pdf - Riccardo Scibetta

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pdf - Riccardo Scibetta
fotografie riccardo scibetta
testo giancarlo lupo
I PREPARATIVI
Ore e ore a discutere, tra birre cinesi e canne, con quattro amici che si
infervorano nei discorsi. Niente è meglio del viaggio, se non i preparativi
del viaggio. Le aspettative. Le speranze. Pure se disattese, chi se ne frega?,
intanto si sogna. E così stiamo in quella stanza io e Riccardo, a parlare del
nostro viaggio agli altri.
Lillo Catania, amico di Porto Empedocle, da tre anni al seguito dell’EZLN
nelle comunità della foresta in Chiapas, sotto gli auspici del
subcomandante Marcos, è prodigo di consigli. Secondo lui non dobbiamo
affatto perdere Tikal, in Guatemala, passando il confine per l’appunto dal
Chiapas.
“Il fitto della foresta, il minimo che puoi prenderti è la malaria,” dice.“Uno
spettacolo!” Però ci vuole almeno una settimana per farsi il tragitto per
bene.
La malaria... chiaramente io e Ric non abbiamo fatto nessuna cura
preventiva. A parte prendere gli orecchioni quando eravamo piccoli. Rosi
invece è infermiera. Credo che lei abbia fatto qualcosa.
“E il nord allora?” fa Marino. “Come fate ad andare in Messico e non farvi
il deserto? Andate a Real De Catorce, da lì vi posso fornire un po’ di
contatti per il peyotl.”
“Non c’era la storia che è il peyotl che trova te, e non viceversa?”
obietto io.
“Se hai gli euri, il discorso è diverso.” Faccenda solita insomma.
Qual è la prospettiva? Una settimana nel deserto assieme a uno
sciamano, o pseudo sciamano, che ti assiste in tutto, mentre tu ti fai
viaggi da occidentale depravato, ondivago delle altre culture. Ripenso a
una ragazza che conosco che è stata un mese assieme agli Huicholes, gli
indios che fanno uso rituale del peyotl nelle loro cerimonie, proprio dalle
parti di Real de Catorce.
Mi inserisco nuovamente nel discorso.
“Le ciolle di chi?” fa Ric, esprimendosi in dialetto Minkias. Nel nostro
idioma dicasi ciolla, l’attributo oblungo funzionale alla fecondazione.
“Va be’, questi indios dalle lunghe ciolle si fanno di peyotl dalla mattina alla
sera, per quattordici giorni, senza mangiare né bere niente. Una volta ho
visto un documentario sull’argomento,” faccio il saccente io.
“Forse per questo la città si chiama Real De Catorze? Quattordici, no?” fa
Lillo.
“Boh?” faccio io. Non ci avevo pensato.
“Magari è vero che loro si sballano così,” si inserisce nel discorso Michele,
“però non penso che il peyotl faccia lo stesso effetto a noi occidentali,
adusi a droghe chimiche. Insomma, in quelle condizioni lì, senza mangiare
per quattordici giorni e quattordici notti ci credo. A me ne bastano solo
tre di giorni così per avere le allucinazioni,” conclude.
“No, il peyotl ha proprietà nutritive,” dottoreggia Lillo Catania.
“Che bel funghetto. Ci risolverebbe le serate di fame chimica,” faccio io.
“In realtà è un cactus,” mi fa Marino.Va be’, tutti bravi a fare i dottori.
Intanto stiamo qui a parlare di viaggi e di sballo, e per stare in tema
continuano a girare le canne, e le nostre teste.Tanti discorsi su droghe ed
erba si fanno fino a tarda notte, ma chissà perché poi. Alla fine lo scopo
del nostro viaggio non è allucinarci, sballarci. Non abbiamo più l’età giusta
per dedicarci a queste amenità. Vogliamo vedere, visitare, e poi sarà il
viaggio stesso a deciderne la piega. Intanto arriviamo in Messico.
Io, Ric e Rosi. I tre sicani. Anzi, Mex sicani. Domani si parte, recuperiamo
Rosi all’aeroporto e siamo pronti ad affrontare il Jet Lag. Raccontare il
Messico sarà difficile perché, come disse Carlos Fuentes: “Non si può
raccontare il Messico. Si deve credere nel Messico. Con passione, con
rabbia, con totale abbandono...” Boh?, non ne sono troppo convinto. Ma
se lo disse Fuentes...
DISTRETTO FEDERALE
LUMINARIE FITTE
Messico surreale. Luminarie fitte nel distretto federale prono ai nostri
piedi. Ci aspettava. Dall’aereo non se ne vede la fine. Come un’orgia di
lucciole in campagna. Città enorme.
M’addormo, causa scompenso da Jet Lag. Un bimbo piange dietro di me.
L’ha fatto per tutto il viaggio, il bastardo. Incessantemente. Probabilmente
sta male. Come minimo ha la sars. E pure io non sto tanto bene.
Atterraggio senza problemi. File lunghissime per uscire dall’aeroporto.
Cerchiamo un taxi alla volta dell’Hostel Catedral.
Mai studiato spagnolo in vita mia, conosco alcune parole base, poi basta
parlare all’infinito oppure al presente, senza coniugare i verbi, e ti fai
capire. Almeno in America Latina funziona così fortunatamente. I
messicani sono pure contenti quando ti sforzi di parlare la loro lingua e
intercali nei discorsi frasi gergali.Tutto, purché non gli parli in inglese, come
uno yankee.
“Que onda?” faccio subito appena salgo sul taxi.
L’uomo sorride e parte dopo avermi risposto positivamente. Poi ci
mettiamo a parlare. Da dove veniamo, dove siamo e dove stiamo
andando. I soliti discorsi insomma. Appena l’uomo taxi viene a sapere che
siamo indios siciliani fa una faccia bruttissima, tipo terrorizzata. Scherziamo
su “Mafia” e roba del genere, come al solito. Niente di nuovo alla luce del
sole. Sia ringraziato Francis Ford Coppola per la fama mondiale.
L’uomo taxi comincia a fare un discorso su “faccia tagliata.” Non riesco a
capire dove vuole andare a parare.
“Una pelicula,” mi fa.
Alla fine ci arrivo. Non sono un’aquila.Trattasi di Scarface.
“Ma non si tratta di mafia sicula,” obietto. “Scarface è un cubano.” Solita
pedante saccenteria che a volte potrebbe dare ai nervi, se non mi si
conoscesse.
Va be’, il taxista è autorizzato, e non ci conduce in un vicolo per tagliarci
la testa. Per stavolta ce la caviamo.
Undici di Notte. Meglio riprendersi dal viaggio. Arriviamo all’Ostello. Sbirri
dappertutto, davanti ai locali. Prendiamo possesso della nostra stanza. Rosi
si mette a dormire. Io e Ric proviamo a salire su in terrazza. A quanto pare
c’è una festa, ma pochissimo movimento. Dopo una birra siamo di nuovo
in camera, pronti a ronfare, aspettando Godot e l’indomani.
Siamo a 2000 e passa metri.
Ric appunta mentre si infila sotto le lenzuola: “Com’è ca è muntagna si è
tuttu chianu?”
Non siamo ancora arrivati a leggere nella guida che Mexico City sta su un
altopiano.
“La legge non ammette ignorantità!”
ARRIBA, ARRIBA
L’Ostello Cattedrale si trova proprio sullo Zocalo, la piazza principale.
Non ci godiamo l’alzabandiera, è troppo presto. Ma ci facciamo un giro. I
venditori ambulanti stanno prendendo possesso dei banchi. Un topo
occhieggia dal selciato. Poco distante il Templo Mayor. Quecazzdicoatt,
antico dio degli sballati, avrà fulminato il topo perché aveva profanato il
suo tempio.
Dallo Zocalo si diparte Avenida 5 de Mayo. A parte la morte di
Napoleone, di cui ai messicani non credo freghi niente, scopro che il 5 de
maggio i messicani vincono contro gli spagnoli, mi pare, a fine ottocento,
non so in che partita di calcio. Percorrendola tutta si arriva all’Alamida
Central. Parco cittadino. Il più grande. Ma poca roba.
Prima di darci al verde passiamo da Plaza Garibaldi dove una poco di
mariachi ci chiedono se abbiamo intenzione di ingaggiarli. Poi una foto di
gruppo alla sballata famiglia della piazza. Intanto profondiamo dinero, pure
se poco. Solo i cani si lasciano fotografare gratis. Non macilenti come
quelli incontrati a Cuba. Si vede che qui gli avanzi sono di più.Va be’ che
stiamo vedendo solo il centro historico. Non voglio neppure immaginare
la periferia. Qui nel centro si accentra la noblesse della caninità. Dormono
su materassi o vicino a loro padroni. Crogiolandosi nelle propri pulci.
Andiamo al parco.
Alla fine dell’Alameda c’è la Iglesia di Santo Ippolito. I ripetitori audio
sistemati all’esterno narrano ciò che avviene all’interno. Prediche bigotte.
Sacro e profano però. Fuori c’è un mercato, effettivo incentivo al peccato
di gola. Accanto a immaginette votive si vendono tortillas.
Sacro e profano. Due modi diversi di onorare dio e la sua creazione (o
l’uomo e la sua creazione, cioè Dio?). Maniere diverse di onorare dio, che
non esiste. Poi spettacolo di santeria al parco, con falò rituale di
minimanichino e fetore di zolfo. Insomma, finora mi sembra tutto
abbastanza standard.
Tornati alla base ci informiamo sulla corrida di Plaza de Toros col capo
mandamento del nostro ostello. Un panciuto baffuto che sa vivere. Palese.
Dovremmo andare alle sedici. Giusto il tempo di magnare e dormire.
La corrida. L’arena è enorme. Hanno disposto una fantasia di fiori sul
tappeto sabbioso. Ora arrivano a liberare tutto, dopo di che faranno
entrare tori e toreri. Ne ho sentito parlare parecchio della mattanza dei
tori nei paesi latini, con accenti di odio animalista. Boh?, per ora respiro
atmosfera da stadio, un po’ più barbara che dalle nostre parti, ma sempre
atmosfera da stadio. Poi quando si parla di animali e maltrattamenti sono
sempre discorsi complicati. Rimango fermo dell’opinione che gli animali da
salvaguardare, nella loro dignità, sono quelli da allevamento intensivo.
Nutriti e pasciuti per nutrire e pascere noi. Prendiamo i galli per esempio.
Sono sicuro che un gallo da combattimento vive meglio di un gallo di
batteria. Almeno è un riproduttore. Finché non incontra la morte sul ring,
viene allevato con le migliori cure possibili. Forse lo stesso discorso non
vale per i tori, che comunque se la spassano sempre, e fanno i
riproduttori anche se non giocano nelle corride. Ma sono un idealista in
fondo. Magari i tori famosi delle corride si trombano le mucche migliori,
le famose Tor-model. Proprio da ridere.
Intanto un tizio offre un cohiba a Ric. Poi ci spiega le regole. Ci facciamo
prendere dal tifo. Come in una partita di calcio. L’unica differenza è che
qui non c’è una tribuna di vacche e tori che tifa per l’altra parte. Così
equilibriamo noi tre. Secondo una regola spiegataci dall’uomo cigarros se
il toro è abbastanza “poderoso” coraggioso, e il pubblico intercede per lui,
può aver salva la vita dal giudice di gara. Il che significa anche meno
bistecche di toro per tutti, ma l’animale che riesce a incornare Rafael
Ortega, la nuova promessa della corrida, se lo meriterebbe di salvarsi la
pellaccia dopo averlo fatto volare. L’ho già detto, noi tifiamo per lui.
Appresso Ortega c’è Zotoloco, una vecchia gloria, ma niente di che.
Alla fine Ortega, nell’ultima gara, si becca la massima onorificenza, le due
orecchie e la coda dell’animale ucciso. Fa più spettacolo perché vuole far
dimenticare la cornata che ha preso. Il pubblico lo applaude. Noi tifavamo
per il toro, ma alla fine applaudiamo anche noi, per mimetizzarci tra la folla.
“Hasta luego!” saluta l’uomo cohiba.
“Hasta minchia” fa eco Ric nel nostro idioma.
AZTECHI E MINKIAS
Arriviamo al santuario della Vergine, a quanto pare, secondo certi vangeli
apocrifi, la sicurezza della verginità fu attestata con un braccio. Guadalupe,
la madonna più famosa del Messico. Iglesie su iglesie. Farfalle sfarfallanti sui
fiori sgargianti che si caricò don Juan prima di farsene qualche infuso, altro
che peyotl. Mi immagino le apparizioni. Lo sapevano già gli antichi, prima
di rifarsi una nuova pelle bisogna liberarsi di tutto. Purificarsi. Non ci aveva
già pensato Socrate? Distruggere per costruire. E ne costruirono di chiese
qui. Fortunatamente i cani ci sono sempre. Solo che al santuario anche
loro assumono un’aria più santa.
Dopo il giro nell’occhio-specchio della Vergine siamo di nuovo in autobus,
alla volta di Teotihuacan. In attesa di mirar le vestigia di un’antica civiltà
concorrente alla nostra.
Poi nella citta azteca (ancora prima olmeca) sulle orme del serpente
piumato. Ma essendo serpente, mi chiedo, e per giunta con piume, che
cazzo di orme avrà lasciato poi?. Il tempio del sole per noi, che veniamo
dalla terra del sole, è parecchio indicato. Ci inerpichiamo. In cima alla
piramide c’è questa famiglia che viene da Michoachan, altipiano centro
occidentale, vicino al lago di Chapala. Le solite quattro chiacchiere che qui
in Messico fortunatamente non ti rifiuta nessuno. Da dove veniamo e
dove siamo soprattutto. Domande classiche. Foto di gruppo.
“Hasta luego!”, come al solito.
E “Hasta minchia!”.
Dalla cima intanto uno spettacolo grandioso, nell’immensità mi sperderei,
se invece non rimanessi, come al solito, indifferente. A tutti gli spettacoli
naturali.
Siamo con una guida che fa discorsi abbastanza da bar. Tipo: “Qui una
volta era tutta foresta”. “Tutto il mondo è paese” “Si stava meglio quando
si stava peggio, ai tempi dei conquistadores i taxi arrivavano in orario”.
Mentre intorno i venditori ambulanti si moltiplicano come funghi. Chissà
se c’erano anche quando qui era tutta foresta.
Sento un’aria nuova. Respiro a pieni polmoni. Anche i miei piedi puzzano
meno. Ci sta venendo una fame ancestrale. Ritornare in autobus e a Città
del Messico è un attimo.Vicino l’ostello c’è un ottimo ristorante, secondo
la guida, la Casa de las Sirenas. Ci strafoghiamo di carne intinta in salse
strane.
Alle otto di sera abbiamo già terminato di cenare. Del resto è stata una
giornata impegnativa. In ostello c’è un tizio con una videocamera. Un
collega insomma. Poi la mia attenzione è attirata, calamitata direi, da una
fanciulla, messicana, bella, muy linda. Tiene in mano un gelato, termine
tecnico per indicare o microfono per interviste, o pompino, a seconda
della tecnica insomma. Sul cubo del gelato c’è scritto tv azteca. In tema
con Teotihuacan.
Va be’, le sorrido. Poi andiamo a prendere le palle da biliardo e le
stecche. Al piano superiore partita con Ric e Rosi. La tv intanto ci segue.
La tizia comincia a fare quattro chiacchiere informali. Poi a tradimento
attacca il microfono e mi intervista, purtroppo il pompino non è incluso
nel servizio. Va tutto bene, perché sono abbastanza bevuto e me la
sbroglio abbastanza. Poi non è la mia lingua e me ne frego di fare
l’accademico della crusca in spagnolo. Alla fanciulla piace Giuseppe
Tornatore. Nuovo Cinema Paradiso è il suo film preferito. Le dico che la
piazza del film è a mezz’ora da casa mia, giusto per impressionarla.
Tampoco impressionata si ricorda la scena del folle che chiude la piazza.
Mi chiede cosa conosco del Messico. Mento spudoratamente per darmi
arie. Carlos Fuentes, Octavio Paz, Juan Rulfo. Li considero come roba
acquisita. In realtà solo di Fuentes presi alcuni libri in biblioteca, ma li lessi
a scampoli.
Poi lei sorride. Ci saluta e ci augura buona partita. Intanto Ric e Rosi
hanno osservato silenti la mia performance. Non so cosa hanno capito
del nostro dialogo in spagnolo. Ovviamente le nostre, fra me e
l’intervistatrice, erano schermaglie amorose. Ma chiaramente non le ho
chiesto di uscire né niente, visto che sono minkias e devo giocare a
biliardo, le uniche buche che vedrò stasera. L’augurio mi porta bene.Vinco
due partite ed è tutto dire. Non sono proprio bravo a giocare.Tutti i miei
amici giù al sud sono più bravi di me. Però in un mondo di ciechi chi ha
un occhio solo porta la benda nell’altro.
Gioco meraviglioso il biliardo. Matematico, essenziale, fallico, affascina noi
minkias come nessun altro gioco, a parte le freccette forse. Avrei voluto
parlarne diffusamente alla tv azteca, anche perché sono convinto che
Quecazzdicoatto avesse in programma di fare un tavolo da biliardo a
Teotihuacan, usando il mais come palle. E le buche? Sono state le uniche
buche viste stasera.
PULLE
Per culo mi sveglio a mezzanotte. Questa è una faccenda tra me e Ric che
Rosi non riesce proprio a digerire. “Come si fa?” dice, “a dormire dalle 10
di sera a mezzanotte e poi uscire.”
Preferisce seguitare a dormire. Io e Ric usciamo, diretti Zona Rosa.Taxi e
dipoi alla cantina del Pacifico, in Avenida Hamburgo. Ci dovrebbe essere
un bel movimento. Appena entriamo ci scoliamo una tequila e una
cerveza. Avevamo già bevuto discretamente durante il pasto dalle sirene.
Il locale è tranquillo. Un piccolo palco dove le coppie ballano. Donne
prosperose. Ma sono gli standard di gradimento del luogo. De gustibus
insomma, pure se medievali. Ric vorrebbe qualcosa di mas juven, un locale
dove è possibile incontrare anche qualche pulzella che soddisfi più i nostri gusti decadenti. Usciamo fuori e andiamo alla ricerca.
I magnaccia ci sfrangono le palle. “Chica, muchaca, cigarros, bamba.” Ti
offrono di tutto e di più. Sensazioni già provate. Giocare un gioco di cui
non mi piacciono le regole. Le strade sono deserte. Gli unici fessi stranieri
che giustificano l’esistenza di certi posti, in mancanza di qualche
giapponese dai gusti facili, siamo noi.
Un vecchio si avvicina. Ci dice in spagnolo che lui è di origine italiana. Suo
padre, dice, ma probabilmente sarà arabo, ebreo, indio, a convenienza,
come Zelig. Ci legge in faccia che siamo minkias e ci porta in uno strip
club. Difese naturali indebolite dall’alcol del resto. Ci lasciamo trasportare
dagli eventi.
Buio in sala. Una ventina di ragazze per quattro fessi stranieri.
Gli eventi poi ineluttabilmente precipitano. Diventano etrenta. Siamo
accalappiati da quattro bonazze messicane a cui se ne aggiunge, ratta (nel
senso che è veloce, non nel senso che fa cacare), una quinta. Palpeggio,
bacio, pomicio, lecco sale e limone dalla sua mano.
“Che ne avrà tirate di seghe,” penso, ma sono ubriaco e non mi ci
soffermo più di tanto.
Bevo la tequila. Ric è davanti a me intrattenendosi con altre tre ragazze.
Dobbiamo trovare una maniera per andarcene. Siamo senza dinero.
“No problema,” fa un cameriere magnaccia, “accettano carte di credito.”
“Sì,” gli dico, “ma l’ultima volta che sono venuto in Messico mi clonarono
la carta. Mi fido più del banco. Non è per cosa.”
Mento spudoratamente, chiaro. Mai stato in Messico prima d’ora. Il
magnaccia capo mi viene a parlare. “Fidati di me,” dice.
Anche Ric tiene il gioco: “Non è per male,” fa, “ma minkias sì, fino a un
certo punto però.”
Che eccitante tristezza mi pervade osservando il commercio di carni
della mia novia, come si autodefinisce Sandra, o Marta, non ricordo il
nome che dice. Viene dal Guadalajara, tiene un figlio di cinque anni, lo
accudiscono i suoi genitori, mentre lei lavora allo strip da due anni. Non
mi addentro nei particolari, non c’è bisogno che me li conti, ma sono
sicuro che la fanciulla avrà alle spalle un marito che la picchia, e beve, e la
fa prostituire.
Arriva il magnaccia di prima con il conto. 1227 pesos, neppure 100 euro
in fondo, però. Solo che io e Ric non abbiamo neppure tignato. Non
teniamo abbastanza contante con noi.
Il magnaccia ci accompagna al banco, fuori, e Ric ritira altri mille pesos.
Paghiamo il dovuto, baciamo le mani e facciamo per andarcene. Il
magnaccia ci offre, chiaramente pre pagate, e a che prezzo, una birra e
un’altra tequila.
Sono a quota 7 o 8? Boh? Inebriato dall’alcol. Stiamo due minuti dalle
ragazze che poi si dileguano. Avranno detto loro che non c’è trippa per
gatti. Dico a Sandra, o a Marta, che ho una hija che mi aspetta in albergo,
una figlia. Che genitori snaturati si incontrano a volte nei locali del
Messico. Lei vorrebbe trattare a solo con me. Ma non mi va di
trascorrere la sera così. A parte che mi contraddico spesso, comunque
stasera non è serata.Troppo alcol, e talvolta mi diventa la sbronza triste.
Peccato che sono ancora excitato. Meglio che me la faccio passare.
Queste storie non mi interessano, come lo devo dire?
Usciamo e giriamo ancora, in cerca di qualcosa che non c’è.
Ancora procacciatori di piaceri per strada. Impossibile fare un passo che
subito ci propongono la qualsiasi. Ci sdegniamo presto.
“Non ci importa nada.”
“Un ci scassari a minchia, vatinni!” dice Ric in idioma indigeno.
“Vuoi chica?” fa una ragazza sulla strada.
“No, n’ammu a ghiri,” ripete Ric.
Al nostro diniego, insinuante propone: “Men?”
Arriva gesto inequivocabile da parte mia. Che minchia di logica hanno sti
aztechi del cazzo? Vedono due marcantoni come noi, camminare per la
carrettera, e ci propongono ste robe? Ma allora tanto varrebbe non
essere neppure usciti e continuare a farci le seghe a turno fra me e Ric,
o no? Mah? Mi sa che pure loro sono minkias. Tutto il mondo è paese e
la nausea monta su.
Lunedì. Neppure l’una. Nessuno in giro. Nella Zona Rosa c’è un
monumento con una specie di statua di angelo ficcata al centro di una
piazza deserta. Ci sediamo lì davanti.
La nausea monta su. “Va tutta la mia simpatia alle battone.”
“I coglioni vanno per fottere e sono fottuti.”
“C’è finita bene.”
“Abbiamo speso quasi quanto la cena e, a parte qualche palpatina di
tette, nada de nada.”
“Unica consolazione. Non eravamo andati a fottere – non letteralmente
almeno – e non siamo stati fottuti. Non letteralmente almeno.”
“Potremmo prendere una cerveza vicino casa nostra.”
“Va be’, torniamo allo Zocalo, basta che non andiamo a dormire.”
“Cu tia sugnu,” fa Ric. E questo è il tenore dei nostri discorsi.
All’andata avevamo pagato un taxi quaranta pesos, al ritorno il bastardo
all’angolo, in attesa di affari, ne vuole cento. Contrattiamo con un altro che
ci porta per cinquanta. Riflettendoci, alla fin fine si tratta sempre di cifre
ridicole, ma ancora non ci capiamo granché coi pesos.
Allo Zocalo peggio che peggio. Nessuno in giro. Niente aperto, a parte
una specie di panetteria dove però non servono birre dopo una certa
ora. All’uscita una ragazza malridotta, avrà al massimo quattordici anos, ci
chiede un pesos.
Dopo tutti i soldi spesi ammatula (musica al ristorante, botanas varie) le
sgancio tutte le monete che ho in saccoccia. Arrivo a quindici pesos,
un’inezia. Anche Ric le molla qualcosa. Veramente un bel viso, gentile e
affamato. Ora è contenta, sorride e saluta.
Ostello della juventud. Di nuovo. Suoniamo e nessuno risponde. Faccio
bordello. Siamo turisti danarosi porco xxxio.
Ric mi dice: “Non l’avevi detto tu che il Messico è surreale e non esiste il
tempo?”
A parte che mi contraddico spesso, riconosco che ha ragione. Mi siedo
ed espero. Nel senso di aspetto. Un ragazzino, questo avrà dieci anos,
chiede una sigaretta. Ric le ha finite. Il giovane se ne va. Raccoglie un
mozzicone per strada. Credo sia un lavoro abbastanza diffuso a Città del
Messico, per confezionare sigarette da riciclo.
E noi che invece abbiamo passato la sera a incrementare il mercato delle
botanas. Non ci posso pensare. Valgame de dios. Senza neppure farcele,
infine. Ric si rompe i coglioni del surrealismo, di Dalì, Breton e Jodoroswki,
e va a suonare. Faccio bordello pure io e chiamo Rosi ad alta voce.
Tradizione sicula.
“Rosiiii!”
Arriva il capomandamento assonnato. Mi dice che basta suonare una vez
e lui scende. Lo prendo di sopra, appuntando che da 30 minuti siamo qui
sotto.Todo cerrado.
Saliamo in camera. La musica si diffonde dal bar della terrazza. Sono le 2
e 30. Di dormire non se ne parla.Vado al bagno a pisciare.
Mentre sono intento mi soffermo a pensare: “Ora mi faccio una sega e
non ci penso più,” troppo eccitato per la piega che aveva preso la serata,
ma il turpe proposito non viene portato a compimento. La musica
proveniente da fuori interrompe le pratiche onanistiche così care alle
nostre popolazioni minkias.
Con Ric decidiamo di andare a vedere que pasa de bueno in terrazza. Al
bar ci sono due ragazze e otto maschi. Con me e Ric ristabiliamo il
classico rapporto 5 a 1.
Una ragazza dice a un tipo a lato di essere finlandese e di avere freddo.
Mi intrometto nel discorso e da cavaliere, qual sono e fui, le offro il
maglione come usbergo contro l’addiaccio. Declina l’offerta e di poi la
domina mi snobba. Il mio intramontabile fascino latino non funziona più
sulle finniche. Forse non è mai sorto né tramontato.
Ric prende due birre e ci sediamo. Dopo un po’ intavoliamo una
discussione in inglese con un australiano di Melbourne. Ci presentiamo
ma non ricordo il suo nome.Troppo sbronzo.
Melbourne si mette a parlare. Ha studiato politica a scuola. Ma ora si
interessa di letteratura.Viaggia e scrive. Come me.
Mi dice che l’Australia è un paese giovane. Non c’è granché da scrivere.
Parla male dei suoi compatrioti. Rozzi e ignoranti. Apatici. Fuori dal
mondo. Intenti a soddisfare bassi appetiti, fumare maria e ubriacarsi. Boh?
Detto così non mi suona male come posto. Gli stessi discorsi che Ric
aveva con Rosi oggi a proposito dell’apatia paesana. Todo el mundo es
pays.
Melbourne parla male dei suoi compatrioti. Ancora.
Gli dico che Megan Gale non è male. Anche la finnica e l’australiana al
banco sono abbastanza fottibili.
“Ah?” fa Ric, “è australiana?”
Ma non ci cacano di striscio. I soliti intellettuali del cazzo persi nel loro
iperuranio. Quando fotteremo mai continuando così? Giusto da turisti
sessuali.
Il bar sulla terrazza sta chiudendo. Le donne se ne sono andate. Così il
loro stuolo di maschi.“Salutami Megan Gale” faccio a Melbourne alla fine.
Strette di mano, intese elettive fra grandi scrittori e artisti un po’
misantropi. E fu così che non conoscemmo le ragazze. Ma sì, che ce ne
fotte? Noi siamo spiriti superiori, interessati ai libri, alla letteratura, ci
possiamo mica mescolare a fiche rozze, prive di “anima gentile” che magari la danno via al primo che capita! Soffoco un singhiozzo in gola. E anche
il mio fratello più piccolo.
CHIAPAS
LA MALEDIZIONE DI MONTEZUMA
Arriviamo a Tuxtla Gutierrez, in pieno Chiapas. Aeroporto sperduto nella
foresta. Stento a crederci, più piccolo di Punta Raisi.
Usciti fuori ci mettiamo d’accordo col taxista Carlos. Ci porta a San
Cristobal de Las Casas in cambio di 500 pesos. L’equivalente di 30 euri
per due ore di viaggio. Carlos è parecchio cattolico, si vede dai crocifissi
sparsi in auto.
Mentre stiamo andando Ric ha la malaugurata idea di chiedergli un po’ di
musica. Bene, mette un CD chiesastro e non la finisce più. Non c’è verso
di farglielo togliere. Poi con il fatto che si avvicina il 12 dicembre e la
festività della Vergine, il fervore è maggiore.
Fortunatamente fuori lo spettacolo è degno di nota, a parte quello
naturale, che come al solito mi lascia alquanto indifferente. Mentre
saliamo, le foreste punteggiate da coltivazioni di mais e piante di agave,
dall’auto guardiamo una india carica di fascine di legno. Sulle fascine una
bimba che ricambia lo sguardo, curiosa.
Carlos invece è Hakkinen. Ci sono limiti di velocità a 60 all’ora. Non
scende mai sotto i 100, fra curve e tornanti vari. Nonostante una
deviazione a causa di un ponte crollato riusciamo comunque ad arrivare
in città dopo le due ore di prammatica, come da guida. Artigianato,
alimentari, non mi aspettavo fosse un luogo così commerciale. In
aeroporto avevamo pure comprato Autan e shampoo, perché
ritenevamo potessimo avere difficoltà a reperirli qui.
Carlos ci saluta, scarica i bagagli e prende il dovuto. Guardo Ric e Rosi.
Sono a pezzi. Erano seduti dietro, e oltre alla guida da Hakkinen hanno
accusato il colpo dell’ascolto musica di chiesa.
Siamo allo Zocalo di San Cristobal. Cittadina coloniale accogliente,
colorata, abbastanza rumorosa, ma non troppo. Molti indios, discendenti
dei maya, stanno in mezzo alla strada, seduti a produrre i loro manufatti.
Un paio di marmocchi, minimo, girano attorno a ogni femmina. Donne
gravide e, non me l’aspettavo, belle. Una bellezza diversa. Donne piccole,
nere, segnate dalla fatica e dalla fame. Però se le guardi negli occhi nessuna ti nega un sorriso. Il sorriso di chi la sa lunga.
Cerchiamo una posada e poi un paladar, ché dobbiamo mangiare fino allo
sfinimento. All’ufficio del turismo ci dicono che la via migliore per le
nostre esigenze è Real de Guadalupe. Raggiungiamo la posada Santiago.
Una signora gentile ci mostra la stanza, al primo piano, con due letti a una
piazza e mezzo. Prezzo 150 pesos a notte. 3 euro e qualcosa a persona
per dormire. Se già a Mexico City i prezzi erano bassi, qui sono risibili. Il
bagno fa cacare, ma riflettendoci è quella la sua funzione.
“Meglio non stendersi,” fa Ric. “Mangiamo e poi pennica.”
Il giorno prima avevamo fatto le 4 e 30 del mattino. Sveglia alle 6 e 30 per
prendere l’aereo. Due ore di sonno interrotte spesso dal ritmico russare
di Ric. Siamo a pezzi, ma la città è tanto bella che usciamo subito. Ci
consigliano un paladar dove ci strafoghiamo.
Zopa azteca (una zuppa con formaggio, avocado, tortilla e schifezze varie),
carne di puerco immersa nella salsa più fetida. Riso. Il tutto innaffiato dalla
birra Sol, tipicamente zapatista.
Rosi non mangia troppo. Un piacere viaggiare con lei perché posso
ripulirle il piatto. Anche Ric dà forfait e faccio scarpetta pure sul suo. Per
chiudere in bellezza ci facciamo portare un piatto di patatine fritte e altre
birre. In tutto spendiamo 180 pesos, saranno un 4 euro a testa.
Complimenti allo scieff maya. Salutiamo, mancia e via.
Alla posada ci arrendiamo ordunque alle lusinghe di Morfeo.
Sveglia alle 17.
Il nostro primo pensiero è liberarsi di tutto. Dal paese dei minkias
avevamo portato un sacco di vestiti che non usavamo più. Lo zaino pieno.
Voglia di dare dimensione politica al viaggio. Nella guida leggiamo che c’è
questo negozio, Nemizapote, situato proprio nella nostra stessa via, dove
vendono oggetti artigianali realizzati dagli zapatisti in favore della loro
causa. Scendiamo giù e andiamo a chiedere loro se si può fare una
donazione per le comunità delle montagne.
“Sì, se puede,” mi viene detto. Ma dobbiamo andare alla Enlace Civil, di
fronte alla chiesa di Santo Domingo.
Giunge il momento di muoversi, diamo senso a questa vacanza, mettiamoci a posto la coscienza, sporca, da ricchi. Mostriamoci interessati ai
poveracci che sbarcano il lunario, ai grossi problemi di ineguaglianza che
ci stanno nel mondo.
All’Enlace Civil, una sorta di ufficio dove si organizzano le comunità zapatiste della foresta, ci accoglie Enrique, un fricchettone, capelli rasta, proveniente dal Tabasco. Regione ricca e affaristica, sinonimo di petrolio e traffico di droga.
Diciamo da dove veniamo.
Lui fa un cenno agli Ya Basta di Milano.
“Sì,” dico, “conosco, sono quelli del Leoncavallo, amici di Michele.” Ne
avevo conosciuto uno una volta.
Enrique dice che sarebbe meglio se andassimo noi a donare la roba.
Potremmo dormire nell’accampamento a Oventick.
Abbiamo pochito tiempo, e siccome si tratta della prima volta che veniamo in Messico dobbiamo vedere un pacco di roba.
Ci dice: “Quando vuelveras, allora.”
Durante il tragitto verso casa, come al solito, ci ripenso. Che ci frega di
Palenque. Cioè, ci frega, ma fino a un certo punto, Meglio cercare di capire
una situazione, sempre per metterci la coscienza a posto. Ne parlo agli
altri. Quando torniamo alla posada la decisione è presa. Telefono a
Enrique e dico che l’indomani saremmo andati di persona.
“A que hora?” chiedo.
“Dies Y midia” risponde. Dieci e mezza. La rivoluzione non dorme mai, ma
i rivoluzionari sì. Intanto alla posada Ric inizia a vomitare. La maledizione
di Montezuma a quanto mi dissero a Città del Messico. A quanto pare,
nei primi anni del sedicesimo secolo, Francesco Cortes diede una bella
incarcatina a Malinche, la bagascia azteca che vendette il suo popolo e il
suo re, il saggio, ma ingenuo Montezuma. Dopo essere stato ucciso a
tradimento da chi riteneva essere Quecazzdicoatto, Montezuma lanciò
una maledizione su tutti quelli che avrebbero varcato l’oceano in veste di
conquistatori. Si sarebbero strafogati con le tortillas messicane.
Va be’, qui ci sono maya e non aztechi, però cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia.Trovo Ric fuori, appoggiato a un auto, intento
a buttar fuori pure l’anima. Rosi accusa un leggero senso di nausea. Io
invece ho ancora fame.
Facciamo due passi, bevo una birra, sgranocchio salatini, Ric beve acqua e
la vomita. Rosi continua ad accusare nausea. Ritorniamo alla posada. Rosi
fa una bella punturona di Plasil a Ric, dovrebbe essere un antiemetico,
credo.
Sera. Io e Rosi usciamo, ma poca gente nei locali, la musica è dal vivo, ma
niente di esaltante. Ric è incomato a casa. Mi bevo tequila accompagnata
da tomato. Anche Rosi ne assaggia una, ma la lascia a metà, causa bruciore
di stomaco. Tornati di nuovo alla posada, Ric ci avvisa di aver avuto
scariche di diarrea e vomito, neanche se la fosse fottuta lui, Malinche. A
quanto parrebbe l’effetto del Plasil è svanito e ora sta peggio di prima, ha
ancora conati.
Mi spoglio e mi infilo nel sacco a pelo. Ric sta sempre più male. Rosi pure.
Un piano minkias potrebbe essere: me ne vado per i cazzi miei a farmi le
gite mentre loro si curano.
Siccome mi contraddico, mi rivesto e dico: “Andiamo dal dottore.” Rosi
appoggia la decisione.
Il ragazzo della posada scrive il nome, sanatorio del dottor Bonilla. Il taxista
che fermiamo per strada non capisce cosa dico.
“Sanatorio!” faccio.
“San Antonio?” fa lui.
Gli mostro il biglietto che mi aveva scritto il ragazzo, più facile. “Mira,”
faccio.
Poi lui mi dice che aveva capito San Antonio.
“San Antonio in Paraiso,” faccio e lui si mette a ridere di gusto. Com’è
bello stare in un posto dove ridono alle tue battute, financo le più stupide.
Intanto siamo arrivati. All’interno del sanatorio fervono i lavori. Non è un
sanatorio, è un cantiere.“Tascio” come si suol dire in antico idioma. Lungo
il corridoio, fra cumuli di mattoni, si ergono alcune colonne greche. Non
sono ancora state stuccate. Cemento nudo e crudo. Due sole stanze
sono terminate e illuminate. La sala di aspetto, dove ci accoglie
l’infermiera, e lo studio vero e proprio, dove veniamo dirottati. Il resto è
al buio e in costruzione.
Il dottore, un tizio grosso e dall’aria bonacciona, diagnostica infezione. Fa
un’altra puntura a Ric, prescrive altre medicine, antibiotici per fargli calare
la febbre, visto che ha la temperatura a 38, poi prescrive altre medicine a
Rosi.
Comincio a preoccuparmi. Ho mangiato le stesse robe, in quantità
maggiore, eppure non ho sintomi. Il problema è che sono ipocondriaco e
mi lascio suggestionare.Va be’, se passo la notte forse sopravvivo, poi ho
lo stomaco da struzzo.
Ritorniamo indietro a piedi, diretti verso la farmacia, rifornirci e via. Dieci
minuti. La farmacia è all’angolo della piazza dello Zocalo. Rosi e Ric hanno
le ricette delle medicine.
A un certo punto Rosi esce e vomita. Problema, il dottore le aveva
prescritto solo farmaci contro la nausea. Dal momento che sopraggiunse
il vomito bisognerebbe fare anche a lei la puntura.
Altro giro, altra corsa. Prendiamo il taxi e siamo di nuovo da S. Antonio.
L’infermiera ci fa entrare. Poi va a svegliare il dottore, novello Ippocrate
svetta tra le colonne doriche, in pigiama. Dorme proprio al piano
superiore del tempio. Prescrive la puntura e l’infermiera esegue.
Ric chiede quanto costa. Prima Bonilla s’era fatto pagare 300 pesos.
L’integrazione, al servizio precedente, è gratis.
L’infermiera ci saluta sorridendo, dice che aspetta pure me, adesso.
“Confio que no” le dico.
Torniamo a casa di nuovo in taxi. Dormita rigenerante ci aspetta. Non è
neppure troppo tardi. Super giù mezzanotte. Prima d’addormirmi altri
pensieri.
Uno, e se l’intossico viene pure a me? Buono che passo la notte e sono
salvo. Due, e se quel bastardo di Bonilla si è messo d’accordo con
Montezuma? Se passo la notte sono salvo.
IL RUTTO E GLI SPIRITI MALIGNI
Gli spiriti maligni si spurgano dal proprio corpo, attraverso i rutti. Sono
proprio così i riti che si tengono a San Juan Chamula, a tre quarti d’ora,
da cavallo, da Cristobal de Las Casas. Nella chiesa del villaggio la bevanda
sacra per eccellenza è la coca cola. La guida ci informa che l’uomo più
ricco del paese è infatti l’importatore di coca cola.
“Tu saresti un vescovo cca!” fa Ric.
Intanto Ric vorrebbe fare un po’ di foto, dei riti e dei rituali, ma
sfortunatamente è vietato. Che tipo Ric! Non compra i vestiti, le robe,
perché gli piacciono, ma perché, dopo essersi messo d’accordo coi
venditori, gli pare male tirargli il pacco. Per il resto non gli piace niente.
Non gli sembra giusto, dopo aver chiacchierato tanto, far perdere tempo
alla gente.
Fotografo anomalo. Non è un bastardo che se ne approfitta. A San Juan
Chamula compra noccioline e poi le dà ai bimbi. Meglio che dar loro un
pesos. Due spagnoli in gruppo con noi, che conoscono bene queste zone,
mi dicono che qui sembra povero, ma non è niente rispetto alla povertà
che c’è attorno, nei villaggi vicini. A San Juan almeno hanno la fortuna di
avere turismo e ricchezza in dollari. Intanto sulle strade suona il marimba,
o la marimba non so, lo strumento musicale tipico del Chiapas, e la
canson uiztaca va.
E siamo arrivati a cavallo a San Juan Chamula, con le bestie che vanno al
trotto e al galoppo, indifferenti al fatto che noi, a parte Ric, provetto
cavallerizzo, non abbiamo mai fatto equitazione. Anche la Vergine di
Guadalupe se ne sbatte di noi. Se ne frega quando al ritorno da San Juan
Chamula, perdo il passaporto, che mi si sfila dalla tasca dei pantaloni.
Chissà, forse la perdita del passaporto è un fatto tipicamente freudiano.
Voler lasciare una parte di me in Messico, per rimanerci. In qualche modo.
O semplicemente ci siamo sballati troppo.Too much tequila. E poi volevo
seguire Angelica, una ragazza originaria della Svizzera, anche se da un po’
d’anni vive in Ecuador, dove fa la guida. Mi ci ero intrattenuto parecchio
con la ragazza e non mi sarebbe dispiaciuto la sera uscire con lei.
Perdo il passaporto, ma non l’ottimismo. Un lato positivo c’è: eserciterò il
mio spagnolo. E così al ritorno vado a fare la denuncia all’Agencia del
Ministerio Publico. Una donna mi chiede di pagare 150 pesos, per fare la
denuncia, e secondo me sono soldi che non dovrei dare. Ma gli
ingranaggi vanno oliati in qualche modo. Poi la funzionaria mi informa che
a Cancun, dove dovrei portare la denuncia al consolato italiano, mi
toccherà pagare altri 200 pesos. Sarà vero? Mah? Intanto mi esercito con
lo spagnolo e maledico lo sballo e la ragazza svizzera, che mi hanno fatto
perdere il passaporto.
Dovrei ruttare, per spurgarmi degli spiriti maligni.
ERBA DEL CHIAPAS
Frastuono per le strade di San Cristoballo. Sta passando un camion con
bombole del gas, e una specie di rastrelliera che avverte la gente del suo
passaggio.
Siamo al mercato, proprio davanti alla chiesa di Santo Domingo.
Incontriamo tre ragazzi maya. Ramon, 20 anni, due figli, uno di due anni,
l’altro di tre mesi, maritato a una donna di 28 anni. Ha una faccia
simpatica e parla uno strano spagnolo. Poi c’è sua sorella Bor. Ramon mi
dice che in dialetto Lacandon significa ape, 11 anni, una faccia dolcissima,
ma non spiccica una parola. Parla solo la lingua Lacandon. Infine un altro
ragazzino, forse il promesso sposo di lei, non so, si chiama José. Sono Maya
Lacandon, incomprensibili i nomi nel loro dialetto.
Ramon mi racconta la loro vita. Stanno in giro una settimana, vendono
anelli e robe varie, poi ritornano a casa, nella foresta, vicino al tempio di
Burampak.Vita di fame. Invece il problema per noi è che abbiamo i soldi
in tagli troppo grossi. È difficilissimo cambiare soldi al mercato.
Vado in banca a prendere monete di piccolo taglio. Mentre aspetto la
lunghissima fila, una india, davanti a me, tira fuori la grossa tetta e
comincia ad allattare il poppante che tiene in braccio, e cerca
nutrimento. Poi ritorno al mercato dove Ric e Rosi stanno parlando con
una donna con in mano tessuti e gioielli. Staranno contrattando.
“Come va?” dico.
Ric mi consiglia un buon acquisto, un’amaca che sarà utilissima per i miei
pomeriggi di pigrizia sicula, quest’estate.
“Sono atterrati una marea di italiani,” fa Ric.
“Sì, è pieno di italiani,” appunta Rosi.
Mentre camminiamo lungo baracche e baracchini, osservando qua e là
vestiti, e poncho, e magliette, per turisti, mi colpisce il viso di una ragazza.
Sorridente e solare.
Colpito da una insana ispirazione le chiedo: “Ma tu, sei italiana?” e la
fanciulla non ne ha affatto l’aria, più da francesina insomma.
Inaspettatamente la ragazza fa: “Sì” e si scopre che è romana. Si chiama
Nadia. Bella. Capelli lunghi, aria da fricchettona. Sta assieme al suo
ragazzo, un francese di nome Fabian, e vogliono fondare una scuola di arte
a San Cristoballo.
Ci mettiamo a parlare. Dopo un po’ arriva Fabian, il ragazzo. A quanto
pare è bretone. Ovviamente ci mettiamo a parlare di Asterix e dei nomi
dei personaggi, intraducibili in italiano. Il capo villaggio che si chiama a
braccia conserte, il bardo che si chiama Assicurazione contro tutti i rischi,
e via dicendo. Il bretone è anche un buon gancio per la mota. Termine
tecnico per indicare l’erba. Ce ne molla due o tre canne. Poi ci
scambiamo le mail, ci salutiamo e andiamo via. Intanto Nadia parla del
loro progetto e di un loro imminente viaggio in Argentina.
Lungo la via altro incontro. Un certo Miguel.Trattasi del nipote della tizia
con cui Ric e Rosi stavano contrattando mentre io ero in banca. Miguel
spaccia e conosce i dintorni meglio di chiunque altro. Si offre di farci da
guida a San Juan Chamula per l’indomani, a cavallo. Poi ci vuole vendere
un po’ di roba.
“300 pesos,” dice.
“Ma sono troppi,” Ric. In realtà è solo l’equivalente di 20 euri, ma non
vogliamo farci impaccare.
Ad ogni modo rimaniamo d’accordo che ci viene a trovare alle otto e
mezza in punto alla posada Santiago. Per noi c’è giusto il tempo di tornare
a casa, farci una canna, scendere giù a mangiare, e farci un’altra canna. Una
vita stressante, lo so, ma siamo in vacanza.
Dopo una canna sul balcone siamo pronti per uscire. Bisogna decidere
dove andare a mangiare. Ric e Rosi non si sono ancora ripresi del tutto.
Stavolta mandiamo a fare in culo Montezuma e le maledizioni annesse.
Abbiamo scoperto il trucco. Chiedere cibo, asado o alla plancha, senza,
assolutamente senza, picante né salse di qualsiasi tipo. Inoltre fidarsi dei
ristoranti dove la cucina è a vista, e ti puoi rendere conto di cosa
combinano, e maggiormente fidarsi dei posti dove trovi tanti stranieri.
Mica possiamo fare ingrassare più del dovuto quel maiale untuoso del
dottor Bonilla.
Sotto casa ottimo ristorante. Non tanta gente, ma è prestissimo. Sono le
sette e mezza di sera. Solo una coppia di vecchi europei seduti in un
angolo. Una cenetta romantica per loro. Noi ci sediamo e siamo pronti a
combattere. Spolveriamo le nostre bistecche e ci facciamo piattoni
enormi di insalata. Innaffiamo il tutto con la solita birra Sol. In attesa della
fame chimica.
Ric fa al cameriere: “Se non ci sentiamo male, ritorniamo di nuovo.” Il
cameriere sorride, convinto che Ric abbia fatto una battuta.
Il ristorante è proprio sotto casa. Finiamo di mangiare in neppure dieci
minuti. Anche Rosi ci dà dentro più del solito. Poi saliamo di nuovo su.
Canovaccio solito ormai. Canna sul balcone, in attesa di Miguel, che non
tarderà ad arrivare. Nessuno è più puntuale di uno spacciatore. La gente
di Konisberg puntava gli orologi sulla passeggiata di Emmanuel Kant e sullo
spaccino del luogo, ovviamente. Se ha detto alle otto e mezza in punto,
Miguel arriverà alle otto e mezza in punto.
Intanto siamo a quota due canne. La fame comincia a mietere le prime
vittime. Languorini provengono dal mio stomaco da struzzo.
“E se scendessimo giù,” fa Ric, “a fare una visitina al ristorante.”
Pare essersi rimesso in forma. In un solo giorno. Bene. Può avere
soltanto la mia approvazione.
Cucina a vista. I clienti adesso sono aumentati. La coppia in fondo alla sala
si accorge della nostra venuta. Sono ancora lì, loro, a gustarsi la cenetta
romantica. Il cameriere non crede ai suoi occhi. Pensava realmente che
scherzassimo. Uomo di poca fede.
“Abbiamo venti minuti di tempo,” faccio, “cerchiamo di masticare almeno
stavolta.”
Dieci minuti e siamo pronti per l’appuntamento con Miguel. Puntual
arriva alla nostra posada e noi siamo lì, ad attenderlo. Solo che non ci va
di farlo salire in camera, fumarci una canna con lui, e poi andarci a bere
una birra fuori, come ci aveva palesato prima. Vorremmo mantenere
rapporti professionali con Miguel. Perciò scendo e gli invento una palla.
“Abbiamo due ragazze di sopra,” esplico. “Facciamo la storia.”
Miguel è contrariato alquanto. “Non qui,” dice. E usciamo fuori dalla
posada.
Cominciamo a girare per le vie del paese, gravide di paranoie come la mia
mente. Perché mi sembra che il buon vecchio Miguel voglia indicarmi a
dito a tutta la sbirraglia del luogo? Passiamo da tutti i locali, e in tutti i locali
mi sento osservato.
Miguel comincia a fare discorsi da tossico. “A quanto è la Maria in Italia, e
la bamba soprattutto, quanto costa in Italia?”
Le solite stronzate che interessano agli spaccini. “La coca a Milano sta a
100 euri a gr. Se hai i contatti la trovi anche a 80, quella buona,”
dottoreggio io, che non sono per niente un intenditore, tra l’altro.
Lui mi fa: “Comprala qui e portala lì allora.”
“E come faccio con gli sbirri,” protesto, “non mi va di infilarmi niente su
per il culo. E se putacaso scorreggio e mi si rompe il preservativo
nell’orifizio.”
Miguel sorride, ma non so quanto abbia capito del mio discorso in
italiano. Non faccio concessioni all’amico.
“Sei siciliano e hai paura degli sbirri?” mi fa.
“Piantala lì,” chiudo la questione, “ho problemi con la vaselina.”
E vorrei chiuderla veramente e fare la storia. Anche perché le paranoie
aumentano. Mi sta facendo veramente fare un giro senza senso. Dopo un
quarto d’ora buono di camminare, finalmente si stanca e dice: “Facciamo
la storia, ma non qui!” o almeno credo abbia detto così.
“Ti dico che alla posada non si può,” faccio.
Intanto siamo di nuovo sulla via Real de Guadalupe. Ric è affacciato sul
balcone.
“Chi successi?” chiede.
Miguel fa per entrare, e io lo precedo. Lo spaccino capisce che non è
proprio il caso di salire su. Guarda in su e vede Ric che fa la faccia
cattiva, quindi mi dà il sacchetto e io gli mollo i soldi.
Lo passo pari pari a Ric. Non ci si può credere. L’equivalente di 10 euri, e
ci ha dato almeno 20 gr di roba. Abbiamo amici, meglio non fare nomi,
che si trasferirebbero qui a vita. E magari non ci ha neppure trattato
troppo bene. Pazzesco comunque.
Immediate sono le canne successive, come la fame chimica incipiente. Sul
balcone, a parlare del Messico e delle sue contraddizioni. E a proposito di
contraddizioni, che bastardi siamo infine? Possiamo stare ore a parlare di
Chiapas e zapatismo. Subcomandante Marcos e comunità nella foresta.
Intanto da una parte gli indios muoiono di fame. Dall’altra noi fumiamo
sostanze che fanno venire la fame chimica.
E così quando siamo di nuovo al ristorante, da italiani manducatori, e
suscitiamo l’ilarità della coppia europea che si voleva fare una serata
romantica, e del cameriere che non crede ai suoi occhi, così, quando
siamo di nuovo al ristorante, penso:“Non è giusto pescare nel loro mare,
ma se non lo facessimo noi, lo farebbe qualcun altro, meno simpatico e
meno generoso di noi!” e di nuovo trangugiamo la roba, con tutti i Santi
Cristi, e le Vergini di Guadalupe che aspettano il 12 dicembre.
I FUNGHETTI DI PALENQUE
Viaggio allucinato in Chiapas. Da stamattina presto ci sballiamo. Intanto
attraversiamo posti di blocco a raffica. Noi con 20 gr di erba per 150
pesos. Sballatissimi e affamati. Sia lodato il dio dollaro, che impedisce agli
sbirri di fermarci ai posti di blocco. Portiamo denaro turistico, noi.
Ci fermiamo a uno spiazzale di sosta. Per colazionare. Bene. Con la fame
chimica che abbiamo. C’è un altro autobus scalcignato posteggiato nella
piazzola di sosta. Ne esce fuori una squadra di calcio, undici ragazzi che
rappresentano le speranze calcistiche del Chiapas.Vogliono farsi una foto,
stanno andando a Tijuana, in trasferta. Ric sorride e scatta foto a raffica.
Arriviamo ad Agua Azul. Atmosfera da Laguna Blu. Cascate a strapiombo
e alberi sparsi in angoli dimenticati di Paradiso. Intorno i turisti che
schiamazzano. Un buon luogo per farsi una canna. Nel lago più in basso,
giù, c’è il gioco di società preferito dalla gioventù del posto: una liana
appesa all’albero da cui si lanciano gli scugnizzi. Posto falso.Turistico come
pochi. I bambini vendono le loro paccottiglie e chiedono sempre a Ric
soldi per le foto.
Il tempo di fare un tuffo e andiamo via. A Misol Ha, altro giro altre canne.
Anche Misol Ha è bellissima, ma il tempo di mangiare e via. Incredibile
quanto tempo ti porti via lo sballo.
Mentre siamo in viaggio in autobus, alla volta di Palenque, evitando posti
di blocco, penso a due storielle. 1) Un pusher butta un pacco di droga dal
Canon del Sumidero. Se lo magna un coccodrillo che si sballa e diventa
un divoratore di uomini, in preda alla fame chimica. 2) Una famiglia di
indios in Chiapas. Il più piccolo vede passare un bus di turisti. Dal
portapacchi cade un pacco di roba proprio in prossimità delle feste
natalizie. Questa è una storiellina di natale, in tema al periodo.
Da Palenque abbandoniamo l’autobus per turisti e la compagnia.
Prendiamo una guida che ci spiegherà fatti e misfatti dell’antica civiltà
Maya.
Ignazio è un maya tipico. Scugnizzo. Bene in carne. Sorridente e ribaldo.
Con gli occhiali da sole calcati in viso. Ogni ragazzina che vede dice:
“Questa è la mia novia!” un maiale di altri tempi.
“Lo prendiamo assieme?” propongono tre donne in vacanza. Sono
siciliane dall’accento, si capisce bene. A noi sta bene. Ignazio comincia a
corteggiarle tutte e tre. Poi corteggia anche Rosi. Incorreggibile quella
guida.
A un certo punto Rosi si accorge che qualcosa non sta andando per il
verso giusto. È infermiera la ragazza.
Chiede a una delle donne siciliane: “Scusa, tu sei dottoressa?”
La signora la guarda stranita. Non è una domanda usuale nel bel mezzo
di una guida in piena foresta maya. “Sì, ma perché?” fa.
“Quello lassù, credo stia avendo una crisi convulsiva.”
In cima alla Piramide del sole c’è movimento. A marce forzate saliamo su.
Una ragazza bellissima, che avevo già notato prima, è china sul suo
ragazzo che, con la bava alla bocca, si agita.
Arrivano i dottori. Vengo chiamato a fare da interprete. Loro sono
francesi e me la sbroglio, poco, ma rispetto agli altri me la sbroglio. La
dottoressa mi fa fare un po’ di domande: “Quanto tempo conosci il tipo,
ti ha mai parlato di attacchi epilettici e via dicendo.” La ragazza è
sconvolta. Lo conosce solo da qualche mese. Non ne sapeva niente di
attacchi epilettici. Vuole essere rassicurata dalle dottoresse. Starei ore a
rassicurarti, bella mia. Veramente bona la tipa. Io sono interessato a lei, e
mi accorgo che Ric, dietro, arde dalla voglia di scattare una foto alla
situazione. Nessuno pensa al poveraccio rantolante in piena crisi. La
dottoressa gli tiene la mano con scarsa voglia. Anche lei, credo, abbia
voglia di continuare la sua gita.
La dottoressa, o pseudo dottoressa, non conforta per niente la ragazza.
Mi fa dire che va tutto bene, e di lasciare che si riprenda, da solo, sarà stato
il sole, ma non c’è da preoccuparsi, mi fa dire. La ragazza invece ha le
lacrime agli occhi.Vorrei tanto stare a consolarla.
Ignazio, la nostra guida, chiede una delle poche cose intelligenti
all’epilettico. “Mushrooms?” e gli fa il gesto di mangiare. È il caso che il
giovane si sia fatto di funghetti. Non è peregrino. Ma il giovane è ancora
sballatissimo, a seguito della crisi. Non capisce niente.
Continuiamo il giro. Ignazio seguita ad assumere l’aspetto professionale di
guida. Poi mi parla delle sue fidanzate. Ne tiene una in Norvegia, e una in
Messico. La ragazza seria è messicana, ovviamente. Ce la fa pure vedere,
al seguito della sua famiglia. Solo che Ignazio ha problemi con la famiglia,
che non lo ritiene una persona seria.
“E chissà come mai?”
Poi mi racconta che una volta in passato, a seguito di una delusione
amorosa, aveva preso la via dell’alcolismo. Era stato pure in clinica per
disintossicarsi.Vedi che storie.
Dopo un po’ un ragazzino viene a chiamarci. “Dottori, dottori!”
Be’, modestamente sono dottore in lettere, e Ric dottore in architettura.
Ma sono le dottoresse a esser reclamate. Chissà perché poi? La francese
è sempre più preoccupata, visto che il suo ragazzo non si ricorda niente,
e chiaramente la dottoressa non mi ha detto di dire alla ragazza di questo
stato di confusione. Aveva solo voglia di continuare la sua visita guidata,
lei. Ignazio continua a divertirsi e propende per la tesi dei funghetti. La
ragazza ha le lacrime agli occhi. Secondo me dovremmo passare la notte
con lei, assisterla in qualche modo.Vorrei propormi come volontario. Ma
la dottoressa è di altro avviso. Prima dice che non è niente. Poi dice che
forse è meglio chiamare un’ambulanza. Insomma, non so se è veramente
dottoressa.
Alla fine, in autobus, Rosi fa: “Forse era meglio non chiedere niente alla
dottoressa. Facevamo una figura migliore (come italiani) se ci andavo io
da infermiera.”
Probabilmente era la dottoressa a essersi fatta di funghetti. Io e Ric invece
continuiamo a sballarci di erba.
Impresa improba, finirla tutta.
PENISOLA DELLO YUCATAN
(QUINTANA ROO)
GRINGOLANDIA
Stamattina la giornata inizia con i peggiori auspici.
Ric mi fa: “Fallo tu, io non ne ho il coraggio.” So a che si riferisce. Bisogna
buttare la roba, anche perché così carichi non ce la sentiamo di andare in
aeroporto.
Negli ultimi giorni ci siamo sottoposti a un rigido regime di droghe
leggere, convinti di riuscire nell’improba impresa di finire 20 gr di mota.
Ma non ce la facciamo e stamane bisogna buttare l’erba avanzata, in un
cestino qualsiasi di questa città.
Stiamo in un alberghetto vicino alla stazione degli autobus. Scendiamo giù
e siamo pronti per andare a prendere il primo aereo alla volta di Cancun.
Ric ripete: “Iettala tu, ca un m’a sientu.”
Sono le sette. Siamo già svegli. Canna, doccia, altra canna di sola erba
come si usa qui in Messico, giusto per gradire, e poi taxi.
Dopo un viaggio in aereo senza storia atterriamo a Cancun. Un tassì ci
porta dritto a Porto Juarez, quindi a Isla de Mujeres. Il primo impatto non
sembra buono. Il tempo è il peggiore incontrato da quando siamo arrivati
qui. Nuvoloni e a tratti pioggia, ma lo ripeto: la giornata era iniziata sotto
i peggiori auspici.
Il primo hotel che troviamo è tristissimo, l’Hotel Caballero Il proprietario,
impigrito fino all’osso, ci propone volantini di attività, snorkelling ed
escursioni varie, senza troppa convinzione. Non ci crede neppure lui.
Il luogo è deserto. Un alberello di natale da cui fuoriesce una insulsa canzoncina a tema acuisce la sensazione di tristezza.
Prendiamo possesso della stanza. Il livello di rozzaggine nei riguardi di Rosi,
e l’insofferenza, sta raggiungendo il suo apice.
“Rosi” fa Ric “Se vedi nnu strunzu nlu cessu, è mia. Un si po’ tirari l’acqua.”
Lei accusa i colpi benissimo. Adusa ai gentiluomini. S’addorme, mentre noi
usciamo. Un tizio dall’aria furba ci vende due grammi di mota a 200 pesos.
Protestiamo di venire da Cristobal de las Casas, ed essere abbastanza
sgamati, non ci può trattare così. Non funziona, cala il prezzo di poco.
Arriviamo all’hotel e facciamo spesa, sempre per la fame chimica che non
tarderà ad arrivare. L’erba sarà trattata con ammoniaca perché dopo
siamo a pezzi. Domani dobbiamo trovare un posto migliore.
UNA NUVOLA DI FUMO
Isola delle femmine. Anche in Sicilia c’è, ma tutta un’altra cosa. Qui si
sprigiona in tutta la sua magnificenza, in tutte le sue femmine. Ragazze
ovunque. Sole, aria rilassata, mare.
Affittiamo una macchinetta elettrica dove carichiamo armi e bagagli.
Quindi cerchiamo un ostello. C’è ne sta uno proprio in riva al mare, ma
ci rifiuta, perché è pieno. Peccato, era anche vicino al centro.
Approdiamo al secondo ostello, il regno di Pancho, un panzone cileno che
ci accoglie in canotta untuosa e pantaloncini macchiati di sugo. Ha
agganci, o millanta di averli, in tutta l’America Latina. L’Hell Hostel,
sistemazione in dormitorio, doccia e bagno comune, ambiente
internazionale, musica lounge a tutte le ore. Si parla più inglese che
spagnolo.
Pancho ci mostra il fumoir nel disimpegno interno. “Per la mota” precisa,
come se ce ne fosse bisogno. “Si tu quieres, habla commigo,” aggiunge
rivolto verso Ric.
Sistemo la mia roba. Nel letto sotto di me sta Tal, un israeliano,
ventiquattro anni, in viaggio da otto mesi per le americhe. Puzza e
scorreggia. Non si lava da otto mesi, probabilmente. Poi c’è un’altra Tal che
mi avvince, un’australiana di Sidney, sorridente e vitale, sta nel dormitorio
accanto al nostro. Flirta con tutti e di conseguenza anche con me. Mi dice
di essere già stata in Italia e di aver avuto un “novio” di Livorno. Fa la
stupidina ma è fica. Così le due amiche, ambe australiane, una bionda, di
nome Karen, la mia preferita di gran lunga, l’altra Kim, giappoaustraliana.
“It’s the same name of Kipling’s novel,” snocciolo una boria e un’inutile
erudizione che suscitano un sorrisino di circostanza da parte delle
ninfette. E sorrisi, saluti e svenevolezze in questi due giorni si sprecano.
Ammiccamenti, ma senza approdare a niente. Non sono certo tomba di
femmine. E lo dimostro anche in questo frangente. Magari le fanciulle ci
potrebbero pure stare, ma manca quel quid essenziale. Quale?
“Essere l’unico uomo in un’isola deserta circondato da tre affascinanti
australiane, magari ninfomani, per esempio?”
Lo sballo intanto ci chiama. Abbiamo bell’e capito che piega ha preso il
viaggio.Ti pareva? Pancho propone un affare. Ci vende la sua erba. Sempre
150 pesos vuole il bastardo. Entriamo nella sua stanza assieme al socio del
pancione cileno, un altro israeliano, di merda aggiungo, di nome Christoph.
“Business is business,” sento che sogghigna appena combiniamo l’affare.
Israel ha la faccia da bastardo dentro. Si atteggia a viaggiatore, uomo di
mondo, e si mette a fare giochetti del cazzo. “I guess two hundred pesos
it’s right,” dice a Sancho Pancho per alzare sul prezzo.
“No, 150 it’s enough.”
Poi ci mettiamo fuori a farci una canna, assieme agli altri. C’è anche Karen,
l’australiana bionda, bellissima, che ti ammicca come se te la stesse per
dare da un momento all’altro quando le passi la canna. Christoph intanto
fa l’uomo di mondo. Non ci fa caso alla morte, lui. In Israele è normale.
Morire come vivere. E allora muori, bastardo. Fa lo spaccone solo perché
è nato in Medio Oriente.
“Non ho paura di morire, vivo ogni giorno come fosse l’ultimo. Può
succedere da un giorno all’altro.” Intanto sta qua, a fare il galletto da
spiaggia, fottendosi una fanciulla ogni tanto. Non è una brutta vita del
resto. Stimola pensieri antisemiti. Che Hitler abbia vissuto una situazione
analoga?
“Adesso dopo la morte di Arafat e la costruzione del muro è tutto più
tranquillo,” dice,“ma la vita là è sempre dura.” Fa troppo il gradasso. Come
se io e Ric ci mettessimo a raccontare storie del tipo “Giù in Sicilia, con
tutti gli attentati di mafia che ci sono, la vita umana non conta niente,” e
fare gli smargiassi pure noi. Non ci stiamo a fare giochetti così idioti. E poi
Karen non può certo cascarci, non dopo gli ammiccamenti continui che
mi fa ogni volta che la guardo da maniaco.
Pancho ci dice che c’è una festa sulla spiaggia stasera, proprio all’ostello
che ci ha rifiutati.
“Fieste e sole!” ridiamo con Pancho. È una vita dura.
“È una vita dura ma qualcuno la deve fare,” fa lui.
Ric mi fa: “Ti va un’altra canna?”
Che deve rispondere un povero cristiano? La vado a prendere nel
dormitorio.
Karen è la più bella di tutte. La incontro mentre esco dal dormitorio. La
bionda dal sorriso bellissimo che m’avvince. Devo trovare una stronzata
da dirle
“Carin-a means nice,” le dico e lei arrossisce. Un poeta sono. E
chiaramente lei soccomberà. Poi festa in spiaggia. Recuperiamo Rosi e ci
sbafiamo un mare di pesce, quindi ci catapultiamo. Purtroppo la serata si
risolve in un niente di speciale. Canne, tequila e mezcal. Mentre lo butto
giù, con limone e sale, mi accorgo che sa di vermi appallottolati. Quelli che
in Sicilia si chiamano Sant’Antonio, i “mangiamerda”, e si trovano dopo
burrasche e piogge, quando dalle agavi sicule si spande il loro afrore. In
effetti alla base del mezcal ci sta proprio un verme, che magari è molto
simile a quellosiciliano. Un pensiero che mi piace seguire, visto che la
musica non mi prende, e non mi lascio andare. Neanche Ric e Rosi mi
sembrano abbastanza presi. Così torniamo all’ostello.
Ric mi confida che Karen è anche la sua preferita. Stessi gusti da
occidentali decadenti. Al nostro ritorno una brutta sorpresa ci attende. La
troviamo seduta sulle gambe di Christoph, la zoccola. Se la fa il bastardo
israeliano ovviamente, l’uomo di mondo.
Va be’, ci facciamo i cazzi nostri e andiamo a farci la canna della
buonanotte nel fumoir. Dopo un po’, come fosse un cane da tartufo, viene
Pancho.
“Mota?” si avvicina timidamente.
Ovviamente lo invitiamo a condividere, da siculi generosi qual siamo.
Purtroppo appresso viene anche Christoph, il bastardo, che già nel
pomeriggio si era distinto per essere un maledetto scroccone
micragnoso. Del tipo: “Quello che è mio è mio, quello che è tuo, è mio.”
Uno di quelli che credono tu muoia dalla voglia di fargli i favori. Uno
Stradlater, quelli che il giovane Holden non poteva soffrire.
Viene anche Karen almeno, che allieta la vista coi suoi sorrisi e i suoi
ammiccamenti. Mentre parliamo ti vado a scoprire che Christoph
neppure lo mastica troppo bene l’inglese. Non in maniera eccelsa. Meglio
di me sicuramente, ma non di troppo. Si vede bene quando è sballato e
non riesce a mettere due parole in fila. Karen è proprio sprecata con lui.
La ragazza mi fa delle domande, ma anche io purtroppo da sballato non
sono Lord Byron. Non posso risponderle in maniera adeguata,
principessa, nobildonna, Augusta, fosse anche la mia sorellastra me la
tromberei.Ventidue anni, di Sidney. Parte domani, ha origini ebree. E io che
dopo aver conosciuto Christoph stavo diventando antisemita, ritratto
subito. Studia economia ed è bellissima, forse mi ripeto.
Però dopo un po’ va in un’altra stanza, con un’altra persona. A trombare
come ricci probabilmente. Qui rimaniamo io e Ric, a fumare con Pancho.
A parlare di minchiate. Ci va di lusso, beninteso. Il gestore dell’ostello non
è un bastardo come chi sappiamo. Offre una canna per ricambiare la
nostra simpatia, metà erba, metà hascisc, alla messicana. La fa rollare a Ric
perché non ha tanta agilità nelle dita. Ric invece è un ingegnere in questo.
Ci spiega come funziona l’ostello. La proprietaria è una certa Angela.
Lui, Christoph e Lella, una ragazza mulatta, grassottella, piccola e bruttina
ci lavorano solamente. Dà una mano anche un certo Manuel, un altro tizio
che ancora non abbiamo visto.
Poi Pancho si mette a mangiare. In maniera bulimica come fa sempre. E a
parlare in un mix di spagnolo-inglese. Anche lui non è quella gran cima
nelle lingue, tutt’altro. Ci dice di avere 42 anni.
“Ti mantieni bene,” facciamo noi.
Comincia a enumerare le regole per mantenersi giovane: marjuana,
tequila e fica, a quanto pare. E di fica si mette a parlare poi, raccontando
due storie, millantando credo. Porta un giornale e ci sta una foto in
copertina. Una bionda parecchio fica.
“Ti sei fatto lei?” chiediamo.
“No,” fa lui, però se ne fece una identica. Si chiamava Sally, e veniva dagli
Usa, cosa che non deponeva a suo favore. Aveva anche un ragazzo ma lo
cornificava con Pancho.
Poi racconta di un’altra statunitense, l’unico vero amore di Porno Pancho,
una ragazza di nome Julia, perfetta, con un solo difetto. Era lesbica.
Pancho dice di esserci stato abbastanza. Passa la canna. Sappiamo bene
cosa succederà l’indomani. Le australiane andranno via. Le saluteremo
all’italiana. Da romantici. “Karen, stay here, resta aqui, sei bellissima,” le
diremo a più riprese, e amenità simili. Karen arrossirà e mormorerà
qualcosa sul romanticismo degli italiani.
La nostra fortuna è che non sei una telepate dolcezza, e puoi continuare
a pensare agli italiani come un popolo di romanticoni che si sdilinquiscono
di fronte alla bellezza, fra una gita in gondola cantando a squarciagola “O
sole mio,” e una passeggiata al Colosseo con la luce dorata del tramonto
alle spalle. Ignori i pensieri lubrichi, elaborati su te e su una tua ipotetica
sorella ninfomane, e bellissima come te, nella splendida cornice della villa
del tuo miliardario padre australiano. Le performance a tre nella jacuzzi,
grande come una piscina, immersa nel deserto. Non sai quali pensieri
malati può partorire la malata mente di un italiano. Non sai piccola Karen
quanti film porno ho avuto l’occasione di visionare nella mia vita, non sai
che ti contemplo come oggetto di piacere e quando ti guardo ammirato
è più un’emozione meccanica, legata alla tua potenziale funzionalità
sessuale, anziché una mera contemplazione estetica.
Tira più una tetta di una carretta, Alì Babà e i 40 guardoni, Alla randa non
si comanda, Alle dame del castello piace fare solo quello, La fica è bella,
Analcord, Un pesce per Wanda, Attrazione rettale, Biancaneve e i sette
nani negri, Bocchaontas, Cazzi driver, Eiaculazione da Tiffany, Il glande
freddo, Il senso di Smilla per la fava, Incontri ravvicinati del terzo dito, Mary
Pompins, Mio marito davanti, di dietro tutti quanti, Siluri neri per bianchi
sederi Lungo lungo, duro duro, tutto dentro e Puttana davanti...troia
dietro, Pensavo fosse amore, invece era un paletto,Tettanic, 00tette, la spia
che mi chiavava. Tutti film visti e rivisti, che hanno segnato infanzia e
adolescenza. Macinati. E tu credi di avere a che fare con romanticoni?
Intanto stai con Christoph, e noi siamo qui, a pensare ai film porno.
Pancho mi ripassa la canna.Tutte le femmine di Isla de Mujeres svaniscono
in una nuvola di fumo. Come i sogni.
SOUTH AFRICAN PEOPLE
Mattina. Dal barbiere.Ambiente essenziale e colorato, muri verdi, poltrone
rosse, lerciume dappertutto. Mi accomodo sulla poltrona, diciamo pure
sulla sedia. L’uomo barba mi si avvicina minaccioso. Gli faccio cambiare la
lametta da barba, ma non so se serve a granché. Dopo il tifo, la malaria,
adesso la paura di beccarmi l’AIDS. Ci mancava solo questa.
Per il resto il barbiere usa pochissima acqua e quasi niente sapone.
Divertente quando mi disinfetta, uno spray di tequila che elargisce a
profusione.
“Ratito divento borracho” faccio.
E lui ripete: “Borracho” e si mette a ridere.
Senza acqua, senza schiuma, solo zappone e tequila. Fa una barba a
regola d’arte che neppure in Sicilia. Appresso è il turno di Ric. Dopo
siamo belli lindi, pronti a esser baciati da Febo.
Rosi aspetta fuori dall’uomo barba. Sa quali sono i posti che può
frequentare. Brava ragazza.
Siamo con Rosi stesi al sole. Si parla di maschi. Come al solito senza mezzi
termini.
Ric le dice che è una puttana. Anche io rincaro la dose.
“Sono tutte bagasce le donne.” Rimango sul vago perché sono uno
scrittore. Non posso pensare a una fica in particolare. “Il povero JP ieri è
rimasto tutta la sera ad annoiarsi accanto a te alla festa, senza spiccicare
parola, e ora tu, vedi un tizio in barca a vela, con un tatuaggio, l’aria da
maledetto, e la vuoi dare a lui?”
“E al povero JP non ci pensi? Dopo che gliel’hai fatta odorare da un
fottio di tempo? Profumiera!” le fa Ric.
Antefatto. Ci sono due sud africani che vivono a Londra. Simpatici e basic.
Du’ bravi guaglioncelli che si sono fatti infinocchiare pure loro dall’erba del
buon Pancho.
Si chiamano Steve e JP, due personaggi! Sembrano usciti da un campus
universitario americano. Fatti con lo stampo. Fisico atletico, allenato da
anni di sport, sorriso stampato in faccia, disponibilità e cortesia, modi
diretti. Sono precisissimi.
JP è da un po’ che ci prova con Rosi, ma la ragazza, pur sentendosi
lusingata, fa la ritrosa. Ieri siamo andati con un amico di Pancho, Carlos, a
fare snorkelling nella sua barca a vela. Carlos è spagnolo, tre anni fa in
Florida ha comprato questa barca a vela, e ora sbarca il lunario portando
i turisti minkias come noi a osservare pesci che si fanno i cazzi loro e
minchiate simili. Si atteggia anche lui a maledetto, ma è più simpatico di
Christoph. Una vera farsa è invece l’aiutante di Carlos, tal Pedro, originario
di Bogotà, Colombia, che ieri ha vomitato tutto il tempo, reduce da una
festa pazzesca.
Mentre mangiavamo del buon pesce in barca, Rosi faceva la stupidina con
Carlos, alla faccia di JP, che le sbavava dietro da un sacco di tempo.
Va be’, io e Ric però non ci stiamo il tempo a mare, a non fare un cazzo
e indagare sulla vita sentimental sessuale di Rosi. Uno dei nostri progetti
era anche quello di vedere l’intera isola. Ieri abbiamo fatto il periplo con
la barca, oggi vorremmo affittare due scooterini e girarcela tutta su due
ruote, come Che Guevara e Alberto Granado.
Rosi si nega. Dice che vuole farsi bella per JP. Che stasera gliela darà
finalmente. Rimane a rosolarsi al sole. Io e Ric andiamo dall’affitta
ciclomotori.
Easy Rider ci fa le pippe. Allegramente, col sole in faccia, ci partiamo da
Playa Norte, dove sono le spiagge più belle, e ci dirigiamo a Sur. Sulla
mappa che ci ha dato l’affitta moto sono segnate rovine maya, dedicate
alla dea Ixchel, la dea delle magliette grandi che si rimpiccioliscono dopo
il primo lavaggio in lavatrice. Stiamo in giringiro una fracca di tempo. E ne
perdiamo di tempo. Tanto che siamo in ostello solo a sera, dopo aver
riconsegnato gli scooter.
Doccia e chiacchiere con Rosi, sempre più lusingata dal suo JP.
Steve ha preso alcune birre, e le offre in giro. Con la spacconeria italiana
io e Ric sfidiamo i sudafricani a biliardo. Loro sono sempre inappuntabili,
col loro appiombo inglese.
Dottoreggio con Ric: “Non hanno storie, dove cazzo l’hanno visto un
biliardo in SudAfrica.”
“Giusto in qualche safari,” fa Ric. “Abituati a giocare con le scimmie.”
“No Pasaran,” infine, per citare le parole di Octavio Paz.
Scendiamo giù in una sala biliardo vicino l’ostello. Steve prende due birre,
JP ingessa la stecca.
Inizia la partita. Steve spacca, poi è il mio turno, JP, chiude magnificamente
il giro Ric. Beviamo e giochiamo.
Dieci minuti. La partita dura dieci minuti. Umiliati. Completamente. E dire
che ci mettiamo tutte le nostre forze deretaniche.
Sti tizi del Sud Africa sono assurdi. Non c’è niente che non sappiano fare
meglio degli altri. Biliardo, snorkelling, equitazione, barca a vela, caccia,
safari, astronauti. Sono gentlemen, rispetto a noi che siamo rozzissimi.
Sanno vincere, e non ce le fanno pesare le sconfitte. Ci credo, sono
abituati a vincere.
Solo che guardandoli non lo diresti che sono così. Uno è bancario, l’altro
trader in borsa, compiti ed educati. Ridono, ma non ridono di noi, come
faremmo noi al loro posto, ridono con noi. Con questi italiani un po’
smargiassi che fingono di non saper perdere. Non sanno che è tutto vero.
Noi non sappiamo perdere. Bastardi. Siete anche voi sulla lista nera.
Assieme a Christoph. Non c’è quasi più spazio in questa cazzo di lista.
Poi andiamo a mangiare pesce in qualche ristorante nei dintorni. A JP non
pare vero di poter continuare di fare il filo a Rosi. La sera ci aspetta la
solita festa sulla spiaggia.Tequile, una dietro l’altra, e musica ad alto volume.
Canne come digestivo.
Nel tempo di dire un’Avemaria siamo sulla spiaggia, assieme a Pancho e
agli altri, a bere birre e tequile. Credo che la tequila sia parecchio
annacquata, perché me ne sparo dodici nel giro di due ore. Ric
chiaramente non è da meno.
Dodici tequile in corpo. Quando entrano dentro sento un pianto
provenire dall’interno, dalle parti del fegato. “Sciopero,” sembra dirmi.
Troppo lavoro.
All’inizio prendo per il culo l’intestino infilandoci sale prima, e limone
dopo, la bevuta tutta d’un fiato. Poi mi rompo le palle e seguo il consiglio
di Pancho.
“Es da macho” dice, e la beve tutta d’un fiato, senza niente, né prima né
dopo.
Io, Ric e Pancho, tipo Dante, Cavalcanti e Lapo Gianni, fiorentini in cerca
di sballo. “Pancho, i’ vorrei che tu, Ric e io...” Alcol, canne e cibo, non
necessariamente in questo ordine. Musica lounge sulla spiaggia e nel mio
bacato cervello da turista.
Dopo la quinta tequila Steve mi si avvicina e mi fa: “You’re a crazy man!”
Mai quanto voi, gioventù sudafricana, temprata a un sole molto più forte
del nostro.
Infatti io già fatico a tenere il conto delle mie, di tequile, ma Steve e JP ci
superano.Tequila come se piovesse, non si tirano mai indietro, ogni tanto
un mezcal, per spezzare. Niente, non accusano il colpo.
Sono sempre loro, con i modi compunti e poco casinisti, a guidare la festa.
Ritorniamo in ostello. Rosi dà forfait, è troppo stanca. Mi sa che neanche
stasera la darà al povero JP. Il sudafricano però non pare prendersela.
Continua a stare con noi maschietti nel fumoir.
A un certo punto se ne esce con una storia pazzesca.
JP complotta con Greg, uno svizzero alquanto appassionato di Guns &
Roses.
Poi Greg attacca lo stereo e ce li fa sorbire pure ora. Dopo mi fa “El es
muy loco per la mota.”
Non capisco a che si riferisca. Sì, JP si fa le canne, come tutti del resto. Che
vuol dire pazzo?
Lo capisco dopo il perché. Prima il sudafricano si mette a rovistare in
cucina. Poi se ne esce con un bicchierino di tequila e un sorriso
stampato in faccia. Rompe il bicchiere sulla parte inferiore. Inserisce un
foglio di giornale arrotolato nella cavità in modo da raccogliere insieme
erba e tabacco. Ha creato una rudimentale pipetta insomma. Gli brillano
gli occhi al vecchio JP. Fuma come un dannato, sballatissimo.
Il fatto è che a vederlo non ci potresti mai credere sia così sballato. Non
lo pensa nessuno.
Superiori in tutto. Steve è uno dei pochi a raccogliere l’invito di JP. Io e Ric
diamo forfait molto prima. Un bancario e un trader. Non l’avremmo mai
detto.
LETTURE DA OSTELLO
Ostello deserto stasera. La musica risuona nell’aere, ma nessuno in giro.
Saranno tutti alla festa sulla spiaggia. Noi stiamo qui, invece, a mangiare per
una volta tanto in maniera sana. Una bella insalata di pasta. Dentro c’è di
tutto: pomodoro, cipolla, tonno, rucola, mozzarella, tric trac e bombe a
mano. Fortunatamente Rosi non mangia tanto, e le porzioni per me e Ric
sono più abbondanti. Sappiamo già che di qui a qualche minuto arriverà
Pancho. O è l’odore della mota, oppure l’odore del cibo, lui queste cose
le sente.
Ric ha in mano la Lonely Planet, una lettura assurda se la fai da sballato. E
Ric si è sballato alla grande. È tutto il giorno che ci sballiamo, visto che
domani io e Rosi ce ne andremo, lasciando solo il nostro amico fotografo,
che continuerà un viaggio tutto suo.
“Pazzesco,” fa Ric. “Sentite che dice di Città del Messico.”
E noi ascoltiamo in silenzio, frammisto a riso goliardico, le buttanate che
hanno scritto i pavidi compilatori di quella parte di guida.
Un paragrafo a parte è infatti dedicato alla pericolosità dei taxi del D.F.
Secondo i compilatori un turista accorto dovrebbe vagliare una marea di
“input e output” prima di arrischiarsi a salire sul taxi. Se la foto del
conducente apposta in ogni taxi autorizzato corrisponde effettivamente
alla persona che guida, se il nome è lo stesso, se il taxista è eterosessuale,
se siamo certi che non sia un terrorista arabo, se sia frutto di una
fecondazione non eterologa e via dicendo.Tutte accortezze che noi non
abbiamo seguito. L’unica cosa che abbiamo fatto è infilare un
centocinquanta pesos nel passaporto. In caso di controlli l’accorto e
corruttibile funzionario messicano ci avrebbe lasciato in pace. Poi per il
resto non siamo stati troppo attenti ai furti vari e/o eventuali.
Un altro paragrafo che ci fa scompisciare dalle risate è stato scritto
appositamente per i lettori canadesi e statunitensi. Non riusciamo a
comprendere per quale oscura ragione appaia anche nella guida in
versione italiana. Il paragrafo su come i ricchi capitalisti occidentali
possono fregare i poveracci selvaggi del Messico. In pratica in Messico
organizzano queste aste immobiliari, che si risolvono con lauti banchetti e
bevute. Chi è interessato a parteciparvi deve solo presentare un
passaporto rilasciato dal Canada o dagli Stati Uniti, presentarsi come
probabile compratore, e fingere di voler comprare. Dopo di che le porte
gli si schiudono. Mangia e beve a gratis. A pennello come si suol dire. Arte
degenerata. O forse è la mota a farci sentire maggiormente l’ingiustizia di
una tale situazione.
Intanto stiamo qui, a tirare le somme di un viaggio che tutto sommato è
andato. Sarebbe potuto andare in maniera diversa, ma è inutile pensarci
ulteriormente.
Ore e ore a discutere sul Messico.... in attesa di abbandonarlo.
progetto grafico riccardo scibetta nino lombino
stampa fotografie diana molino
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© 2005 riccardo scibetta, cammarata