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Sebastian Barry
A LONG LONG WAY
USCITA NOVEMBRE 2007
Una storia profondamente commovente
di coraggio e fedeltà.
J.M. Coetzee
instar•libri
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Dublino: una città, un libro 2007
A long long way di Sebastian Barry, finalista
del Booker Prize 2005, è il libro dell’anno 2007 per la città di Dublino.
La manifestazione, promossa dal comune
della capitale irlandese, seleziona un libro
che diventa per quell’anno il «simbolo»
della città.
Come tutta la sua generazione,Willie, il protagonista del romanzo di Sebastian Barry,
nasce nel momento sbagliato, nei «giorni morenti» del secolo, fatto che lo rende abbastanza vecchio per arruolarsi volontario allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Nasce anche nel posto sbagliato, in una Dublino in preda a tensioni politiche che
sarebbero scoppiate con forza devastante nella Sollevazione di Pasqua del 1916.
Willie e gli uomini come lui vanno in guerra a combattere non tanto contro i tedeschi
quanto per il loro Paese, per poi scoprire che il nemico più temibile viene dai loro stessi ranghi e che l’Irlanda in cui hanno creduto si è dissolta dietro di loro come neve al sole.
«A long long way ricrea l’esperienza di una breve vita annientata in questa guerra
con un linguaggio che è al tempo stesso ipnoticamente lirico e vividamente immediato.»
The Guardian
«Con disarmante lirismo, il romanzo di Barry conduce il lettore in un’infernale
terra di nessuno, dove l’autentica follia della guerra viene sentita piuttosto che
detta.»
The Observer
«Il cuore del libro è semplice: a uomini comuni, dotati di una comune dose di coraggio, fu
chiesto di fare una cosa impossibile, la fecero, e non furono ringraziati né onorati come
avrebbero dovuto essere.»
Sebastian Barry
“
N
acque nei giorni morenti.
Il 1896 stava avvizzendo. Lo chiamarono William, in ricordo dell’arcidefunto re degli Orange, perché suo padre era un cultore di quella storia lontana. E poi c’era un vecchio prozio, William Cullen, che viveva ancora a
Wicklow, oltre le montagne, come solevano dire, dove era cresciuto anche
suo padre.
Il nevischio tormentava i vetturini dublinesi che aspettavano nei mantelli
schizzati di fango davanti alla Round Room, in Great Britain Street. La facciata di pietra del vecchio edificio, con le bizzarre decorazioni di teschi di
bue e drappeggi, restava indifferente.
I bambini appena nati strillavano tra gli spessi muri grigi del Rotunda Hospital. Il camice bianco delle infermiere si macchiava di sangue come il
grembiule di un macellaio.
William era un neonato piccolo, e sarebbe stato piccolo anche da ragazzino. Pareva il braccio magro di un mendicante attraversato da qualche misero ossicino, precario e nudo.
Quando si staccò da sua madre cominciò a miagolare come un gatto ferito, e sembrava non smettere più.
Quella notte ci fu una bufera che non sarebbe passata alla storia. Tuttavia
strappò le ultime foglie alle querce maestose del vecchio giardino dietro l’ospedale, e sospinse il suo bottino bagnato lungo i canali di scolo, negli scarichi spalancati, fin dentro i meandri sconosciuti delle grandi fogne. Lì confluivano anche il sangue dei parti e i molti fluidi dell’umanità, ma il mare salato di Ringsend accoglieva tutto senza distinzioni.
La madre se lo attaccò al seno con la volontà esausta che trasforma quasi
tutte le madri in eroine. I padri si tenevano alla larga e bevevano birra allo
Ship Hotel. Il secolo era vecchio e spossato, eppure gli uomini parlavano di
cavalli e di tasse. Un bambino appena nato non sa nulla, e Willie non sapeva
nulla, ma era come un frammento di canzone, un punto di luce nell’oscurità
gelida, un inizio.
Il destino dei ragazzi d’Europa nati a quei tempi, o più o meno a quei tempi, russi, francesi, belgi, serbi, irlandesi, inglesi, scozzesi, gallesi, italiani, prussiani, tedeschi, austriaci, turchi (ma anche canadesi, australiani, americani,
zulu, gurkha, cosacchi e tutti gli altri), era scritto in un capitolo molto crudele del libro della vita. Milioni di madri e milioni di litri di latte materno,
milioni di piccole frasi insulse e parole infantili, di scappellotti e baci, di maglioncini e scarpine, venivano accatastati nella storia in grandi mucchi di macerie al suono di una musica violenta e sincopata, vicende umane raccontate invano, per finire in cenere, per il divertimento della morte, scaraventate
sull’immenso immondezzaio di anime, milioni di ragazzi, ciascuno con la
propria indole, triturati dalle macine di una guerra che si avvicinava.
”
Lei scrive con grande autorevolezza sulla guerra di trincea nel corso del primo conflitto mondiale. È cresciuto sentendo storie su questo argomento? Ha fatto molte ricerche?
Il nonno di mia moglie era nel Royal Army Medical Corps durante la guerra e tornò a casa sano e salvo. Mentre lavoravo ho tenuto sulla scrivania il suo manuale del soldato, ancora integro. Anche mio nonno vide la fine
della guerra nella British Merchant Navy, quando aveva appena sedici anni. Molte delle canzoni che cantava erano della Prima guerra mondiale e gli piaceva cantarle, così quando ho fatto ricerche su queste canzoni ci ho
sentito dentro la sua voce, specialmente in It’s a long long way to Tipperary, e questa è la ragione per cui l’ho scelta per il titolo del romanzo.
Il suo libro rientra con grande merito nella tradizione della letteratura di guerra. Quali autori
hanno influenzato la sua scrittura?
Dal punto di vista di un irlandese ci sono ambiguità e contraddizioni nell’idea stessa di letteratura di guerra:
quale guerra, quale tradizione, quale letteratura? Mi è sembrato necessario raccontare la storia dei soldati irlandesi e, per quanto è possibile, farlo con la loro voce. È il libro di Willie Dunne e di altri ragazzi.
Sicuramente mi hanno influenzato Crane e Hemingway. Sono sempre stato affascinato dal ritmo della scrittura
di Hemingway, la sua prosa è così moderna, così immediata. Il segno rosso del coraggio di Crane è un libro che
canta. Ho tenuto nella mia macchina come un talismano (questi sono gli azzardi dello scrittore superstizioso…)
Niente di nuovo sul fronte occidentale, un libro perfetto.
Lei è molto sensibile alla musicalità del linguaggio e del ritmo nei discorsi. Pensa che il modo in cui
una cultura usa il linguaggio influenzi anche il modo in cui la gente pensa, percepisce e agisce?
Sì, lo penso. In una società povera come un tempo è stata l’Irlanda, tutto può crollare e diventare debole. Ma
da noi la ricchezza si rifugiava nella lingua, come se fosse stata oro setacciato dal fiume della povertà e della cattiva sorte storica. Il linguaggio che ci è stato trasmesso è una ricca eredità, sebbene venga da un’epoca povera.
Come la lingua, la musica era spesso fatta di cose semplici: cucchiai, pelli tese sui telai, voci, ossa, piedi che tengono il tempo. C’è qualcosa di tutto questo nell’inglese d’Irlanda. È stato spesso notato dai soldati di altre nazionalità quanto i soldati irlandesi fossero allegri, forse non intendendo appieno che l’imperativo irlandese di lasciar correre la lingua era per loro una responsabilità. Una forma di coraggio. Per dare coraggio. Molti soldati
irlandesi non furono mai così ben nutriti e in forma come dopo cinque mesi di addestramento militare, perché
venivano da posti in cui cibo e medicine erano scarsi, ma si portarono dietro il loro linguaggio come una ricchezza segreta, una vera fonte di benessere. Avrebbero potuto fare a meno di cibo decente, ma mai del loro
gergo e del loro modo di canzonarsi. Questa è la ragione, secondo me, per cui far passare sotto silenzio un episodio come questo della storia irlandese è un’aggressione a una possibile verità perduta e a quella sorta di rifugio che è per noi la lingua.
I passi del libro in cui si parla della ribellione e della reazione confusa e divisa che provocò tra i
soldati possono far pensare alla guerra del Vietnam. È una scelta voluta?
Nel 1973, a diciassette anni, attraversai l’America in autostop.Vidi molti veterani agli angoli delle strade. Mi chiedo spesso che cosa ne sia stato di loro. Sapevo della grande protesta contro la guerra, anzi, faceva parte della
nostra cultura giovanile in Irlanda. Ma dopo la Prima guerra mondiale c’erano centinaia e centinaia di uomini
sotto i ponti di Londra. Non ci fu nessuna casa per gli eroi. In Irlanda gli ex soldati venivano spesso evitati, a
volte uccisi, molti furono rinchiusi in prigione. Ho portato con me queste visioni di uomini che erano tornati
dal Vietnam, che avevano dato tutto quello che avevano, la loro gioventù, e avevano fatto ritorno in un Paese
cambiato, che non aveva intenzione di onorarli, e spesso neppure di vederli.
Da un’intervista a Sebastian Barry, www.us.penguingroup.com.