Cpt (Centro di poesia Temporanea) Luoghi/ non luoghi Terza Serata

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Cpt (Centro di poesia Temporanea) Luoghi/ non luoghi Terza Serata
Cpt (Centro di poesia Temporanea)
Luoghi/ non luoghi
Terza Serata
Gustavo Basz
Nella sala da pranzo che mi serviva anche da atelier, mentre assaggiavo una bevanda di marca
fino a quel momento sconosciuta, cominciai a ricordare, a provare a spiegarmi gli avvenimenti che
mi avevano portato all’attuale situazione.
Anni addietro ero arrivato in città con la ferma intenzione di dipingere e vivere della pittura. E
c’ero riuscito. Adesso sentivo che non ce la facevo più, non ne potevo più.
Ai primi malintesi non diedi importanza. Un magazziniere che mi diede cinquanta grammi di
salumi in più, un passante che indicò in tutt’altra direzione la strada cercata, qualcuno con cui parlai
e che presunsi distratto perché rispose con un altro argomento, dopotutto non era la prima volta che
capitava. Ma andai a prendere l’autobus e l’autobus non partì. Uscii a far la spesa e nel mercato mi
diedero le carote al posto delle cipolle, le uova in cambio del pollo. Volli comprare riso, formaggi e
mele, mangiai a pranzo spaghetti e melanzane. E ogni volta che tornavo a casa il menu cambiava: la
lista di ciò di cui avevo bisogno, non coincideva mai con quello che finivo per comprare.
Provai nei bar di sempre, ma non ci furono differenze. Chiedevo le solite cose, un panino e una
bevanda, mi portavano olive e birra o tè freddo e lieviti. Credetti perfino, nella disperazione, che
sarebbe stata una soluzione cercare il modo di fare la spesa senza la mediazione di altre persone e
pensai subito alle macchine automatiche. Quando però la macchina delle bevande mi consegnò
schede telefoniche, e quelle del cambio pasticcini non pretesi nient’altro. Mi rassegnai e solo chiesi
che almeno questa confusione mi fornisse di alimenti, ma non tutti i giorni capitò.
Fu un giovedì, lo ricordo perfettamente, quando qualcosa finì di rompersi. Sì. Ebbi voglia di andare
via dalla città, verso qualsiasi posto, mollare tutto, però mi erano costati parecchi anni di sacrifici,
trovare una casa e la galleria della marchesa dove esporre e vendere le mie opere.
Mi sedetti sul divano, avevo un’enorme stanchezza. Stavo lavorando troppo, soprattutto con
l’ultimo incarico, e forse, si trattava solo di questo.
Mi sdraiai ricordando l’ultima volta che avevo preso alcuni giorni di vacanze, ormai erano passati
cinque anni, e con quel ricordo chiusi gli occhi.
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Al mio risveglio immaginai il mare e una spiaggia deserta e, se non partii in cerca di un posto come
quello, fu perché l’incarico della marchesa non poteva essere rimandato: una serie di tre dipinti coi
fiori per un cliente che già aveva mostrato interesse per le mie opere.
Decisi di risolvere la questione nel modo più rapido e semplice possibile. Misi da parte tutto ciò che
stavo facendo fino a quel momento, presi un vaso con due rose e lo misi sopra il tavolo. Il vaso era
esagonale con due lati trasparenti e le rose si trovavano aperte, con i petali al punto di cadere.
Modificai appena la loro posizione e le ritrassi tale e quale le vedevo, senza aggiungere niente,
come quando ero studente, con la principale preoccupazione che, a guardarle, nessuno le
confondesse con una lampada o peggio. Le dipinsi con la promessa che appena finite mi sarei preso
un periodo di riposo.
Un venerdì mattina i dipinti furono pronti per essere incorniciati, però di quello non mi sarei
occupato io bensì la galleria.
Mancava solo di consegnarli e l’unico modo sicuro di farlo, era camminando. Calcolai in due
chilometri e mezzo la distanza, anche se non l’avevo mai percorsa a piedi.
Con le tele arrotolate in un tubo e una borsa a mano, intrapresi la marcia.
In un primo momento allo srotolare delle tele la marchesa fece un gesto che sembrò di dispiacere. Il
suo sguardo percorse le rose, i petali dai contorni deliberatamente accentuati, i contrasti piani e
nitidi che cancellavano ogni possibilità di confusione tra fondo e figura, e dopo mi abbracciò.
Mi disse che erano i fiori più belli che avesse mai visto e mentre il suo sguardo tornava a posarsi sui
dipinti, aggiunse, abbassando il tono:
“Adoro le magnolie”, esaltata, “e queste sono le più belle della storia dell’ arte”.
Guardai le mie rose tentando di scoprire in esse le magnolie e, con difficoltà, accettai la sua
commozione senza dire una parola.
Meglio accettai quando mi pagò più del prezzo convenuto.
Poi mi fermai a guardare l’esposizione di Bloom, il pittore scozzese, e mi domandai cosa fossero
quei paesaggi del mare del nord, quella coppia che si perde nella prospettiva della campagna
innevata.
Presi la mia borsa, salutai e uscii. Mi diressi verso destra con l’unica allegria che con i soldi
incassati non c’era bisogno di passare di nuovo per casa, mi misi a camminare verso dove la città
comincia a diventare campagna e la campagna spiagge.
Era una giornata di sole, con appena alcune nuvole ritagliate nel cielo. O almeno così mi sembrò.
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Alex Mendizabal
insigna¯ re : imprimere un segno
educa¯ re: educe°re 'trarre fuori, allevare', comp. di e°x- 'fuori' e duce°re 'trarre'
Maestro perverso
Si apra agli stadi di depravazione (asociali, leccaculi che siano).
Ci si dedichi ai luoghi di uso e consegna del potere.
Anche alla consegna della forza coercitiva, dico. Ora sottomettendosi alla sua tirannia, al suo
piacimento. Ora usandola senza scrupolo. Staffetta meccanica, inesorabile, di attuazione e perdita o
abbandono, dell'influenza. - Tie! Ah!
Ci si alleni alle risposte immediate. A quelle rallentate.
Alle posposte e inframmezzate.
Automatismi del potere reale. Ammaestramenti.
Strumenti alla mano
Senza paura dei mostri che si possano generare
ci si induca a ginnastiche raffinatissime e insensate.
Ad algoritmi pedagogici cinici.
S'impari il galateo.
Si forzi e rafforzi la trasmissione di nozionismo passivo.
Perfino il necessario insegnamento stolto (La fortuna di avere un pessimo insegnante)
Immagina, spiega
magia facci paura
raggirare la dialettica tra
l'offrire un grande numero d'informazioni in poco tempo
(flusso di interesse e conoscenza come forza propositiva)
e il luogo d'incontro, la piazza
(a volte si apprende nel sociale)
Che bella la fabbrica di risposte su ogni quesito o gioco proposto.
Al lavoro / Gioco e curiosità / Linguaggi comparati / Materiali Dati.
I tanti risultati.
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L'abbandono che insegna e che pausa (suona)
Già dai primi apprendimenti, quanto ottimismo abbruttito dell'attenzione!
Sin dai primi apprendimenti sorge il grande macello.
Che si occuperà nell'avvenire della separazione e tagli delle varie parti (pelle, carne, budella e coda)
E' la dimenticanza un eccitamento dell'abbandono?
Una suggestione o innamoramento della pausa del Oracolo?
Un'ulteriore rimescolare della gerarchia dei bisogni?
Come diviene, la dimenticanza, laboratorio, bottega, scuola, ripetizione dello inviluppo?
La sparizione a macchia della cicatrice è essa un segno.
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Ribka Sibhatu
I fari
I fari sono i nuovi
cittadini senza diritti
che entrano nelle case e chiese
degli italiani come l’aroma del caffè
a dipingere le lingue e le persone
Nel 1993,
una “clandestina”
mise al mondo
una bambina,
da un rifugiato
che vive in Germania.
Per lasciar l’ospedale,
madre e figlia hanno bisogno
della firma del padre.
Il rifugiato, è senza
permesso di soggiorno, non
è in regola per venire a Roma.
La bimba all’ospedale,
la madre nel piazzale,
in amarico e tigrino
piange dicendo:
“non capisco perché
non vogliono darmi
la mia propria figlia?
…non conosco la lingua
il paese, aiutatemi per favore…!”
la neonata
fu adottata
da una famiglia
italiana. Senait
girovaga ancora
per le strade di Roma.
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In Africa, dove ho vissuto fino a 24 anni, è perennemente primavera. Quando ero piccola, maestri e
professori mi spiegavano che in Europa ci stanno quattro stagioni, noi che conoscevamo solo una
stagione, avevamo difficoltà a capire. Dicevamo:
- come fanno gli alberi a rimanere senza foglie? Allora ogni anno muoiono. Che vuole dire sotto
zero? La neve non è uguale al ghiaccio?
Pochi giorni dal mio arrivo, il tempo estivo cedeva all’autunno parigino. Le serate sono sempre più
fresche. Alla fine del mese di ottobre sento un freddo che non mi era famigliare. Il peggio è che
questo peggioramento aumentava e mi avvertiva già che avrei passato: un terribile tempo.
Verso la fine di novembre sono a Lione e nel frattempo avevo iniziato a lavorare come filleau- père. Abitavo presso l’anfiteatro gallo-romano e la cattedrale di Fourviere, in un palazzo che
avena un panorama di tutta la città. Dalla mia stanza vedevo unirsi il Rodano alla Seine.
Una mattina di dicembre, come al solito, mi alzo verso le sei di mattina e tiro su
l’avvolgibile. Con mia grande sorpresa vedo tutta Lione imbiancata. Per un attimo mi sembra di
sognare e non credo a quello che vedo. Per verificare se era vero quello che vedevo, in punta di
piedi per non svegliare le mie piccole, esco dal palazzo e nel cortile vado a toccare con le mie mani
il soffice e bianco materasso di neve che ha imbiancato la città. L’altezza della neve è arrivata sopra
le mie ginocchia. Rimasi là incantata per molto tempo. Dopo un po’, come una bambina, ignara di
quello che le aspetta, vestita di cotone, mi siedo sopra. Solo che la neve era talmente soffice e mi fa
scivolare. Non riesco più ad alzarmi. Mi viene in soccorso un Signore.
-Non ha mai visto la neve? Mi chiede con un tono di rimprovero.
- no è la prima volta! Rispondo.
- “Si vede!” rispose. Gentilmente mi accompagna a casa e mi consiglia di bere una cioccolata
calda. Le mani e i piedi non tardano a gelarsi. Non riesco a camminare nè a preparare il
cioccolato. Non sentivo più le mie mani e i miei piedi. la mia situazione era talmente grave che
per una settimana mi è toccato stare al letto. Il medico dice che dovevo coprirmi bene. Io
rispondo dicendo che mi vesto sempre bene.
-Cara Signora, anche oggi crede di essere vestita bene.
- “Si” rispondo.
- Il suo vestito va bene per l’Africa qui ci vuole la lana… roba pesante Signora!
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Erano passati tre mesi da quando ero arrivata in Francia. Avevo iniziato a imparare il francese e
lavorare come bambinaia. Da quando ho messo piede sul paese, ho notato che i parigini e i lionesi
preferivano parlare al telefono che dire buon giorno ai loro vicini. Piano, piano cominciavo a capire
parlare il francese. Con il mio misero livello di francese alla mia datrice di lavoro le chiesi:
- Com’ è che non dice buon giorno ai vicini? Lei mi fece segno toccando il timpano con l’indice,
come per dire:
- Sei matta? Parlando tra me e me, dissi:
- “una volta si diceva anche la regina ha bisogno della sua vicina, che strana gente, non si dice
neanche buon giorno ai vicini!”.
Mi venne naturale quel che mi diceva mia madre della mia nuova realtà:
“l’ospite è sacro, messaggero de Dio” e faceva entrare a casa chiunque sia. Dava da
mangiare, da bere e a volte lasciava anche a lungo tempo.
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Giuseppe Acconcia
Battistini. Un mondo vuoto, senza esseri. Dei corpi di forme immaginate nascondono
persone.
Cornelia. Arrivo a Roma senza speranze. La città si costruisce su immagini
sovrapposte ed eventi incrociati.
Baldo degli Ubaldi. La redazione era piccola ed incastrata tra vie strette, nessuno di
quei volti sembrava accogliere lo sconosciuto alla porta.
Valle Aurelia. Corpi di uomo si confrontano, discutono, non chiedono denaro. Vivono
di odori e sensazioni tattili. Nascondono poco in comportamenti essenziali. Sfiorano la
pelle degli altri con mano lenta.
Cipro. Alcune fermate indistinguibili. Niente riconosco di queste strade se non gite di
bambino incapace o ragazzo affettato.
Ottaviano. Un bambino su una bandiera al muro tiene il dito in bocca, gli altri seduti
fingono di non vedere lo sconosciuto e si affrettano in piccole faccende. Una donna
tiene il suo bambino, lo culla. Il pupo piange, si dispera. Guarda il bimbo della bandiera
e smette di urlare. Chi è entrato viene finalmente accolto e si mette a sedere.
Lepanto. Cammino per le strade perdo la testa. Corro sulle mura di case bombardate,
su antichi ruderi illuminati dall’alba, tra le acque del fiume.
Flaminio. Esseri umani si toccano, si penetrano. L’odore si diffonde sul corpo e resta
unito. Le vesti non esistono, i colori confusi della carne scambiano luci con le foglie. Il
tempo non corrisponde ad impegni ma ad un’azione continua, un movimento unico. Il
ventre di donna ricorda i giorni della nascita, il suo volto e la sua voce producono
smorfie e suoni ripetuti e vibrati.
Spagna. Un lungo viale, piccole forme prefabbricate. Un documento, una piccola carta
blu per passare. Ingresso, schermi, corridoi lunghi di moquette, facce indaffarate. Una
lista, un nome.
Barberini. “Tu come la vedi?, aiutami a riparare la mia barca, tu che hai lavorato pure
là gratis.” Gli irakeni delle paludi attraversano giunchi tra donne bulgare in festa ad una
mostra d’arte palestinese. Merda. Copia, incolla, traduci e monta. “Quello lo manda
rifondazione, l’altro il vaticano.”
Repubblica. Via Brunetti, un nome da Milano. Mi siedo nei pressi del computer. Travi
colorate sui tetti, vecchie case e cupole dai lati delle finestre, musica sale dal basso.
“Quanti guerrafondai. Mannaggia.”
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Termini. Il ghetto ebraico, il portico d’Ottavia, scendo giù al teatro di Marcello.
Battouage. Una piccola piazza di verde rampicante. Tartarughe. L’isola raccoglie di
notte nei buchi del ponte, tra le piante, corpi stanchi di stranieri. La corrente del Tevere
blocca latta e bottiglie, un fetido fiume. Alla Basilica di Massenzio gli acrobati del
Circo, un vecchio grasso americano guarda il Colosseo.
Vittorio Emanuele. Via Tiburtina antica incrocia Marrucini, dicono San Lorenzo. La
piccola piazza, sciame di api di notte, guardiani con idranti disperdono la folla. Una
donna in terra dal seno scoperto. Scendi le scale, una caverna piccolissima di film
ideologici. “Hanno rubato un film sull’anarco-insurrezionalismo. Si prepara
un’azione”. John balla per la prima volta.
-Sì, ne sai più di un uomo comune. Ma purtroppo, qui non hai possibilità.
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Josette Martial
Una sigaretta, hai da accendere ?
Una sigaretta
Fuoco, fuoco Fuoco per vivere
Di tavoli in tavoli, ieri in via urbana
A San Lorenzo , a Termini
100 volti, 1000 mani, e io che non fumo, però
accendere, tabacco,
tu hai da accendere ?
ancora un pò, di silenzio. E, da domani rinasco.
Da stasera io rinasco.
Ma chi l’ha detto
Ma chi l’ha detto che per capirsi
Devo per forza tutto spiegare
Le parole sono chimere
Se non capisci
Devo spiegare
Devo tradurre
Devo stra dire
Devo tacere
Devo capire
Devo vedere
O ascoltare
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Paolina Carli
e quando il tempo
più non accetta il silenzio
esanimi corpi emergono
tra i rovi che sfiorano il fiume
corpi di giovani e belle
resi dall’acqua addensata
che a valle rallenta il fluire
e mal digerisce il segreto
morti che il destino ha permesso
senza che mai si sappia
il perché e per mano di chi
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Kleopatra Jura
Chi sono ??
Chi potrei essere ??
Ombra, nebbia, vapore
Fantasia nella vita
Chi sono ??
Una lacrima..
Un sorriso..
Una domanda entusiasta
Con la risposta persa
Chi sono ??
Una donna stanca,
non sa cosa fare
una donna che cerca di dimenticare,
il passato,
per vivere il presente,
per cantare il futuro
prova con tutte le sue forze
a dimenticare la vita,
la vita e la presenza
se io non esisto
non vivo
donna senza futuro
stanca della vita
per questo la vita si è stancata di lei
una donna che trova tutte le porte
chiuse in faccio
cerca lavoro…
cerca un pezzo di pane…
è dura la vita.
vive camminando senza saper dove andare
non ho il diritto alla vita
perché vivo ??
perché sono nata ??
per soffrire ??
sono nata per sbagliare…
e essere giudicata,
qualche volta anche sugli sbagli degli altri
è questa la vita…
è questa la vita…
perché questa vita mia ??
perché sei sofferente ??
cerco il dono della vita…
trovamelo tu…
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Paolina Carli
sono tornata sui luoghi d’origine
e ho sentito il vento insinuarsi tra foglie
noncurante del tempo che passa
all’ombra del melo m’è parso di ri-trovare
le donne che con aghi appuntiti e fili sottili
ricamavano bianchi teli da sposa
e nei pressi della grande roccia
d’udire il bisbigliare fitto delle ragazze
replicato per scacciare la noia
un poco in disparte
c’è la rosa che fu di mia madre
a mostrarsi tale e quale a quand’ero fanciulla
e c’è anche il “non detto” di allora
che graffia il sentire ancor oggi
dell’esiliato che attende ragione
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Kleopatra Jura
Ci incontriamo …
Forse…
Un giorno…
Però non ci siamo abituati
Ad incontrarci…
Per questo..
Si ghiaccerà il sangue nelle vene,
tremeranno le labbra,
e dopo il saluto
ognuno di noi prenderà la sua strada
viceversa dall’altro
camminando…
camminando…
non guarderemo indietro
però rimarrà per sempre
il tuo viso scavato nel mio cuore
e rimarrai
il mio più bel ricordo
da immigrante
La penna scrive..
La mano trema..
Mi chiedo???
Cosa scrivo??
Per chi scrivo??
Di chi mi lamento e io soffoco
Attraverso le onde del mare
Per chi descrivo la mia nostalgia
In un istante,
osservo la mia stanza..
vedo una finestra scura
non mi ricordo di aver visto prima
dalla finestra sporge una città
che ha tutti miei ricordi
però,
il mio sentimento
attraverso la finestra
e il mio sentimento
attraverso la città
è unico
di essere migrante
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Josette Martial
Il quaderno rosso di moleschina
L’acqua del divenire illumina con forza
l’oblio che cerca invano di aprire le porte
stringi la mia mano nella tua serrata
sui nostri visi infranti l’acqua ghiaccia l’istante
tu scrivi nel tuo quaderno rosso di moleschina
frasi che io trascrivo sul mio foglio accanto
accanto a te
scritti intimi ultimi
come direi
non so
il sottile
dolore
scivolo sull’addio del nostro eterno amore.
Una nuvola di silenzio nella fronte, sola, per scordare
La danzatrice alza le braccia, le trasmuta in un veliero
Le orme nella terra scura
scivolano senza pudore
dal mare alla schiuma viva
Il film riparte all’incontrario
Una panchina in un parco
Un letto di foglie di giornali, dei cartoni
Una stazione
Un posto accanto alla finestra
Per respirare
Una nuvola di silenzio nella fronte, sola per non pensare
Una, due macchie di caffè
Per annunciare un divenire
Il danzatore ha inventato il ritmo vivo che fa volare
Le tracce di passo sull’asfalto della città rifugio
Una nuvola di silenzio nella fronte solo per sperare
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