Come una macchia di cioccolato - Comune di Ferrara

Transcript

Come una macchia di cioccolato - Comune di Ferrara
Indice
Prefazione (di Francesca Barzini)
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Presentazione (di Cesare Cornoldi e Patrizio E. Tressoldi)
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Premessa
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Introduzione
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Capitolo primo
La dislessia
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Capitolo secondo
Alex: tu chiamale, se vuoi… emozioni
Quando la dislessia è interpretata solo come
un problema emotivo
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Capitolo terzo
Marta, la dislessia e il dubbio di normalità
Quando la difficoltà nella lettura viene interpretata
come difficoltà intellettiva
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Capitolo quarto
Elia, che in seconda elementare non sapeva leggere
Le difficoltà di lettura nei primi anni di scuola: evolutività
e cambiamento
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Capitolo quinto
Tommaso: affrontare le superiori senza sapere di essere
dislessico
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Capitolo sesto
Sara: sapere di essere dislessica ma non sapere di poter
migliorare
87
Capitolo settimo
Andrea disorientato dalla dislessia nella scelta
della scuola superiore
97
Capitolo ottavo
Davide, la dislessia e la scuola
109
Capitolo nono
Alice, un’adulta di fronte alla dislessia: la riabilitazione
è un treno ormai perso?
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Invito a cena con dislessia
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Bibliografia
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Prefazione
A dire la verità di dislessia ne avevo già sentito parlare. Ne avevo
una strana percezione, vaga, per sentito dire. Ovviamente, quando
mi arrivò molto vicino non me ne accorsi. Pietro non imparava a
leggere, ma i genitori si acchiappano le scuse, quelle a portata di
mano… Torniamo al «ma»: ma Pietro era arrivato negli Stati Uniti
in prima elementare e forse l’inglese improvviso era il vero responsabile di questo problemaccio. La sorella gemella Marta imparava i
monosillabi come se niente fosse: bat, hat, mat. Anche Pietro — che
io, da vera mamma mediterranea, avevo sempre considerato un genio
— imparava le paroline stampate sulle fotocopie ciancicate che trovavo
in fondo allo zainetto. Peccato che il giorno dopo, messo davanti alle
stesse paroline, non sapeva decifrarle. E peccato che io continuavo
a pensare che il problema fosse l’inglese. Insegnargli a leggere era
come versare acqua nel colabrodo. Le monache mi dicevano di stare
tranquilla. All’Annunciation School di Washington D.C. volevano
farmi stare buona ed evitare il mio starnazzare preoccupata. Suor
Theresa era piccolina, magrissima e simpatica, e mi fece la sua predizione : «Quando troverà qualcosa che lo appassiona, Pietro diventerà
bravissimo, prima o poi… È così carino e intelligente». Oltre che
dalla lingua appena appresa eravamo fuorviati anche dal fatto che i
miei figli erano mediamente molto più tranquilli dei loro coetanei
di oltreoceano: le maestre li trovavano fantastici solo perché non
tentavano di sopprimere il compagno di banco, né gli insegnanti. E
andammo avanti per due anni. Poi, in terza, tutto cambiò.
Approdammo alla «Horace Mann», una bella scuola pubblica
con una direttrice assai volitiva. Mi guardò perplessa mentre le rac9
contavo di Pietro e della sua svogliatezza (al momento di fare i compiti si rotolava per terra per delle ore con il cane Gorge)… e sibilò:
«Bisogna fare i test!». Test? Al mio bambino? Cominciai a rimuovere
la rimozione. Subentrò la preoccupazione. I test, tre giorni terribili
in preda a delle megere, e poi arrivarono i risultati: dislessia. Non
detta così, ma accompagnata da una serie di fogli, foglietti, schemi,
tabelle (non sempre facili da decifrare), gradazioni del problema;
la facevano molto lunga, ma la sostanza era quella. A quel punto
iniziò un calvario fatto di inutili terapie, maestre di sostegno il cui
compito principale era spiegare a Pietro che non era di meno degli
altri, anzi, la storia dell’umanità era costellata di geni dislessici. Pietro
stava benissimo, a scuola pascolava allegramente, ma di imparare
a leggere non se ne parlava proprio. Questa storia andò avanti per
anni. Quando venivo in Italia cercavo riscontri, ma mi venivano date
sempre risposte parziali.
Alla fine la soluzione la trovai io. Era l’italiano. Tornammo in
Italia perché l’italiano è più facile da leggere e da scrivere. E così fu.
Ci vennero d’aiuto le professoresse della scuola media di Roma che
diedero una matita in mano a Pietro e lo pregarono di scrivere, anche
male, costringendolo a produrre. Pamela, la terapeuta romana di
adozione, ma angloamericana di origine, fece il resto. Ci mise anni,
ma alla fine Pietro imparò a leggere: con fatica, ma leggeva. Poi arrivarono i guai anche qui. Al Liceo Mamiani di Roma mi pregarono di
portarlo via dopo due anni di scientifico perché non lo volevano quel
ragazzo che faceva errori di ortografia e di cui loro non capivano il
perché… Mi trattavano come una madre troppo ansiosa e premurosa
che si era inventata quella strana storia per giustificare l’asineria e la
pigrizia del figlio. Alla scuola privata, dagli Scolopi, erano più docili
e Pietro finì la scuola senza troppo ferirsi.
Questa è una storia a sé, come tutte le storie di dislessia che ho
sentito poi nel corso degli anni. A quel punto, una volta in Italia, mi
misi in contatto con l’Associazione Italiana Dislessia. Ma soprattutto
divenni il punto di riferimento di amici, parenti e amici di amici
quando c’era un problema scolastico che non si capiva. Sono molti
i ragazzini e ragazzine che ho salvato raccomandando ai genitori di
fare i test.
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Ragazzi sono stati tolti da licei classici e messi in scuole meno
ostiche, hanno seguito corsi di studi meno criptici e quasi tutte le
storie si sono risolte in modo brillante.
La mia vicenda è iniziata quindici anni fa e più. Molta acqua è
passata sotto i ponti e anche in Italia se ne parla, ma mai abbastanza.
Di qui l’importanza dei libri che siano d’aiuto ai genitori, i quali da
soli non ce la farebbero mai a capire cosa si dovrebbe fare.
Come una macchia di cioccolato racconta tante storie diverse, tutte
uniche a modo loro, ma emblematiche. E la lettura è da raccomandare
a tutti, non solo a chi può avere questo problema in prima persona o
con un figlio/a. Le difficoltà di apprendimento sono poco conosciute
e la strada verso una vera e propria gestione pubblica della questione
è ancora tutta in salita. Anche perché, una volta individuato il problema, non è detto che arrivi automaticamente la soluzione. Nelle
scuole italiane stanno diminuendo i fondi per i «diversamente abili».
Gli insegnanti di sostegno sono pochi, se ci sono è improbabile che
vengano assegnati a uno studente che ha «solo» difficoltà nella lettura,
ed è assai raro che i docenti specializzati sappiano aiutare a imparare a
leggere e scrivere a un dislessico/a. È frequente che quelli che dovrebbero
aiutare un cieco siano digiuni di Braille. Gli alunni con problemi più
gravi sono molti e anche per loro trovare l’assistenza è assai arduo. Se
la famiglia non ha i mezzi per far seguire i propri figli fuori dall’orario
scolastico, è quasi impossibile aiutare un dislessico.
E i mezzi non sono solo i soldi: è problematico anche riuscire
a individuare il tipo di aiuto, il centro adatto per la diagnosi e per la
terapia, essere sufficientemente testardi da bussare a molte porte e
riuscire a capire cos’è meglio. Chi abita nei piccoli centri e lontano da
un centro specializzato dovrà affrontare lunghe trasferte e diventare
un pendolare…
Nella scuola italiana i nodi vengono al pettine dopo la terza
media, i professori delle superiori quasi mai hanno voglia di capire e
di collaborare, a meno che non si sia molto fortunati, ma si tratta solo
— come spesso accade con i docenti — di qualcosa che può essere
fatto su base volontaria. Si è fatto e si fa molto per comprendere e
aiutare i dislessici, ma temo che ancora ci sia molto da fare.
C’è però una buona notizia, recente, risale al marzo del 2007: il
Ministero della Pubblica Istruzione ha riconosciuto ai «soggetti con
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disturbo specifico di apprendimento» il diritto di essere assistiti nelle
prove scritte degli esami di terza media e di maturità, o per lo meno
di poter ottenere un compito facilitato. È già un passo in avanti,
ma se uno si volesse avventurare all’Università nessun diritto viene
riconosciuto per i test d’ingresso, o almeno questo ci è stato detto.
Sono prove blindate riservate solo alle «teste normali»… Purtroppo il
diritto allo studio sancito dalla costituzione non è quasi mai garantito
ai dislessici. Si è fatto e si fa molto per comprenderli e aiutarli, ma
temo che ancora ci sia molto da fare.
Francesca Barzini
Giornalista RAI
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Presentazione
È con piacere che presentiamo, anzi raccomandiamo, la lettura
di questo libro.
Libri più o meno specialistici sulle difficoltà e sui disturbi
dell’apprendimento ce ne sono in quantità (anche se non sempre
di qualità): basta vedere i titoli presenti nel catalogo di questa casa
editrice. Tuttavia, un libro su storie di vita di bambini e ragazzi con
disturbi dell’apprendimento, scritto da professionisti competenti e
aggiornati nella diagnosi e nel trattamento di questi, è un’occasione
piuttosto rara.
Nella premessa, gli autori giustificano la scelta di questo libro
e ci piace riprendere questo pezzo: «Ci siamo rese conto, infatti, di
come il nostro lavoro si nutra di un aiuto fondamentale, l’aiuto che
deriva dall’ascolto dei nostri ragazzi: condividendo con noi le loro
storie, ci spingono costantemente a metterci in discussione e promuovono il cambiamento».
Questo ascolto è a nostro avviso un ingrediente essenziale della
pratica clinica in particolare nel momento della «presa in carico».
Non è pensabile modificare una condizione di disturbo o difficoltà
dell’apprendimento senza tenere conto di come questa venga percepita,
interpretata, da chi la vive. Anche le migliori tecniche riabilitative,
che sappiamo ben conosciute e praticate da chi ha scritto questo
libro, avrebbero scarso risultato se venissero applicate senza tenere
conto dei bisogni, delle paure, delle credenze, delle aspettative, delle
emozioni dei bambini e dei ragazzi che vogliamo aiutare. È anche
vero che il solo «ascolto», per quanto empatico, non può aiutare più
di tanto e forse è anche per questo che i nostri maggiori contributi
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in questo settore hanno avuto come obiettivo l’aggiornamento delle
conoscenze per una comprensione sempre più approfondita di questi disturbi; tuttavia, siamo perfettamente consapevoli che il lavoro
clinico o comunque la relazione di aiuto possono essere efficaci solo
quando le conoscenze generali si integrano con la conoscenza e la
relazione che si costruisce con ogni singolo individuo.
Per cui, buona lettura a tutti.
Cesare Cornoldi e Patrizio E. Tressoldi
Università di Padova
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Introduzione
Per Bastiano Baldassarre Bucci la passione erano i libri.
Chi non ha mai passato interi pomeriggi, con le orecchie in
fiamme e i capelli ritti in testa, chino su un libro, dimenticando
tutto il resto del mondo intorno a sé, senza accorgersi di avere
fame o freddo; chi non ha mai letto sotto le coperte, al debole
bagliore di una lampadina tascabile; […] chi non ha mai versato, apertamente o in segreto, amare lacrime perché una storia
meravigliosa era finita; […] chi non conosce tutto questo […]
non potrà comprendere ciò che fece allora Bastiano. […] Ecco
ciò che lui aveva sognato tanto spesso: […] una storia che non
dovesse avere mai fine. Il libro di tutti i libri!
Michael Ende, La storia infinita
Anche per i ragazzi dislessici i libri possono essere infiniti, ma
faticano a rappresentare il loro sogno e le loro passioni.
Faticano, appunto! Le orecchie in fiamme, i capelli ritti di
fronte a un libro e la lettura sotto le coperte raccontano un’altra
storia, che ci richiama volti di ragazzini impegnati a finire compiti
per loro lunghissimi.
È in questa storia che vorremmo portarvi.
Il presente lavoro racconta, infatti, alcuni «capitoli del libro dislessia», partendo da una considerazione fondamentale: il
disturbo di apprendimento, quale evento critico, va considerato
all’interno della storia che il ragazzo porta con sé e anche di quel
pezzo di storia tessuto intorno alla difficoltà dal ragazzo stesso,
dalla famiglia, dal contesto sociale, che influisce inevitabilmente
sulla costruzione di sé.
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Nel primo capitolo viene introdotto il tema della dislessia, mentre
in quelli successivi si focalizza l’attenzione su diverse problematiche
legate a questo disturbo dell’apprendimento.
Il tema centrale di ogni capitolo si snoda attraverso la presentazione di una storia di vita, nella quale viene anche dettagliato, quale
parte della storia stessa, il percorso riabilitativo.
I capitoli sono i seguenti.
1. La dislessia
Breve premessa storica e teorica sulla dislessia e su come è vissuta e
interpretata dai ragazzi dislessici, dai genitori e dagli insegnanti.
2. Alex: tu chiamale se vuoi… emozioni
Una difficoltà di lettura ha spesso delle implicazioni sulla dimensione emotiva. Nell’esperienza di Alex, come in quella di molti altri
ragazzi dislessici, le difficoltà emotive sono state impropriamente
considerate causa del disturbo, che è stato interpretato esclusivamente come disagio emotivo, familiare e relazionale.
3. Dislessia e dubbio di normalità
La lettura è talmente trasversale alla maggior parte delle richieste
scolastiche da rischiare di far percepire le difficoltà del ragazzo
dislessico come globali e afferenti anche ad aspetti di comprensione; in alcuni casi sorge il dubbio che il ragazzo presenti capacità
cognitive inferiori alla norma. Quando ciò è accaduto a Marta, la
sua storia ha rischiato di diventare una storia scritta diversamente
da quella reale, ma molto difficile da cancellare.
4. Elia, che in seconda elementare non sapeva leggere
Attraverso la storia di Elia, un bambino non dislessico che però
all’inizio della seconda elementare non sapeva né leggere né
scrivere, desideriamo affrontare le difficoltà di lettura e scrittura
che i bambini possono incontrare nei primi anni di scuola e
l’importanza di considerare tali difficoltà in chiave evolutiva,
prima di generalizzarle all’interno di un quadro patologico di
disturbo.
5. Tommaso: affrontare le superiori senza sapere di essere dislessico
Sempre più spesso ci pervengono richieste di valutazione della
difficoltà di lettura di adolescenti e giovani. Il capitolo desidera
evidenziare come affrontare una diagnosi di dislessia sia possibile
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6.
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9.
anche dopo la scuola elementare, pur riconoscendo la diversità
tra diagnosi tardiva e precoce.
Tommaso, dislessico diagnosticato a 15 anni, ci accompagna in
un singolare percorso riabilitativo e scolastico.
Sara: sapere di essere dislessica ma non sapere di poter migliorare
Non sempre dopo la diagnosi di dislessia i ragazzi intraprendono
un percorso riabilitativo. E se noi fossimo uno di questi ragazzi,
come Sara, forse saremmo tormentati da due dubbi: non c’è niente che possa aiutarmi a migliorare o ce la farò a superare le mie
difficoltà? Riuscirò a «cavarmela» nella vita o rimarrò per sempre
limitato nella mia autonomia a causa degli ostacoli che incontro
nel rapporto con la parola stampata?
Andrea disorientato dalla dislessia nella scelta della scuola superiore
Il momento della scelta della scuola superiore riattualizza e alimenta
dubbi e sofferenze, che desideriamo percorrere e approfondire
attraverso la storia di Andrea: militare mancato o chef ritrovato?
Davide, la dislessia e la scuola
La scuola è il luogo dove i ragazzi sono chiamati a mettere in gioco
le proprie competenze e questo si lega a problemi di giudizio, di
accettazione e di appartenenza sociale (sicuramente molto più che
tra le pareti di uno studio). La scuola ha, allora, secondo noi, un
ruolo fondamentale nel fornire ai ragazzi inchiostro per scrivere
la loro storia. Davide nel suo percorso scolastico ha incontrato
insegnanti che hanno saputo offrirgli questo inchiostro e altri che
hanno rischiato di portarglielo via.
Alice, un’adulta di fronte alla dislessia: la riabilitazione è un treno
ormai perso?
Il capitolo racconta la storia di Alice, insegnante di 24 anni, che
trova le energie e il coraggio per prendere in mano le proprie
difficoltà e per scoprire che leggere può anche essere piacevole.
I capitoli sono separati per chiarezza espositiva, ma affrontano
problematiche strettamente connesse fra loro.
Le storie fanno emergere due aspetti fondamentali:
• il nostro animo, l’animo di chi crede fortemente nella riabilitazione;
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• le differenze individuali, che ci spingono a una considerazione per
noi fondamentale: se ogni storia è una storia diversa, allora anche
l’intervento di chi si occupa di dislessia deve configurarsi necessariamente come un progetto individualizzato e non può ridursi a
un pacchetto di esercizi e di attività preconfezionato e uguale per
tutti.
Ciò non significa, sfruttando la metafora della dislessia come
macchia di cioccolato, che riteniamo che la macchia scompaia completamente. Siamo certe, però, che si possa fare molto perché smetta di
guardarci minacciosa dal nostro maglione preferito, come se ci dicesse:
«Non mi indosserai mai più!». Si possono trovare energie e risorse,
possiamo spendere fatica e ritornare a indossare il nostro maglione,
colmo di aspirazioni, desideri e, perché no, di pagine da leggere.
È l’augurio che facciamo ai nostri ragazzi ed è il messaggio che
desideriamo trasmettere con questo libro, che si rivolge a persone
dislessiche, tecnici, genitori e insegnanti e desidera essere strumento
di incontro e confronto.
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La dislessia è una difficoltà specifica che si riferisce all’abilità
di leggere in modo accurato e fluente e che spesso è caratterizzata da
scarse abilità di scrittura.
I soggetti dislessici incontrano notevoli difficoltà nell’apprendimento della lettura, che è lenta, faticosa e, di solito, poco accurata.
La lettura stenta a divenire un’attività automatica e continua a
richiedere un importante investimento di risorse cognitive; per molti
rimane un’attività faticosa, ed è proprio questa fatica che a volte impedisce la scoperta del piacere insito nel confronto con un testo.
Spesso la difficoltà di lettura si presenta insieme a difficoltà di
scrittura, che si manifestano prevalentemente con numerosi errori
di ortografia.
L’origine neurobiologica della dislessia viene testimoniata dai
risultati delle indagini effettuate con le neuroimmagini funzionali
che si ottengono con la risonanza magnetica funzionale e con la
magnetoencefalografia: esami non invasivi che identificano quali
sistemi neurali si attivano quando il soggetto compie un determinato
compito cognitivo come, ad esempio, leggere.
Queste ricerche hanno evidenziato nei soggetti dislessici disfunzioni delle parti posteriori dell’emisfero sinistro durante la lettura.
(Brunswick et al., 1999; Helenius et al., 1999; Horwitz, Rumsey e
Donohue, 1998; Seki et al., 2001; Shaywitz et al., 2002; Simons et
al., 2000; Temple et al., 2001).
La maggior parte degli studiosi ritiene che la dislessia sia il riflesso di un deficit del sistema linguistico: bambini e adulti dislessici
incontrano difficoltà nello scomporre le parole in suoni e nell’unire
i diversi suoni per formare una parola.
Ma… chi è il ragazzo dislessico per il ragazzo dislessico?
Abbiamo chiesto a ragazzi dislessici che frequentano il nostro studio
di spiegarci, scusando il gioco di parole, chi è un ragazzo dislessico.
Queste sono le loro risposte:
• un ragazzo che va aiutato;
• normale, uguale agli altri, a parte nel leggere, dove fa più fatica
degli altri;
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• uno con dei problemi che si possono risolvere, che si sente a disagio
se deve leggere ad alta voce, ma sa che migliorerà;
• è intelligente e ha doti particolari: fa fatica a leggere e si vergogna;
• uno che va male a scuola, fa fatica e non sarebbe male aiutarlo;
• uguale agli altri, un genio come Einstein, che, nonostante il problema della dislessia, ha fatto quello che ha fatto;
• un ragazzo normale. Non riesce a leggere benissimo, fa più fatica
degli altri, ci mette più tempo ma non è la fine del mondo: c’è chi
sta peggio;
• normale e più intelligente;
• un ragazzo che fa fatica a leggere e quindi anche a studiare; è un
ragazzo normale che può fare quello che fanno gli altri se riceve
alcune facilitazioni per la lettura;
• una persona che si sente presa in giro, non a posto;
• un ragazzo con qualche difficoltà a introdurre sms nella sua mente;
capisce con tempi più lunghi;
• uno che fa più fatica a fare tutto.
E per i genitori?
•
•
•
•
•
come tutti gli altri;
un bambino normale con difficoltà a capire, a leggere;
un bambino con difficoltà scolastiche;
un ragazzo con un pochino di problemi;
uno che fa fatica a leggere e non può godere del piacere della lettura;
• una persona normale;
• una persona per la quale i metodi tradizionali di insegnamento
devono essere arricchiti con strumenti adatti quali computer,
schemi o filastrocche per meglio fissare le cose imparate;
• una persona che ha bisogno di più attenzione.
Come viene vissuta la dislessia
Solitamente quando un bambino dislessico muove i primi passi
nel mondo della scuola incontra grosse difficoltà che colgono tutti di
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sorpresa: fino a quel momento non aveva presentato problemi particolari e le insegnanti della scuola dell’infanzia non avevano riportato
ai genitori difficoltà di apprendimento.
Di fronte alla difficoltà di lettura, ogni attore coinvolto attiva
risorse e interpretazioni diverse: le insegnanti si interrogano sul metodo di insegnamento utilizzato, magari dubitano dell’impegno e della
costanza nell’esercizio da parte del bambino; i genitori sostengono
il figlio nei compiti, a volte lo esasperano, altre volte credono che lo
stile di insegnamento sia la causa delle difficoltà, altre volte dubitano
delle capacità del figlio o del suo impegno; il piccolo studente esprime il suo disagio come può: piangendo, facendo i capricci, evitando
di leggere e rifiutandosi di fare i compiti oppure mostrando poco
interesse verso il lavoro scolastico.
A un certo punto di questa storia, che è per tutti diversa, ma
che ha come comune denominatore la sofferenza e l’inspiegabilità di
determinate difficoltà, sorge l’ipotesi che a questa situazione si possa
dare un nome e che il nome possa essere «dislessia».
Quando il ragazzo e i genitori scelgono di iniziare un percorso
diagnostico, portano in valutazione un mondo di significati, da loro
costruiti o mediati socialmente e culturalmente, riguardo alle difficoltà
di lettura e alle possibilità di intervento, che incidono profondamente
sul ruolo che la dislessia riveste nella loro vita.
I significati portati si muovono spesso sul continuum di alcune
dimensioni, che tratteremo qui di seguito, analizzando per ciascuna
i due poli estremi attraverso esempi tratti dalla nostra esperienza
quotidiana con i ragazzi dislessici e con i loro genitori.
Il tempo
Qual è il momento giusto per iniziare un percorso valutativo?
Quando è lecito preoccuparsi per una difficoltà di lettura del proprio
figlio o alunno?
Questi sono i dubbi che spesso ci vengono portati dai genitori
e dagli insegnanti: il quando sembra assumere un ruolo centrale e
oscurare il come, che invece riveste un’importanza fondamentale.
Infatti è importante non solo il momento preciso in cui il bambino o ragazzo arriva in valutazione, ma anche come si è arrivati a
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La prima valutazione
Dato il persistere delle difficoltà di lettura, grafia e ortografia
di Alex, nonché del suo disagio emotivo quando non riesce a fare
qualcosa, le insegnanti propongono ai genitori di rivolgersi al Servizio
territoriale di Neuropsichiatria.
Il secondo giorno di scuola della seconda elementare Alex comincia il percorso di valutazione (ci dice oggi: «Ah, ecco, perché mi
piaceva andare: saltavo la scuola!»), svolto in circa dieci mesi; emergono difficoltà di apprendimento genericamente spiegate, un quadro
cognitivo molto buono e viene posto l’accento sulla problematica
emotiva, con riferimento in particolare all’atteggiamento della mamma, che crea ansia in Alex.
Sarebbe proficuo l’intervento della logopedista, ma, dati i due
anni di lista d’attesa, gli insegnanti e gli specialisti concordano con
il proporre che Alex svolga i compiti a casa seguito da una ragazza e
non dalla mamma.
L’insegnante di italiano prepara esercizi specifici, relativi alle
difficoltà ortografiche, su appositi quaderni, che accompagneranno
Alex fino alla quinta elementare.
Ci appare chiaro come allora avesse preso il dominio l’interpretazione in chiave emotiva della difficoltà di lettura, accompagnata dal dubbio di svogliatezza da parte di Alex e di mancanza
di presenza e costanza della mamma nell’esercitarlo, ad esempio,
sulle tabelline.
La donna ricorda le parole utilizzate dall’insegnante nel proporle le ripetizioni: «Prendi una ragazza, perché se fa con te i compiti
piange!». Paradossalmente, ha chiesto il part time al lavoro, pur fra
molte difficoltà, per aiutare il figlio al pomeriggio; si trova, invece,
relegata in sala, mentre Alex in cucina svolge esercizi, per i quali
sarebbe tranquillamente in grado di dargli supporto.
Per il bene di Alex accetta questa situazione, nella quale sembra
essere causa di tanto disagio nel figlio. Ora ci racconta intensamente,
come se fossero episodi accaduti da poco, la sua tensione quando al
pomeriggio si trovava in sala, cambiando canali della televisione, ma
senza di fatto riuscire a fare niente, se non a pensare al suo bimbo
in cucina e alla sua impotenza nell’aiutarlo. Ricorda che non poteva
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andare neanche a lavare i piatti in cucina, perché la ragazza diceva
che agitava il figlio.
Questa situazione permane per tutti i cinque anni della scuola
primaria, senza sostanziali cambiamenti: Alex continua a essere riconosciuto nelle sue capacità di comprensione, così come continua
a far veramente fatica a leggere e a calcolare.
Alex ci racconta come momento poco piacevole quello degli
esami di quinta elementare, dove i suoi desideri non si incontrano con
le idee delle insegnanti rispetto a che cosa sarebbe stato facilitante per
lui: le insegnanti, conoscendo la sua probabile lentezza negli scritti,
lo convocano per ultimo nelle interrogazioni orali; Alex, conoscendo
la sua ansia, avrebbe tanto voluto essere il primo.
Ci fa amaramente sorridere questa immagine, perché dopo
cinque anni nei quali le insegnanti hanno considerato come preponderanti le difficoltà emotive di Alex, si scoprono a considerare
prioritariamente la sua lentezza di lettura proprio nel giorno in cui
lui vorrebbe che fosse ascoltata l’ansia per l’esame.
La scuola media: colloqui e colloqui, fino a…
L’immagine di se stesso che Alex continua a portare nello zaino
alle medie è quella di un ragazzo che si impegna poco seriamente;
esattamente l’opposto di quello che è per natura, non solo per necessità, dovendo passare più ore sui libri rispetto ai suoi compagni
per cercare di domare la difficoltà di lettura.
Le medie sono caratterizzate da un turn over di professori; a
ogni cambio, Alex dice alla mamma: «Mamma, prof. nuovo, vai a
parlargli!».
E la mamma va a raccontare del problema emotivo di Alex,
così da evitare che venga penalizzato per gli errori di ortografia e la
lentezza.
E racconta questa storia, fino a quando, in seconda media, la
nuova professoressa di italiano gliene suggerisce un’altra intitolata
«dislessia»: la professoressa evidenzia in Alex, infatti, difficoltà che
potrebbero far pensare a questo disturbo.
I genitori si documentano fra Internet ed enciclopedie e propongono ad Alex un’ulteriore valutazione.
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deriso dagli amici, e che la scuola organizzi una corsa campestre di
fine anno; i suoi genitori potrebbero scegliere, per proteggerlo, per
non metterlo in ridicolo, per non soffrire e non farlo soffrire, di non
iscriverlo alla corsa. Così facendo, però, non metterebbero il proprio
figlio in condizione di allenarsi e di migliorare, di sperimentarsi e di
attrezzarsi eventualmente verso una delusione.
Potrebbero, invece, iscriverlo alla corsa, con nessuna aspettativa.
E se il figlio avesse una prestazione dignitosa, quali possibilità gli
sarebbero garantite di gioirne, senza pensare a interpretazioni diverse
(è stato un caso, che non si ripeterà; è stato aiutato; non diamogli
troppe illusioni, ecc.)?
Abbiamo scelto di raccontare il rischio che la dislessia possa
essere interpretata come difficoltà intellettiva importante attraverso
una storia che infonde speranza, la storia di Marta.
La storia di Marta
Conosciamo i genitori di Marta — Luisa e Marco — quando
Marta è in terza elementare.
Li vediamo come una coppia molto affiatata e presente nell’educazione dei figli; ci comunicano un affetto profondo nei confronti dei
loro cinque figli (due dei quali, Marta e suo fratello, adottati). Pensiamo
subito alla fortuna di Marta di aver trovato tanto calore e attenzione.
Ci chiedono una presa in carico per un trattamento riabilitativo
logopedico, su indicazione di un centro specialistico, che ha da poco
effettuato una valutazione approfondita di Marta, ponendo una diagnosi di livello cognitivo limite e precisando che non è stato possibile
stabilire se le difficoltà rilevate negli apprendimenti fossero associate
allo stato cognitivo globale o piuttosto suggerissero la presenza di
disturbi specifici.
«Stato cognitivo limite»: cosa si intende?
Si parla di stato cognitivo limite quando i risultati nei test
intellettivi si collocano al di sotto della norma, avvicinandosi a un
punteggio che segna la lieve insufficienza mentale.
Il termine richiama, quindi, situazioni di difficoltà nelle aree
della comprensione e del ragionamento, quelle aree che generalmente ognuno di noi sente più vicine al concetto di intelligenza.
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I genitori sono molto preoccupati per questa diagnosi, che
vivono come definitiva e non modificabile. È così, del resto, che è
stata loro presentata.
Ricordano con grande sofferenza la frase con cui lo specialista ha
accompagnato la diagnosi: «Preparatevi a dover sempre aiutare vostra
figlia, perché non sarà un’adulta autonoma», con un forte richiamo
a una situazione di chiara insufficienza mentale.
I genitori, di fronte a questa doccia fredda, sentono di dover
mettere anche gli altri figli al corrente del problema di Marta e comunicano loro quanto è emerso dalla valutazione, così da poter capire e
aiutare la bambina nella sua crescita, con le adeguate aspettative.
Sono sempre stati consapevoli, infatti, delle difficoltà di Marta,
ma tendevano a imputarle alla sua storia personale e non a un quadro
patologico; avevano cercato di spronarla e ci riportano un forte senso
di colpa per averla messa di fronte a compiti che non poteva (e non
avrebbe potuto in futuro) svolgere.
Sinceramente anche noi durante il primo colloquio facciamo
fatica a non pensare alla frase detta dalla specialista.
«Preparatevi a dover sempre aiutare vostra figlia, perché non
sarà un’adulta autonoma»
È una frase molto pesante, che non può non echeggiare…
… nei genitori
Che immagine vi sarebbe dolorosamente venuta in mente se
vi avessero detto che vostra figlia non sarebbe stata un’adulta
autonoma? Forse l’immagine di quelle persone che non riescono
a gestirsi neanche nel quotidiano, ad avere un lavoro, una vita
sociale, una casa propria. Un’immagine molto probabilmente di
una grave disabilità intellettiva.
E provate a mettervi nei panni di un genitore che ama la
propria figlia, ha dei dubbi sulle sue difficoltà, a volte la vede
fragile su cose così apparentemente banali come l’autonomia
personale, ma che ha sempre cercato di spronarla, pensando a
una situazione di normalità.
Un bel giorno vi dicono invece che vostra figlia «non ce la fa».
Pensiamo che un turbinio di emozioni entri senza bussare
alla porta di questo genitore: il dolore e la preoccupazione, anche
per il futuro, quando non potrà più sostenerla; il senso di colpa,
per averla a volte sgridata, per essersi arrabbiato per degli errori
commessi, per non averla capita, per la fatica di accettare le difficoltà; il disorientamento su cosa sia meglio fare; la fatica di non
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In questo capitolo ci soffermiamo maggiormente sull’intervento
di valutazione e riabilitazione che abbiamo svolto, presentando il
percorso di Elia in modo puntuale, scrivendo una sorta di diario,
proprio per permettere di comprendere la grande difficoltà iniziale
del bambino e i suoi meravigliosi miglioramenti.
La storia della difficoltà di lettura di Elia
La mamma si rivolge a noi, quando mancano pochi giorni
all’inizio della seconda classe primaria, preoccupata perché Elia non
solo non ha imparato a leggere né a scrivere nel corso del primo anno
di scuola, ma non riconosce nemmeno le singole lettere. Ci chiede
un intervento sulle difficoltà di apprendimento del figlio, intervento
che, secondo lei, non può essere rinviato: la sofferenza di Elia rispetto
a queste difficoltà diviene ogni giorno più evidente.
La donna racconta che il primo campanello di allarme scatta
dopo quattro mesi di scuola, quando, in occasione del colloquio per la
consegna delle schede di valutazione, le insegnanti segnalano un forte
ritardo di Elia nell’apprendimento della letto-scrittura, riportando
difficoltà importanti nel riconoscimento delle lettere.
Questa difficoltà così marcata appare loro molto «strana»,
soprattutto in considerazione del metodo di insegnamento della
letto-scrittura utilizzato, metodo che prevede l’apprendimento di un
solo carattere, stampato maiuscolo, e la presentazione molto graduale
delle singole lettere.
Le maestre non appaiono particolarmente preoccupate e
sembrano imputare le difficoltà al fatto che Elia è nato alla fine
dell’anno e che, quindi, è più piccolo dei compagni; tuttavia, viene
proposto, e accettato dalla mamma, l’intervento dello psicologo
scolastico.
Nel frattempo, Elia comincia a uscire sempre più spesso dalla
classe con un compagno in situazione di handicap e con l’insegnante
di sostegno: Elia «sembra» contento di questa soluzione, anzi a volte
è proprio lui che chiede di uscire, parla spesso e volentieri di questo
compagno; con il passare delle settimane parla quasi solo di lui e
dell’insegnante di sostegno.
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Dopo alcuni incontri, lo psicologo convoca la mamma, la rassicura, dice che prima o poi avverrà «il miracolo»: improvvisamente,
senza che nessuno se ne accorga, Elia imparerà a leggere e a scrivere. Lo psicologo è certo che serva solo un po’ di pazienza e valuta
positivamente le attività proposte all’esterno della classe a Elia e al
compagno in difficoltà, in quanto ormai il programma della classe,
soprattutto quello di lingua, è troppo distante dal livello raggiunto
dal bambino e non appare più proponibile.
Elia comincia a manifestare in modi diversi il proprio disagio;
inizialmente affrontava le difficoltà con il suo modo di fare scherzoso e simpatico; la mamma ricorda che di fronte ai compiti che non
riusciva a svolgere, «faceva lo stupidino, scherzava, cercava di farti
ridere e di farsi aiutare»; non era oppositivo, non si lamentava, non
faceva capricci ed era sempre entusiasta, o perlomeno così si mostrava,
di andare a scuola.
Con il passare del tempo Elia inizia a sorridere e a scherzare
sempre meno, non gioca più volentieri; anche in casa si isola, sembra
non avere più interessi, non parla più dei compagni né delle insegnanti, sembra molto triste, «depresso», secondo la definizione della
mamma.
Alla fine dell’anno scolastico non ci sono progressi dal punto
di vista dell’apprendimento e anche le insegnanti rilevano un disagio
emotivo sempre più forte.
A questo punto la sofferenza di Elia nei confronti delle difficoltà
scolastiche è così evidente che la mamma decide di non iscriverlo
all’oratorio estivo perché tra le attività proposte ogni giorno c’è un’ora
di lavoro dedicata ai compiti.
Elia non è in grado di affrontare il libro delle vacanze senza un
supporto costante: non sa leggere, non sa scrivere e non conosce i
numeri; comprende bene ciò che gli viene letto dagli altri e oralmente
risponde bene alle domande, ma quando viene messo di fronte ai
compiti non possiede alcuna autonomia e si demoralizza.
La mamma crede che all’oratorio estivo il momento dei compiti potrebbe essere troppo frustrante; così, nonostante le difficoltà
organizzative, Elia trascorre l’estate a casa con i nonni.
La mamma, preoccupata, chiede consiglio alle insegnanti e
alle amiche, contatta diversi servizi con liste d’attesa più o meno
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sce negativamente sulla possibilità di sviluppare adeguate abilità di
comprensione del testo e sensibilità metacognitiva.
Tommaso assume infatti un atteggiamento passivo e sfiduciato
nei confronti dello studio, mostra una scarsa consapevolezza delle
strategie che potrebbero facilitarlo e un limitato senso di autoefficacia;
generalizza le proprie difficoltà e non è in grado di esplorare i campi
dove è, potenzialmente, più competente.
Parallelamente, invece, si rilevano ottime abilità visuospaziali e
visuocostruttive e un brillante livello cognitivo.
Tommaso appare inoltre motivato e sinceramente interessato
alla scuola superiore che frequenta, scuola che del resto ben aderisce
non solo agli interessi, ma anche alle sue competenze in matematica
e disegno.
Essere dislessico
La diagnosi di dislessia, come spesso accade, fa nascere nei
genitori un profondo senso di colpa: per non aver capito prima, per
averlo sgridato, per averlo a volte trattato male.
Nel contempo, però, dà loro la chiave per capire una situazione
che fino a quel momento appariva incomprensibile.
Dopo breve si sentono più leggeri, provano quasi un senso di
«liberazione», perché si dicono: «Se c’è un problema, c’è una soluzione».
Per Tommaso la diagnosi è un vero sollievo e l’occasione per
capire meglio le proprie difficoltà.
Quando gli viene illustrata la proposta di lavoro e gli viene
spiegato che per lui è possibile migliorare le abilità di lettura e di
scrittura, per poter affrontare con meno fatica il percorso scolastico,
accetta volentieri, anche se — come oggi ci confida — pensa che
per lui sarà un cammino infinito: «Vedevo che in studio venivano
tanti bambini piccoli e pensavo: starò qua per anni e anni, invece è
stato velocissimo». Guardando indietro, a noi il percorso fatto con
Tommaso è sembrato lungo, intenso e anche faticoso, ma siamo
contente che lui lo ricordi così: «velocissimo». Sicuramente, per
lui, è stato molto più veloce e meno faticoso dei precedenti anni
scolastici.
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Le prime tappe di intervento
E dopo la diagnosi, cosa fare?
Tommaso non è in grado di affrontare autonomamente il
programma di prima superiore; qualcuno che lo aiuti nella lettura
o un sintetizzatore vocale non sembrano essere soluzioni delle
quali possa inizialmente fruire positivamente, in quanto è troppo
forte il suo senso di impotenza: tanti anni di difficoltà gli hanno
impedito di sviluppare abilità metacognitive, di comprensione del
testo e strategie di studio; traspare, inoltre, la consapevolezza e la
rassegnazione di chi sa che sta combattendo una battaglia persa in
partenza.
Noi siamo molto più fiduciose e non vogliamo assolutamente
aiutare Tommaso ad alzare la bandiera bianca nella sua lotta contro le
difficoltà scolastiche; la scuola scelta sembra essere proprio quella giusta
per lui, risponde ai suoi interessi e alle sue competenze e sarebbe un
peccato non aiutare Tommaso a prendere possesso del suo banco.
Decidiamo, nonostante la situazione veramente compromessa,
che Tommaso può farcela a non essere bocciato; la soluzione migliore
ci sembra proprio essere una bella promozione, faticosamente conquistata e sinceramente meritata, che gli dia la forza di affrontare la
sua difficoltà di lettura.
Chiediamo la sospensione del progetto passerella e proponiamo
un intervento iniziale sulle abilità di studio, rimandando alle vacanze
estive la riabilitazione specifica della lettura.
Quale proposta riabilitativa per Tommaso?
Al termine del percorso valutativo, nel formulare una proposta
di intervento riabilitativo, ci troviamo a scartare un’ipotesi di lavoro che apparentemente sembra la più ragionevole e scontata:
le abilità di lettura di Tommaso sono deficitarie in modo molto
grave e non gli permettono di affrontare il lavoro scolastico in
autonomia, l’anno scolastico sembra ormai perso e quindi a
livello teorico la scelta sembra essere inevitabilmente quella di
proporre un percorso riabilitativo sulle difficoltà di lettura seguito
da un lavoro sulle abilità di studio per permettere a Tommaso
di ripetere l’anno con strumenti diversi e più adeguati che gli
garantiscano migliori risultati in quella che, secondo noi, è la
scuola giusta per lui.
Ci chiediamo però quanto potrebbe essere doloroso questo percorso per Tommaso, quanto soffrirebbe nello stare per
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quattro mesi in un banco con la certezza che quello non sia,
almeno per il momento, il posto giusto per lui; come motivarlo
al cambiamento in una prospettiva temporale così statica. Ci
rendiamo conto che i vantaggi che otterrebbe mettendosi in
gioco nel percorso riabilitativo sono troppo scarsi per motivare
un investimento attivo e partecipe: di certo migliorerebbe le
proprie abilità di lettura, ma questo miglioramento non si trasferirebbe automaticamente nel suo rendimento scolastico, che
sicuramente è la cosa che gli interessa maggiormente. Questo
miglioramento non salverebbe il suo anno scolastico e probabilmente non potrebbe in alcun modo contribuire in modo positivo
al suo scarso senso di autoefficacia, che sarebbe ulteriormente
colpito dalla bocciatura.
In seguito a queste considerazioni, decidiamo di fare una
proposta alternativa, rischiosa, ma che ci sembra corrispondere
maggiormente ai desideri di Tommaso e che pertanto ci sembra
potergli dare la motivazione necessaria per mettersi in gioco nel
percorso riabilitativo.
Proponiamo prima un lavoro sulle abilità di studio e sulle
competenze metacognitive, con l’obiettivo di raggiungere la
promozione, e solo successivamente intraprendiamo il percorso
riabilitativo specifico sulla lettura.
Adesso, dopo diversi anni, siamo certe di aver fatto la scelta
giusta, ma siamo altrettanto certe che, senza la collaborazione
e la condivisione del progetto con gli insegnanti, con la famiglia
e con lo stesso Tommaso, ogni nostra proposta sarebbe stata
inefficace.
La fiducia, una grande forza propulsiva
Il «piano di battaglia» viene condiviso prima con Tommaso
e i suoi genitori, poi con gli insegnanti, e sottoscritto da tutti con
grande e fruttuosa compartecipazione: la scuola toglie immediatamente Tommaso dal progetto passerella e gli insegnanti si rendono
disponibili a programmare delle interrogazioni orali e a permettergli
di recuperare oralmente le verifiche scritte nelle quali non raggiunge
la sufficienza; in parallelo, noi predisponiamo un progetto di intervento che si focalizza sulle abilità di comprensione del testo, sulle
strategie di studio, utilizzando rigorosamente solo il suo materiale
scolastico; i genitori ci portano Tommaso tre volte la settimana e si
rendono disponibili ad aiutarlo nei compiti; soprattutto, Tommaso
ci mette l’impegno che da tempo non trovava il coraggio di dedicare
al lavoro scolastico.
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CAPITOLO SESTO
Sara: sapere di essere
dislessica ma non sapere
di poter migliorare
Alle elementari facevo fatica con l’inglese, ora molto meno.
La riabilitazione mi ha aiutato a superare
il problema della dislessia.
Abbiamo conosciuto molti ragazzi ai quali, a fronte di una
diagnosi di dislessia, non era stato proposto un percorso di riabilitazione. Differenti le motivazioni, alle quali desideriamo affiancare le
nostre personali riflessioni.
1. Il confidare, per un ragazzo con dislessia lieve, nelle sue capacità di
fronteggiare la difficoltà senza un intervento esterno. Proprio perché il
problema è lieve, la riabilitazione può essere efficace in poco tempo,
con un ottimo rapporto tra costi e benefici; inoltre, affrontare una
riabilitazione non significa delegare ad altri il proprio miglioramento,
ma essere attivamente impegnati nella costruzione dello stesso.
2. L’affidarsi totalmente a strumenti compensativi e a misure dispensative. La loro adozione e la riabilitazione non si escludono vicendevolmente; al contrario, la riabilitazione consente di vivere gli
strumenti in modo individualizzato, evolutivo, non definitorio
e maggiormente attivo. Il rischio, a nostro avviso, sotteso alla
proposta di fruire di una dispensa o di una compensazione senza
un intervento riabilitativo è quello di far vivere le difficoltà come
stabili e non modificabili, di impedire di sperimentare le competenze e di non promuovere un investimento dell’impegno volto
al cambiamento.
3. Personale insufficiente, non in grado di coprire il bisogno. Questo
aspetto dovrebbe tradursi in un impegno politico e sociale, volto
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a garantire la possibilità di fruire entro tempi adeguati dell’intervento riabilitativo.
4. Non proporre la riabilitazione dopo l’età della scuola elementare.
Numerose sono le evidenze di efficacia del trattamento riabilitativo
anche oltre la scuola elementare.
Sara, pur avendo avuto la diagnosi di dislessia in terza elementare,
ha affrontato il percorso riabilitativo solo in seconda media.
La storia di Sara
Quando chiediamo a Sara, che ha adesso sedici anni, di raccontarci la sua storia, comincia così:
Delle elementari mi ricordo che in prima facevamo dei giochi
e la maestra ci raccontava le storie seduti sul tappeto volante
[…], poi mi ricordo che non ho mai imparato la tabellina dell’8…
non la so neanche adesso.
Pochi ricordi, un po’ confusi, ma alcune cose le ricorda bene.
Ricorda che leggeva male, che quando le hanno detto che era dislessica
è stata contenta, perché in qualche modo finalmente risultava chiaro
quello che lei già sapeva: anche se si impegnava, la sua lettura non
migliorava. Ricorda anche le lacrime, perché non si sentiva capita.
Ci dice: «Le mie insegnanti dicevano che non leggevo bene
perché mi impegnavo poco; un giorno la mia insegnante mi ha detto
di leggere e io ho anche pianto perché pensavo che non era colpa
mia se leggevo così».
I compiti a casa
Anche per i genitori ripercorrere le tappe della scuola di Sara
non è facile.
Il loro ricordo rispetto ai primi anni di scuola è ancora vivido
e carico di sofferenza: ci parlano di una bimba che non impara le
tabelline, che non riesce ad automatizzare i meccanismi di calcolo
anche più semplici, ci raccontano di una bambina che non impara a
leggere e che non riesce a scrivere al ritmo dei compagni.
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cambiare completamente anche i risultati scolastici: il timore, cioè,
che un insegnante nuovo non riuscisse a vedere le competenze oltre
la dislessia, non tollerasse gli errori ortografici, la lentezza, lo sforzo
per aspetti che per gli altri sono automatici.
Nel liceo in Accademia (del quale Andrea ha un’immagine molto
cinematografica) pensa, invece, che contino le qualità fisiche di agilità
e resistenza, nelle quali si sente competente e sulle quali si è costruito
un’idea di sé che vale: in sintesi, non correrà alcun rischio.
A questo punto aiutiamo Andrea a mettere in discussione le sue
idee rigide e molto irrazionali ed esasperate, che lo fanno soffrire: la
paura che la dislessia sia vista dagli altri come un segno di anormalità
e scarsa intelligenza e la convinzione che la fatica nella fisicità sia un
valore riconosciuto dagli altri, mentre la fatica nei compiti cognitivi
(che Andrea ben conosce) sia segno di scarsa intelligenza.
Alla fine di questo percorso, nel quale andiamo oltre alla scelta
della scuola, perché Andrea ci fa conoscere le sue paure, la sua preferenza si dirige verso un istituto alberghiero.
Dopo il primo anno
Andrea conclude il primo anno di scuola superiore con la media
del sette, senza riportare debiti formativi, ed è molto soddisfatto della
sua esperienza scolastica.
Ha instaurato dei buoni rapporti con i professori, «che cercano di
aiutare tutti in ogni modo, non solo me perché sono dislessico»; spesso
alcuni professori gli dicono che non riescono a capire la sua dislessia,
perché sembra non incidere più: nelle materie di studio va molto bene e
anche in matematica, dove ha sempre fatto fatica, non ha difficoltà.
Le attività di laboratorio sono la sua passione: Andrea partecipa con impegno e sincero interesse, ci racconta che ognuno ha
una mansione specifica, ma lui cerca sempre di fare qualcosa in più
(non aver fatto il militare non significa rinunciare al proprio spirito
competitivo); è attentissimo e ricorda ogni dettaglio, tanto che viene
additato da alcuni compagni come «il secchione».
Anche i genitori sono molto contenti, sia perché vedono Andrea
felice e appagato, sia perché Andrea trasferisce in ambiente domestico
tutto ciò che impara, preparando deliziosi pranzi per tutti.
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Alla fine, sceglie comunque una divisa: quella, però, più appetitosa del cuoco.
Cosa ci ha insegnato Andrea
Andrea è riuscito a superare le resistenze che si era costruito e
a seguire i propri interessi e inclinazioni.
Essere dislessici non significa rinunciare ai propri sogni né dover
dimostrare di valere attraverso una scelta magari non desiderata.
Abbiamo accompagnato in questi anni ragazzi dislessici in
diversi tipi di scuola, dal liceo a corsi professionali, da ragioneria al
liceo artistico.
Per ognuno dei nostri ragazzi abbiamo ritenuto la riflessione
sull’orientamento parte integrante del percorso riabilitativo, nella
consapevolezza, come ben ci fa capire Andrea, che il «disorientamento»
è una grande opportunità per fermarsi e guardarsi dentro.
Del resto, come afferma Nietzsche, «bisogna aver dentro di sé
il caos, per partorire una stella che danzi».
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dente e lettore, insieme alle preoccupazioni e ai dubbi che passano
nella loro mente.
Tornano con la memoria a poche settimane dopo l’inizio della
scuola elementare, quando già intuiscono che questa nuova esperienza
scolastica di Davide si connoterà in modo completamente differente dalla precedente positiva e serena esperienza della scuola dell’infanzia.
L’apprendimento della lettura e delle scrittura è fin dall’inizio
un’impresa veramente faticosa: quando i compagni leggono e scrivono, lui ancora non riesce a riconoscere le lettere, le confonde, non
le ricorda.
Quando a scuola si trova da solo di fronte al foglio bianco, non
sa da che parte cominciare e, a volte, il foglio si riempie di lettere
sparse, altre volte rimane bianco: bianco nel senso letterale del termine,
perché nella sua scuola non si usano fogli a righe o a quadretti, ma
quaderni con le pagine completamente bianche, che per Davide sono
un ulteriore ostacolo frapposto fra lui e la scrittura.
La mamma lo aiuta costantemente nei compiti, ma spesso ha
la percezione che lui non la voglia proprio ascoltare; si rifiuta di fare
cose semplicissime, spesso fa i capricci e, come accade a molti bambini
dislessici, il momento dei compiti termina con sgridate, castighi e
nervosismo generale.
Con il trascorrere del tempo, né l’atteggiamento di Davide né
le sue competenze migliorano; al contrario le sue difficoltà diventano
sempre più evidenti e la scuola diviene l’incubo di tutta la famiglia.
La mamma inizia a preoccuparsi e pensa che forse c’è qualcosa
che non va; ne parla con le insegnanti e in seconda elementare si
rivolge al servizio territoriale per una valutazione diagnostica.
Un bambino pigro
Dopo una serie di incontri, ai genitori viene detto che Davide
non ha alcun problema psicologico né di apprendimento: è solo un
bimbo pigro, un po’ infantile, che ha ancora voglia di giocare.
Oggi Davide racconta così l’esito di questo percorso diagnostico,
quando gli chiediamo di venire con noi in una scuola superiore a portare la sua testimonianza: «La psicologa mi ha detto che… insomma…
che ero un “fancazzista”… che non avevo voglia di fare niente».
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Le insegnanti condividono la diagnosi: da sempre vedono Davide
come un alunno pigro con scarse risorse.
I genitori, però, non sono soddisfatti e si rivolgono al dirigente
scolastico per sottoporgli le problematiche di Davide e per chiedere
aiuto; dopo qualche mese ha inizio un percorso di osservazione con
la psicopedagogista della scuola, al termine del quale viene formulata
un’ipotesi di dislessia e viene suggerito ai genitori di rivolgersi a un
centro specialistico. È a questo punto della storia che noi conosciamo
Davide e la sua famiglia.
Un bambino dislessico: per la scuola sempre un bambino pigro e non solo
Iniziamo con Davide un percorso di valutazione che porta alla
diagnosi di dislessia e disortografia; i genitori si ritrovano in questa
diagnosi e condividono senza riserve la proposta di un percorso
riabilitativo.
Molto più ardua è la condivisione della diagnosi con le insegnanti, che non sono disposte a modificare l’immagine che si sono
fatte di Davide, immagine che, oltretutto, è stata confermata da
specialisti.
Anche se nel tempo si susseguono diversi incontri, ai quali
fanno seguito piccoli cambiamenti, l’esperienza di Davide alle scuole
elementari non può dirsi positiva.
La cosa che lo fa soffrire di più è l’abitudine delle insegnanti di
dividere gli alunni in gruppi di livello, con automatico suo inserimento
nel gruppo dei «meno bravi».
Durante i lavori nel piccolo gruppo, Davide appare demotivato,
non accetta i suggerimenti e i consigli dell’insegnante, sembra apatico
e non riesce a svolgere nemmeno semplici consegne.
Questo viene interpretato dalle insegnanti come indicatore di
scarso impegno e del fatto che le sue difficoltà sono più generalizzate
e non investono solo l’ambito della lettura.
In realtà, in tali occasioni, il problema non sono le sue competenze e nemmeno la sua dislessia: il problema è il contesto, che non
favorisce i processi di apprendimento. Davide è troppo arrabbiato,
troppo deluso per poter imparare e, con il suo atteggiamento superficiale e di scarso impegno, maschera proprio la rabbia e l’amarezza.
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