Leggi il quarto capitolo dell`opera in traduzione italiana

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Leggi il quarto capitolo dell`opera in traduzione italiana
Risguardi — Scouting editoriale
Dany Salvatierra, Perù
Eléctrico ardor
Estruendomudo, Lima, 2014
Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Barca
Quattro
Il bambino ululava come se lo stessero squartando vivo. Pensai che i piccioni fossero riusciti a
vendicarsi di me e che lo avessero assalito per strada, sforacchiandolo fino a sezionargli l’addome,
spargendo a una a una le sue viscere nel cielo e volando ognuno con un organo nel becco,
disperdendo la sua emoglobina tra le nuvole.
All’inizio non sentii le sue urla. Ero lontano dalla finestra. La notte prima avevo terminato di
riempire le pagine del mio ultimo quaderno e lo avevo portato nella libreria, sistemandolo in uno
scaffale accanto agli altri manoscritti. Dovetti ingaggiare un corpo a corpo con i sacchi della
spazzatura che si ammassavano come mostri nel corridoio. Mentre tornavo in cucina, la voce di
Rodrigo mi paralizzò sulla soglia della porta.
Sentii le sue urla appena girai l’interruttore. Venivano da fuori, dalla strada, dalle inferriate
che tenevo sempre chiuse a chiave. Contai, a sangue freddo, i cinque secondi che le mie gambe
impiegarono a reagire. Mi ci vollero altri tre secondi per raggiungere la finestra, consumato dalla
tachicardia, sicuro che mi sarebbe venuto un infarto.
Rodrigo si torceva e i suoi strilli mi straziavano l’anima. Si era rovesciato su un lato, con la
carrozzina e tutto, sul marciapiede di casa mia. Lo sterzo, tagliente, gli schiacciava il braccio.
Rischiava di amputarglielo e il suo sangue bagnava il manto stradale fino a inzuppare le erbacce.
Retrocedetti per aprire la porta, ma fui frenato dal terrore. Impossibile, Prudencio. Il mio corpo era
immondo. Mi presi la testa tra le mani, con l’impressione che passassero le ore mentre giravo in
tondo, senza sapere cosa fare.
E ora come cazzo esco?
La cosa peggiore erano le mie mani. Mi precipitai in bagno per togliermi la sporcizia con il
tagliaunghie, come quando ero un signore che presiedeva le cerimonie del Partito. Mi strofinai la
faccia con il sapone, spruzzandomi tutto il profilo modificato dai chirurghi plastici e mi diressi di
corsa all’armadio. Agivo come sotto l’effetto di un sisma. Mi stappai di dosso i pantaloni del
pigiama, ne indossai un paio blu, orribili, una camicia bianca altrettanto orrenda (lurida, oltretutto),
e un paio di scarpe in finta pelle impolveratissime e, chiaramente, ancora più orrende.
Tornai in cucina alla velocità della luce e mi fermai due secondi davanti allo specchio. Il
risultato era molto peggiore del maiale allo sbando che vi si era riflesso qualche minuto prima. Con
tutto ciò, il maiale aprì la porta e corse, trafelato, con le braccia aperte incontro a Rodrigo.
— Vediamo, su, piccolino, non si piange, dai, non è successo niente, dammi la manina, non
aver paura, non ti fa male niente, lo vedi?, bravo, ma che coraggioso, lo dicevo io, questo è un
bambino coraggioso, perché sei coraggioso, vero?
Per la verità, Rodrigo aveva sempre fatto onore al suo nome. Considerando tutto quello che
successe nelle settimane che seguirono, dovrei elogiare la sua audacia. Povero uccellino. I suoi
occhi pieni di lacrime continuarono a fissarmi fino a che non lo adagiai sul prato, vicino alla
carrozzina, rottame ingrato e miserabile.
Le mie scarpe sguazzavano nel suo sangue che imbrattava il marciapiede. Rendendomi conto
che l’emorragia non si fermava, lo presi tra le mie braccia come un agnellino, mentre i suoi capelli
mi accarezzavano il naso. Attraversai il viale con passo leggero, cullandolo, diretto alla villa. Fu
allora che scoprii le sue lentiggini. Si distribuivano tra il setto nasale e gli zigomi, spruzzandogli il
viso di un assurdo erotismo. Ma Rodrigo non mi guardava. I suoi occhi erano persi in una nebbia.
Forse era impaurito dall’assurdo spaventapasseri nel quale mi ero trasformato. Chissà se mi
vedevano gli uomini del Partito, nascosti dietro gli alberi? Guarda Prudencio, quella vecchia volpe
ruba i piccoli dagli altri nidi.
— Dove mi porti? — chiese il bambino guardando dappertutto meno me.
Fu la prima volta che lo sentii parlare distintamente. Mi raggelò la sorprendente autorità della
sua voce, che non aveva niente di infantile. Dove mi porti? Dove avevo sentito quell’accento. Esitai
se rispondergli o meno. La mia testa andava a mille: respiravo l’aria pura dopo dieci anni, avevo
Rodrigo tra le braccia, come sempre avevo desiderato, la mia verga dura strusciava il suo dorso e il
suo sangue gocciolava sui miei pantaloni. Le sue gambe inutili continuavano a dondolare,
sfregandomi il ventre. Gli era caduta una scarpa nella concitazione e mi sentii sprofondare quando
contai le cinque piccole dita sfiorarmi i testicoli.
— A casa tua — risposi, ansimando. — C’è tua mamma?
— Mia mamma c’è sempre — garantì con solennità. — È in casa, ma non sta mai con noi.
Parlava decisamente meglio di un adulto. Forse era più grande di quello che sembrava.
— E tuo padre?
La porta della villa si aprì senza che potesse rispondermi. La madre ci venne incontro gemendo,
la faccia disfatta da lacrime ormai secche, come se avesse singhiozzato tutto il pomeriggio.
— Amore mio! Che è successo? Chi è questo signore? E questo sangue? Non piangere, vita mia.
Ma fu lei a scoppiare in lacrime. Lo abbracciò con voluttà, come se volesse riprenderlo nelle
sue viscere, inumidendosi la camicetta con quel sangue che, in fin dei conti, era il suo. Il mio
aspetto da orco delle favole non sembrò impressionarla. Mi sorrise in mezzo ai suoi lamenti, senza
smettere di baciare Rodrigo, finché ebbero tutti e due i vestiti tinti di rosso.
— Potrebbe prendere un asciugamano?
— Come?
— Un asciugamano. Per il braccio. Gli continua a sanguinare, non vede?
— Ah, sì, sì, sì, certo, oddio! Entri, entri, prego.
— No... non è necessario, non si distur...
La signora non mi ascoltò. Mi abbandonò sulla soglia, con la porta aperta. Si portò via il
bambino, affondato tra i seni, sussurrandogli parole all’orecchio. Restai a metà strada tra la
scalinata del giardino e l’atrio. La mia faccia riflessa nella porta a vetri mi rimandò le mie occhiaie, i
miei occhi stravolti, le mie lacrime. Non mi ero ancora accorto che avevo pianto. Non avrei dovuto
più perdere il controllo in quel modo, pensai. Una raffica di vento spinse la porta all’improvviso. La
bloccai con il piede per evitare che si chiudesse di colpo. Quando la riaprii, mi assalì l’idea che ero,
tutt’a un tratto, a qualche metro dal divano su cui il bambino sicuramente si rotolava per vedere la
televisione, spargendo il suo odore su tutti i mobili, affondato tra i cuscini che dovevano esalare il
suo aroma. A qualche metro dalle pareti alle quali si strofinava durante i suoi giochi del mattino, ai
pezzi di mobilio che riflettevano i suoi movimenti, impregnati delle sue impronte digitali, del suo
tatto, dei suoi capelli che forse erano rimasti attaccati alla superficie, abituati alla sua vicinanza e
che, a differenza mia, custodivano qualcosa di lui.
Nonostante tutto, tu eri lì, Prudencio. Non era possibile fare marcia indietro, anche se lo avessi
voluto. Così come non era stato possibile dopo che ti eri assolto degli errori di cui tanto si era
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parlato all’epoca. Perché tu non sei più esistito da quando avevano trovato quel corpo nelle acque
del Rímac invece del tuo, e forse non sei mai esistito. Non ti chiamavi Prudencio.
Non sei mai stato in questo mondo.
Presi la decisione più rapida della mia vita e feci tre passi avanti. Chiusi delicatamente la porta
della villa. Entrai in un’anticamera con mensole di marmo adorne di porcellane cinesi e stupende
fotografie alle pareti. Qui il Muro di Berlino, lì il Cremlino. Misi i piedi su un tappeto, che risultò
essere la pelle di un orso polare, la cui bocca spalancata sembrava inghiottire la mia indecisione.
Sulle montagne non c’erano orsi polari, se no ne avrei imbalsamato uno per lui.
La famiglia Visagel sembrava vivere nella scenografia finta di una telenovela. Dentro
ostentavano vasi mostruosi, tappeti con motivi di tessuti navajos e quadri con damigelle paffute,
nude, raffigurate accanto a vassoi con frutta grandi come le loro tette. C’era anche un piano a
coda pronto per accogliere un concertista e un orologio a pendolo simile a una bara addossata alla
parete, che segnava l‘ora: le cinque e quarantasei del pomeriggio, tic-tac, tic-tac, tic-tac all’infinito.
Mi rifugiai in un angolo, stordito. Quell’esplosione di suppellettili mi dava le vertigini e fui quasi sul
punto di far cadere una Monna Lisa appesa sulla mia testa.
A sinistra, attraverso la finestra, si potevano vedere la strada e i muri malconci della mia
casetta, una nave alla deriva nell’esuberanza dell’isolato. A destra c’era la sala da pranzo, con le
pareti rivestite di mogano, come il refettorio di un vescovo. Più avanti, degli scalini che
conducevano al bagno e, presumo, alle scale del piano superiore.
La madre ricomparve con la stessa espressione desolata, portando in braccio Rodrigo. Gli
aveva lavato il visetto e avvolto il braccio in una benda. Lo aveva anche cambiato. Il bambino
indossava ora dei pantaloncini di flanella e un pullover con una frase in inglese che non riuscii a
decifrare. C’era da aspettarselo. Non avrebbe potuto essere diverso. Noi cominciavamo la
rivoluzione dalle campagne, ma i bambini venivano derubati della loro personalità fin dalla culla. Io
non avevo mai imparato l’inglese né altre lingue a parte i dialetti con cui propagandavamo la
dottrina del Partito, e ne andavo molto orgoglioso. Evitai di fissarmi sul suo maglione e preferii
guardare un ritratto di famiglia che dominava la stanza. Rodrigo era nel mezzo, con lo sguardo
triste, accanto alla madre, che non sorrideva neanche lei. Il padre posava dietro di loro. Sembrava
più giovane di lei, anche se il compagno Gonzalo aveva detto che era più grande. A differenza della
moglie e del figlio, il padre mostrava i denti come nella pubblicità di un dentifricio. Non sembrava
far parte della stessa fotografia. La sua testa si inseriva fra i due in maniera approssimata,
stagliandosi sul paesaggio, più illuminata del resto. Nel mezzo della mia analisi, sentii qualcosa
puntarmi il viso.
Era Rodrigo che mi osservava fissamente. La madre lo aveva rimesso sulla sedia a rotelle. Mi
resi conto che era la prima volta che ci guardavamo negli occhi. Stavo per dirgli qualcosa, quando
la madre intervenne con voce rotta, asciugandosi le lacrime.
— Non... non so come ringraziarla, signor...
— Non si preoccupi – la interruppi, ancora più agitato.
— Come si chia...?
— La prego, a che servono allora i vicini, no, Rodrigo?
— Come sa che mi chiamo Rodrigo? — chiese lui, con un vocione che paralizzò me quanto sua
madre.
Fin qui ci siamo arrivati, pensai. Il bambino mi scrutò dalla testa ai piedi. Aveva un’espressione
scostante, non alzava un ciglio né muoveva un capello. Alla fine fui io a sorridere, ma di sorpresa.
La sua autorità era assoluta, aggressiva, come se avesse lanciato un ordine a un battaglione
schierato. Inghiottii saliva, atteggiando le labbra a un finto sorriso.
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Per caso avevi paura, Prudencio?
Non avevo sentito un’affermazione del genere dall’ultima volta che avevo sentito parlare il
presidente, prima della sua cattura.
— Non essere maleducato, Rodrigo — lo scusò la madre. — Dovresti ringraziare il signor...
Come si chiama, a proposito?
— Non sono maleducato — si discolpò lui. — Ho fatto solo una domanda.
La sua tranquillità era inquietante. Pronunciava le parole con determinazione, come se
conoscesse in anticipo le risposte. Il bambino Gesù davanti ai dottori del tempio di Gerusalemme.
— Ho sentito tua madre che ti chiamava — mi affrettai a spiegare. — Ti vedo per strada tutti i
giorni.
— Io lei non l’ho mai vista.
— Basta, Rodrigo!
Il rimprovero di sua madre suonò piuttosto come una supplica. Il bambino tacque. Cercai di
fare la persona accondiscendente e mi accoccolai di fronte a lui.
— Ti vedo passare sempre sotto le mie finestre. Io abito lì, dall’altra parte della strada.
— In quella casa così brutta?
— Rodrigo!
Scoppiai in una risata. Gli accarezzai dolcemente la testa, lasciando la mia mano navigare fra
quei ricci neri, che l’accolsero con innocenza.
— Esattamente, in quella casa così brutta — assentii. — E vecchia, oltretutto. Pensavo giusto
di ristrutturarla un po’.
— Ecco, in questo potresti aiutarlo, no, Rodrigo?
Mi strozzai con la saliva, soffocato da una tosse infernale.
— No... non si preoccupi, signora, il bambino ha già abbastanza da fare.
—-No, no, no, non se ne parla!
— Ma se il bambino non può...
— Certo che posso! — esclamò lui, continuando a guardarmi negli occhi.
Ora la madre rideva, senza riuscire a crederci del tutto. La sua stessa risata sembrava un
prolungamento del pianto.
— Questo bambino! Lo vede com’è disponibile? — disse, tutta vergognosa, mentre Rodrigo
faceva una smorfia di fastidio. — Potresti passare dal signore il pomeriggio, dopo le lezioni, no,
gioia?
Un improvviso afflusso di sangue mi costrinse a mettermi in piedi. Mi pentii di essermi rialzato,
avvertendo che un’erezione era sbocciata tra le mie gambe. Non riuscii comunque a evitare la
sensazione di orgoglio per avere nuovamente la verga dura. La mia umanità si era vivificata più che
mai da quando quel bambino era comparso. E adesso si presentava l’occasione di alleviare il mio
appetito, senza che io nemmeno l’avessi cercata.
Nascondi la verga, Prudencio.
Girai sui tacchi, imbarazzato, e mi diressi verso la porta.
— Se vuoi darmi una mano — sussurrai al bambino — vieni quando vuoi. Sono sempre a casa.
La madre mi rincorse:
— Se ne va già? Non le ho offerto niente!
— No, signora, grazie, ma ho fretta — mentii, avanzando verso la strada.
La sua mano tremante si posò sulla mia spalla e mi vidi costretto a voltarmi.
— Non potrò mai ringraziarla per quel che ha fatto per mio figlio.
— Non è niente, gliel’ho detto.
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— A volte è difficile farmi carico di lui, soprattutto senza...
— E suo marito?
— Non c’è! — sentenziò Rodrigo, dal salone. — Torna la sera, no, mamma?
— Il problema è che lavora tutto il giorno — disse la madre, con gli occhi di nuovo inumiditi.
Assentii con la testa e diedi un’ultima occhiata al bambino.
— Le auguro una buona serata. Ciao, Rodrigo.
Lasciai la villa. Fuori, l’aria libera mi accolse con un’energia che credevo dimenticata. Mi sentii
trasportato dall’ebbrezza di immaginare il bambino aiutarmi a spazzare via i cadaveri dei piccioni e
a mettere in ordine tutta la porcheria che c’era in casa. La mia casa. Peccavo di ingenuità. Rodrigo
si sarebbe sicuramente eclissato vedendo la cucina, paralizzato dalla paura davanti a quella distesa
di sacchi bianchi. La puzza lo avrebbe fatto svenire e sarebbe caduto incosciente tra le mie braccia.
Fui sul punto di lanciare un grido sentendo una mano toccarmi la spalla.
—Aspetti — disse la madre. — Non ci ha detto il suo nome.
Rodrigo spuntò dietro di lei.
— Pru... — cominciai a dire, ma mi fermai di colpo.
— Come?
Lo sguardo del bambino sembrò incendiarsi.
— Gonzalo. Mi chiamo Gonzalo.
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