il giudizio di paride nelle fonti letterarie greche

Transcript

il giudizio di paride nelle fonti letterarie greche
1
IL GIUDIZIO DI PARIDE NELLE FONTI LETTERARIE GRECHE
DA OMERO ALLA TRAGEDIA
Riccardo Quaglia
PREMESSA
Il mito relativo al giudizio di Paride (la kri/sij tw=n qew=n, ossia il «confronto» o «giudizio tra le
dee») era assai noto nell’Antichità greco-romana e la sua menzione nelle fonti letterarie
superstiti è frequente. La ragione è chiara: tra le conseguenze di quell’episodio, attraverso il
rapimento di Elena, spiccava la guerra di Troia, durante la quale le dee sconfitte avrebbero
continuato a esercitare il proprio odio contro la città. E poiché da questo evento mitologico, in
sostanza, traeva origine la materia dei due poemi omerici, ossia del perno su cui si fondava
l’educazione scolastica e letteraria greca, non stupisce la persistente presenza del giudizio in più
filoni letterari.
Particolarmente interessante per un percorso di studio che si rivolga ai Licei appare l’analisi
delle fonti a disposizione nel mondo greco a partire dalle origini, vale a dire dall’epica arcaica,
fino al pieno sviluppo del teatro tragico allorché, con Euripide, il bagaglio mitico viene
rielaborato, soprattutto nelle modalità di formulazione retorica del discorso, anche alla luce
dell’esperienza sofistica. L’excursus si propone di leggere (o rileggere) anche passi noti; poiché
non è possibile formulare alcuna considerazione linguistica o interpretativa su testi incerti o
malsicuri, si è talvolta affrontata, brevemente, anche la discussione più propriamente filologica e,
dato che la prima forma di interpretazione è la comprensione letterale, ogni testo è corredato di
una traduzione realizzata ex novo, senza attingere a versioni italiane note, quand’anche divenute
ormai canoniche.
I. PARIDE NELLA TRADIZIONE MITICA: OLTRE IL GIUDIZIO DELLE DEE
Alla figura del giovane erano collegati numerosi episodi mitologici, che ne descrivevano la sorte
sin dagli anni precedenti la nascita; tale abbondante materiale mitico è conservato in opere
diverse, spesso in una rielaborazione poetica che vi apportò varianti più o meno lievi: «la
letteratura classica (...) è una letteratura che, quando si propone di narrare storie, non è capace di
concepire questa operazione se non nella forma di chi racconta un mito già noto … le trame [sc.
del mito] c’erano, in un certo senso già tutte. Quello che occorreva fare era tenerle vive, scriverle
e raccontarle ancora»1. Passando in rassegna le diverse voci che, a vario titolo e in riferimento a
diversi episodi, si occuparono del personaggio di Paride si osservano comunque alcuni elementi
costanti, che possono essere riassunti come segue.
Ecuba, moglie di Priamo re di Troia, mentre era incinta di Paride, sognò di generare una fiaccola
ardente invece di un neonato. In quel fondamentale compendio mitografico che è l’opera
intitolata Biblioteca, a lungo attribuita ad Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), ma probabilmente
compilata da altri verso la fine del I sec. d.C., si dà ampio risalto a questo particolare (cfr. Bibl.
III 12, 5), ma esso era menzionato già nelle Troiane di Euripide (vv. 919ss., probabilmente
derivato dal poema ciclico Kypria) e sappiamo che a Roma fu ripreso da Ennio (Alexander vv.
35-37), Virgilio (Aen. VII 321; X 702) e Ovidio (Her. XVI 46). Il mitografo latino Igino (Fab.
91) aggiunge che nel parto ardente parevano brulicare delle serpi: [sc. Hecuba] vidit se facem
ardentem parere ex qua serpentes plurimos exisse, «Ecuba vide che partoriva una fiaccola
1
M. Bettini, Le riscritture del mito in Lo spazio letterario di Roma antica I, Roma 19932, p. 16; p. 22.
- www.loescher.it/mediaclassica -
2
ardente da cui uscivano numerosissime serpi». Quest’ultimo elemento deriva forse dall’omologo
episodio di Clitennestra, che sognò di partorire un serpente o un dragone, con riferimento al
figlio Oreste che l’avrebbe uccisa (cfr. il fr. 89 Page di Stesicoro). Nel sogno di Ecuba, il fuoco
da lei dato alla luce, estendendosi agli edifici, incendiava l’intera città di Troia. Che una visione
profetica si accompagnasse al parto è una costante della tradizione; essa compare ancora,
significativamente, in modo ampio, in una delle riscritture più tarde di quel mito: l’opera
comunemente indicata come la Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese, un testo che si finge
essere la traduzione latina di un originale greco antichissimo, ma che è in realtà una creazione
tardo-antica:
Dict. Cret. III 26: Namque Hecubam foetu eo gravidam facem per quietem edidisse
visam, cuius ignibus conflagravisse Idam ac mox continuante flamma deorum
delubra concremari omnemque demum ad cineres conlapsam civitatem intactis
inviolatisque Antenoris et Anchisae domibus.
E infatti a Ecuba, incinta di quel bambino, parve di aver dato alla luce, pur restando
tranquilla, una fiaccola, le cui fiamme avevano incendiato il monte Ida; ben presto i
templi degli dèi, per il perdurare del fuoco, venivano bruciati e l’intera città, infine,
era ridotta in cenere, mentre erano rimaste intatte e senza danno le case di Antenore
e Anchise.
La fiaccola viene qui collegata a quel monte Ida, su cui Paride avrebbe trascorso la giovinezza; il
fuoco rade al suolo Troia ma non le case di Antenore e Anchise, cioè quelle dei due eroi destinati
a scampare al disastro della città, riparando il primo a Padova, mentre il secondo, sopravvissuto
all’incendio, morì di vecchiaia durante le peregrinazioni al seguito del figlio Enea, cui fu invece
concesso di approdare sano e salvo sulle coste del Lazio.
Secondo la consuetudine degli antichi, dopo un simile sogno premonitore, Priamo interrogò
subito un indovino, e precisamente il figlio Esaco, avuto prima di sposare Ecuba da Arispe figlia
di Meropo (Così Apollod. Bibl. III 12; la profezia fu invece di Cassandra secondo Eur. Androm.
297; il nome del vate manca in Igino, Fab. 91). Esaco, illustrando la trasparente simbologia,
consigliò ai genitori di disfarsi del fratellastro per non causare la rovina della patria. Non appena
Paride nacque, Priamo lo fece allontanare da Troia: fece chiamare un bovaro di nome Agelao e
gli consegnò il bambino, perché fosse abbandonato sul monte Ida. Euripide, per la verità,
afferma che Cassandra insistette per uccidere il neonato (cfr. Eur. Androm. 297; 300) e tale
sembra essere la versione conosciuta anche dal mitografo latino che scrive [sc. Alexander] datur
interficiendus («Alessandro viene consegnato per essere ucciso», Hyg. Fab. 91). Si tratta di uno
schema mitico assai frequente, comune ad esempio a Edipo, Romolo e Remo e, in ambiente
mediorientale, a Mosé. Simile alla vicenda dei futuri fondatori di Roma è poi il particolare che il
giovane fu allevato da un animale, nel caso specifico un’orsa2. Solo dopo qualche giorno Agelao,
ritornato sul posto, rimase stupito di come il bambino avesse potuto sopravvivere e decise di
tenerlo con sé, dandogli il nome, dall’etimologia incerta, di Paride. Il personaggio, tuttavia, era
conosciuto anche con l’appellativo di Alessandro. Ora, il greco 'Ale/candroj, di per sé,
significa all’incirca «eroe difensore»; Apollodoro (III 12, 6) pensa a un soprannome guadagnato
dal giovane quando, impegnato come custode di vacche, difese le proprie mandrie da alcuni
razziatori. Igino sembra invece suggerire che Alessandro fosse il nome scelto da Priamo ed
Ecuba cui, soltanto in un secondo momento, si sostituì l’appellativo di Paride3. Se si considera
che nell’Iliade di Omero, che contiene le attestazioni letterarie più antiche, il nome Alessandro
2
L’orsa era per gli antichi mirabile esempio di amore materno: poiché dopo il parto l’animale si prende particolare
cura della pulizia dei figli, leccandoli a lungo, gli antichi credevano che, con quel gesto, essa ne completasse la
formazione; l’espressione proverbiale che ne derivò, more ursino, indica appunto la cura speciale riservata a
un’attività.
3
E in effetti, almeno nella tradizione manoscritta che ci ha conservato il testo di Igino, la fabula 91 è intitolata
Alexander Paris, e non viceversa.
- www.loescher.it/mediaclassica -
3
(comunque adatto a un figlio di re) ricorre assai più frequentemente dell’altro4, sarà forse
possibile supporre che la versione conservata a noi da Igino rispecchi la variante originale.
Sulle pendici dell’Ida Paride svolgeva il lavoro di mandriano; il suo svago favorito consisteva
nel far lottare i tori di Agelao l’uno contro l’altro, coronando poi il vincitore con fiori e il
perdente con corone di paglia. Quando uno di questi tori cominciò a vincere con regolarità,
Paride lanciò una sfida ai capi delle mandrie vicine e tutti furono sconfitti. La fama del toro
imbattibile giunse sino a Troia e alcuni servi di Priamo ricevettero l’ordine di portarlo in città
perché fosse messo in palio come premio per il vincitore nei giochi funebri indetti in onore di
quel figlio di Priamo che si diceva fosse morto in tenera età, e cioè Paride stesso. Il giovane,
dunque, partecipò ai giochi per riconquistare il proprio animale e li vinse5. Un altro dei figli di
Priamo, Deifobo, si adirò però per essere stato sconfitto e minacciò Paride con la spada
(all’episodio, con ogni probabilità, era dedicata buona parte del perduto Alexandros di Euripide;
si vedano inoltre Apollod. III 12; Hyg. Fab. 91, il cui testo è però corrotto). Il giovane corse a
rifugiarsi come supplice presso l’altare di Zeus, dove fu riconosciuto dalla profetessa Cassandra.
Non è ben chiaro dalle fonti se, da quel momento in avanti, egli riprese a corte il proprio ruolo di
principe di sangue reale ed è difficile stabilirlo con certezza: da un lato, infatti, il giudizio sulla
bellezza delle tre dee, che avvenne sul monte Ida mentre Paride era ancora un pastore, dovrebbe
aver avuto luogo prima del riconoscimento del giovane nella sua qualità di figlio di Priamo;
d’altro canto, dopo il giudizio stesso, le fonti sono concordi nel sostenere che Paride partì per
Sparta, allo scopo di rapire Elena e che, di là, fece vela in compagnia della donna verso Troia
dove fu accolto benevolmente da Priamo. Questi, evidentemente, già lo conosceva come figlio
suo e della moglie Ecuba: in teoria, dunque, non avrebbe dovuto permettergli di continuare a
pascere le mandrie sui monti. La difficoltà fu probabilmente notata dal latino Ovidio che,
trattando della vicenda di Paride nelle Heroides, nell’immaginaria epistola metrica che il giovane
avrebbe inviato a Elena, lo presenta mentre riassume brevemente il giudizio aggiungendo subito
dopo (Ov. Her. XVI 89-90):
Interea – credo versis ad prospera fatis –
regius adgnoscor per rata signa puer.
Nel frattempo – credo perché il destino si disponeva alla mia felicità –
vengo riconosciuto, grazie a segni stabiliti, come erede regale.
Ovidio, dunque, considerava all’incirca contemporanei (cfr. v. 89: interea) il giudizio e
l’agnizione di Paride, anche se, per logica, il verdetto nei confronti delle dee dovrebbe precedere
l’altro episodio dato che non si giustificherebbe la presenza sui monti di un erede del re. È
possibile, peraltro, che alla versione del riconoscimento tardivo di Paride se ne affiancasse
un’altra in cui egli svolgeva l’attività di mandriano per propria scelta: questa seconda possibilità
è testimoniata nei Dialoghi degli dèi attribuito al retore greco Luciano (Dial. Deor. 20) e si
ritrova nel poemetto intitolato (Ele/nhj a(rpagh_, composto dell’egiziano Colluto nel V-VI sec.
d.C.
Indiscutibilmente si assommano in questa fase della vita di Paride fatti diversi, non tutti
perfettamente congruenti tra loro. In una variante secondaria, ad esempio, egli aveva proposto
come premio una corona d’oro al toro che riuscisse a superare il suo; Ares-Marte allora, per
capriccio, si tramutò in toro e riportò la vittoria. Paride senza esitare lo premiò con la corona
promessa, e quel gesto piacque molto ad Ares e a tutti gli dèi che stavano a guardare
dall’Olimpo, presso i quali il giovane poté conquistare fama di giudice retto ed equilibrato. Può
essere peraltro che questo aneddoto sia stato elaborato in una fase successiva, per spiegare le
4
Nell’Iliade si hanno 46 menzioni del nome Alexandros e soltanto 11 di Paris; nell’Odissea il personaggio non
viene citato mai.
5
La tradizione è ricordata da Servio nel commento a Verg. Aen. V 370 ss.: Paride, prima di essere riconosciuto,
avrebbe battuto nella lotta addirittura il possente Ettore suo fratello.
- www.loescher.it/mediaclassica -
4
ragioni in base alle quali Paride fu scelto da Zeus in persona per giudicare una questione che
riguardava gli dèi immortali.
Altri particolari riguardano l’avvenenza del giovane: mentre cresceva sull’Ida Paride era
divenuto bellissimo. Il dato si mantiene costante nel tempo e una significativa descrizione fisica
si legge ancora nell’opera di Darete Frigio, ossia in quella singolare versione dei fatti relativi alla
guerra di Troia risalente al tardo-antico, ma che pretende di derivare da un originale greco
praticamente coevo al conflitto. Qui, tra l’altro, la responsabilità morale del conflitto spetta ai
Greci, e non ai Troiani6:
Dar. Phryg. 12 : Dares Phrygius [...] ait [...] Alexandrum candidum longum fortem
oculis pulcherrimis capillo molli et flavo ore venusto voce suavi velocem cupidum
imperii.
Darete Frigio … sostiene … che Alessandro fosse bianco di incarnato, alto,
coraggioso, con occhi bellissimi, chioma fluente e bionda, viso grazioso, voce soave,
rapido, desideroso di potere.
Paride si innamorò, ricambiato, della ninfa Enone, figlia del dio fluviale Cebreno che, secondo
alcune fonti tarde, avrebbe anche sposato, avendone un figlio chiamato Corito (Cfr. Ov. Her. V;
Apollod. III 12, 6). Si tratta evidentemente di una leggenda successiva al nucleo originale che
poneva il giovane, in quanto fedifrago egli stesso come lo sarebbe stata Elena, sotto una cattiva
luce anche prima delle modeste prove di coraggio che l’avrebbero caratterizzato durante la
guerra di Troia. D’altro canto, evidentemente, permetteva ai poeti di gusto alessandrino di
cantare anche gli amori bucolici della prima fase della vita di Paride, avvicinandolo alle figure di
poeti-pastori che, da Teocrito in avanti, erano familiari ai lettori greco-romani. Di certo, in ogni
caso, tutta la vicenda amorosa con Enone resta totalmente ignota all’epica arcaica e, nella
successione cronologica degli eventi relativi alla vita di Paride, dovrà necessariamente essere
collocata prima del giudizio famoso.
Chiamato quindi a giudicare quale tra Era, Pallade e Afrodite fosse la dea più bella, Paride scelse
la dea dell’amore e, con il verdetto pronunciato sul monte Ida, si inimicò per sempre la sposa di
Zeus-Giove e Pallade Atena-Minerva figlia di quest’ultimo; cedette invece alle lusinghe di
Afrodite-Venere che gli aveva concesso le grazie di Elena, figlia di Leda (o, secondo altre
versioni, di Nemesi7) e di Zeus il quale, per unirsi alla donna, si era trasformato in cigno: Elena
era nata così da un uovo. Divenuta poi la donna più bella del mondo antico, sposò Menelao re di
Sparta, scegliendolo tra numerosissimi pretendenti. L’adempimento della promessa di Afrodite a
Paride assumeva dunque i caratteri di un adulterio. Il modo di portare con sé la donna, tuttavia,
dovette essere individuato dal giovane affidandosi alla propria iniziativa: egli si ingegnò nella
costruzione di una nave, realizzata per lui da un artigiano di nome Fereclo8, e raggiunse Sparta,
forse in compagnia di Enea, e qui andò ospite al palazzo reale. Riuscì quindi a sottrarre la moglie
alla custodia di Menelao, approfittando dell’assenza dell’eroe, impegnato a Creta per partecipare
ai funerali del nonno Catreo (Apollod. Bibl. Epit. 3). Lasciata Sparta, Paride si diresse quindi
verso Troia e il viaggio di ritorno è narrato in innumerevoli versioni diverse, sempre più ricche di
contrattempi avventurosi9.
6
La caduta di Troia di Darete Frigio sarebbe appunto la traduzione latina di un perduto originale greco, ma l’autore,
che finge di essere lo storico romano Cornelio Nepote e di dedicare l’opera a Sallustio, dovrà piuttosto essere datato
al VI sec. d.C.: cfr. F. Meister, Daretis Phrygii De excidio Troiae historia, Teubner, Lipsia 1857, pp. III-L, da cui
proviene anche il testo latino proposto.
7
Così era, ad esempio, nei Kypria (fr. 8 Allen, ap. Athen. VIII 334b).
8
Apollod. Bibl. Epit. 3; il nome di Fereclo è già in Il. V 62.
9
Secondo i Kypria (Argumentum p. 38 Bernabé) Paride si sarebbe fermato lungo il viaggio a Sidone e avrebbe
conquistato la città. È celebre la versione alternativa del mito, risalente al poeta greco Stesicoro di Imera (fr. 88
Page) e poi ampiamente ripresa nell’Elena di Euripide e nell’Encomio a Elena del sofista Gorgia, secondo cui la
donna rimase in realtà fedele al marito e fu nascosta a Paride per volere di Zeus, che la condusse in Egitto. Paride
- www.loescher.it/mediaclassica -
5
La reazione dei Greci, promossa da Agamennone, fratello di Menelao e loro comandante in capo,
portò alla guerra di Troia. Le fazioni greche, oltre che da Posidone-Nettuno, dio del mare – ostile
ai Troiani perché, dopo aver fortificato la città per Laomedonte che ne era il re, non fu
remunerato per il lavoro svolto (Il. XXI 441-460) -, sarebbero state sostenute anche da Era e
Pallade, ancora sdegnate per essere state posposte ad Afrodite nella gara di bellezza.
La partecipazione di Paride alle operazioni di guerra fu modesta: sconfitto in un duello cruciale
da Menelao10, ebbe salva la vita per intercessione di Afrodite, ma pretendeva poi di starsene in
disparte senza partecipare più alle operazioni militari. In ambiente romano la scarsa bellicosità
del personaggio, inaccettabile per la mentalità del civis, è ben stigmatizzata, tra gli altri, da
Virgilio nell’Eneide: Iarba, pretendente di Didone che si è visto preferire Enea, descrive come
segue l’atteggiamento dell’eroe (Verg. Aen. IV 215-217):
Et nunc ille Paris cum semiviro comitatu,
Maeonia mentum mitra crinemque madentem
subnixus, rapto potitur.
E ora quel Paride con il suo corteo di mezzi uomini,
cinto intorno al mento e alla chioma unta di profumi
con la mitra orientale, d’un colpo si impadronisce [di lei].
La cattiva fama del giovane troiano, dunque, aveva varcato secondo Virgilio i confini dell’Asia
Minore, per giungere alle coste africane proprio come le sventure dei Troiani che, effigiate in
modo tanto realistico nei bassorilievi scorti a Cartagine (Aen. I 41-62), avevano commosso Enea.
È da notare, nel testo, l’insistita allitterazione del v. 216, che sembra quasi suggerire la smorfia
di sdegnato disprezzo che si disegna sul viso di Iarba al pensiero del rivale.
Costretto dal fratello Ettore a tornare in battaglia, Paride uccise alcuni eroi greci e ferì Diomede;
la sua impresa più rilevante, ancorché tardiva e inutile per le sorti dei Troiani, fu l’uccisione di
Achille, preconizzata da Ettore morente11 e compiuta sotto la protezione di Apollo: il dio guidò
la freccia, scagliata dalle mura della città assediata, con cui il Pelide fu colpito al calcagno12.
Secondo una variante certamente successiva, invece, Paride tese all’eroe greco un meno
onorevole tranello nel tempio di Apollo Timbreo e, dopo che lo ebbe ferito a morte, si nascose
dietro la statua del dio.
L’ultimo episodio relativo a Paride riguarda la morte del giovane, che sarebbe avvenuta per
mano dell’eroe greco Filottete (ma altre fonti menzionano Aiace). Filottete era stato allontanato
dal campo dei Greci anni prima, perché afflitto da una piaga infetta; un oracolo aveva però
rivelato che la sua presenza sarebbe stata indispensabile per espugnare Troia e Odisseo si
incaricò di riportarlo all’accampamento (cfr. Soph. Philoct. 1426 ss.; Apollod. Bibl. epit. 5, 3).
Una volta tornato, Filottete colpì Paride all’inguine con una freccia avvelenata. Paride, allora,
chiese a Enone, la ninfa abbandonata anni prima, un antidoto per salvarsi; la fanciulla, sdegnata
per il tradimento patito in passato, decise di concederglielo soltanto quando ormai Paride era
condannato13.
avrebbe portato con sé a Troia soltanto un «doppio» di Elena, una sorta di fantasma senza reale volontà, disposta a
piegarsi docilmente ai voleri del giovane, divenendo così causa non pienamente volontaria della guerra troiana.
10
Cfr. Il. III 324-382. Nei versi successivi Paride viene accusato di scarso valore da Elena, che lo ammonisce, quasi
per scherno, a non incrociare più le armi con l’ex marito, che è evidentemente assai più forte dell’amante.
11
Cfr. Il. XXII 359, dove si accenna al fatto che Achille verrà ucciso tanto da Paride quanto da Apollo stesso; si
veda anche Apollod. Bibl. epit. 5, 8.
12
Lo schol. a Il. III 325 ricorda che l’episodio era narrato per esteso nel poema ciclico Etiopide, attribuito a Arctino
di Mileto.
13
Cfr. Apollod. Bibl. III 12, 7; Hyg. Fab. 112; Dyct. Cret. IV 19; 21, ecc. Completamente diversa la narrazione in
Darete Frigio, secondo cui Paride fu il vero capo spirituale della guerra di Troia, voluta da Priamo per riscattare la
figlia Esone rapita dai Greci. Per Darete Paride combatté eroicamente per tutto il conflitto e fu la ninfa Enone a
morire prima di lui, che fu infine ucciso da Aiace (Dar. Phryg. 35).
- www.loescher.it/mediaclassica -
II. IL GIUDIZIO DI PARIDE NELLA TRADIZIONE LETTERARIA GRECA: DA OMERO A EURIPIDE
Il giudizio costituisce la parte fondamentale del mito, e certamente è molto antico: il primo testo a
farne menzione è l’Iliade, che vi allude come a cosa già nota, senza sentire la necessità di narrarla
nel dettaglio. Di parere diverso era per la verità l’illustre grammatico alessandrino Aristarco (II sec.
a.C.) che, secondo la testimonianza degli scoli14, espungeva i pochi versi che ne fanno menzione
con una serie di argomentazioni, anche linguistiche15. Tra esse spicca quella secondo cui, se
realmente Omero avesse conosciuto quel mito, lo avrebbe ricordato più frequentemente. Poiché,
tuttavia, sarà logico pensare a un bagaglio mitico preesistente ai poemi, cui «Omero» (con tutta
l’incertezza che l’impiego di tale definizione onomastica porta con sé) deve necessariamente aver
attinto, è possibile pensare che anche il giudizio, indispensabile antefatto della guerra di Troia,
potesse farne parte16.
Comunque sia, il giudizio compare nella parte conclusiva dell’Iliade. Allorché gli dèi vedono lo
scempio compiuto da Achille sul cadavere di Ettore, alcuni di loro vorrebbero sottrarre il corpo al
furore del Pelide, ma non Posidone, Era e Pallade (Il. XXIV 25-30):
25 e)/nq’a)/lloij me_n pa=sin e(h/ndane ou)de/ poq’ (/Hrh|
ou)de_ Poseida/wn’ ou)de_ glaukw/pidi kou/rh|,
a)ll’e/)xon w(/j sfin prw=ton a)ph/xqeto 7!Ilioj i(rh_
kai_ Pri/amoj kai_ lao_j 'Aleca/ndrou e/(nek’a/)thj,
o$j nei/kesse qea/j, o/(te oi( me/ssaulon i(/konto,
30 th_n d’h)/|nhj’h(/ oi( po/re maxlosu/nhn a)legeinh/n.
Allora tutti acconsentirono, ma non Era,
né Posidone né la vergine dall’occhio glauco;
anzi, come prima, mantenevano l’odio per Ilio sacra,
Priamo e il suo popolo, a causa della follia di Alessandro,
che aveva offeso le dee quando giunsero alla sua capanna,
ed egli lodò quella che a lui promise l’affannosa lussuria.
Si noterà che, nell’economia del passo, i vv. 29-30 sono indispensabili perché, in caso contrario, il
lettore sarebbe portato a ritenere che l’a)/th di Paride sia in realtà da riferire al rapimento di Elena17.
Omero, invece, sottolinea che la vera causa prima dell’odio è il giudizio, non le condizioni per cui,
materialmente, il conflitto scoppiò. Incongrua, in tal senso, (e la difficoltà fu notata già da
Aristarco) la presenza di Posidone nel medesimo periodo, perché evidentemente non era stata la
decisione di Paride a offendere il dio del mare18. La considerazione sull’«affannosa lussuria» di
Paride esprime un giudizio quasi morale sull’accaduto, e sottolinea le conseguenze della scelta del
giovane, che viene evidentemente ritenuta avventata: la volontà di appagare i propri sensi è stata la
causa principale della guerra di Troia. Il passo, peraltro, è il più esplicito dell’intero poema, e non
permette di valutare quali altri particolari dell’episodio fossero noti a Omero.
14
Lo schol. bT sostiene per la precisione che, secondo alcuni, i vv. 22-30 dovevano essere espunti come spuri, ma non
indica il grammatico che lo aveva proposto; più avanti vi si legge che a espungere i vv. 24-30 era stato Aristarco.
15
Una discussione delle argomentazioni contenute negli scoli, poste a confronto con le considerazioni della critica
moderna, è in N. Richardson, The Iliad: a commentary (general editor: G.S. Kirk), VI: books 21-24, Cambridge 1993,
pp. 276-78. Vi si giunge alla conclusione che: «it is probably fair to say that the passage as a whole should be regarded
as part of the original poem, despite some doubts over 29-30» (ivi, p. 278).
16
L’evidenza che Omero conoscesse materiale mitico a lui preesistente è trattata ad esempio da G. Danek, Traditional
Referentiality and Homeric Intertextuality, in Omero tremila anni dopo. Atti del congresso di Genova 6-8 luglio 2000.
A cura di F. Montanari con la collaborazione di P. Ascheri, Roma 2002, pp. 3-19.
17
Così N. Richardson, Commentary, cit., p. 279.
18
Cfr. Homer, Iliad book XXIV. Edited by C.W. Macleod, Cambridge 1982, p. 88.
- www.loescher.it/mediaclassica -
7
Per quanto riguarda i poemi del Ciclo, scritti proprio – come è stato affermato – «al fine di
recuperare alla memoria dei Greci quella serie completa di leggende che fino ad allora vagava nella
massa fluida di una sorta di grande epopea cronologica»19, sappiamo che il giudizio di Paride era
certamente tra gli argomenti trattati nell’epos intitolato Ku/ p ria, in cui si narravano alcune delle
vicende precedenti la guerra di Troia, a partire appunto dall’operato di Afrodite, la dea
tradizionalmente onorata nell’isola di Cipro. Già Erodoto (II 17) negava che i Kypria potessero
essere attribuiti a Omero, e la tradizione ci ha conservato i nomi di Stasino, forse originario
anch’egli dell’isola di Cipro, o di Egesia (o Egesino) di Salamina quali autori dell’opera (così
dicono Ateneo di Naucrati, XV 682 df, e il patriarca bizantino Fozio, nella Biblioteca cod. 239, p.
319a, 39 Bekker). Il contenuto preciso del poema non ci è noto nel dettaglio, ma ne conosciamo le
linee generali grazie a una serie di notizie indirette, la principale delle quali è il riassunto che il
grammatico Proclo aveva steso per la propria Crestomazia (Argum., p. 38 Bernabé); altri dati sono
conservati negli scoli omerici. I Kypria dovevano aver fissato, in qualche modo, gli elementi
narrativi insopprimibili della vicenda anche per il giudizio, ma il riassunto di cui possiamo disporre
in relazione alla giudizio vero e proprio è oltremodo laconico:
Zeu_j bouleu/etai meta_ th=j Qe/midoj peri\ tou= Trwikou= pole/mou: paragenome/nh de_
!Erij eu)wxoume/nwn tw=n qew=n e)n toi=j Phle/wj ga/moij nei=koj peri_ ka/llouj
e)ni/sthsin 0Aqhna=,| 3Hra| kai_ 0Afrodi/th| ai(
0Ale/candron e)n !Idh| kata_ Dio_j
prostagh_n u(f’ 9Ermou= pro_j th_n kri/sin a)/gontai: kai_ prokri/nei th_n 0Afrodi/thn
e)parqei_j toi=j 9Ele/nhj ga/moij A
0 le/candroj.
Zeus, insieme a Temi, prende decisioni riguardo alla guerra di Troia; sopraggiunta Eris
mentre gli dèi banchettavano alle nozze di Peleo, istituisce una contesa circa la bellezza
tra Atena, Era e Afrodite che, su comando di Zeus, vanno sull’Ida per il giudizio. E
Alessandro, infiammato dalle nozze con Elena, sceglie Afrodite.
Nella sua brevità il passo non esplicita neppure il fatto che Paride poté scegliere tra proposte diverse
formulate dalle dee, né come e perché Eris, la Discordia, scatenò la contesa durante il banchetto
nuziale di Peleo e Teti (il salto logico tra la prima e la seconda frase del periodo è evidente)20.
L’economia di massima degli eventi sarà rintracciata, rispetto ai controversi frammenti superstiti
dei Kypria, con maggior verosimiglianza nell’esposizione del mitografo Apollodoro (senza
naturalmente che si possa affermare tout court che Apollodoro riassuma o si fondi unicamente sul
poema). A lui si devono altre motivazioni secondo le quali la guerra sarebbe avvenuta per volere di
Zeus, mentre si tace sulle ragioni per cui la scelta fosse stata affidata proprio a Paride. È da
ricordare però, a proposito della stringatezza, che il passo compare nella sezione epitomata
dell’opera21:
19
G. D’Ippolito, Epici greci minori, in Diz. scrittori greci e latini, Vol. I, Settimo Milanese 1995, p. 723.
Nelle trame concertate tra Zeus e Temi doveva trovare posto l’argomentazione che una guerra avrebbe liberato la
terra da un numero eccessivo di mortali (attestata dal fr. 3 Allen, conservato dallo Schol. Il. I 5), echeggiata poi da
Euripide, Hel. 32 e Orest. 1439-42. Tra i frammenti del testo, il fr. 4 Allen (teste Athen. XV 682 d), che allude alla
toilette di Afrodite, permette forse di affermare che proprio ai Kypria risalisse la variante secondo cui il giudizio aveva
luogo mentre le dee si preparavano al bagno (il frammento in questione allude peraltro al momento in cui la dea si
veste, non al fatto che si spogli). L’elemento della nudità delle dee non è costante ma, con diverse sfumature,
sopravvive sino alla tarda latinità.
21
Ai tre libri della Biblioteca di Apollodoro conservati per intero si aggiunge una epitome, contenuta nel ms. Vaticanus
gr. 950 (designato con la lettera E dai principali editori), risalente al XIV sec., da integrarsi con i cosiddetti Fragmenta
Sabbaitica, che in parte coincidono (a parte lievi varianti) con il testo dell’epitome già nota, in parte aggiungono sezioni
inedite. La questione si può approfondire nell’introduzione a Apollodoro, I miti greci. A cura di P. Scarpi. Trad. di M.G.
Ciani, Milano 19982, pp. XIV-XV. Ho utilizzato per la citazione il testo del Fragm. Sabb., tranne che per l’ultimo verbo
che è un indicativo nel cod. E, mentre nel Sabb. è una forma implicita che fa dell’intero periodo una subordinata di
quello successivo.
20
- www.loescher.it/mediaclassica -
8
Apollod. Bibl. Epit. 3 (ex fragm. Sabbait.): au]qij de _ 9Ele/nhn 'Ale/candroj a(rpa/zei w3j
tinej le/gousi kata_ bou/lhsin Dio_j, i(/na Eu)rw/phj kai_ 0Asi/aj ei)j po/lemon
e)lqou/shj h( quga/thr au)tou= e9/ndocoj ge/netai h2 kaqa/per ei]pon a)/lloi o(/pwj to_ tw=n
h(miqew=n ge/noj a)/qrh| dia_ dh_ tou/twn mi/an ai)ti/an mh=lon peri_ ka/llouj
!Erij e)mba/llei A
0 qhna=|, 3Hra| kai_ 0Afrodi/th| kai_ keleu/ei <Zeu_j> 9Ermh=n ei)j !Idhn
pro_j 'Ale/candron a)/gein i)/na u(p’ e)kei/nou diakriqw=sai. Ai( de_ e)pagge/llontai dw=ra
dw/sein 0Aleca/ndrw|, (/Hra me_n ou]n e)/fh prokriqei=sa dw/sein au)tw=| pa/ntwn
basi/leian, 'Aqhna= de_ pole/mou ni/khn, 'Afrodi/thj de_ ga/moj 9Ele/nhj. 0Afrodi/thn de_
prokri/naj phcame/nou nau=j Fere/klou e)kple/ei ei)j Spa/rthn.
Alessandro, poi, rapisce Elena: per volere di Zeus, come sostengono alcuni, affinché,
venute in guerra l’Europa e l’Asia, sua figlia divenisse celebre; oppure, come dissero
altri, per dar lustro alla stirpe dei semidei. Per una sola di queste ragioni, Eris lancia nel
mezzo una mela in palio per la bellezza a Era, Atena e Afrodite; Zeus ordina a Ermes di
condurle sul monte Ida da Alessandro perché siano giudicate da lui. Ed esse promettono
che daranno ad Alessandro dei doni: se Era verrà prescelta tra tutte, darà sovranità su
ogni cosa; Atena la vittoria in guerra e Afrodite le nozze con Elena. Ed egli sceglie
Afrodite e, avendogli fabbricato Fereclo una nave, fa vela per Sparta.
Si può confrontare subito, per vedere quali dati si possano considerare di dominio comune secondo
la conoscenza degli antichi, la versione vulgata nel mondo latino da Igino:
Hyg. Fab. 92 (Paridis iudicium): Iovis cum Thetis Peleo nuberet ad epulum dicitur
omnis deos convocasse excepta Eride, id est Discordia, quae cum postea supervenisset
nec admitteretur ad epulum, ab ianua misit in medium malum, dicit quae esset
formosissima attolleret. Iuno Venus Minerva formam sibi v[i]ndicare coeperunt, inter
quas magna discordia orta, Iovis imperat Mercurio ut deducat eas in Ida monte ad
Alexandrum Paridem eumque iubeat iudicare. cui Iuno, si secundum se iudicasset,
pollicita est in omnibus terris eum regnaturum, divitem praeter ceteros praestaturum;
Minerva, si inde victrix discederet, for[t]issimum inter mortales futurum et omni
artificio scium; Venus autem Helenam Tyndarei filiam formosissimam omnium
mulierum se in coniugium dare promisit. Paris donum posterius prioribus anteposuit,
Veneremque pulcherrimam esse iudicavit; ob id Iuno et Minerva Troianis fuerunt
infestae. Alexander Veneris impulsu Helenam a Lacedaemone ab hospite Menelao
Troiam abduxit eamque in coniugio habuit cum ancillis duabus Aethra et Thisiadie,
quas Castor et Pollux captivas ei assignarant, aliquando reginas.
Si dice che Giove, avendo concesso Teti in sposa a Peleo, avesse riunito tutti gli dèi
tranne Eris, cioè la Discordia, che, quando poi sopraggiunse, dalla porta gettò nel
mezzo una mela e disse che chi era la più bella la prendesse. Giunone, Venere e
Minerva presero a rivendicare per sé la bellezza e tra loro nacque un grande litigio;
Giove ordina a Mercurio che le conduca sul monte Ida da Alessandro Paride e gli
comandi di giudicarle. A lui Giunone, se avesse giudicato a suo favore, promise che
avrebbe regnato su tutte le terre, e sarebbe stato superiore per ricchezza a tutti;
Minerva, se fosse stata lei ad allontanarsi vittoriosa, promise che egli sarebbe stato il
più forte tra i mortali e esperto di ogni arte; Venere, invece, promise di dargli in
matrimonio Elena figlia di Tindaro, la più bella di tutte le donne. Paride antepose
quest’ultimo dono ai precedenti e giudicò che la più bella fosse Venere: per questo
Giunone e Minerva furono ostili ai Troiani. Alessandro, su consiglio di Venere, portò
Elena via da Sparta, da Menelao, che pure l’aveva ospitato, e la ebbe in sposa con due
ancelle, Etra e Tisiade (nome incerto, N.d.T.), due prigioniere, un tempo regine, che
Castore e Polluce gli avevano assegnate.
- www.loescher.it/mediaclassica -
9
Gli elementi salienti del giudizio sembrerebbero dunque essere i seguenti:
1. Alle nozze del mortale Peleo e della ninfa marina Teti, per imperdonabile dimenticanza,
vengono invitati tutti gli dèi tranne Eris, divinità della discordia. Per vendicarsi, ella compie
un gesto che intende seminare l’inimicizia tra i convitati.
2. La dea prende una mela, frutto tradizionalmente connesso con la sfera amorosa (si veda ad
esempio la vicenda di Aconzio e Cidippe in Callim. fr. 75), e la getta nel mezzo del convito,
accompagnandola con l’invito di consegnarla alla dea più bella tra le presenti.
3. La contesa si restringe a tre di loro, evidentemente le più avvenenti di tutte: Era, Pallade e
Afrodite.
4. Zeus rifiuta di inimicarsi le tre divinità e nomina un giudice mortale, scegliendo il giovane,
saggio e bellissimo Paride, che conduce vita bucolica sulle falde del monte Ida22.
5. Condotte da Ermes, le dee si mostrano a Paride dichiarando di accettarne il verdetto ma
cercano di convincerlo non soltanto con la propria bellezza, bensì promettendo ciascuna un
dono particolare. Pur con qualche lieve oscillazione tra le diverse fonti, le promesse
riguardano il dominio sui popoli da parte di Era; l’invincibilità in battaglia da parte di Pallade
e, come ben noto, le grazie della splendida Elena da parte di Afrodite.
6. Paride sceglie Afrodite, allettato dall’amore della sposa di Menelao.
7. Le dee sconfitte gli giurano inimicizia; Afrodite si limita a condizionare il cuore di Elena,
mentre l’organizzazione pratica della spedizione verso Sparta tocca a Paride stesso.
Si noterà che l’episodio contiene un elemento significativo del modo in cui gli antichi, ma i Greci
soprattutto, immaginavano le loro divinità: ogni contendente tenta apertamente, persino di fronte
alle altre, di corrompere il giudice (punto 5): la gara di bellezza si deciderà in realtà sulla base di
altri fattori. Su questo elemento tutte le fonti sono concordi e persino in quelle che rivalutano
l’operato di Paride, presentandolo non come un debole troppo incline alle lusinghe del sesso, ma
come un arbitro razionale e capace, raramente questo elemento di ingiustizia iniziale viene
stigmatizzato o condannato.
Lo schema generale, in ogni caso, appare fisso e alcuni drammi attici del V secolo a.C. confermano
questa particolare successione dei fatti con una serie di allusioni, anche se nessuno di essi
comprende l’antefatto relativo al gesto di Eris.
Il bagaglio mitico relativo al Giudizio era noto ai tragici che lo utilizzarono variamente. Sappiamo
che Sofocle aveva dedicato a Paride una tragedia perduta, l’ 'Ale/candroj (frr. 91a-93 Radt), che
si concentrava sul riconoscimento del giovane a Troia (probabilmente grazie alla sua valentia nelle
gare sportive: cfr. fr. 93 R.): la vicenda si svolgeva quindi prima del giudizio. Sofocle dedicò
all’episodio anche un dramma satiresco, parimenti scomparso, la Kri/sij. Di questo, tuttavia,
sappiamo poco o nulla oltre al fatto, ricordato da Athen. XV 687c, che vi compariva il tema del
lavacro delle tre dee nude (fr. 334 N.; cfr. fr. 360 R.). Poiché Ateneo dice altrove (VII 278e) che
e)/xaire de_ Sofoklh=j tw=| e)pikw|= ku/klw| («Sofocle si compiacque del ciclo epico») il dato potrebbe
confermare l’ipotesi che la stessa situazione fosse effettivamente già contenuta nei Kypria. Quanto
alla Krisis, è stato supposto che vi comparisse il germe di quella interpretazione che solo in epoca
successiva si può definire a pieno titolo «allegorica» in cui, cioè, il giudizio è presentato come una
riflessione sulla scelta di vita, quasi un’alternativa di quello, più celebre, di Eracle al bivio (cfr. fr.
361 R.). Il dramma satiresco, in ogni caso, doveva deformare o irridere la situazione famosa; i
termini precisi, tuttavia, ci restano sconosciuti. È possibile, invece, ricostruire con maggior
chiarezza un diverso approccio comico, contenuto in una commedia di Cratino: il
22
Secondo la Geografia di Strabone (XIII 1, 51) l’Ida dovrebbe essere identificato con un monte chiamato in seguito,
dal nome di Paride, Alexandreia, situato a nord di Antandro sul golfo di Adramittene.
- www.loescher.it/mediaclassica -
10
Dionysalexandros. Anche questo dramma, peraltro, è per noi frammentario, come tutto ciò che
sopravvive della produzione di questo commediografo dell’archaia23.
Il dramma, risalente forse al 430 a.C., portava in scena il dio Dioniso che, come sarebbe avvenuto di
lì a qualche anno nelle Rane aristofanesche, assumeva i panni di un altro personaggio mitologico (in
Aristofane quelli di Eracle; in Cratino quelli di Paride-Alessandro) andando incontro a una serie di
disavventure mitiche che dovevano alludere in filigrana a vicende dell’Atene periclea. Appare assai
probabile che, vestendo i panni di Paride, Dioniso volesse approfittare della fama di bellezza che lo
accompagnava, trovandosi poi a dover fronteggiare una serie di difficoltà impreviste. Il plot del
dramma ci è noto grazie a una hypothesis, cioè un succinto riassunto dell’argomento, rinvenuta su
papiro nel deserto egiziano, in quel formidabile giacimento di testi che fu scoperto in Egitto presso
l’oasi del Fayûm24; benché mutila e non priva di guasti testuali, dovuti al fatto che fu copiata da una
mano frettolosa, essa ci permette di sapere con certezza che a un certo punto della vicenda (quasi
certamente non all’inizio di essa) aveva luogo anche il giudizio, in cui Dioniso-Paride si trovava
probabilmente invischiato contro la propria volontà. Una possibile lettura dei primi righi della
hypothesis (POxy IV 663, rr. 4-6; 11-19) è la seguente25:
keleu/saj au)to_n mh_
5
fobei=sqai th_n k>ri/sin o( E
9 rmh=j
a)pe/rxetai
(…)
paragenome/nwn <tw=n qew=n meq’ 9Erm(ou=) kai_
didome/nwn> au)tw=|
para_ m(e_n) #Hra[j] turanni/do(j)
15 a)kinh/tou, pa[r]a_ d’ 'Aqhna=j
eu)tuxi/(aj) k(a)t(a_) po/lemo(n) th=j
d’ 'Afrodi/(thj) ka/lliston te k(ai_)
e)peras<to/tat>on au)to_n u(pa/rxein, kri/nei tau/thn nika=n.
Esortandolo (sc. Dioniso)
a non aver paura del giudizio, Ermes
si allontana.
(…)
...Ed essendo apparse a lui le dee insieme a Ermes,
ed essendogli stato promesso
da parte di Era un potere saldo, da Atena
il successo in guerra, poiché Afrodite gli ha promesso invece
la cosa più bella e desiderabile,
assegna a questa la vittoria.
È evidente che la scena comica presentava tutti gli elementi canonici del mito: Ermes, le tre dee e
Paride, sia pure ben più impacciato del solito perché si trattava in realtà di Dioniso, preoccupato
soprattutto di non mettersi nei guai. Forse la scena costituiva la sezione agonale della commedia
(benché non siano noti agoni con tre contendenti, stando almeno alle commedie superstiti di
23
I frammenti (Cratin. frr. 39-51 K.-A.) sono raccolti in R. Kassel-C. Austin, Poetae Comici Graeci (PCG) IV,
Berlin/New York 1984, pp. 140-147.
24
POxy IV 663, edd. B. P. Grenfell-A. S. Hunt, London, 1904. Il papiro contiene due colonne di scrittura per un totale
di 48 righi (PCG IV, p. 140).
25
Le integrazioni, indicate tra parentesi uncinate < > sono di W. Luppe, Die Hypothesis zu Kratinos’ Dionysalexandros,
«Philologus» 110 (1966), p. 176. Tra parentesi tonde è indicato lo scioglimento delle numerose abbreviazioni presenti
sul papiro.
- www.loescher.it/mediaclassica -
11
Aristofane); oppure era Ermes a riassumere quanto le dee promettevano a Paride, come potrebbe
essere suggerito dal fr. 327 K.-A., da alcuni attribuito alla commedia, e che farebbe supporre come
uno dei doni (verosimilmente quello di Era, normalmente collegato all’idea del dominio), fosse
stato trasformato da Cratino nella capacità di dominare sì sugli altri, ma sofisticamente, per mezzo
della parola:
glw/ttan te soi
di/dwsin e)n dh/mw| forei=n
kalw=n lo/gwn a)ei/nwn
h[| pa/nta nikh/seij le/gwn
E a te concede
di portare tra il popolo una lingua
capace di nobili discorsi eterni
con cui, parlando, vincerai ogni cosa.
Analizzando con attenzione il testo si dovrà poi notare che non si dice esplicitamente che «la cosa
più bella e desiderabile» fosse Elena. È vero che i righi successivi della hypothesis (rr. 21 ss.)
attestano con sicurezza che la donna era uno dei personaggi della commedia, ma c’è da domandarsi
se Cratino non avesse distorto la scena del giudizio in modo ancor più radicale.
Abbastanza numerose sono le menzioni dell’episodio nelle tragedie di Euripide che, secondo una
parte della critica, avrebbero seguito da vicino, almeno per questi elementi, i Kypria. L’originalità
del poeta sta nella forte soggettivizzazione del modo in cui si fa menzione del giudizio, cosicché la
condizione psicologica di chi parla censura o enfatizza diversi aspetti del mito che, invece, nelle
linee generali, appare essere più o meno sempre lo stesso, forse appunto su modello dei Kypria.
Che il perduto Alexandros euripideo contenesse accenni al giudizio, forse attraverso le profezie di
Cassandra, non è improbabile, ma ne manca la prova diretta. La tragedia, in effetti, andò in scena
nel 415 (come affermato da Eliano, Var. hist. II 8), in una trilogia tutta dedicata al ciclo troiano, che
comprendeva le Troiane e il Palamede. Ne sopravvivono alcuni apporti papiracei, tra cui una
hypothesis (POxy 52, n. 3650); alcuni di essi sono assai guasti, ma si ricostruisce parte della scena
in cui Priamo ed Ecuba, grazie sembrerebbe all’intervento di Cassandra, riconoscevano Paride.
Nella tragedia figurava poi anche un complotto per uccidere Paride in cui erano coinvolti Ettore e
Deifobo e, forse, Ecuba (cfr. i frr. 23, 23A, 23B, 43 Sn.).
Più significativa è la menzione contenuta in uno dei cori dell’Andromaca. Vi si ricorda il momento
del confronto tra le dee, con un breve accenno all’ambiente naturale in cui esso si svolse, il che
lascia supporre che il poema ciclico non avesse mancato di tratteggiarlo, forse con le caratteristiche
topiche del locus amoenus: il giudizio viene presentato nell’Andromaca come la scena di un
lavacro, in cui le dee sfoggiano quindi la loro fulgente nudità: un tema forse già presente nella
Krisis di Sofocle, e poi diffuso nell’arte ellenistica (nelle rappresentazioni figurative di età arcaica
le dee compaiono talora anche vestite). Da notare la persistenza, come già in Omero, di un giudizio
fortemente negativo sull’oggetto del contendere: le promesse delle dee, foriere di sventura per i
Troiani, non sono che «parole insensate», con particolare riferimento a quelle di Afrodite (Eur.
Androm. 284-292):
tai_ d’e)pei_ u(lo/komon na/poj h)/luqon ou)rei=an
285 pida/kwn ni/yan ai)gla=nta sw/mata r(oai=j,
e/)ban de_ Priami/dan u(perbolai=j lo/gwn dusfro/nwn
paraballo/menai, doli/oij d’e(/le Ku/prij lo/goij
290 terpnoi=j me_n a)kou=sai,
pikra_n de_ su/gxusin bi/ou Frugw=n po/lei
- www.loescher.it/mediaclassica -
12
talai/na| Perga/moij te Troi/aj.
E nella valle chiomata di selve [le dee] giunsero
e bagnarono i corpi splendenti
nelle correnti dei monti, andarono dal Priamide,
agitando esagerazioni di parole
insensate, e lo avvinse Cipride con discorsi ingannevoli,
e soavi a udirsi,
ma duro sovvertimento dell’esistenza
per la misera città dei Frigi
e la cittadella di Troia.
Uno scolio al v. 277 della medesima tragedia, introducendo la scena del giudizio, echeggia
l’autorità di Crisippo, ricordando esplicitamente come la krisis (non solo in questa tragedia,
ovviamente) potesse essere intesa come un apologo in cui si proponeva ai mortali una scelta di vita:
Xru/sippoj de_ e)n
0Hqikw=n <i> logisa/menon to_n Pa/rin ti/noj dei= ma=llon
a)nte/xesqai polemikh=j a9skh/sewj h2 e)rwtikh=j h2 basilikh=j, neu=sai [au)to_n] ma=llon
ei)j ta_ e)rwtika_ kai_ ou(/twj to_n th=j kri/sewj mu=qon sunteqh=nai.
Crisippo nel X libro dell’Etica si domanda a che cosa sia necessario che Paride,
riflettendo, si dedichi maggiormente: all’esercizio della guerra, dell’amore o del potere
regale, e afferma che si è mostrato maggiormente incline alle questioni d’amore e che
in questo modo è stato creato il mito del giudizio.
Il passo dello scolio, cioè, getta le basi di una possibile interpretazione allegorica dell’episodio, che
conoscerà un ampio sviluppo in epoca successiva.
Nell’Ifigenia in Aulide è la protagonista a rievocare l’intero quadro del giudizio, origine anche dei
suoi mali, in quanto la fanciulla dovrebbe essere sacrificata per permettere alla spedizione guidata
dal padre Agamennone di raggiungere Troia. A Ifigenia è affidata una lunga sezione cantata che si
dilunga con insistenza sulla serenità dei luoghi in cui la scena si svolse, in evidente
contrapposizione con le nefaste conseguenze del verdetto pronunciato da Paride (Eur. Iph. Aul.
1284; 1291-1298):
nifo/bolon Frugw=n na/poj 1Idaj t’o)/rea,
(…)
mh/ pot’w)/felej to_n a)mfi_
bousi_ bouko/lon trafe/nt’
'Ale/candron oi)ki/sai
a)mfi_ to_ leuko_n u(/dwr, o(/qi krh=nai
1295 Numfa=n kei=ntai
leimw/n t’e)/rnesi qa/llwn
xlwroi=j kai_ r(odo/ent’
a(/nqe’ u(aki/nqina/ te qeai=j dre/pein.
Valle battuta dalla neve e monti dell’Ida...
(...)
Magari non avessi ospitato
il mandriano cresciuto tra i buoi, Alessandro,
intorno alla limpida acqua dove stanno
le fonti delle ninfe e il prato fiorente di germogli
- www.loescher.it/mediaclassica -
13
verdeggianti e fiori
di rosa e giacinti, perché le dee li colgano!
L’arrivo delle dee sulla scena segue un ordine particolare: Ermes, loro guida, è l’ultimo ad apparire
e non c’è accenno alla successione con cui verranno pronunciate le promesse. Le tre divinità, in
ogni caso, sono descritte in termini negativi, tronfie ognuna delle proprie prerogative (Eur. Iph. Aul.
1297-1305):
e)/nqa pote_ Palla_j e)/mole
kai_ dolio/frwn Ku/prij
3Hra q’ (Erma=j q’, o( Dio_j a)/ggeloj,
1300 a(/ me_n e)pi_ po/qw|| trufw=sa
Ku/prij, a(_ de_ dori_ Palla/j,
3Hra te Dio_j a)/naktoj
eu)nai=si basili/sin,
kri/sin e)pi_ stugna_n e)/rin te
1305 ka/llonaj e)moi_ de_ qa/naton.
Là, un tempo, giunsero Pallade,
e Afrodite che ha mente ingannevole,
Era e Ermes, il messaggero degli dèi,
l’una gloriandosi del desiderio che suscita,
Cipride; l’altra, Pallade, della lancia;
Era delle nozze regali
col sire Zeus,
per questo giudizio odioso, per la contesa
della bellezza – e per la mia morte.
La conclusione, con lo scarto logico che porta senza soluzione di continuità dalla lite tra le dee al
destino nefasto della fanciulla – quasi un tragico aprosdoketon –, mostra bene la sensibilità del
poeta, per cui l’evento mitico e le sue conseguenze sono filtrate dalla persona loquens in modo
completamente personale.
Nell’Elena, invece, la voce che narra il giudizio è quella della sposa di Menelao. Euripide sorprende
i propri spettatori accogliendo qui la variante del mito diffusa da Stesicoro (cfr. fr. 62 Page),
secondo cui la vera Elena rimase nascosta in Egitto prima di arrivare a Troia, dove, per l’oscuro
disegno di Era, fu sostituita da un fantasma. Lo spettatore, quindi, viene messo a confronto con una
realtà in cui la guerra che per dieci anni ha dilaniato due popoli si è fondata su un inganno, frutto
perverso del capriccio di una divinità infantilmente risentita, eppure capace di causare una serie
infinita di lutti e di rovinare per sempre la reputazione della donna. Il dramma umano di Elena ha
sullo sfondo un’amara riflessione sulla guerra che pare tanto più comprensibile se si accetta di
collocare la tragedia tra il 414 e il 412, all’epoca della fallimentare spedizione ateniese in Sicilia.
Elena non fu ovviamente presente al giudizio, né poté udirne in seguito il racconto da Paride, dato
che il giovane credette di «avere la donna, ma non l’aveva», secondo quanto lei stessa dirà ai vv.
35-36. Ella conosce i fatti, ma li percepisce come lontani da lei, e può soltanto lamentarne le
conseguenze (Eur. Hel. 22-30):
a$ de_ pepo/nqamen kaka__
le/goim’a)/n: h]lqon trei=j qeai_ ka/llouj pe/ri
'Idai=on e)j keuqmw=n’ 'Ale/candron pa/ra,
25 3Hra Ku/prij te diogenh/j te parqe/noj.
morfh=j qe/lousai diapera/nasqai kri/sin.
tou)mo_n de_ ka/lloj, ei9 kalo_n to_ dustuxe/j,
- www.loescher.it/mediaclassica -
14
30
nika=|. Lipw_n de_ bou/staqm’ )Idai=oj Pa/rij
Spa/rthn a)fi/keq’ w(j e)mo_n sxh/swn le/xoj.
E i mali che patii
vorrei dire. Vennero tre dee a contesa per la bellezza
in una caverna dell’Ida, presso Alessandro:
Era, Cipride e la Vergine figlia di Zeus,
volendo che fosse stabilito un giudizio sul loro aspetto.
E Cipride, avendo promesso per le nozze ad Alessandro
la mia bellezza – se bella è la sventura! –
vinse. E, lasciato il pascolo dell’Ida, Paride
giunse a Sparta per impadronirsi del mio letto.
Il racconto di Elena, collocato in apertura della tragedia, riassume i fatti nuovamente dal punto di
vista emotivo del personaggio che sta parlando. È probabilmente per questa ragione che Euripide
trascura le promesse fatte da Era e Pallade: Elena, in quel punto della vicenda, cerca il
compatimento da parte del coro, e si concentra soltanto sul proprio destino di «merce di scambio».
Tutto è avvenuto in fretta, in modo meno esplicitamente capriccioso da parte delle dee di quanto si
legge nell’Andromaca, ma pur sempre iniquo, sino alla inspiegabile decisione di non concedere a
Paride la vera Elena, ma soltanto un suo «doppio».
È nelle Troiane che Euripide si dilunga maggiormente sull’episodio, e ciò dimostra a sufficienza
che il poeta ne conosce una versione assai articolata, compresi gli elementi sul sogno premonitore di
Ecuba. Anche qui il giudizio di Paride è presentato come la vera origine dei mali che avrebbero
colpito la città. A parlare è ancora Elena, che si rivolge stavolta al marito Menelao. In questa
tragedia, tuttavia, Euripide accoglie la versione tradizionale del mito: si tratta della vera Elena,
fedifraga e reale causa di morte per due interi popoli, eppure fredda e calcolatrice, al punto di
riuscire, grazie all’arte della parola, a scampare alla morte che l’attenderebbe. Si tratta, peraltro, di
argomentazioni speciose, fondate sull’accusa con cui il ragionamento – estremo oltraggio agli
sconfitti Ecuba e Priamo – si apre (Eur. Troad. 919-934):
prw=ton me_n a)rxa_j e)/teken h(/de tw=n kakw=n,
920 Pa/rin tekou=sa: deu/teron d’a)pw/lese
Troi/an te ka!m’o( pre/sbuj ou0 ktanw_n bre/foj,
dalou= pikro_n mi/mhm’ 'Ale/candro/n pote.
e)nqe/nde ta)pi/loip’ a)/kouson w(j e)/xei.
e)/krine trisso_n zeu=goj o(/de triw=n qew=n.
925 kai_ Palla/doj me_n h]n 'Aleca/ndrw| do/sij
Fruci_ strathgou=nq’ (Ella/d’ e)canista/nai
3Hra d’u(pe/sxet’ 'Asia/nd’ Eu)rw/phj q’ o(/rouj
turanni/d’ e(/cein, ei)/ sfe kri/nein Pa/rij:
Ku/prij de_ tou)mo_n ei]doj e)kpagloume/nh
930 dw/sein u(pe/sxet’, ei) qea_j u(perdra/moi
ka/llei. to_n e)/nqen d’w(j e)/xei ske/yai lo/gon:
nika|= Ku/prij qea/j, kai_ toso/nd’ ou(moi_ ga/moi
w)/nhsan (Ella/d’: ou) kratei=sq’ e)k barba/rwn,
ou)/t’ e)j do/ru staqe/ntej, ou) turanni/di.
In primo luogo fu lei [sc. Ecuba] a generare l’origine dei mali,
generando Paride; secondariamente, a distruggere
Troia e me, fu il vecchio, non uccidendo in quel momento il bambino,
Alessandro, visto in sogno come immagine amara di fiaccola.
Di qui, ascolta come stanno i fatti rimanenti:
- www.loescher.it/mediaclassica -
15
costui giudicò le tre dee come in triplice giogo26:
e il dono di Pallade ad Alessandro fu che,
comandando i Frigi, addivenisse a capo della Grecia;
Era promise che avrebbe dominato
sui confini d’Asia e d’Europa, se Paride avesse scelto lei;
Cipride invece, colpita dal mio aspetto,
promise che gliel’avrebbe concesso, se fosse stata lei a superare le dee
in bellezza. Osserva ora qual è il ragionamento che ne derivò poi:
Cipride vince le dee e al tal punto le mie nozze
giovarono alla Grecia: non siete dominati dai barbari,
né sottoposti alle armi, né alla tirannide.
Dal punto di vista formale si noterà la rigida, quasi sofistica scansione logica del discorso (v. 919:
prw=ton...; v. 920: deu/teron...; v. 923: e)nqe/nde) e il passaggio al presente storico nell’esporre la
conclusione del giudizio (v. 932: nika|= Ku/prij qea/j); si tratta di uno stilema espressivo frequente
nella tragedia (già osservato, ad es., in Eur. Hel. 29), ma qui appare pienamente motivato dal punto
di vista psicologico, dato che la persona loquens passa a parlare di sé.
Il tenore della promessa di Pallade è leggermente diverso da quello testimoniato da Apollodoro
(Bibl. epit. 3, 5) che, in accordo con quasi tutte le fonti più tarde, parla, genericamente, di «vittoria
in guerra»27. Qui, invece, Atena promette a Paride il dominio sulla Grecia in qualità di comandante
dei Troiani, quasi che preconizzasse per la guerra di Troia l’esito opposto rispetto a quello che essa
avrà realmente. Ciò è a ben vedere incongruo dato che, senza il rapimento di Elena, che realizza la
promessa di Afrodite, quel conflitto non avrà mai luogo. Si noterà che ai vv. 934-35 Elena allude
nuovamente, in filigrana, alle promesse delle altre due dee, che avrebbero rappresentato gravi
sciagure per i Greci, ma la cui realizzazione è stata impedita proprio dalla scelta di Paride, che si è
orientata diversamente.
Ma non è finita: ai vv. 969-82 Ecuba affronta verbalmente Elena e nuovamente entra in gioco la
scena del giudizio. La posizione del poeta si fa radicalmente critica nei confronti dell’episodio,
perché Ecuba non crede alle parole dell’antagonista e rifiuta quasi di ammettere che il fatto, a suo
dire inadeguato alle prerogative di Era e Pallade, sia mai avvenuto. Le promesse di queste due dee
vengono presentate con riferimento alle città a loro più care (Eur. Troad. 969-82):
tai=j qeai=si prw=ta su/mmaxoj genh/somai
970 kai_ th/nde dei/cw mh_ le/gousan e)/ndika.
e)gw_ ga_r (/Hran parqe/non te Palla/da
ou)k e)j tosou=ton a)maqi/aj e)lqei=n dokw=,
w(/sq’ h$ me_n 1Argoj barba/roij a)phmpo/la,
Palla_j d’ 'Aqh/naj Fruci_ douleu/ein pote/.
975 ei) paidiai=si kai_ xlidh=| morfh=j pe/ri
h]lqon pro_j 1Idhn. tou= ga_r ou(/nek’ a2n qea_
4Hra tosou=ton e)/sx’ e)/rwta kallonh=j;
po/teron a)mei/non’ w(j la/bh| Dio_j po/sin;
h2 ga/mon 'Aqhna= qew=n ti//noj qhrwme/nh –
980 h$ parqenei/an patro_j e)ch|th/sato,
feu/gousa le/ktra; mh_ a)maqei=j poi/ei qea_j
to_ so_n kako_n kosmou=sa, mh_ ou) pei/sh|j sofou/j.
26
L’allusione sembrerebbe riferirsi al fatto che le dee si presentarono a Paride come se fossero animali da giudicare;
l’immagine è più esplicita in Eur. Androm. 276.
27
La tragedia euripidea presenta poi, rispetto ad Apollodoro, anche un’altra differenza: nelle Troiane, infatti, l’ordine
con cui le dee parlano non appare regolato dal grado di regalità e anzianità, in modo che Era preceda Pallade e questa
venga prima di Afrodite (cfr. Apollod. loc. cit.); il primo degli interventi è qui invece quello di Atena.
- www.loescher.it/mediaclassica -
16
In primo luogo diverrò alleata delle dee
e mostrerò che costei non dice il giusto.
Io infatti non credo che Era e la vergine Pallade
siamo giunte a tal punto di sciocchezza
che l’una abbia venduto Argo ai barbari,
e Pallade abbia dato Atene perché fosse schiava dei Frigi,
se, come in un gioco di bimbi, e per vanità, in gara per la bellezza,
vennero sull’Ida. Perché infatti la dea
Era avrebbe avuto tale brama per la bellezza?
Forse per prendere uno sposo migliore di Zeus?
O perché avrebbe dovuto Atena? Desiderando le nozze con quale tra gli dèi,
lei che dal padre ottenne la verginità,
fuggendo il talamo? Non presentare le dee come stolte,
cercando di agghindare la tua malvagità, ché non convincerai chi è saggio.
È evidente anche in questo passo il ricorso a tecniche oratorie: in particolare, nella Retorica di
Aristotele (3, 1418b), l’espediente con cui l’avversario viene tacitato demolendo in partenza la sua
argomentazione era esemplificato proprio ricordando questo passo. Il nodo cruciale del discorso di
Ecuba, tuttavia, sta nel v. 975, dove la regina sembrerebbe palesare una evidente incredulità rispetto
non solo alle promesse delle dee, ma addirittura al fatto che esse avessero davvero potuto recarsi da
Paride. Il testo, tuttavia, è incerto: i manoscritti presentano un pronome relativo: ai(/ paidiai=si ktl.,
ossia «loro che, come in un gioco di bimbi, e per vanità, per la bellezza, / vennero sull’Ida», senza
quindi che emerga alcun dubbio sull’accaduto. È stata tuttavia proposta (dal Naber) la correzione di
ai(/ in ei) («se, come in un gioco di bimbi, e per vanità … vennero sull’Ida»): in tal caso Ecuba non
solo ridurrebbe la krisis a un «gioco di bimbi» frutto di ingiustificata vanità, ma finirebbe per
togliere credito alla serietà delle dee che, d’altro canto, costituisce l’argomento portante del
ragionamento28. Se si accetta l’emendamento, dunque, questo luogo delle Troiane è quello in cui
più esplicitamente Euripide esprime la propria critica alla teologia tradizionale: o le dee si sono
comportate in maniera indegna o l’intero bagaglio del mito può addirittura essere falso. Se,
all’opposto, si conserva il testo tràdito, ne nasce una difficoltà logica, ma si ha comunque che
l’opinione di Ecuba sul giudizio in sé (non soltanto sulle sue conseguenze, unanimemente ritenute
rovinose) resta nel complesso negativa.
Con Euripide, dunque, le armi della retorica fanno il loro ingresso sulla scena tragica: al medesimo
contesto culturale, in effetti, appartiene l’Elogio di Elena del sofista Gorgia, un esercizio retorico
che intende mostrare più che altro la potenza dell’arte della parola. L’autore dimostra infatti che
Elena è in ogni caso innocente, sia che abbia ceduto alla violenza di un seduttore o alla forza di un
dio; sia che, viceversa, sia stata vinta dalla parola o dominata dalla passione amorosa. Non manca
chi ha sostenuto29 che, nell’Elena di Euripide, le argomentazioni con cui Ecuba si scaglia su Elena,
denunciandone le colpe sembrano rovesciare quelle suggerite da Gorgia. Poiché però la datazione
dell’Encomio gorgiano è incerta non si può considerarlo tout-court come un precedente della
tragedia euripidea.
L’approccio retorico all’episodio mitologico va nella direzione di approfondire le motivazioni
psicologiche che mossero la decisione di Paride; un modus operandi che è evidente anche in
seguito, ad esempio nell’Elogio a Elena dell’oratore ateniese Isocrate, di poco posteriore a quello
del sofista e anch’esso concepito essenzialmente come esercizio retorico in difesa della donna. Per
28
La difficoltà era stata notata anche nel materiale scoliografico che leggeva comunque il pronome relativo,
proponendo di intendere il passo come una interrogativa retorica (schol. Eur. Troad. 975, nel senso quindi di «sono
dunque venute…sull’Ida?»).
29
Si veda ad esempio il saggio di D.J. Conacher, in Euripides and the Sophists, Duckworth, London 1998, in particolare
p. 81.
- www.loescher.it/mediaclassica -
17
quanto riguarda la successione dei fatti viene ripreso ancora una volta il quadro tradizionale, con la
sola eccezione dell’antefatto relativo a Eris, anche qui omesso.
Isocr. Hel. enc. 41-43
ou) pollou= ga_r xro/nou dielqo/ntoj, genome/nhj e)n qeoi=j peri_ ka/llouj e)/ridoj h[j
'Ale/candroj o( Pria/mou kate/sth krith_j, kai_ didou/shj (/Hraj me_n a(pa/shj au9tw|=
th=j 'Asi/aj basileu/ein, 'Aqhna=j de_ kratei=n e)n toi=j pole/moij, 'Afrodi/thj de_ to_n
ga/mon to_n (Ele/nhj tw=n me_n swma/twn ou) dunhqei_j labei=n dia/gnwsin a)ll’
h(tthqei_j th=j tw=n qew=n o)/yewj, tw=n de_ dwrew=n a)nagkasqei_j gene/sqai krith_j,
ei(/leto th_n (Ele/nhj a)nti_ tw=n a)/llwn a(pa/ntwn, ou) pro_j ta_ h(dona_j a)poble/yaj.
[…]
e)pequ/mhse Dio_j gene/sqai khdesth/j nomi/zwn polu_ mei/zw kai_ kalli/w tau/thn ei]nai
th_n timh_n h2 th_n th=j )Asi/aj basilei/an, kai_ mega/laj me_n a)rxa_j kai_ dunastei/aj
kai_ fau/loij a)nqrw/poij pote_ paragi/gnesqai, toiau/thj de_ gunaiko_j ou)de/na
tw=n e)pigignome/nwn a)ciwqh/sesqai, pro_j de_ tou/toij ou)de_n a)/n kth=ma ka/llion
katalipei=n toi=j paisi_n h2 paraskeua/saj au)toi=j o(/pwj mh_ mo/non pro_j patro_j
a)lla_ kai_ pro_j mhtro_j a)po_ Dio_j e)/sontai gegono/tej.
Non molto tempo dopo, sorta tra gli dèi una contesa di cui Alessandro figlio di Priamo
fu eletto giudice, e avendo a lui Era concesso di regnare sull’Asia intera, Atena di
dominare nelle guerre e Afrodite le nozze con Elena, poiché non era in grado di
prendere una decisione sull’aspetto fisico delle dee, essendo soggiogato dalla loro vista,
costretto piuttosto a divenire giudice dei doni, scelse l’intimità con Elena invece di tutti
gli altri; non mirando alle lusinghe del piacere (...), volle divenire genero di Zeus,
ritenendo che questo premio fosse assai più importante e più bello del regno d’Asia, e
che grandi poteri e signorie toccano a volte anche a uomini da poco, mentre nessuno dei
posteri sarebbe stato ritenuto degno di una simile donna e, oltre a ciò, non avrebbe
potuto lasciare un’eredità più bella ai figli che facendo in modo di farli discendere da
Zeus non solo da parte di padre, ma anche da parte di madre.
Nell’interpretazione di Isocrate, come si vede, la palinodia riguarda in qualche misura anche Paride,
che non sceglie in base ai sensi, ma valuta i doni promessi razionalmente e non a livello emotivo, e
basa il proprio comportamento su un vantaggio duraturo: ciò che gli avrebbe garantito maggior
gloria era, secondo Isocrate, la prospettiva di diventare genero di Zeus e di mettere al mondo con
Elena dei figli che discendessero dal padre degli dèi non solo attraverso Paride stesso (che era un
nipote del mitico re troiano Dardano, a sua volta figlio di Zeus), ma anche attraverso Elena, figlia
anch’essa del Re dell’Olimpo.
L’elaborazione retorica è sottile, benché l’autore tralasci di spiegare come Paride valutasse il dono
di Pallade; inserendosi a pieno titolo nella corrente di pensiero che, dal sofista Gorgia in poi, aveva
cercato di nobilitare il comportamento di Elena, l’analisi si estendeva sino a comprendere anche
Paride. Il medesimo atteggiamento «giustificazionista», spinto fino al paradosso, si ritroverà, ad
esempio, nel corso del I sec. d.C., in Dione Cristostomo: nell’orazione intitolata Troiano (or. XI),
infatti, Paride sposa legittimamente Elena e viene conseguentemente «dimostrato» che Troia non fu
mai conquistata dai Greci30.
In conclusione: il giudizio fu nella Classicità un elemento mitico notissimo, evocato come causa
remota del conflitto troiano (Omero, i Canti Ciprii, Virgilio), ma su cui esercitare anche l’arte della
riscrittura poetica, da quella apologetica o palinodica (Elena è innocente, quindi non è colpevole
30
La critica razionalistica alla stranezza di Era che, pur essendo sposa di Zeus, accetti il giudizio di un mortale sulla
propria bellezza è appunto anche in Dione: XI 11-13.
- www.loescher.it/mediaclassica -
18
neppure Paride: così Gorgia e Isocrate e, prima di loro, Stesicoro) a quella più propriamente
emotiva (Euripide). Fin dalle prime attestazioni, tuttavia, emerge con evidenza anche l’implicazione
morale che la scelta di Paride comporta: le conseguenze di tale decisione (un significativo caso di
libero arbitrio dell’Antichità) sarebbero state cruciali per il giovane ma anche per quello che,
all’epoca, si poteva considerare il mondo intero.
- www.loescher.it/mediaclassica -