifica puntuale e rigorosa di ogni affermazione. Appartenendo gli uomini alla stessa famiglia umana non sono, né possono
essere, reciprocamente degli estranei, degli alieni. Si possono comprendere e in quanto esseri razionali sono in grado di discernere ciò che è umanamente regressivo, oggettivamente «barbaro», e ciò
che invece è umanamente progressivo, oggettivamente «civile».
Non è che Campogalliani veda nella scienza, nella cultura scientifica, una via privilegiata di conoscenza, di comprensione reciproca, piuttosto la propone come realtà disponibile ad ospitare l’altro, il diverso, più di molti altri canali transculturali di comunicazione. Mentre etica, politica e religione, radicate come sono nelle diverse geografie dell’uomo, risultano a volte molto più resistenti,
se non renitenti, nell’ospitare tali canali di comunicazione, la scienza, un congresso scientifico, una
rivista scientifica, una società scientifica, costituiscono luoghi in cui la comprensione reciproca avviene secondo modalità quasi del tutto sgombre da ostacoli culturali. Non solo sul piano dei contenuti – si pensi all’ecologia ambientale – ma anche del metodo, da intendere in senso pedagogico, oltre che epistemologico.
3. Nuovi problemi e vie di ricerca
Relatori e partecipanti al simposio hanno fatto più o meno riferimento tutti o quasi a due costellazioni terminologiche di significato opposto: da un parte, utilizzando i termini barbaro, barbarie,
imbarbarimento, ecc., per segnalare o denunciare atteggiamenti e comportamenti disumani, indegni
dell’uomo, non conformi alla sua dignità di individuo, di persona, e ai diritti che ne conseguono;
dall’altra, ricorrendo ai termini civile, civiltà, civilizzazione, ecc., per indicare o accreditare atteggiamenti e comportamenti umani, degni dell’uomo, conformi alla sua dignità di individuo, di persona, e rispettosi dei suoi diritti. Sotto questo profilo è barbaro, si abbandona alla barbarie, promuove
processi di imbarbarimento, chi considera l’altro, il diverso, l’estraneo, un essere inferiore a sé o lo
tratta comunque in modo ingiusto, moralmente sbagliato. Viceversa è civile, sceglie la civiltà, promuove processi di civilizzazione, ecc., chi riconosce nell’altro, nel diverso, nell’estraneo, un essere
umano uguale a se stesso e lo tratta conseguentemente in modo giusto, moralmente retto.
Non si tratta, come si può intuire, di un criterio solo culturale o religioso, ma di un criterio morale, etico, a partire dal quale non è difficile cogliere nella nostra società una serie di nuovi problemi
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che sollevano, e in parte giustificano, l’interrogativo fondamentale del simposio: ci stiamo forse anche noi dirigendo a piccoli passi, senza adeguata consapevolezza, verso la barbarie? Diventeremo,
in altri termini, tutti barbari? Domande tanto più attuali e pertinenti in quanto a molti sembra che negli ultimi tempi la tendenza all’imbarbarimento si stia addirittura rafforzando nella misura in cui ci
troviamo immersi, ormai, in un habitat di barbarie impercettibile, diffusa, poco eclatante, ma non
per questo meno nociva. Sotto questo profilo non è barbaro solo il kamikaze islamico che compie
un attentato o un atto di terrorismo. Né solo il soldato americano che uccide i civili o tortura i prigionieri. È barbaro anche chi offende quotidianamente in forme senz’altro meno gravi, ma purtroppo più frequenti, la dignità della persona, i suoi sentimenti, le sue convinzioni, le sue idee.
Chi non ha assistito, in casa, per la strada, a scuola, sul posto del lavoro, in ufficio, perfino in
parlamento, a episodi a dir poco incresciosi? Parolacce a non finire, insinuazioni malevoli, insulti
volgari, calunnie, ricatti, minacce, e chi più ne ha più metta. È impressionante il numero di violenze
e aggressioni, anche solo verbali, che si riversano ogni giorno nella prassi quotidiana, nel costume,
nel modo di atteggiarsi e di comportarsi degli uni nei confronti degli altri. Accendi la televisione e ti
trovi di fronte a programmi, talk-show, intrattenimenti, in cui all’ascolto attento e rispettoso dell’altro, delle sue emozioni, delle sue ragioni, dei suoi convincimenti, si viene sostituendo in un crescendo di banalità e cattiveria l’allusione piccante, il fraintendimento astuto, ricercato, la polemica inutile e gratuita, a volte sprezzante, e quel sottile cinismo che viene troppo spesso scambiato per humor,
intelligenza, prontezza di spirito, senso dell’ironia. E ci si meraviglia, poi, che i ragazzi facciano i
bulli a scuola o i giovani riproducano nella vita gli stessi modelli, gli stessi comportamenti, che ai
loro occhi finiscono per diventare normalità, consuetudine, stile di vita, legittimazione più o meno
diretta o indiretta del loro conformismo o anticonformismo sempre più di maniera.
Non si tratta, come a volte si ripete, solo di vuoto esistenziale, di assenza di valori, di debolezza
mentale, ma di vere e proprie strategie comunicative, culturali, di ferite etiche inferte alla coscienza,
di proposte educative alla cui base si intravede l’ipertrofia dell’ego, una specie di ego-latria, che induce giovani e non più giovani a rivendicare per sé solo diritti e ad assegnare agli altri solo doveri.
Gli studiosi di etica parlano, in tale contesto, del venir meno del punto di vista morale, della regola
d’oro, del criterio di imparzialità, di universalizzazione, ecc. I teologi cristiani a loro volta verificano quotidianamente la scarsa incidenza sulla prassi del comandamento evangelico dell’amore di
Dio e del prossimo, anche dei nemici. Che è poi il criterio pratico per discernere se gli atteggiamenti che assumiamo nei confronti degli altri sono morali o meno, buoni o cattivi, egoistici o altruistici.
Il fatto è che se si considera moralmente rilevante la distinzione fra amici e nemici, tra coloro che ti
fanno del bene e coloro che ti fanno del male, ci si pone con ciò stesso al di fuori della fede, della
religione, ma anche della stessa moralità. In effetti se uno ama solo chi gli fa del bene e odia chi gli
fa del male ama solo se stesso e gli altri nella misura in cui gli sono utili, di qualche vantaggio o beneficio. Non è forse questo ciò che Gesú intendeva dire quando rivolgendosi ai suoi discepoli li provocava: «Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E
se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo
stesso» (Lc 6,32-33).
A nuovi problemi, comunque, si devono cercare nuove soluzioni, o quanto meno offrire nuove
indicazioni di soluzione. Di qui la necessità e l’urgenza di individuare nuove vie di ricerca, nuove
strategie conoscitive, nuovi metodi di analisi, nuove proposte, in grado di indicare criteri validi di
atteggiamento e di comportamento che non siano puramente formali, procedurali, ma anche materiali, pratici. Certo, da un punto di vista formale, procedurale, è già molto importante riconoscere il
punto di vista morale, etico, il criterio della regola d’oro, dell’imparzialità, dell’universalizzazione,
del doppio comandamento dell’amore. Ciò non basta, però. Occorre anche elaborare il punto di vista morale individuando criteri pratici di comportamento, oltre che di atteggiamento. Si tratta in altri
termini di comprendere come da un atteggiamento moralmente buono, altruistico, imparziale, disponibile a far valere, in situazioni ugualmente rilevanti, lo stesso criterio di giudizio, possa scaturire
un comportamento moralmente giusto, retto, oggi diremmo «civile», ma anche un comportamento
moralmente sbagliato, erroneo, incivile, oggi diremmo «barbaro». E viceversa da un atteggiamento
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moralmente cattivo, egoistico, parziale, non disponibile a far valere, in situazioni ugualmente rilevanti, lo stesso criterio di giudizio, possa derivare un comportamento moralmente sbagliato, erroneo, oggi diremmo «barbaro», ma anche un comportamento moralmente giusto, retto, oggi diremmo
«civile».
«Predicare la morale è facile, fondarla è difficile», ripeteva Arthur Schopenhauer. E voleva dire
che se è relativamente facile condannare la «barbarie» o viceversa approvare la «civiltà», è molto
più difficile determinare cosa questi due termini significhino, quali siano in concreto, nella storia, i
loro contenuti. Per la verità neanche predicare la morale è facile: per farlo ci vuole grande intelligenza e disponibilità di cuore. Fondarla, in ogni caso, è molto più difficile, per la complessità dei
problemi, ma anche e soprattutto perché manca nella nostra cultura una teoria etico-normativa condivisa, in base alla quale «spiegare», ma anche «giustificare» in modo relativamente rigoroso e convincente quando e perché un determinato comportamento è «civile», moralmente giusto, retto, o viceversa «barbaro», moralmente sbagliato, erroneo. Salva, ovviamente, la buona fede del soggetto, le
sue intenzioni, i suoi atteggiamenti, la sua coscienza, come giudizio ultimo-pratico, su cui è praticamente impossibile formulare un giudizio per il semplice fatto che si tratta di una scelta, di un atto
interiore, empiricamente non verificabile. Il che però non significa che tale scelta, tale atto interiore,
sia per definizione moralmente buono o immune da errore. Il detto evangelico «Non giudicate per
non essere giudicati» (Mt 7,1) proibisce certo di giudicare il soggetto, la persona, i suoi atteggiamenti, le sue intenzioni, la sua buona fede, in una parola i suoi atti interiori. Secondo Paolo nemmeno la persona sarebbe in grado di giudicare se stessa fino in fondo, solo Dio che scruta il cuore e i
reni, il cuore e la mente (Ger 11,20). Di qui la conclusione: «Io neppure giudico me stesso… il mio
giudice è il Signore» (1Cor 4, 4). Il che però non significa che non possiamo giudicare l’oggetto,
ciò che il soggetto, la persona, compie o fa, i suoi comportamenti, le sue azioni, in una parola i suoi
atti esteriori. E ciò, ancora una volta, per il semplice fatto che tali atti si vedono, si possono verificare, analizzare, quanto meno indirettamente, a partire sia da indicazioni normative, di valore che da
constatazioni empiriche, di fatto.
Ma torniamo ai problemi che si pongono oggi alla coscienza di tutti, anche dei cristiani. Si è fatto cenno, più sopra, ad un piccolo campionario di comportamenti quotidiani fra i molti che la comunicazione di massa ci offre. Si potrebbero citare, oltre a questi, tutta una serie di altri comportamenti
nel campo della moda, dello spettacolo, della pubblicità, che non solo umiliano l’intelligenza, ma
oltraggiano spesso anche il corpo delle persone, in particolare dei bambini e delle donne, e quindi la
loro dignità, il loro diritto ad essere trattati come soggetti liberi e responsabili. Detto questo, non
possiamo però ignorare le sistematiche violazioni della legalità in campo sociale, del lavoro,
dell’economia, del fisco, della finanza, della stessa religione, che non solo umiliano e oltraggiano la
dignità dei cittadini, ma fanno strame della giustizia, dell’equità. Se dalla riflessione sui problemi
della barbarie come categoria puramente individuale, esistenziale, passiamo ora alla riflessione sui
problemi della barbarie come categoria sociale, culturale, sarebbe oltremodo interessante indagare e
interrogarsi sul perché dell’attuale passaggio (ritorno?) dalla filosofia e dalla teologia politica alla
filosofia e alla teologia morale, dalle tematiche dello stato, delle istituzioni, della società civile, a
quelle del cittadino, delle riforme, della «società giusta», dell’«etica pubblica», della «religione civile», in una parola dei presupposti da cui ripartire per ridare vigore e slancio alla democrazia.
In effetti non c’è chi non veda la miseria, peggio la confusione, che regna sotto il sole in tali
ambiti dell’agire umano. Non si tratta solo di ripensare la tradizione liberal-democratica, le sue analisi, le sue argomentazioni, che si sono ormai imposte un po’ ovunque nel panorama politico occidentale. Tanto meno si tratta di riflettere solo sullo scontro di culture, di civiltà, teorizzato da Hungtinton, o sul tramonto, addirittura la fine della storia, annunciata da Fukuyama. Si tratta piuttosto di
verificare se le analisi e le argomentazioni della tradizione liberal-democratica siano eticamente sostenibili, in grado di ridare vigore e slancio alla democrazia nella direzione di una maggiore giustizia ed equità in un tempo di globalizzazione come quello in cui viviamo. Prendiamo Kant. Il suo
problema era quello di escogitare un dispositivo teorico che permettesse di considerare intatta la
personalità morale degli individui anche in società, noi diremmo anche in un tempo di globalizza7/8
zione. Non a caso la sua filosofia politica è l’aspetto più formalistico del suo pensiero nella misura
in cui ha indotto e induce tuttora ad attribuire una dimensione trascendentale a tutta una serie di
contenuti, di modelli sociali, economici, finanziari, politici, perfino religiosi, storicamente determinati. Certo, non è che la critica di Hegel al trascendentale kantiano si interroghi in modo adeguato
sulle condizioni materiali della società, né su quelle della conoscenza. Si può dire, però, che per Hegel la società non faccia problema, non rientri nell’orizzonte della sua speculazione? Si pensi alla
sua teoria dell’eticità: non è forse una risposta proprio al problema della società? In ogni caso non
dovrebbe quanto meno far problema, oggi, il concetto di individuo assunto nella tradizione liberaldemocratica, se non come ente naturale, certo nella sua accezione puramente formale, trascendentale?
È per rispondere a questa difficoltà che si introduce oggi la tematica dell’identità come somma
di ciò che non è scambiabile nel contratto, ma deve anzi essere salvaguardato dalla società che il
contratto istituisce. È però questo concetto di identità che non soddisfa pienamente. Identità significa riconoscersi ed essere riconosciuti. Ma come riconoscersi? Come semplici individui che diventano sociali in base al contratto? O come individui sociali che stipulano il contratto? C’è qui una circolarità argomentativa che deriva dalla sovrapposizione di individuo naturale e individuo sociale.
Un problema che la riflessione etica farebbe bene a riprendere sia da un punto di vista filosofico che
teologico. Magari a partire dall’acquisizione che l’identità non è solo riconoscimento formale, ma
anche costruzione storica, sociale, trans-individuale, frutto quindi di una molteplicità di meccanismi
e fattori di identificazione che si sovra-determinano. Un po’ come gli individui, che non sono fuori,
immuni da pressioni sociali e ambientali, nemmeno in senso trascendentale. E ciò per il fatto che
non vivono in un mondo separato, a parte, fuori dalla storia, originario e originale rispetto alla società e ai suoi processi di determinazione e di costruzione storica.
GIUSEPPE TRENTIN
direttore di Studia Patavina
docente di teologia morale
Facoltà teologica del Triveneto - Padova
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