Carmine Di Michele 352 CLAUDIO ANTONELLI IL SOGNO DELL

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Carmine Di Michele 352 CLAUDIO ANTONELLI IL SOGNO DELL
Carmine Di Michele
352
CLAUDIO ANTONELLI
IL SOGNO DELL'AMERICA NELL'ITALIA FASCISTA.
PAVESE, VITTORINI E GLI AMERICANISTI.
LA GENESI DI UN MITO
Montreal: Losna & Tron, 1997. 209 pp.
L'America entrò nel mondo dei miti fin dai primi anni della sua
scoperta; da allora ci è sempre rimasta in posizione privilegiata ed il suo
nome continua ad essere sinonimo di paesi favolosi, ricchi, misteriosi
e felici: Eldorado, Terra Promessa.
Nell'Italia fascista nacque e si diffuse il mito dell'America, patria
ideale di tutti; un mito tutto particolare, associato ad un antifascismo
non meno particolare, i cui maggiori esponenti e propagandisti furono
Pavese, Vittorini e gli americanisti.
Di questo mito, ma anche del sogno e dell'antifascismo, Claudio
Antonelli traccia la genesi, la natura, lo sviluppo; esprime le sue
opinioni di studioso e mette in evidenza i risultati della revisione più
recente della letteratura di quel periodo cui sono giunti critici italiani e
stranieri (di speciale interesse il contributo di Michel Beynet con la sua
opera in tre volumi).
La politica, le fonti dell'immagine di questa America, le relazioni
Italia-USA, le correnti "dure" del fascismo, il romanzo americano, il
cinema hollywoodiano, la "storia culturale" di Pavese e di Vittorini, Il
Politecnico, l'antologia letteraria Americana, il dopoguerra, sono
argomenti che l'autore prende in esame per affrontare una discussione
più obiettiva ed aggiornata su un momento cosi importante e
controverso della storia e della letteratura italiana dei nostri tempi.
Come dappertutto nel mondo, in Italia, la "vera" America era ben
poco conosciuta, anche prima della guerra del 1915-1918. Informazioni,
documentate e vissute sugli USA, nell'Italia fascista, furono solo quelle
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di alcuni scrittori che vi avevano soggiornato ο che vi risiedevano:
Mario Soldati, Emilio Cecchi, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Antonio
Borgese, Gian Gaspare Napolitano e gli emigrati italiani. A parte G. A.
Borgese ed alcuni emigrati, abbagliati dalle grandi prospettive e
possibilità che offriva loro la nuova terra, tutti avevano descritto una
realtà assai diversa da quella dei romanzi, e soprattutto da quella dei
film.
Lo stesso fece in Francia Georges Duhamel. Anche il suo era un
resoconto non molto lusinghiero della situazione generale negli USA.
Eppure, malgrado tutte le testimonianze negative, il sogno ed il mito
dell'America Terra felix andò diffondendosi ed affermandosi in Italia
nel periodo che va dal 1930 al 1940 (in una prospettiva forse più
realistica, Dominique Fernandez estese il momento del sogno e del mito
dal 1930 al 1950).
Pavese lo definì "il decennio delle traduzioni," nel corso del quale
la cultura americana arriva in Italia per "decongestionarla e riesporla a
tutti i venti primaverili dell'Europa e del mondo."
Le "traduzioni," naturalmente furono proprio quelle di Pavese,
Vittorini e degli americanisti, fatte in quegli anni, molto diffuse e
giustamente apprezzate. La critica favorevole, attribuì ai traduttori i
meriti di una "militanza" di antifascismo attivo e cosciente. I critici
partivano dal presupposto che il fascismo fosse stato sempre fortemente
antiamericanista e quindi si poteva arrivare alla conclusione che chi
svolgeva una attività anche solo culturale contraria al fascismo, per ciò
stesso poteva essere consideraro antifascista. In verità, precisa Antonelli,
le relazioni fra Italia e USA furono sempre piuttosto complesse ed
attraversarono fasi alterne dovute alle vicende politiche, economiche ed
alle guerre in cui l'Italia ebbe parte preponderante: Etiopia, Spagna ed
il conflitto mondiale. (D'altra parte, lo stesso Mussolini ebbe momenti
di simpatia personale per gli USA [1937], trovando delle similarità nella
politica dei due paesi).
Antifascismo sicuramente ci fu in Italia; ma era praticato
nell'intimità da una ristretta cerchia di professionisti e di intellettuali.
Secondo la testimonianza di alcuni critici simpatizzanti; Dominique
Fernandez, Patrizia Lorenza Davitti, Harris MacDonald, per molti
intellettuali, fu la "retorica asfissiante del fascismo" che li spinse verso
l'America "pura, innocente, primitiva; ma tuttavia arditamente
moderna."
Un forte e duro antiamericanismo, nell'Italia fascista venne
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praticato, fino al 1930, dai seguaci di Strapaese e di Stracittà e de La
conquista dello Stato di Curzio Malaparte, "rivista ufficiale di un
fascismo squadrista, oltranzista, ultranazionalista, antieuropeista ed
antiamericanista."
Curzio Malaparte, secondo Antonelli, fu in un certo senso il
maestro ed il modello per Vittorini. Ed a Curzio Malaparte si rivolse
Vittorini per farsi pubblicare i primi scritti, che, data la natura della
rivista erano: "di intonazione fascista e stesi sulla falsariga di quelli
malapartiani."
Trascorso il "momento" malapartiano, Vittorni entrò in pieno nella
fase del "mito americano," basandosi sulla vita descritta nei romanzi, e
su quella presentata dai film.
Romanzi che egli e gli altri americanisti avevano cominciato a
tradurre in italiano e che selezionavano dando la preferenza (come
succedeva con i film) a quelli che offrivano una visione idealistica della
vita americana; senza tener conto degli altri aspetti della realtà, in aperto
contrasto, come si è detto, con gli scritti di E. Cecchi, di M. Soldati e
degli altri scrittori. Le traduzioni di Pavese e di Vittorini furono,
meritamente, molto apprezzate e procurarono loro, oltre alla fama di
antifascisti, anche quella di esperti della letteratura, della mentalità e
della vita americana. Si trattava di ottimi lavori, vere e proprie
"creazioni" (ricreazioni?) letterarie, di adattamenti dei testi a seconda
della loro personale sensibilità, anche perché, come risulta da lettere
dell'editore Treves, dalle confessioni di Luigi Barzini, Jr. e della stessa
moglie di Vittorini, sia Pavese che Vittorini avevano una scarsa
conoscenza dell'inglese.
Pavese e Vittorini non ammiravano gli stessi autori; però avevano
in comune l'ammirazione per la lingua e per lo stile degli scrittori.
Pavese era innamorato dello slang, che mise anche in relazione con il
suo Piemonte. Vittorini, invece, fece suo il famoso "dialogato"
americano, ispirato dagli spirituals: cosa nuova "per il mondo italiano
ed europeo."
"Apolitico suo malgrado," Pavese, unico ad aver subito una
condanna al confino, se doveva fare politica, la faceva con un grande
sforzo. Non la sentiva. In più egli era assillato dai suoi molti problemi
personali; tanto che pensava continuamente al suicidio: quel suicidio a
cui si esercitava "con la penna fin da quando era adolescente."
Mestiere di vivere, il suo diario documenta questi suoi tormenti.
Ecco perché per lui, l'opera artistica era la creatrice di un mondo
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nuovo: un mondo però completamente "fantastico," che si sostituisce
alla realtà. Insomma è il ritorno all'infanzia, al mondo delle favole,
quando ogni nostra conoscenza ha carattere magico; è l'infanzia poetica
di G. B. Vico: un mondo proprio da film, lontano ed estraneo dalle
difficoltà normali della vita della gente comune. I critici hanno cercato
sempre di gonfiare il contenuto politico nella vita e nelle opere degli
americanisti, però resta evidente il fatto che i temi politici e sociali,
spesso dominanti nella letteratura americana, li lasciava del tutto
indifferenti. Insomma, secondo Antonelli, la loro America era solamente
una "realtà astratta, teorica, una immensa biblioteca, ο una cineteca."
Molto più abbondanti, estese e precise le idee di Vittorini. Cosi
sappiamo che per lui l'America fu l'immagine "della giovinezza, della
sensualità [...] della violenza [...] della modernità del presente [...] terra
fantastica e favolosa," patria ideale di tutti gli scrittori, ma
completamente diversi da quelli nostrani. Per cui, da una parte avremo
gli americani, forti, avventurosi, sensuali e dall'altro i nostri
assolutamente senza vigore. Gli americani sono considerati addirittura
realisti ante litteram, creatori, anzi precursori dello stesso realismo
italiano; tanto che allora si arriva alla conclusione affascinante ed
"esaltata" che: se la letteratura si può considerare specchio della "età
moderna fin dalla nascita," allora l'America diventa la "patria ideale di
tutta l'umanità," la cui nascita fu "mitica' e con essa si verificò la
"ricreazione del mondo." Due momenti fondamentali nella vita di
Vittorni furono: quello della rivista Il Politecnico e quello dell'antologia
letteraria Americana.
E sarà proprio Americana a contenere i suoi giudizi più importanti
sulla letteratura americana. L'antologia, uscita nel 1941, con ritardo a
causa della guerra, portava una prefazione di Emilio Cecchi, perché cosi
aveva deciso il governo. Naturalmente, date le idee di E. Cecchi, basate
sulla sua personale esperienza, l'introduzione non è altro che un ritratto
aspro e negativo del paese; in contrasto con Vittorini che presenta gli
scrittori in modo "euforico [...] apologetico e quasi ispirato." Pavese
considerò il lavoro di Vittorini "una storia letteraria vista da un poeta:
come storia della propria poesia."
Con la fine della guerra e con il dopoguerra, Vittorini, Pavese e gli
altri americanisti sono costretti a prendere in considerazione una
"ridefinizione dell'America": "it was the end of Douglas Fairbanks,
Tarzan, Ahab and the noble savage."
Nello stesso tempo, fra gli intellettuali, comincia a farsi strada il
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"mito" di Stalin e dell'URSS; quindi non è più permesso servire due
padroni cosi diversi, per cui, anche se l'americanismo si nutre di
letteratura, Togliatti lo considera "un pericoloso deviazionismo
ideologico." Per giustificarsi con Togliatti, Vittorini si affrettò a scrivere
che l'America era cambiata. Come per dire che l'America non era più
"sogno puro [...] luogo magico, isola fantastica, abitata da innumerevoli
Robinson Crusoe [...]," l'eroe del Libro di Daniel Defoe, il suo scrittore
preferito sul cui libro aveva studiato ed imparato l'inglese. Il mito
dell'America "letteraria," fu vivo anche in Francia, dove esso fu visto
come "progressismo di tipo marxista" e considerato "modello
universale," perché era come un "paese ricco, dinamico, possente,"
imbevuto di cultura europea ed appariva apportatore di una civiltà
"superiore, assolutamente moderna."
In realtà un paese grande, forte e potente, ma immaginario ed
illusiorio, che la letteratura aveva popolato di personaggi romanzeschi:
di eroi che, poi il cinema aveva reso, a suo modo, vivi e reali; perché
fanno vivere in proprio l'avventura cui si assiste ed illudono gli
spettatori con il fascino del lusso, del benessere e degli amori speciali;
perché sono: avventura, sesso, denaro.
Insomma: gli elementi di quel mito alla cui creazione (invenzione)
proprio il cinema apportò un contributo determinante. Ed oggi la sua
storia, come una bella favola ce la narrano: Hollywoodism: Jews,
Movies, and the American Dream, un film di Simcha Jacobovich ed il
libro che lo ha ispirato: An Empire of their Own: How the Jews
invented Hollywood di Neal Gabler.
Arricchito da una estesa bibliografia, il lavoro di Claudio Antonelli
risulta un approfondito e stimolante contributo allo studio ed alla critica
sull'opera e sul pensiero di due autori che hanno influenzato in modo
notevole la vita e la letteratura del loro tempo.
CARMINE DI MICHELE
Concordia University,
Montréal, Québec