Sentenza del Tribunale di Trento del 4 aprile 2013

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Sentenza del Tribunale di Trento del 4 aprile 2013
REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE DI TRENTO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
il dott. Giorgio Flaim, quale giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nelle cause per controversia in materia di lavoro promosse con ricorso
depositato in data 29.12.2011
d a
Z. J.
rappresentata e difesa dagli avv. ti
Annelise Filz e Alessio Giovanazzi, ed
elettivamente domiciliata presso lo studio del primo, in Trento, via Calepina,75,
ricorrente
c o n t r o
F.E.M.
in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. S.
C. ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. M. V., in Trento, …
convenuto
CONCLUSIONI DI PARTE RICORRENTE
“Nel merito, in via principale,
accertare e dichiarare nulla, inefficace o comunque invalida la clausola appositiva
del termine al contratto di lavoro dd. 1.2.2008 e l’illegittimità dei contratti
succedutisi nel tempo a termine, prestazione d’opera, collaborazione coordinata e
continuativa ed in ultimo a progetto intercorsi tra le parti dall’1.4.2001 al 31.7.2007
e per l’effetto accertare e dichiarare che il rapporto di lavoro tra Z. J. e la F. E. M.
si è costituito perlomeno dall’1.4.2001 a
tempo indeterminata e/o disporsi la
conversione dei contratti impugnati in contratto a tempo indeterminato e
a) per l’effetto ordinare la reintegrazione della lavoratrice e condannare la F. E.
M.a risarcirle il danno in base a quanto disposto dall’art. 18 L. 300/1970 ed al
pagamento della contribuzione omessa e/o delle differenze retributive non pagate in
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forza dei particolari tipi di contratto posti in essere nel corso del rapporto
lavorativo;
b) in subordine, ove si ritenesse applicabile quanto previsto dall’art. 32 L.
183/2010, alla corresponsione dell’indennità ivi prevista, nella misura che sarà
ritenuta opportuna, oltre al pagamento della contribuzione omessa.
Nel merito, in via subordinata:
accertato che i contratti di lavoro a progetto che hanno caratterizzato il rapporto
lavorativo per numerosi anni siano da dichiararsi illegittimi e pertanto in
applicazione di quanto stabilito dall’art. 69 d.lgs. 276/2003 considerarli e
convertirli in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con le
conseguenze in termini contribuzioni, indennità risarcitorie ed effetto domino sul
successivo contratto e
a) per l’effetto ordinare la reintegrazione della lavoratrice e condannare la F. E.
M. a risarcirle il danno in base a quanto disposto dall’art. 18 L. 300/1970 ed al
pagamento della contribuzione omessa e/o delle differenze retributive non pagate in
forza dei particolari tipi di contratto posti in essere nel corso del rapporto
lavorativo;
b) in subordine, ove si ritenesse applicabile quanto previsto dall’art. 32 L. 183/2010
alla corresponsione dell’indennità ivi prevista, nella misura che sarà ritenuta
opportuna, oltre al pagamento della contribuzione omessa.
Nel merito, in ulteriore subordine:
1) accertare e dichiarare che la mancata stabilizzazione di Z. J. è determinata da
motivi di discriminazione di genere;
2) per l’effetto condannare la F. E. M. a procedere all’immediata stabilizzazione
della dipendente, reintegrando la ricorrente nel posto di lavoro ed a risarcirle il
danno dando applicazione a
quanto disposto dall’art. 18 L. 300/1970 o, in
subordine, a corrisponderle le retribuzioni ed a versarle la contribuzione
previdenziale dall’1.1.2011 alla data di effettiva reintegrazione o, in ulteriore
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subordine, a risarcirle il danno commisurandolo alle retribuzioni non corrisposte
nel medesimo periodo ed alla contribuzione omessa.
In ogni caso:
con vittoria di spese, diritti ed onorari, oltre al 12,5% ex art. 15 T.P., IVA e CNPA”.
CONCLUSIONI DI PARTE CONVENUTA
“In via preliminare ed assorbente:
accertarsi e dichiararsi l’intervenuta decadenza, da parte della ricorrente, da ogni
diritto all’impugnazione eppertanto l’inammissibilità del ricorso.
Nel merito ed in via subordinata:
respingere ogni avversaria domanda, principale e subordinata, per infondatezza
in fatto ed in diritto, mancato assolvimento dell’onere di allegazione e prova e
comunque per decadenza dell’onere suddetto.
In ogni caso:
con vittoria di spese, diritti ed onorari di lite oltre agli accessori di legge, da
liquidarsi equitativamente a mente dell’ art. 2223 c.c.”
PREMESSA
Il ricorso risulta depositato in data 29.12.2011.
Ne consegue che:
1)
Trova applicazione la novella dell’art. 429 co.1 cod.proc.civ. introdotta dall’art. 53
co.2 D.L. 25.6.2008, n. 112, conv. con L. 6.8.2008, secondo cui “nell'udienza il
giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia
sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, mentre solo “in caso di particolare
complessità della controversia” (certamente non ricorrente nella fattispecie in esame)
“il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il
deposito della sentenza”;
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infatti l’art. 56 D.L. 112/2008 prescrive che il novellato 429 cod. proc. Civ. “si
applica ai giudizi instaurati dalla data della sua entrata in vigore” ossia, alla luce del
disposto ex art. 86 D.L. cit., a decorrere dal 25 giugno 2008.
Secondi i primi commenti dottrinali il modello di sentenza delineato dal nuovo art.
429 co.1 cod.proc.civ. è riconducibile a quello descritto dall’art. 281-sexies
cod.proc.civ., il quale dispone che “il giudice, fatte precisare le conclusioni, può
ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte,
in un’udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando
lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto
della decisione.
In tal caso, la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del
giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”.
2)
Trova, altresì, applicazione la novella dell’art. 118 disp.att. c.p.c., introdotta dall’art.
52 co.5 L. 18.6.2009, n. 69, secondo cui “La motivazione della sentenza di cui
all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta
esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione,
anche con riferimento a precedenti conformi”;
infatti l’art. 58 L. 69/2008 prevede: “Fatto salvo quanto previsto dai commi
successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura
civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai
giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”;
ne consegue che la presente sentenza non conterrà alcuna descrizione dello
svolgimento del processo.
Ma vi è di più:
l’obbligo di immediata lettura comporta necessariamente che la motivazione possa (e
debba) contenere unicamente gli elementi indispensabili al fine di non cadere nel
vizio di omessa o insufficiente motivazione, ricorrente, secondo gli insegnamenti
della Suprema Corte (ex multis, anche di recente, Cass. S.U. 21.12.2009, n. 26825;
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Cass. sez. L. 23.12.2009, n. 27162; Cass. sez. L. 6.3.2008, n. 6064; Cass. sez. L.
3.8.2007, n. 17076;), quando le argomentazioni del giudice non consentano di
ripercorrere l'iter logico, che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo
convincimento, o esibiscano al loro interno un insanabile contrasto ovvero quando
nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della
controversia e/o di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione.
Il perseguimento dell’obiettivo, imposto al giudice del lavoro dalla novella dell’art.
429 co.1 cod. proc.civ. di redigere una sentenza priva di elementi non essenziali ai
fini della decisione, appare agevolato dal principio, consolidato nella giurisprudenza
della Suprema Corte (ex multis, di recente, Cass. 24.11.2009, n. 24542; Cass. sez. L.
18.6.2007, n. 14084; Cass. sez. L. 2.2.2007, n.2272; Cass. 27.7.2006, n. 17145;),
secondo cui, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito
adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al
fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è
sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in
questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente
incompatibili con esse.
MOTIVAZIONE
le domande proposte dalla ricorrente
La ricorrente – premesso di aver prestato attività lavorativa:
A) in favore dell’I. A. S. M. A.
I)
con mansioni di addetto a lavori di vendemmia e vinificazione in forza di
contratti a tempo determinato 1.6.-30.9.1997, 1.8.-30.9.1998 e 1.8.199931.5.2000,
II)
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratti di lavoro
subordinato a tempo determinato 1.4.-31.8.2001 e 1.1.-28.2.2002,
III)
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratto d’opera 1.3.31.12.2002),
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IV)
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratto di collaborazione
coordinata e continuativa 1.1.-31.12.2003,
V)
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratti di collaborazione
coordinata e continuativa a progetto 1.1.-31.7.2004, 1.8.-31.12.2004, 1.5.200530.4.2006,
VI)
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratto di lavoro
subordinato a tempo determinato 1.5.-30.11.2006,
VII)
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratti di collaborazione
coordinata e continuativa a progetto 1.12.2006-31.5.2007, 1.6.2007-31.1.2008,
B) in favore della F. E. M.
con mansioni di tecnico di laboratorio in forza di contratto di lavoro subordinato a
tempo determinato 1.2.2008-31.12.2010,
senza essere stata stabilizzata nell’ambito della procedura ex L.P. 2.8.2004, n. 114 e
dell’art. 73 lett. a) e b) CCPL per il personale delle Fondazioni –
agisce:
A) in via principale
per la conversione di tutti i contratti indicati sub A) e B), previa declaratoria della
nullità delle clausole appositive del termine finale ivi contenute, con conseguente
condanna dell’ente convenuto alla reintegrazione ed al pagamento delle retribuzioni
maturate o, in subordine, al pagamento dell’indennità ex art. 32 co.5 L. 4.11.2010, n.
183;
B) in via subordinata
per la conversione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto
indicati sub A) - V) e VII), previo accertamento dell’insussistenza di validi progetti,
con conseguente condanna dell’ente convenuto alla reintegrazione ed al pagamento
delle retribuzioni maturate o, in subordine, al pagamento dell’indennità ex art. 32 co.5
L. 4.11.2010, n. 183;
C) in via ulteriormente subordinata
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per la condanna dell’ente convenuto, previa declaratoria che la sua mancata
stabilizzazione è stata determinata da motivi di discriminazione di genere,
all’immediata stabilizzazione con conseguente reintegrazione e pagamento delle
retribuzioni maturate.
in ordine all’ eccezione di decadenza sollevata dall’ente convenuto in riferimento e
alle domande proposte dalla ricorrente sub A) e B)
L’ente convenuto eccepisce in riferimento alle domande di conversione dei contratti
stipulati dalle parti ed indicati sub A) e B) la decadenza ex art. 32 co.3, lett. a) e co. 4
lett. a) e b) L. 4.10.2010, n.183, asserendo che l’impugnazione proposta in data
25.7.2011 è tardiva in quanto effettuata:
A) sia oltre il termine previsto dall’art. 32 co 3 lett. a) L. 183/2010, in ordine ai
contratti di prestazione d’opera, di collaborazione coordinata e continuative e di
collaborazione coordinata e continuativa a progetto indicati sub A) – III), IV), V)
e VII),
B) sia oltre il termine previsto dall’art. 32 co.4 lett. b) L. 183/2010, in ordine ai
contratti di lavoro subordinato a tempo determinato indicati sub A) – I). II) e VI)
nonché sub B),
--L’eccezione non è fondata.
A)
Le fattispecie concernenti i contratti di prestazione d’opera, di collaborazione
coordinata e continuative e di collaborazione coordinata e continuativa a progetto
indicati sub A) – III), IV), V) e VII) – nei quali si pone, in primo luogo, la questione
della qualificazione del rapporto di lavoro, asserendo il ricorrente di aver eseguito le
sue
prestazioni, in favore dell’I. A.S. M.A., con modalità proprie della
subordinazione – sono sussumibili a quella prevista dal disposto ex art. 32 co 3 lett.
a) L. 183/2010, secondo cui “le disposizioni di cui all’ articolo 6 della legge 15
luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano
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inoltre: a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative
alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto
al contratto…”.
Sennonché la legge 183/2010, in quanto pubblicata in Gazzetta Ufficiale il
15.11.2010, è entrata in vigore il 24.11.2010;
quindi a quell’epoca i rapporti di lavoro scaturenti dai contratti di prestazione
d’opera, di collaborazione coordinata e continuative e di collaborazione coordinata e
continuativa a progetto indicati sub A) – III), IV), V) e VII) erano già tutti cessati.
Ne consegue che l’applicazione al caso in esame del termine di decadenza ex art. 6
L. 604/1966, come modificato dall’art. 32 co.1 L. 183/2010, presupporrebbe
un’efficacia retroattiva di quest’ultima norma (che, pur essendo entrata in vigore il
24.11.2010, disciplinerebbe le cessazioni di rapporti di lavoro avvenute in epoca
anteriore), che, tuttavia, non trova fondamento in una specifica disposizione,
necessaria a derogare la regola generale ex art. 11 co.1 disp.prel.cod.civ. (“La legge
non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”).
D’altra parte, ponendosi una questione in ordine alla qualificazione di un rapporto di
lavoro costituito nelle forme di un rapporto di lavoro autonomo, non può trovare
applicazione il disposto ex art. 32 co.4 lett. b) L. 183/2010 (secondo cui “le
disposizioni di cui all’ articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato
dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:… b) ai contratti di lavoro a
termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto
legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore
della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della
presente legge;”) in quanto risulta evidente che il riferimento “ai contratti di lavoro
a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al
decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368” concerne esclusivamente i contratti di
lavoro subordinato a tempo determinato (disciplinati dal d.lgs. 368/2001 e dalle
norme di legge ad esso previgenti);
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quindi per questi contratti l’impugnazione della cessazione del rapporto non è
assoggettata neppure ad un termine di decadenza scadente il 23.1.2011 (ossia 60
giorni dall’entrata in vigore della L. 183/2010, in data 24.11.2010).
B)
In ordine ai contratti di lavoro subordinato a tempo determinato indicati sub A) – I).
II) e VI) trova applicazione il disposto ex art. 32 co 4 lett. b) L. 183/2010 (secondo
cui “le disposizioni di cui all’ articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come
modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:… b) ai contratti
di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge
previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di
entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di
entrata in vigore della presente legge;”).
In ordine al contratto di lavoro subordinato a tempo determinato indicato sub B)
trova applicazione il disposto ex art. 32 co.4 lett. a) L. 183/2010 (secondo cui “le
disposizioni di cui all’ articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato
dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: a) ai contratti di lavoro a
termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre
2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente
legge, con decorrenza dalla scadenza del termine”.
Tuttavia nessun termine di decadenza ai fini dell’impugnazione è maturato in
relazione a questi contratti di lavoro subordinato a tempo determinato:
sia l’art. 32 co 3 lett. a) L. 183/2010, sia l’art. 32 co.4 lett. b) L. 183/2010 prevedono
l’estensione della sfera di applicazione dell’ “articolo 6 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo” (contra, con
motivazione non persuasiva, limitatamente al termine decadenza ex art. 32 co.4 lett.
b) L. 183/2010, Trib. Milano 29.9.2011, fondata esclusivamente su di un opinabile
ordine del giorno approvato dalla Camera dei Deputati in data 25.2.2011), ma l’art.
32 co.1bis L. 183/2010 stabilisce che “in sede di prima applicazione, le disposizioni
di cui all’ articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come
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modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni
per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31
dicembre 2011”;
dalla locuzione “in sede di prima applicazione” si evince che quest’ultima norma
(introdotta con l’art. 2 co.54 D.L. 29.12.2010, n. 225 conv. con L. 26.2.2010, n. 11)
trova applicazione a far data dell’entrata in vigore dell’art. 32 co.4, che ha
modificato l’art. 6 L. 604/1966 e ne ha esteso la sfera di applicazione (in questo
senso Trib. Milano 4.8.2011);
affermare, come ritiene l’ente convenuto, che tale norma si applichi unicamente ai
termini di impugnazione dei licenziamenti ex art. 6 co.1 L. 604/1966, anziché a
quelli afferenti la domanda di accertamento della nullità della clausola appositiva del
termine finale, pure previsti dallo stesso art. 6 per effetto dell’ampliamento della
sfera di applicazione di questa norma disposta dall’art. 32 co. 4 L. 183/2010,
significa sostenere che il legislatore d’urgenza è intervenuto per sospendere
l’efficacia di una norma, quale quella ex art. 6 co. 1 L. 604/1966 riferita ai
licenziamenti, che era in vigore da oltre quarant’anni, e non già dell’estensione della
stessa norma ai contratti di lavoro a tempo determinato disposta pochi mesi prima, il
che aveva provocato, a causa dell’introduzione ex novo di un termine di decadenza,
una restrizione in via immediata della possibilità di esercitare la tutela avverso i
contratti di lavoro a termine illegittimi;
ciò appare del tutto paradossale ed irragionevole.
quindi l’ente convenuto non può invocare la scadenza di termini di decadenza alla
data del 23.1.2011 (per i contratti indicati sub A)) ed alla data del 2.3.2011 (per il
contratto indicato sub B)) ossia in epoca antecedente quella (1.1.2012) di estensione
della sfera di applicazione dell’art. 6 L. 604/1966, da cui è derivata la rilevanza per
la fattispecie in esame di quei termini di decadenza;
di contro appare tempestiva, in quanto intervenuta prima del 1.3.2012 (60° giorno a
decorrere dal 31.12.2011, come prescritto dall’art. 2 co. 54 D.L. 225/2010),
l’impugnazione proposta in data 25.7.2011 dalla ricorrente.
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in ordine alle domande di conversione dei contratti stipulati dalla ricorrente con
l’I. A. S. M.’A. ed indicati sub A)
Le domande di conversione in contratti a tempo indeterminato dei contratti stipulati
dalla ricorrente con l’ I. A. S. M. A. ed indicati sub A) non sono fondate.
Appare pacifico che l’I. A. S. M. A. era un ente di natura pubblica;
lo stabiliva espressamente l’art. 1 co.2 L.P. 5.11.1990, n. 28, secondo cui “l'I. a. ha
sede in S. M. A. ed è dotato di personalità giuridica di diritto pubblico”.
Quindi trovava applicazione la disciplina dettata per i rapporti di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni (come confermato dall’art. 17 co.3 lett. c)
L.P. 28/1990, il quale richiamava “la normativa della Provincia autonoma di Trento
relativa al personale che svolge analoghe funzioni”);
in proposito l’art. 36 co.5 d.lgs. 30.3.2001, n. 165 dispone: “In ogni caso, la
violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di
lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la
costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche
amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore
interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro
in violazione di disposizioni imperative” (la stessa norma viene richiamata dall’art. 37
co. 5 ultimo periodo L.P. 3.4.1997, n. 7, secondo cui “in materia di violazione di
disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori si applica
l'articolo 36, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)”.
Corte Cost. 13.3.2003, n. 89, nel decidere la questione se tale disposizione sia
legittima nella parte in cui esclude che la violazione di disposizioni imperative
riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche
amministrazioni, possa comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ha statuito che “…il
principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina
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del lavoro privato, dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97, terzo
comma, della Costituzione. L'esistenza di tale principio, posto a presidio delle
esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, di cui al primo
comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non
omogeneità - sotto l'aspetto considerato - delle situazioni poste a confronto dal
rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme
imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori da parte delle
amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in
luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori
privati”.
Inoltre la Suprema Corte, oltre a ribadire le considerazioni del giudice delle leggi
(Cass. 20.3.2012, n. 4417; Cass. 13.1.2012, n. 392; Cass. 15.6.2010, n. 14350; Cass.
23.5.2003, n. 8229; Cass. 2.5.2003, n. 6699;), ha precisato (Cass. 7.5.2008, n. 11161;)
– a fronte dell’assunto di un ricorrente per cassazione secondo cui la trasformazione
del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato non è impedita dal
divieto posto dall’art. 36 co.5 d.lgs. 165/2001 qualora il contratto di lavoro con
clausola appositiva del termine nulla si riferisca a soggetti già positivamente valutati
in una procedura concorsuale – che tale divieto si riferisce anche all’ipotesi in cui la
violazione di disposizioni imperative sulle assunzioni riguardi persone risultate idonee
in una procedura concorsuale atteso che l’osservanza del precetto ex art. 97 co.3 Cost.
“è garantito solo dalla circostanza che l'aspirante abbia vinto il concorso, non
essendo sufficiente il mero risultato di idoneità”.
Il divieto, previsto dal legislatore nazionale, di conversione in contratti a tempo
indeterminato dei contratti di lavoro con
pubbliche amministrazioni contenenti
clausole appositive del termine finale affette da nullità, non appare in contrasto con il
diritto dell’Unione Europea alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia
(sentenza 7.9.2006, causa C-53/04, Marrosu e Sardino; 7.9.2006, causa C-180/04,
Vassallo; conf. 1.10.2010, causa C-3/10, Affatato;), la quale, in ordine alla questione
pregiudiziale “Se la direttiva 1999/70/CE (articolo 1 nonché clausole 1, lett. b, e
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clausola 5 dell’accordo quadro (…)) debba essere intesa nel senso che osta ad una
disciplina interna (previgente all’attuazione della direttiva stessa) che differenzia i
contratti di lavoro stipulati con la pubblica amministrazione, rispetto ai contratti con
datori di lavoro privati, escludendo i primi dalla tutela rappresentata dalla
costituzione d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di violazione di
regole imperative sulla successione dei contratti a termine”, ha così statuito (in
sentenza Marrosu e Sardino cit. punto 57): “…si deve risolvere la questione sollevata
dichiarando che l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso non
osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso
derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo
determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi
siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre
tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un
datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga
un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo
abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di
lavoro rientrante nel settore pubblico”;
in particolare ritiene la Corte (Marrosu e Sardino cit. punti 47-55):
“47…dal momento che (la clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro ) non stabilisce
un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a
tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non
stabilisce nemmeno le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi
(sentenza Adeneler e a., cit., punto 91), essa lascia agli Stati membri un certo margine
di discrezionalità in materia. 48
Ne consegue che la clausola 5 dell’accordo
quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente
al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in
successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro
appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore
pubblico. 49
Tuttavia, come risulta dal punto 105 della citata sentenza Adeneler
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e a., affinché una normativa nazionale, come quella controversa nella causa
principale, che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di
lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato,
possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico
interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra
misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di
contratti a tempo determinato stipulati in successione. 50
Per quanto riguarda
quest’ultima condizione, occorre ricordare che la clausola 5, punto 1, dell’accordo
quadro impone agli Stati membri l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle
misure enumerate in tale disposizione e dirette a prevenire l’utilizzo abusivo di una
successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, qualora il diritto
nazionale non preveda già misure equivalenti. 51
Inoltre quando, come nel caso di
specie, il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano
stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure
adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un
carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e
dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione
dell’accordo quadro (sentenza Adeneler e a., cit., punto 94). 52
Anche se le
modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento giuridico interno
degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi,
esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni
analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento
giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 14
dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12, nonché
Adeneler e a., cit., punto 95). 53
Ne consegue che, quando si sia verificato un
ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve
poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei
lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze
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della violazione del diritto comunitario. Infatti, secondo i termini stessi dell’art. 2,
primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le
disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti
dalla [detta] direttiva» (sentenza Adeneler e a., cit., punto 102). 54
Non spetta alla
Corte pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, compito che incombe
esclusivamente al giudice del rinvio, il quale deve, nella fattispecie, determinare se i
requisiti ricordati ai tre punti precedenti siano soddisfatti dalla normativa nazionale
pertinente. Tuttavia la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire,
ove necessario, precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua
interpretazione (v. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a.,
Racc. pag. I-1609, punti 76 e 77). 55
A tal riguardo occorre rilevare che una
normativa nazionale quale quella controversa nella causa principale, che prevede
norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato,
nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa del ricorso
abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o
rapporti di lavoro a tempo determinato, sembra prima facie soddisfare i requisiti
ricordati ai punti 51-53 della presente sentenza..”
Sussistono, quindi, ragioni ostative insuperabili alla condivisione di quel minoritario
orientamento della giurisprudenza di merito (Trib. Livorno 26.11.2010; Trib. Siena
13.12.2010; Trib. Napoli 16.6.2011; Trib. Trani 18.6.2011; ), che, seppur con diverse
motivazioni, ha accolto le domande, proposte da lavoratori alle dipendenze di
pubbliche amministrazioni, di conversione di rapporti di lavoro a termine in rapporti a
tempo indeterminato.
Nelle note finali autorizzate (pag. 13) parte ricorrente configura la successione della
F. E. M. all’I. A. S. M. A.;
tuttavia tale ricostruzione non può comunque giovare alla ricorrente, atteso che non
può essere fatto valere nei confronti dell’ente subentrante un effetto giuridico (quale la
conversione dei contratti stipulati prima della cessione) che non si era già prodotto nei
confronti dell’ente cedente.
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In definitiva devono essere rigettate le domande di conversione in contratti a tempo
indeterminato dei contratti stipulati dalla ricorrente con l’ I. A. S. M. A. ed indicati
sub A) .
In proposito l’analisi può fermarsi qui, non avendo la ricorrente proposto la domanda
di risarcimento danni ex art. 36 co.5, ultimo periodo d.lgs. 165/2001, secondo cui “il
lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione
di lavoro in violazione di disposizioni imperative”.
in ordine alla domanda di conversione del contratto stipulato dalla ricorrente con
l’I. A. S. M. A. ed indicati sub B)
E’, invece, fondata la domanda di conversione in contratto a tempo indeterminato del
contratto stipulato dalla ricorrente con la F. E. M. in data 31.1.2008 per il periodo
1.2.2008-31.12.2010.
--Emerge per tabulas (doc. 1 fasc.ric.) che detto contratto è stato stipulato al fine di
soddisfare “esigenze di carattere tecnico, organizzativo e produttivo connesse al
progetto di ricerca “Breeding molecolare applicato alla vite” ”.
Orbene, in ordine allo svolgimento in concreto del rapporto di lavoro scaturito da tale
contratto, è stato compiutamente accertato grazie ai risultati dell’espletata istruttoria
che:
I)
solo fino alla fine del 2008 la ricorrente è stata addetta alle attività connesse al
progetto di ricerca “Breeding molecolare applicato alla vite”;
in proposito la teste G. M. S. ha dichiarato: “… Lavoro alle dipendenze dell’ente
convenuto… Lavoro come ricercatrice responsabile di un gruppo di ricerca. La
ricorrente ha operato nell’ambito del mio gruppo di ricerca fino alla fine del 2008;
la ricorrente svolgeva mansioni di tecnico di laboratorio. Confermo che il mio
gruppo di ricerca operava nell’ambito del Dipartimento Genomica e Biologia…
All’interno del Dipartimento hanno operato sempre più gruppi di ricerca. Il
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laboratorio presso cui era addetta la ricorrente operava prevalentemente per il mio
gruppo… Nell’anno 2008 la ricorrente ha
all’epoca
lavorato presso il mio gruppo che
seguiva il progetto “Breeding molecolare applicato alla vite”. La
ricorrente quindi nel 2008 ha svolto mansioni di tecnico di laboratorio funzionali a
detto progetto…”;
II)
invece a partire dal 2009 la ricorrente è stata addetta alla nuova piattaforma
tecnologica che si occupa di genotipizzazione e sequenziamento in favore di una
pluralità di gruppi di ricerca e quindi le sue prestazioni hanno soddisfatto esigenze
tecniche, organizzative e produttive diverse da quelle indicate nel contratto di lavoro
a tempo determinato da lei sottoscritto con la F. E. M. in data 31.1.2008;
in proposito sempre la teste G. ha dichiarato: “Dopo il 2008 il mio gruppo ha
continuato a lavorare sul progetto di ricerca “Breeding molecolare applicato alla
vite”. La ricorrente non è stata più inserita nel mio gruppo, ma è stata trasferita alla
nuova piattaforma tecnologica, la quale si occupa di genotipizzazione e
sequenziamento in favore di una pluralità di gruppi di ricerca. Detta piattaforma
costituisce uno dei “net
laboratories”. Presso detta piattaforma sono state
accentrate le analisi meno complesse e più ripetitive; presso i gruppi di ricerca
sono rimasti comunque i laboratori effettuate le analisi di maggiore complessità...”;
parimenti il teste V. R., responsabile del Dipartimento Genomica e Biologia, ha
confermato che prima dell’inizio del congedo di maternità (8.5.2009) “la ricorrente
ha lavorato presso la piattaforma “genotipizzazione e sequenziamento””; inoltre ha
pure confermato che “la ricorrente, al rientro dal congedo di maternità, è stata
addetta alla piattaforma nel periodo settembre-dicembre 2010”.
In definitiva, fatta eccezione per i primi dodici mesi (anno 2008), la ricorrente ha
svolto, per i successivi otto mesi di lavoro effettivo (avendo per il resto della durata
del rapporto fruito del congedo di maternità), prestazioni lavorative dirette a
soddisfare esigenze tecniche, organizzative e produttive diverse da quelle indicate nel
contratto di lavoro a tempo determinato da lei sottoscritto con la F. E. M., venendo
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addetta non più al laboratorio utilizzato dal gruppo che seguiva il progetto di ricerca
“Breeding molecolare applicato alla vite”, ma alla nuova piattaforma piattaforma
tecnologica, la quale si occupa di genotipizzazione e sequenziamento in favore di una
pluralità di gruppi di ricerca.
--Tale divergenza – tra le esigenze poste a giustificazione dell’apposizione del termine
finale al contratto di lavoro subordinato a tempo determinato e quelle in concreto
soddisfatte dalle prestazioni eseguite dalla ricorrente in favore della F. convenuta –
comporta – stante la natura di soggetto privato del datore di lavoro (come
esplicitamente ammesso dalla convenuta a pag. 17 della memoria di costituzione,
alla luce del chiaro disposto dell’art. 13 L.P. 2.8.2005, n. 14, secondo cui “i rapporti
di lavoro dei dipendenti delle fondazioni sono disciplinati dalle disposizioni del
codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa e sono
costituiti e regolati contrattualmente”) – la conversione di quel contratto in contratto
a tempo indeterminato.
Infatti l’art. 1 d.lgs. 368/2001 dispone: “Il contratto di lavoro subordinato è stipulato
di regola a tempo indeterminato. 1. È consentita l'apposizione di un termine alla
durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del
datore di lavoro. 2. L'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta,
direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di
cui al comma 1”;
Come già evidenziato dal giudice delle leggi (Corte Cost. 14.7.2009, n. 214;) nonché
dalla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 27.1.2011, n. 1931;
Cass. 12.7.2010, n. 16303; Cass. 27.4.2010, n. 10033; Cass.1.2.2010, n. 2279; Cass.
21.5.2008, n. 12895;) la ratio sottesa alla prescrizione formale ex art. 1 co.2 d.lgs.
368/2001 – che impone la specificazione (per iscritto) delle ragioni “di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria
attività del datore di lavoro”, di cui al co.1 – è quella di garantire la trasparenza, la
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veridicità e l’immodificabilità di tali ragioni, consentendo al lavoratore di conoscerle
preventivamente ed al giudice di verificarne l’effettiva connessione con la durata
solo temporanea della prestazione (in particolare accertando se il lavoratore sia
state effettivamente utilizzato per soddisfare le ragioni indicate specificamente
per iscritto).
In relazione a tale obbligo di specificazione Cass. 2279/2010 ha osservato:
“Con l'espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole
usate, il legislatore ha infatti inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione
delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la
trasparenza e la veridicità dì tali ragioni nonché l'immodificabilità delle stesse nel
corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214).
Il decreto legislativo n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida
tipicizzazione delle causali che consentono l'apposizione dì un termine finale al
rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore
precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali
(ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le
singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il
problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine
comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21
maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell'adozione di una tale tecnica.
Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell'istituto, il legislatore ha
imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a
giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto
di lavoro, attraverso la previsione dell'onere di specificazione, vale a dire di una
indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti
identificative essenziali, sia quanto al contenuto che con riguardo alla sua portata
spazio-temporale e più in generale circostanziale. In altri termini, per le finalità
indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto in prima
battuta dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera
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da rendere possibile la conoscenza dell'effettiva portata delle stesse e quindi il
controllo di effettività delle stesse.
Che questo debba ritenersi il significato del termine "specificate" usato dall'art. 1,
comma 2, D.Lgs. cit., risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa
disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da
attuazione. In proposito, è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr.,
in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C - 378/07 a C - 380/07,
Kiriaki e altri nonché sent. 22 novembre 2005, C - 144/04, Mangold) che l'accordo
quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo sia
norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine sia norme riferibili
esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e quindi ai
lavoratori dei contratti a termine cd. successivi.
"Risulta infatti chiaramente sia dall'obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia
dall'accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che...
l'ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di
lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i
lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell'ambito di un determinato
rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal
numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori (punto 116 della
sentenza Kiriaki).
In particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3
dell'accordo, alla stregua della quale "la applicazione" (della direttiva) "non
costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai
lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo".
Tale clausola, cd. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di
giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a
termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato.
Ed infatti: "La verifica dell'esistenza di una reformatio in pejus ai sensi della
clausola 8 n. 3 dell'accordo quadro deve ritenersi in rapporto all'insieme delle
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disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori
in materia di contratti di lavoro a tempo determinato" (punto 120 della medesima
sentenza).
Come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non
regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della
tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di
modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e
sicurezza per i lavoratori.
A ciò consegue che una interpretazione del termine "specificate" che non consentisse,
nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera
diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non
regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell'accordo quadro recepito dalla direttiva, in
quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente
livello generale di tutela applicabile nello Stato Italiano e finirebbe altresì per
configurare un eccesso di delega da parte del governo rispetto a quanto stabilito
dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, che a questo attribuiva unicamente il potere di
attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati
dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare
disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti…”.
In termini perfettamente identici si è pronunciata più recentemente Cass. 1931/2011
cit. ed in termini analoghi Cass. 16303/2010 cit..
--In ordine alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo
indeterminato – qui conseguente all’intervenuta modifica delle originarie esigenze
tecniche, organizzative e produttive –
Cass. 21.5.2008, n. 12895 (conf. Cass.
15.11.2010, n. 23057;) ha statuito che anche nella vigenza del d.lgs. 368/2001 alla
nullità della clausola di apposizione del termine finale consegue la nullità parziale ex
art. 1419 co.2 cod.civ. relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato (“Tanto rilevato in generale, va, però, innanzitutto,
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precisato che l'accordo quadro (recepito dalla direttiva) non stabilisce un obbligo
generale degli Stati membri di prevedere una eventuale trasformazione in contratti a
tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato , così come esso,
peraltro, nemmeno stabilisce le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi
ultimi… tuttavia esso impone agli Stati membri di adottare almeno una delle misure
elencate nella clausola 5, n. 1, lett. da a) a c), che sono dirette a prevenire
efficacemente l'utilizzazione abusiva di contratti o rapporti a tempo determinato
successivi, pur restando fermo che gli Stati membri sono tenuti, in generale,
nell'ambito della libertà che viene loro lasciata dall'art. 249, comma 3 Trattato CE, a
scegliere le forme e i mezzi più idonei al fine di garantire l'efficacia pratica delle
direttive (v. sentenza "Adeneler" citata)…
Orbene, in tale quadro "comunitario"- relativamente al lavoro privato…il D.Lgs. n.
368 del 2001, art. 1 non prevede esplicitamente una sanzione per l'ipotesi della
mancanza delle prescritte ragioni giustificative, anche se: a) già nella sua
formulazione, per evidente argomentazione a contrario, indica chiaramente che, in
tale ipotesi, ciò che non è consentito dalla legge, con norma di inequivocabile
carattere imperativo, è espressamente la "apposizione di un termine alla durata del
contratto di lavoro subordinato"; b) nel comma successivo, dispone esplicitamente
che "l'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o
indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma
1". Invero la norma non può che essere letta nel suo insieme, nel sistema previsto
dall'ordinamento e nel quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata. In
primo luogo, osserva il Collegio che, se la ratio della previsione della specificazione
delle dette ragioni con forma scritta ad substantiam, è quella di garantire la certezza
della natura del contratto, responsabilizzando il consenso del lavoratore, e di
consentire al giudice il controllo effettivo del contenuto del contratto stesso,
verificando, attraverso la applicazione della clausola generale, la conformità tra gli
interessi programmati dalle parti e gli interessi riconosciuti meritevoli di tutela
attraverso la regolamentazione del contratto medesimo, ne consegue logicamente
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che, nella sostanza, le sanzioni non possono non essere accomunate dalla detta ratio,
tanto nel caso in cui il termine non risulti da atto scritto, quanto nel caso in cui
manchi la indicazione di una sufficiente ragione giustificativa.
In tale prospettiva, quindi, anche l'argomento "ubi lex voluit dixit" non può avere un
peso decisivo, tanto più se si considera che nel nostro ordinamento il meccanismo
della nullità parziale è attuato oggettivamente in funzione del principio della
conservazione del rapporto contrattuale, la quale, in sostanza, in generale,
costituisce la regola - principio che assume, altresì, una particolare rilevanza nel
diritto del lavoro. Al riguardo vanno ricordati i principi più volte affermati da questa
Corte, da un lato, circa il carattere eccezionale della nullità totale (v. fra le altre
Cass. 16-11-1996 n. 10050, Cass. 13-11-1997 n. 11248), dall'altro, circa la portata
della norma di cui al secondo comma dell'art. 1419 c.c.. In particolare è stato
affermato che ai fini dell'operatività della disposizione di cui all'art. 1419 cod. civ.,
comma 2 il quale contempla la sostituzione delle clausole nulle di un contratto
contrastanti con norme inderogabili, con la normativa legale, non si richiede che le
disposizioni inderogabili dispongano espressamente la sostituzione, in quanto "la
locuzione codicistica ("sono sostituite di diritto") va interpretata non nel senso
dell'esigenza di una previsione espressa della sostituzione, ma in quello
dell'automaticità della stessa, trattandosi di elementi necessari del contratto o di
aspetti tipici del rapporto, cui la legge ha apprestato una propria inderogabile
disciplina" (v. Cass. sez. 3^ 21- 8-1997 n. 7822, vedi anche Cass. sez. 3^ 22-5-2001 n.
6956, Cass. 5- 12-2003 n. 18654, contra cfr. Cass. sez. 2^ 28-6-2000 n. 8794, Cass.
sez. 3^ 22-3-2005 n. 6170). Tale indirizzo risulta coerente anche sul piano
sistematico (trascurato dalla tesi contraria), in rapporto al principio generale fissato
dall'art. 1339 c.c. che ha una portata generale nel quadro della (etero)integrazione
della regolamentazione contrattuale… La Corte costituzionale, infatti, (pur con
riferimento alla fattispecie del contratto di lavoro a tempo parziale) ha chiaramente
affermato, in generale, che: "L'art. 1419 c.c., comma 1 ... non è applicabile rispetto
al contratto di lavoro, allorquando la nullità della clausola derivi dalla contrarietà
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di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore, così come, più in generale,
la disciplina degli effetti della contrarietà del contratto a norme imperative trova in
questo campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto ad evitare
la conseguenza della nullità del contratto. Ciò in ragione del fatto che, se la norma
imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo
contrattuale gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del contratto
nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere….
Tutto ciò, del resto, rappresenta una naturale e generale conseguenza del fatto che,
nel campo del diritto del lavoro - in ragione della disuguaglianza di fatto delle parti
del contratto, dell'immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del
rapporto e, infine, dell'incidenza che la disciplina di quest'ultimo ha rispetto ad
interessi sociali e collettivi - le norme imperative non assolvono solo al ruolo di
condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme
collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente
rispetto all'autonomia individuale, cosicché il rapporto di lavoro, che pur trae vita
dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente
dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa. Non hanno quindi modo
di trovare applicazione, in questo campo, quei limiti alla operatività del principio di
conservazione del rapporto che sono strettamente collegati all'identificazione nel
contratto della fonte primaria del regolamento negoziale, come si verifica nell'ambito
della disciplina comune dei contratti. E la violazione del modello di contratto e di
rapporto imposto all'autonomia individuale da luogo, di regola, alla conformazione
reale del rapporto concreto al modello prescritto - per via di sostituzione o
integrazione della disciplina pattuita con quella legale ovvero per via del
disconoscimento di effetti alla sola disposizione contrattuale illegittima - e non già
alla riduzione del rapporto reale ad una condizione di totale o parziale irrilevanza
giuridica”.
In verità anche l’art. 32 co.5 L. 4.11.2010, n. 183, laddove dispone “nei casi di
conversione del contratto a tempo determinato…”, presuppone che dalla nullità della
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clausola appositiva del termine finale deriva la conversione in un rapporto a tempo
indeterminato;
in proposito Corte Cost. 11.11.2011, n. 3030, nel rigettare le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 32 co. 5, 6 e 7 L. 183/2010, ha precisato che “…la norma
scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore
illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest'ultimo
l'instaurazione
di
un
rapporto
di
lavoro
a
tempo
indeterminato.
Difatti, l'indennità prevista dall'art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va
chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a
termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del
rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore
precario. Non a caso, dall'esame dei lavori preparatori si desume che la disposizione
di cui all'art. 32, comma 5, dell'anzidetta legge dev'essere correttamente letta come
riferita alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo
indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento
del danno in favore del lavoratore dev'essere intesa “come aggiuntiva e non
sostitutiva della suddetta conversione” (ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto
al Senato della Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite nella seduta del 2
marzo 2010)”.
Quindi deve esser dichiarato che, a far data dall’1.1.2009 (epoca in cui è insorta la
divergenza tra le esigenze tecniche, organizzative e produttive indicate a fondamento
della clausola appositiva del termine finale del contratto sottoscritto dalle parti e
quelle effettivamente soddisfatte dalle prestazioni lavorative eseguite dalla ricorrente
in favore della convenuta), intercorre tra la ricorrente Z. J. e la F. E. M. un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato e pieno avente per oggetto mansioni di addetto tecnico
di IV livello –settore genetica CCPL per il personale delle Fondazioni ex L.P.
2.8.2005, n. 14.
--a)
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
25
In ordine alle retribuzioni maturate in epoca precedente la sentenza di accertamento
della nullità del termine (dalla cui scadenza anche nel caso in esame è cessata la
funzionalità di fatto del rapporto), prima dell’entrata in vigore della L. 183/2010 era
consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. S.U. 5.3.1991, n. 2334;
Cass.27.5.2009, n. 12343; Cass. 12.3.2009, n. 6010; Cass. 27.3.2008, n. 7979; Cass.
13.4.2007, n. 8903; Cass. 27.10.2005, n. 20858;), l’orientamento secondo cui, nel
caso di nullità della clausola di apposizione del termine finale, il prestatore, che vede
il suo rapporto di lavoro convertito in tempo indeterminato, ha diritto al risarcimento
dei danni subiti a causa dell'impossibilità di svolgere la prestazione, stante il rifiuto
ingiustificato del datore di lavoro di riceverla, danni corrispondenti alle retribuzioni
maturate dal momento in cui il lavoratore ha messo a disposizione del datore le
proprie energie, così costituendolo in mora ex art.1217 cod.civ. (analogamente anche
Cass. ord. 28.1.2011, n. 2112, su cui infra).
Profonde innovazioni ha introdotto l’art. 32 co.5 L. 183/2010, il quale prescrive:
“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il
datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità
onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati
nell’ articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604…”
La Suprema Corte (ord. 28.1.2011, n. 2112;) ha sollevato (come pure il tribunale di
Trani) questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 32 co.5 (nonché 6 e 7) ) L.
183/2010 in riferimento, per quanto qui rileva, agli artt. 3 co.2, 4, 24 e 111 Cost.
(“Il danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell'illegittima apposizione del
termine al contratto è pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell'inutile
offerta delle proprie prestazioni e fino al momento dell'effettiva riammissione in
servizio. Fino a questo momento, spesso futuro ed incerto durante lo svolgimento del
processo e non certo neppure quando viene emessa la sentenza di condanna, il danno
aumenta col decorso del tempo ed appare di dimensioni anch'esse non esattamente
prevedibili…La liquidazione di un'indennità eventualmente sproporzionata per
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difetto rispetto all'ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere
nell'inadempimento, eventualmente tentando di prolungare il processo oppure
sottraendosi all'esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di
realizzazione in forma specifica”) nonché all’art. 4 Cost. (stante la “non aderenza di
esse alla giurisprudenza comunitaria. La sproporzione fra la tenue indennità ed il
danno, che aumenta con la permanenza del comportamento illecito del datore di
lavoro, sembra contravvenire all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla direttiva 1999/70, che impone agli Stati
membri di "prevenire efficacemente l'utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di
lavoro a tempo determinato... ossia misure che devono rivestire un carattere non
soltanto proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per
garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro"
(Corte CE sent. e. 212/04, Adeneler) "Ne consegue che, qualora si sia verificato un
ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, si deve poter
applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei
lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze
della i violazione del diritto comunitario" (Corte CE sent. da C 378/07 a C 380/07,
Angelidaki )”.
Con la sentenza 303/2011 la Consulta ha dichiarato non fondate le suddette questioni.
Secondo il giudice delle leggi la disciplina ex art. 32 co.5 (nonché 6 e 7) L. 183/2010
è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno
di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze
verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno
secondo la legislazione previgente”.
Tale norma, che, come si è già visto, “non si limita a forfetizzare il risarcimento del
danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto,
assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato”, va intesa, in base ad una “interpretazione costituzionalmente
orientata”, nel senso che “il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto
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il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine
fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del
rapporto”, con la conseguenza che a partire da tale sentenza “è da ritenere che il
datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il
lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi
di mancata riammissione effettiva” (altrimenti risultando “completamente svuotata”
la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo
indeterminato. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento giudiziale
del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma
compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente
idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sé. E lo stesso
riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe
posto nel nulla.”)
Nel contempo “il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell'aliunde
perceptum. Sicché l'indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza
sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per
il avere il lavoratore prontamente reperito un'altra occupazione”.
In definitiva secondo Corte Cost. 303/2001 la norma risulta “adeguata a realizzare
un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”, atteso che: “Al lavoratore
garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro
a tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta sempre e
comunque, senza necessità né dell'offerta della prestazione, né di oneri probatori di
sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del
risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione
del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al
riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la
vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine
die”.
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Successivamente la Suprema Corte (Cass. 29.2.2012, n. 3056;) ha dichiarato di
aderire a tale interpretazione adeguatrice, ritenendo di non ravvisare una diversa
interpretazione “che sia parimenti non solo rispettosa della Costituzione, ma anche
del tutto conforme alla lettera e alla ratio della norma stessa”;
quindi l’indennità ex art. 32 co.5 L. 183/2010 si configura “come una sorta di penale
stabilita dalla legge – in stretta connessione funzionale con la declaratoria di
conversione del rapporto di lavoro – a carico del datore di lavoro per la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i
criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall'esistenza del danno effettivamente
subito dal lavoratore (e da ogni onere probatorio al riguardo) sia dalla messa in
mora del datore di lavoro, con carattere “forfetizzato”, “onnicomprensivo” di ogni
danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza
dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del
rapporto”.
La Corte non ha condiviso altre interpretazioni “che in qualche modo riducano o
eliminino il carattere “onnicomprensivo” dell'indennità, ovvero ne delimitino
ulteriormente il periodo di “copertura”, in ragione di elementi (come la messa in
mora o l'epoca della domanda) estranei alla fattispecie legale (al pari di quelle,
opposte, estensive del periodo medesimo)”.
In particolare, in relazione all’orientamento che fissa la data finale del periodo
coperto dall’indennità alla data della proposizione del ricorso giurisdizionale e non
già alla data della sentenza (Corte Appello Roma n. 547/2012; Corte Appello Torino
n. 1519/2011; Tribunale Napoli 16.11.2011;), occorre ricordare che la Consulta
(richiamando le proprie pronunce - sent. n. 298/2009, 86/2008, 282/2007, 354/2006,
ord. n. 102/2011, 109/2010, e 125/208) ha escluso che “inconvenienti solo eventuali e
di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da
situazioni occasionali e talora patologiche (come l'eccessiva durata dei processi in
alcuni uffici giudiziari)” possano rilevare ai fini del giudizio di legittimità
costituzionale; quanto alle “presunte disparità di trattamento ricollegabili al
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
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momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente
assunto a termine” ha rilevato non solo che “il processo è neutro rispetto alla tutela
offerta”, ma anche che “l'ordinamento predispone particolari rimedi, come quello
cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni
del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori
contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla L. 24 marzo 2001, n.
89”.
Di recente anche la Corte territoriale (ex multis Corte Appello Trento n. 42/2012) ha
statuito che l’indennità ex art. 32 co.5 L. 183/2010 è volta a risarcire la perdita delle
retribuzioni relative al periodo fino alla pronuncia della sentenza e non già alla
proposizione della domanda giudiziale.
Da ultimo l’art. 1 co.13 L. 28.6.2012, n. 92 (entrata in vigore in data 18.7.2012) ha
statuito: “La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 24 novembre
183, n, 183 si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il
pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive
relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del
provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di
lavoro”.
b)
L’art. 32 co.5 L. 183/2010 richiama, ai fini della commisurazione dell’indennità
risarcitoria tra il minimo di 2,5 ed il massimo di 12 mensilità, i criteri ex art. 8 L.
15.7.1966, n. 604 ovvero “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle
dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al
comportamento e alle condizioni delle parti”;
in proposito Corte Cost. 303/2011 ha evidenziato che “la garanzia economica in
questione non è né rigida, né uniforme” e, “anche attraverso il ricorso ai criteri
indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l'importo dell'indennità
da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del
contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell'anzianità lavorativa), la
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
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gravita della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili
sotto l'indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di
lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto
(riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni
dell'impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti”.
Venendo al caso in esame, considerando la durata triennale del rapporto di lavoro, la
non immediata reazione della lavoratrice ricorrente (che ha impugnato in data
25.7.2011 il contratto scaduto il 31.12.2010) e le non esigue dimensioni dell’azienda
datrice, appare equo quantificare l’indennità in misura pari a nove mensilità
corrispondente, in ragione di una retribuzione globale di fatto, quale emerge dai
prospetti paga prodotti dalla ricorrente (all’incirca € 1.707,83), ad € 15.370,47;
tale somma va maggiorata con gli interessi legali decorrenti dalla data odierna fino al
saldo.
in ordine alla domanda di condanna alla stabilizzazione
Essendo stata proposta in via subordinata rispetto a quella già accolta (inammissibile,
per evidente tardività, è l’inserimento dell’inciso “in via alternativa” inserito in sede
di note finali), appare superfluo procedere all’esame dell’ulteriore domanda proposta
dalla ricorrente e concernente la stabilizzazione, previa declaratoria che la sua
mancata stabilizzazione è stata determinata da motivi di discriminazione di genere;
ciò senza però non rilevare le singolarità di una procedura di stabilizzazione che:
a)
non ha previsto la predeterminazione di criteri generali ed astratti ai fini
dell’individuazione dei lavoratori da stabilizzare (come riferito dai testi V. e B.), il che
non appare di certo conforme ai “principi di pubblicità, trasparenza ed imparzialità”
richiamati nelle direttive impartite dalla Provincia Autonoma di Trento alle
Fondazioni (doc. 9 e 11 fasc. conv.);
b)
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ha comportato il consolidamento, mediante la costituzione di rapporti di lavoro a
tempo indeterminato, della stragrande maggioranza degli aspiranti (secondo il teste V.
“la differenza tra le persone che hanno partecipato alla stabilizzazione e quelle
stabilizzate è stato inferiore alle decina”; secondo il teste S.“solo due persone [tra cui
la ricorrente] non erano state stabilizzate”), tanto che il risultato appare più simile ad
una sanatoria che ad una stabilizzazione selettiva e ciò imponeva all’ente convenuto
un più stringente obbligo di motivazione della sua scelta;
c)
la ricorrente è stata ritenuta non adatta a ricoprire un posto (di addetta alla nuova
piattaforma tecnologica), le cui mansioni ella aveva già svolto per otto mesi;
d)
l’esclusione della ricorrente
dal novero degli stabilizzati è stata giustificata a
posteriori (difettando la predeterminazione di criteri generali ed astratti) dall’ente
convenuto con la maggiore complessità delle nuove piattaforme tecnologi rispetto ai
laboratori in precedenza utilizzati da ciascun gruppo di ricerca, mentre la teste G. ha
riferito circostanze diametralmente opposte, dichiarando che presso la “nuova
piattaforma tecnologica, la quale si occupa di genotipizzazione e sequenziamento…
sono state accentrate le analisi meno complesse e più ripetitive; presso i gruppi di
ricerca sono rimasti comunque i laboratori effettuate le analisi di maggiore
complessità...”;
appare evidente che un siffatto modus operandi poteva indurre la ricorrente ad
ipotizzare ragionevolmente di essere stata destinataria di determinazioni da parte della
F. convenuta non già discrezionali, ma, se non discriminatorie, quanto meno
arbitrarie.
in ordine alle spese
Le spese non possono che seguire la soccombenza.
P.Q.M.
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32
Il tribunale ordinario di Trento - sezione per le controversie di lavoro, in persona del
giudice istruttore, in funzione di giudice unico, dott. Giorgio Flaim, definitivamente
pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione rigettata, così decide:
1. Accerta la sopravvenuta inidoneità, a far data dal gennaio 2009, della
corrispondente clausola a giustificare l’apposizione del termine finale
(31.12.2010) al contratto di lavoro subordinato stipulato dalle parti in data
31.1.2008.
2. Dichiara che, a far data dal gennaio 2009, intercorre tra la ricorrente Z. J. e la
convenuta F. M. un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e pieno
avente per oggetto mansioni di addetto tecnico di IV livello – settore genetica
CCPL per il personale delle Fondazioni ex L.P. 2.8.2005, n. 14.
3. Condanna l’ente convenuto alla corresponsione, in favore della ricorrente,
dell’indennità risarcitoria ex art. 32 co.5 L. 183/2010, liquidata nella somma di €
15.370,47, pari a nove mensilità della retribuzione globale di fatto, con gli
interessi legali decorrenti dalla data odierna fino al saldo.
4. Condanna l’ente convenuto alla rifusione, in favore della ricorrente, delle spese
di giudizio liquidate nella somma complessiva di € 3.768,09, di cui € 3.500,00
per compenso ed € 268,09 per spese documentate, oltre ad I.V.A. e C.N.P.A..
Trento, 4 aprile 2013
IL FUNZIONARIO GIUDIZIARIO
Tiziana Oss Cazzador
IL GIUDICE
dott. Giorgio Flaim
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