In arte Johnny - CIESSE Edizioni

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In arte Johnny - CIESSE Edizioni
COLLANA ELEMENTI
- TERRA -
In arte Johnny
vita, morte e miracoli di
Giovanbattista Cianfrusaglia
di Lorenzo Pompeo
Pubblicazione scelta e curata da
per
ISBN 978-88-6660-002-2
Copyright © 2011 CIESSE Edizioni
Design di copertina © 2011 Roberta Guardascione
In arte Johnny
Vita, morte e miracoli di Giovanbattista Cianfrusaglia
di Lorenzo Pompeo
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ISBN 978-88-6660-002-2
Collana ELEMENTI - TERRA
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NOTE DELL'EDITORE
Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a
nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web,
numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.
"La sua vita, invece, era leggera, aerea, semplice, acrobatica come un aquilone che galleggia nell'aria grazie alla
forza elementare del vento, legata alla terra soltanto da un
esile filo. Per un capriccio del caso, che da sovrano assoluto
governa le vite degli uomini, quel filo si era impigliato in
qualcosa di indefinito e bizzarro, ma a quanto pare enormemente importante, una specie di nuvola invisibile in grado di oscurare il sole."
BIOGRAFIA DELL'AUTORE
Lorenzo Pompeo è nato a Roma nel 1968, città
nella quale ha trascorso la maggior parte della sua
vita e dalla quale da sempre prova inutilmente a
fuggire. Dottore di ricerca in Slavistica, traduttore
letterario e non (in qualità di traduttore e interprete ha collaborato col Tribunale di Roma, gloriosa
istituzione pubblica locale), ha tradotto con diverse case editrice alcuni romanzi dal polacco e
dall'ucraino. È autore di due vocabolari, della raccolta di racconti intitolata "Auto-pseudo-biografo-mania" (Ibiskos editrice Risolo, 2009) e, ovviamente in cooperativa, di tre figlie, organizzatore di diverse rassegne cinematografiche a Roma e
a Varsavia nonché fondatore e animatore del cineforum Cinit "Luis Bunuel". Collabora con diverse
riviste con traduzioni e articoli relativi ai suoi interessi (slavistica, letteratura, cinema e altri inutili
orpelli).
BIBLIOGRAFIA
2009, Auto-pseudo-bio-grafo-mania, Ibiskos editrice Risolo.
Un'oasi in mezzo al deserto con una carovana di cammelli che si abbeverano esausti all'ombra
delle palme gonfie di datteri: fu questa l'ultima cosa a cui pensò Giovanbattista Cianfrusaglia, in arte Johnny. Forse perché tutta la vita aveva desiderato vivere altrove, in un posto più tranquillo, dove contemplare il tempo che passa lento, calmo,
senza alcun pericolo e senza incertezze. Malgrado
trascorresse gran parte delle sue giornate seduto al
tavolino di un bar sotto casa sua, comunque avvertiva in continuazione le energie negative che
vorticavano nell'aria, tutto quel nervosismo, quello
sgomitare e quell'inseguire inutili traguardi, quel
correre dietro all'esca, come fanno i cani nel cinodromo. La sua vita, invece, era leggera, aerea,
semplice, acrobatica come un aquilone che galleggia nell'aria grazie alla forza elementare del vento,
legata alla terra soltanto da un esile filo. Per un
capriccio del caso, che da sovrano assoluto governa le vite degli uomini, quel filo si era impigliato
in qualcosa di indefinito e bizzarro, ma a quanto
pare enormemente importante, una specie di nuvola invisibile in grado di oscurare il sole.
Aspettate. Ora di lui non sappiamo più niente.
Sappiamo, perché ci siamo dovuti informare,
quello che è successo in quel suo ultimo lungo,
maledetto giorno. Perché quando succedono queste cose, la gente di solito si chiede: "Com'è successo?". Tutti cercano di dare una risposta a questa terribile domanda, che pesa come un macigno
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sulla mente delle persone. Ma proprio in questi
momenti di terribile confusione e smarrimento,
quando ci sembra di perderci in un labirinto di
domande senza risposta dalle quali sorgono altre
domande, anch'esse vane, proprio in questi momenti in cui tutto sembra perduto, allora bisogna
cercare di fare ordine, di ricostruire qualcosa, come dopo un terremoto che ha scosso la terra, facendo crollare gli edifici più fragili.
Per questo bisogna cominciare dall'inizio di
quella giornata, o forse dal principio di tutto. Da
colui che lo generò, dal titolare del seme dal quale
quella pianta cominciò, con tutta calma, l'avventura della vita. Già, perché la fretta è stata, per tutta
la vita, la nemica di Johnny, forse fin da prima che
venisse al mondo. Paride Cianfrusaglia, il padre,
infatti, la odiava più di ogni cosa al mondo. Per
questo si svegliava sempre prima di tutti. Non
aveva neanche bisogno della sveglia, perché aveva
già imparato a svegliarsi da solo nel cuore della
notte a qualsiasi ora, ma per evitare sorprese, per
sicurezza, comunque metteva la sveglia alle cinque.
Era notte fonda. Una notte tiepida, che prometteva una bella giornata di sole, non troppo
calda. Ed era giusto. Perché l'ultima giornata di
Johnny, giunto faticosamente ormai al ventiseiesimo anno di vita, doveva essere proprio così: un
sole piacevole, una fresca brezza leggera, che
sembrava proprio il pennello di un pittore impressionista, i colori della primavera, in poche parole il
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massimo, ciò che di meglio poteva offrire la natura in città. Una di quelle giornate per cui vale ancora la pena vivere su questo pianeta.
ORE 4:55
Anche quella mattina, dunque, Paride anticipò
di qualche minuto il suono della sveglia. Per lui era
una specie di sfida. Quasi sempre faceva in tempo
a disinnescare l'allarme poco prima che suonasse.
Negli ultimi due decenni si era fatto sorprendere
due o tre volte, e solo quando era andato a letto
dopo qualche cena annaffiata da una quantità un
po' eccessiva di vino. Questo poteva succedere solo se a quattro o cinque bicchieri di vino si fosse
aggiunta una grappa, l'amaro o un limoncello (cosa che capitava di rado e solo quando era a tavola
in compagnia), perché un paio di bicchieri a cena
non potevano mai mancare. Era grazie al vino che
il suo orologio biologico funzionava a perfezione:
due bicchieri e poi a letto.
Alle cinque meno cinque Paride aveva lentamente oltrepassato la soglia della veglia. Per qualche istante ripensò a qualcosa che aveva visto in
sogno, forse un'aula di scuola con un professore
alla vigilia di un esame, uno dei suoi sogni più banali e ricorrenti. Non aveva buoni ricordi della
scuola. Erano passati parecchi anni da allora, ma
su quei ricordi, che si portava dietro e dei quali
non era riuscito a disfarsi, si stendeva l'ombra di
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una tediosa umiliazione. All'epoca si era applicato
poco, bisogna riconoscerlo, ma il problema non
era questo. Era convinto che, anche se si fosse
applicato moltissimo, comunque non sarebbe mai
arrivato all'olimpo dei migliori, ovvero di quelli
che i professori consideravano "gli intelligenti". E
anche per questo si sentiva sempre inadeguato,
mai all'altezza e nel sogno continuava a reiterarsi,
negli anni quest'oscura mortificazione. Così anche
quel mattino cercò di nascondere sotto il tappeto
della veglia quelle fastidiose immagini di sogno.
Naturalmente il pensiero andò subito alla bomba
a orologeria che doveva disinnescare prima dell'esplosione. Se non vi fosse riuscito, probabilmente
gli sarebbe toccato litigare con sua moglie Natalia,
che tutti chiamavano Nataša. Lei non sopportava
l'allarme e non le piaceva essere svegliata a
quell'ora. Ma, dal momento in cui Paride aveva
fatto in tempo a disinnescare l'apparecchio, lei
continuò a dormire tranquilla e beata, sognando il
melo davanti alla sua dacia vicino Mosca, dove viveva la nonna.
Non appena disinnescato l'allarme, Paride si
avviò con calma in cucina, dove avrebbe messo
sul fornello la sua piccola moka che lo aveva fedelmente servito per una ventina di anni. A Paride
dispiaceva disfarsene e così, malgrado dimostrasse
i segni dell'età avanzata, continuava a usarla, cambiando solo la guarnizione e ripulendo il filtro di
tanto in tanto con uno spillo. Il caffè di una vec12
chia signora come quella era imbattibile. Le migliori macchinette del caffè sono come il buon vino. Una nuova moka avrebbe dovuto compiere
almeno dieci anni di onorato servizio prima di
pretendere la stessa considerazione e autorevolezza di quel suo anziano parente. E poi lui c'era affezionato. Chissà, forse perché da oltre vent'anni
gli faceva compagnia. Così quella mattina (anche
se fuori era ancora notte a tutti gli effetti) cominciò col fruscio delle ciabatte e col borbottio
dell'antica caffettiera, probabile residuato dei lontani anni del boom, quando l'ondata di frizzante
modernità aveva investito il mondo intero e
quando tutto, compresa la Luna, sembrava ormai
a portata di mano. Tempi lontani.
Sul tavolo della cucina Nataša gli aveva lasciato
un piattino con i biscotti e una fetta di pane coperto con un tovagliolo, la tazza e la marmellata.
Tutto era pronto per cominciare l'avventura del
nuovo giorno di lavoro. Dopo aver consumato la
solita frugale colazione, c'era una seconda parte
della cerimonia: la sigaretta fuori del balconcino.
A quella sigaretta Paride non avrebbe rinunciato
per nulla al mondo. Non era un fumatore nevrotico. Di solito si limitava a cinque o sei sigarette al
giorno, distribuite nella giornata secondo orari rigidamente prestabiliti (le pause al capolinea e la
fine del turno).
L'unica cosa che veramente poteva turbare
quella sua piccola cerimonia notturno-mattutina
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era la pioggia. Il freddo invernale, al contrario, aggiungeva al rito un certo fascino: col cappotto appoggiato sul pigiama e le ciabatte, lì, seduto sulla
sua poltroncina di ferro e legno, nel buio e nel silenzio, scaldato dal fumo che scendeva nei polmoni, osservava la fila dei lampioni lungo tutto il
viale che spalmavano le loro stanche luci sul silenzioso asfalto; e tutto questo fino alla fine dell'orizzonte, fino a quando il rumore del camion dei
netturbini non rompeva il sigillo di quel silenzio.
Non sempre l'arrivo del camion era sincronizzato
con la cerimonia. Ma a Paride piaceva osservare
l'arrivo del camion, sapeva bene cosa avrebbero
fatto, dove si sarebbero fermati, conosceva i loro
gesti, solo che non riusciva a riconoscerli dal suo
balconcino. Quando li vedeva arrivare, rimaneva
qualche minuto in più per seguire l'operazione. In
quel caso avrebbe evitato di farsi la barba per recuperare quei due o tre minuti. Quindi non
avrebbe potuto stare lì per più di due notti consecutive (anche se era molto raro che quella coincidenza si ripetesse per più di due volte di seguito).
Ma quella mattina il camion non arrivò, così
Paride poté radersi con tutta la calma necessaria e
prepararsi per andare al lavoro. Anche i vestiti
erano già pronti. L'uniforme da conducente di autobus lo aspettava appesa sulla stampella. Era un
appuntamento immancabile. Da inutile larva, da
creatura superflua come un soprammobile, una
volta indossato il cappello, si trasformava in pochi
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istanti in pubblico ufficiale, perché era quello, in
ultima analisi, che faceva la differenza. Ora la cerimonia della vestizione era finita e, come un torero, poteva scendere nella sua arena per accogliere
il toro. Tutto ciò avveniva nel più assoluto silenzio,
mentre tutti gli altri abitanti della casa dormivano
profondamente. Così solo il grande specchio
all'ingresso era testimone di questa mirabile metamorfosi che avveniva al suo cospetto tutte le
mattine.
Il deposito degli autobus si trovava a un paio di
chilometri da casa. Paride attraversava le strade del
suo quartiere, mentre i bar cominciavano ad alzare
rumorosamente le serrande. Arrivava al deposito
sempre con almeno cinque minuti di anticipo, così
non doveva correre a timbrare il cartellino. Lo faceva sempre come minimo un paio di minuti prima dell'inizio del suo turno. Un'altra manciata di
minuti e sarebbe cominciata una delle tante giornate di lavoro di Paride Cianfrusaglia, da oltre
trent'anni autista degli autobus, decorato dalla
municipalizzata per la sua puntualità.
ORE 8:00
Mentre l'autobus di Paride cominciava la sua
impari lotta contro i mille tentacoli del traffico cittadino, che aveva cominciato a riversarsi sulle
strade sotto forma di una massa informe di lamiere e motori, clacson e pneumatici che si conten15
devano l'asfalto in una vana battaglia all'ultimo
sangue, nello stesso momento si stava svegliando
anche Nataša. Si rivoltava pigramente per un po'
nel letto, perché non doveva andare da nessuna
parte. Non aveva necessità di correre al lavoro,
giacché non lavorava. Per non annoiarsi e per tenersi un po' occupata, faceva qualche ora di lezione di russo in una scuola privata, preferibilmente
nel pomeriggio. Da anni ripeteva a se stessa che
avrebbe dovuto smettere, che tanto per quello che
la pagavano, poteva benissimo rimanere a casa,
che avrebbe dovuto cercare un lavoro vero, magari da segretaria in qualche ufficio, oppure in un'azienda che aveva qualche rapporto con la Russia.
Ma poi l'idea di presentarsi a un colloquio di
lavoro la spaventava e così preferiva evitarlo per
non subire le battute stupide sul suo accento russo,
insieme all'umiliazione di essere preferita a una
ragazza che non aveva mai letto in vita sua neanche uno dei romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Dickens, Balzac, Stendhal e Flaubert e che, forse, non
li aveva mai neanche sentiti nominare. Una di
quelle che in vita sua aveva scritto solo SMS e
neanche una poesia, neanche un sospiro su un
verso di Puškin o di Blok, che non aveva mai
messo le mani su un pianoforte ma solo su un telecomando e, al massimo, sulla tastiera di un
computer. Per non assistere a tutto questo, comprese le probabili avance di un attempato dirigente, aveva rimandato per anni la faccenda. Così era
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giunta alla conclusione che ormai qualsiasi fanciulla, anche analfabeta, sarebbe stata in grado,
grazie alla "bellezza dell'asino" e a qualche parente
o conoscente, di soffiargli il posto. E non aveva
tutti i torti, perché molto probabilmente le cose
sarebbero andate proprio così.
Per tutti questi motivi il suo risveglio seguiva i
ritmi naturali del sonno. Essendo stata educata ai
sani principi e alla cultura del lavoro dell'Unione
Sovietica, c'era in lei un orologio biologico che le
indicava l'ora in cui si sarebbe dovuta alzare. La
sua era una famiglia di impiegati che avevano lavorato tutta la vita in un ministero sovietico. Passati gli anni bui e duri del dopoguerra, lentamente
il lavoro era diventato una variabile indipendente,
ma i principi erano intoccabili e sani.
Si erano conosciuti a Mosca, dove Paride era
andato con uno di quei viaggi organizzati dai sindacati per testimoniare agli occhi dei corrotti occidentali le miracolose realizzazioni del socialismo
dei Soviet. Lei studiava lingue e letterature romanze all'università e faceva la guida per i gruppi degli
stranieri, ovviamente sotto lo stretto controllo degli organi di sicurezza, cui doveva puntualmente
riferire ogni dettaglio sul soggiorno degli ospiti.
Quando Paride le chiese l'indirizzo, mostrandole
qualche segno di interesse, si mostrò alquanto
freddina, conoscendo il carattere degli italiani, che
promettono molto e non mantengono quasi mai,
e temendo le complicazioni dei rapporti con gli
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stranieri, fortemente sconsigliati dalle autorità. Ma
Olga, la sua amica del cuore, con cui era cresciuta,
mostrava molta meno diffidenza verso i nuovi
amici d'oltrecortina, convinta che, almeno, sarebbe riuscita in qualche modo a entrare in possesso
di un paio di quei magici pantaloni americani che
regalano l'eterna giovinezza a chi li indossa. Così
Nataša, un po' per fare un dispetto all'amica che
voleva soffiargli il "suo" italiano e un po' per vanità, rivelò il suo indirizzo al pretendente occidentale. Paride gli scriveva e lei rispondeva col suo perfetto italiano, solo un po' arcaizzante, formato sui
grandi classici della letteratura. Paride riuscì a tornare a Mosca e le propose di venire in Italia, cosa
che solo un matrimonio permetteva. Così si erano
sposati una mattina al comune, in compagnia di
pochi parenti e qualche invitato, e poi erano andati tutti a mangiare in un'osteria a Testaccio.
Verso le otto Nataša iniziava ad aprire gli occhi,
intorno alle otto e venti era già del tutto sveglia e
mezzora dopo cominciava a prepararsi la colazione. Per i primi anni del matrimonio, appena si era
trasferita da Mosca, si svegliava di notte per preparare il caffellatte a Paride, che già faceva l'autista.
Poi era nato Giovanbattista, con il conseguente
rimescolamento degli orari. Ma quando i ritmi del
sonno e della veglia del piccolo Johnny si furono
stabilizzati, lei aveva abbandonato l'abitudine di
svegliarsi nella notte. Probabilmente sarà stata
l'assuefazione all'aria di Roma, questa strana at18