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La mediazione familiare tra il diritto e il legame sociale: il punto di
vista di un avvocato-mediatore familiare.
I conflitti familiari portano con sé una quantità ed una qualità di emozioni
e di affetti destrutturati che li rendono sui generis rispetto a qualsiasi altra
tipologia di conflittualità consegnata al vaglio dei giudici.
Parlare del ruolo dell’avvocato nella crisi della famiglia oggi significa
verificare l’efficacia innovativa della legge di riforma istitutiva del
principio della bigenitorialità L. 54 del 08.02.2006 rispetto al precedente
quadro normativo e intercettare, tra gli strumenti di cui dispone l’avvocato
c.d. “familiarista” o “matrimonialista”, quelli più adeguati e finalizzati a
fronteggiare professionalmente il conflitto familiare.
Il primo efficace strumento dell’avvocato si esprime nel suo
comportamento, nel rispetto di un’etica deontologica e comportamentale
capace di passare da una logica di contrapposizione delle posizioni da
gestire ad una logica di interazione tra le stesse, cogliendo la complessa
articolazione del conflitto e contestualmente concentrandosi in via
preliminare sulla primaria importanza che assume la tutela dei figli minori.
L’adempimento del dovere professionale con lealtà, onore e diligenza per i
fini della giustizia è il criterio di orientamento di ogni atto e attività del
matrimonialista il quale non è sottratto al compito di ricondurre il cliente
alle responsabilità genitoriali che la legge gli impone di assumere nei
confronti dei figli minori e dovrà anche guidare il cliente verso la
consapevolezza della priorità dell’assunzione dei suoi impegni nei
confronti dei figli. Solo in questo modo contribuirà all’attuazione della
legge senza che ciò comporti il venir meno all’obbligo di fedeltà verso il
cliente.
Pertanto, il primo compito dell’avvocato che riceve l’incarico
professionale da parte di un coniuge, consiste nel tenere ben presente
l’importanza della fase pre-processuale, perché è in quella fase che si
possono trovare le potenzialità per giungere ad un accordo. La possibilità
di individuare quelle potenzialità capaci di ristrutturare la rottura di un
legame coniugale verso la trasformazione in un legame responsabilmente
genitoriale, tuttavia, è compito particolarmente arduo considerato che
spesso la realtà sottoposta dal cliente è deformata da rabbia, rancore,
paure. Il vero nodo nevralgico delle vicende separative è rappresentato
proprio dalla capacità di gestione delle emozioni che, lenite nella loro
conflittualità, devono trovare riscontro in un accordo condiviso in cui le
parti si ritrovino nella stessa direzione genitoriale e soprattutto un accordo
consapevole, intimamente voluto nell’interesse dei figli affinchè possa
“mantenersi” nel tempo.
In questo sfondo si colloca la mediazione familiare un intervento
professionale finalizzato alla riduzione della conflittualità e volto alla
ristrutturazione dei legami familiari attraverso l’apertura di canali di
comunicazione tra le parti interessate. L’accordo che scaturisce dalla
mediazione, sotto un profilo contenutistico, è il frutto della attività delle
parti e del loro protagonismo, in un percorso in cui il mediatore, lavorando
simultaneamente alla presenza di entrambi i coniugi, ha il solo (ma
determinante) ruolo di facilitatore. Notevolmente maggiori saranno le
aspettative di efficacia e stabilità di questo tipo di accordo, con evidenti
benefiche conseguenze per i figli. Non a caso, la Convenzione dei diritti
del fanciullo, firmata a New York nel 1989 e resa esecutiva in Italia con la
legge 176 del 27.05.1991, prevede, all’art. 13, che “per prevenire e
risolvere i conflitti ed evitare procedure che coinvolgano un fanciullo
dinanzi ad un’autorità giudiziaria, gli Stati firmatari incoraggino la
mediazione …..”. Anche la Legge 28.8.1997 n. 285, rubricata
“Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e
l’adolescenza”, prevede, all’art. 4, tra i “Servizi di sostegno alla relazione
genitori-figli”, quelli di mediazione familiare e di consulenza per famiglie
e minori al fine del superamento delle difficoltà relazionali.
La mediazione familiare costituisce il più importante ausilio dell’avvocato
nella gestione della crisi familiare. Benché si tenda a sovrapporre la
psicoterapia di coppia con la mediazione familiare, in realtà si tratta di
interventi distinti e diversi soprattutto nella loro finalizzazione pratica: la
mediazione si propone di affrontare non solo gli aspetti emotivorelazionali della coppia ma anche di approcciarsi alla soluzione dei
problemi concreti che sorgono con la separazione/divorzio ( la divisione
dei beni, l'affidamento dei minori ed alla loro educazione, la
determinazione delle contribuzioni a favore del coniuge e della prole,
l'assegnazione della casa coniugale, gli accordi sui periodi di visita ai figli
per il genitore non affidatario), il mediatore opera affinché i due
componenti della coppia riescano a costruire un obiettivo terzo rispetto alle
loro teorie personali, che sia al di sopra degli interessi egoistici del singolo,
aiutando i contraenti alla gestione delle loro teorie personali.
Diversamente, la terapia di coppia in genere dovrebbe precedere la
separazione in quanto è un intervento utile per aiutare la coppia a risolvere
i nodi relazionali che rendono difficile la continuazione del rapporto
agendo su un sistema disfunzionale che deve "essere curato".
Gli aspetti conoscitivi e pratici di cui ho appena accennato, però, risultano
sconosciuti alla maggior parte degli operatori del diritto. L’avvocato ha
l’obbligo e la necessità professionale di attenersi ad un codice, alle regole
sancite nelle norme che sono pilastri strutturali della propria attività
perché ad esse è connesso un impianto processuale finalizzato
all’ottenimento di quel bene giuridico tutelato dalla legge.
E nel nostro codice l’istituto della mediazione familiare ha un timido
accenno sparso, non ha il crisma di un riconoscimento giuridico che ne
valorizzi la figura del professionista, le modalità di accesso del percorso
mediativo all’interno del sistema giudiziario, né viene regolamentata in
alcun modo l’efficacia dell’accordo raggiunto al termine del percorso di
mediazione.
Occorre avere l’onesto coraggio di affermare che l’art. 155 sexies, 2° co
del codice civile non contiene alcun riferimento esplicito alla mediazione
familiare ma soltanto un cenno ad un intervento eventuale di “esperti”
nell’ambito di una lite giudiziaria già iniziata, ove il giudice raccolga il
consenso delle parti.
La mancanza del riconoscimento della figura professionale del mediatore
familiare e di precise regole garantistiche del processo che egli coltiva nel
proprio intervento professionale è un gravissimo vulnus nel nostro sistema
di diritto anche perché assistiamo ad un caotico e confuso esercizio di
interventi da parte di pseudo “mediatori familiari” che provocano danni
irreversibili alla coppia in conflitto.
A causa del disinteresse e dell’inerzia degli organi legislativi, il processo
di istituzionalizzazione e regolamentazione del processo mediativo viene
così lasciato alla buona volontà dei privati, alla sensibilità degli avvocati,
alla preparazione ed all’impegno dei singoli professionisti, i quali da
tempo si sforzano di elaborare principi e norme etiche e deontologiche di
comportamento.
Non può e non deve sfuggire al legislatore l’ “ascolto” di quei segnali
sociali che sono spesso lo sfondo costante dei fatti di cronaca nera.
La mediazione familiare incarna i principi dell’art. 2 della nostra
Costituzione soprattutto nella parte relativa alla solidarietà. Solidale,
fra i vari significati, ne ha anche uno in meccanica quale elemento di
un meccanismo rigidamente collegato ad un altro. Quest’accezione
ben si addice al ruolo genitoriale, quanto a quello familiare in
generale, perché i genitori, anche se separati o divorziati, non
smettono d’essere tali nei confronti dei figli ed anche tra gli ex-coniugi
possono permanere delle conseguenze di natura patrimoniale che
danno luogo alla cosiddetta solidarietà post-coniugale. Quando questo
meccanismo della solidarietà si scardina nella famiglia si hanno, tra l’altro,
costi sociali ed economici elevati per le famiglie stesse e per lo Stato
(come si legge nella Raccomandazione R (98)1 del Comitato dei Ministri
del Consiglio d’Europa sulla mediazione familiare).
La mediazione familiare, prima ancora di essere una professione, è
una “funzione sociale” a sostegno dell’”utilità sociale” della famiglia
(mutuando la terminologia della nostra Costituzione) e di questo si
dovrebbe tener conto in un quadro normativo organico che disciplini le
relazioni familiari. Nell’attesa che l’istituto della mediazione familiare e la
figura professionale del mediatore familiare trovino un riconoscimento a
pieno titolo dallo Stato, è necessario che tutti gli operatori del diritto siano
coscienziosamente sensibili e aperti alla cultura della mediazione, valore
coadiuvante e non già oppositivo della attività dell’avvocato.
Ricordo a me stessa, la definizione più alta e arricchente della figura
dell’avvocato che contiene in sé il seme della mediazione familiare:
“Molte professioni possono farsi con il cervello e non con il cuore; ma
l’avvocato no! L’avvocato non può essere un puro logico né un ironico
scettico, l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista,
uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé;
assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambascie. Per
questo amiamo la nostra toga; per questo vorremmo, che quando il
giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero al quale
siamo affezionati, perché sappiamo che esso è servito ad asciugare
qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche
sopruso e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la
quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”
(Piero Calamandrei)
Avv. Lucia Legati