Leggi di più - Oratorio di Nembro

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Membro - quarto incontro
Lettura del libro di Tobia:
l’epilogo
1. Un sorprendente epilogo
Per la ricerca intorno ad una ‘teologia della scrittura' il deuterocanonico Tobia offre
un’interessante finestra su quest’orizzonte esattamente nel primo dei tre momenti che fungono da
complesso epilogo dell’opera (Tb 12-14).
La prima tappa dell’epilogo è costituita appunto dal saluto dell’angelo che svela, oltre al ‘segreto
del re’, anche il mistero della propria identità (Tb 12); la seconda è costituita dal Cantico di Tobia,
in cui la prospettiva si allarga dalla storia di famiglia al destino di Gerusalemme come centro
escatologico dell’umanità (Tb 13); la terza è l’happy end della famiglia dell’anziano Tobi e del
giovane Tobia, che fornisce l’occasione al narratore per un’ulteriore delucidazione di una teologia
della storia elaborata alla luce del messaggio della profezia israelita (Tb 14).
Ora, nel congedo l’angelo Raffaele, alias Azaria, saluta la famigliola di Tobi e Tobia con queste
parole: «Ora benedite il Signore sulla terra e rendete grazie a Dio. Io ritorno a colui che mi ha
mandato. Scrivete tutte queste cose che vi sono accadute». Subito dopo il narratore aggiunge: «E
salì in alto. Essi si rialzarono, ma non poterono più vederlo» (Tb 12,20-21).
Indubbiamente ciò che risulta davvero sorprendente in questo saluto è dunque proprio l’ordine
impartito dall’angelo di scrivere tutto quanto è loro accaduto. Non solo, ma tale comando viene
immediatamente e almeno parzialmente eseguito da uno degli stessi protagonisti del libro, quasi
come da uno scrittore interno allo stesso racconto, poiché Tobi non si limita a proclamare il suo
Cantico della misericordia divina (Tb 13,1), ma lo redige per iscritto.
A tutto ciò intendiamo rivolgere ora la nostra attenzione al fine di evidenziare alcuni lineamenti
di una teologia della scrittura nella prospettiva del libro di Tobia.
1.1. Il libro: angelo necessario
Il libro non si limita a promettere al proprio lettore la possibilità di esperimentare la presenza
“angelica”, ma offre i criteri di discernimento della medesima. In questo senso è angelo necessario.
Immaginiamo qui una sorta di varianti alla nostra storia, come suggerisce R. Barthes di fare con
le opere che soffrono per un eccesso di consuetudine, che diventa spesso anche un effetto di cecità.
Ebbene, il racconto sembrerebbe procedere egualmente se invece dell’ordine angelico si annotasse
che i protagonisti umani della vicenda decisero autonomamente non solo di parlarne, ma anche di
scriverne.
La cosa sta invece diversamente: l’ordine di scrivere procede proprio dall’angelo e cioè, in
ultima analisi, da Colui di cui egli è messaggero. In questo l’autore di Tobia ha l’ardire di
avvicinare, anche senza omologarlo, il proprio scritto agli scritti ormai canonici delle Scritture
d’Israele. Egli ritiene che, nello scritto, il Dio che si rivela, che accompagna l’umanità nella
metafora dell’angelo, lascia un segno perpetuo della sua Parola e insieme offre i criteri per un suo
discernimento. Il comando di redigere per iscritto la storia occorsa non è dettato soltanto dal fatto
che la parola scritta garantisce una stabilità nel tempo, qualità che difetta spesso alla parola orale;
piuttosto vi soggiace l’idea che la parola scritta acquista rispetto alla parola orale un valore
supplementare, che conferisce ad essa un peso giuridico, normativo e quasi di testimonianza
inalterabile.
Non è qui tanto in questione la valutazione dell’autocomprensione del libro di Tobia, per quanto
riguarda la sua normatività rispetto al corpus degli scritti sacri di Israele, quanto del suo modo di
concepire la propria autorevolezza nell’indicare i criteri per riconoscere la presenza dell’angelo. Se
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l’angelo è necessario ad una vita sensata, il libro è messaggero necessario per discernere la presenza
e l’azione ‘angelica’.
Certamente il libro di Tobia chiede al proprio lettore una condizione previa di accesso: l’essere
disponibile allo sguardo della fede e lasciarsi portare come in disparte, cioè come avviene ai
protagonisti interni al racconto, Tobi e Tobia, ad interrogarsi sul senso ultimo dell’esistenza umana
e a scoprire in essa la dimensione della promessa. Date queste condizioni, il libro assicura una sorta
di comprensione unitaria, che offre un incremento rispetto alla pura oralità. Attraverso lo scritto e
l’andirivieni che è consentito al lettore, egli potrà scoprire nelle pieghe dell’esistenza le tracce della
presenza provvidente di Dio.
Il libro di Tobia pretende proprio di essere riconosciuto come servizio autorevole per il
discernimento delle qualità che deve avere l’accompagnatore nel cammino di fede, e, in un certo
senso, si offre esso stesso come accompagnatore per il cammino. Sintetizzando il contenuto del
libro di Tobia a tale proposito, potremmo dire che esso ci trasmette una suggestione illuminante: a
volte nella vita rimane soltanto il Libro con cui nutrirsi, con cui sperimentare la preziosa compagnia
di Dio. Certamente il Libro non è mai letto al di fuori della rete dell’accompagnamento perché
l’abbiamo ricevuto nella comunità, quella comunità che consegna al fedele le Scritture, le medesime
che il libro di Tobia cita esplicitamente.
In certi momenti della vita del popolo di Dio e del singolo, il Libro è proprio la figura eminente
dell’accompagnamento che il Signore stesso offre ai suoi. È qui opportuno ricordare quanto si legge
nel Deuteronomio, allorché al re (figura di ogni israelita rivestito di dignità regale!) viene affidato il
Libro per la lettura quotidiana. Letteralmente il testo dice che sarà la Legge a stare presso il re: il
Libro ha una presenza adiuvante. Il re risulta infatti qui passivo, mentre il libro della Tôrāh sta al
suo fianco come soggetto attivo, come presenza viva e gratificante, facendogli percepire la
medesima presenza che la Sapienza elargisce al proprio discepolo.
Similmente, il libro di Tobia, con l’ingiunzione finale di scrivere quanto è accaduto ai
personaggi, fa una promessa al proprio lettore: una lettura docile, intelligente, paziente, gli farà
sperimentare la presenza soccorritrice dell’angelo, la segreta ed efficace compagnia di Dio lungo il
cammino.
1.2. Il libro terapeuta
Se l’angelo non scompare, esso non può essere riconosciuto; è necessaria una distanza proprio
perché se ne scopra la presenza. Questo spazio, questa tensione, è assicurata esattamente dallo
scritto. L’angelo si presentava come la guida che accompagnava Tobia nel suo viaggio alla scoperta
del segreto dell’esistenza, coincidente con il ‘segreto del re’. La medesima funzione è ora rivestita
dallo scritto ‘comandato’, che si affaccia a sua volta come guida, capace di condurre il proprio
lettore ad un discernimento del mistero che alberga nell’esistenza umana e che illumina anche i
passaggi più oscuri.
Come Tobi passa dal buio alla luce e Tobia dall’immaturità alla maturità responsabile, la
medesima esperienza è discretamente promessa al lettore dall’opera medesima. Se egli si lascerà
docilmente condurre, istruire, e se saprà porre domande accettando insieme il tempo dell’ascolto,
come emerge dai frequenti dialoghi che animano il libro, esperimenterà la luce, là dove vedeva solo
tenebre; proverà una sorta di guarigione delle ferite della vita e, soprattutto, verrà a capo di se
stesso, come avviene per il personaggio del giovane Tobia e del suo doppio femminile, la giovane
Sara. La qualità terapeutica del libro nel momento della sua lettura non è certo legata alla natura
dello scritto in quanto tale, bensì in quanto testimonianza di un’esperienza di fede, cioè, diremmo
noi, come rivelazione at-testata. Anzi, parlare di qualità terapeutica è ancora fermarsi alla superficie
dell’intento preminente del libro: Tobi non riacquista semplicemente la vista, ma avverte in sé la
rinascita della speranza che lo farà poi cantare il sogno della nuova Gerusalemme (Tb 13). Come le
altre Scritture di Israele sono al servizio della speranza (cfr. Rm 15,4: «Tutto ciò che è stato scritto
prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della
consolazione che ci vengono dalle Scritture, teniamo viva la nostra speranza»), così il libro di
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Tobia costituisce una sorta di farmaco per guarire dalla disperazione, incarnata nelle traversie dei
due personaggi paralleli: l’anziano Tobi, tentato dal risentimento, e Sara, oppressa dall’infelicità.
Un altro elemento per apprezzare la concezione tobiana della funzione dello scritto emerge dal
primo stico della frase, in cui è inserito anche l’ordine angelico di scrivere: «Benedite il Signore
della terra e rendete grazie a Dio» (Tb 12,20). La scrittura si pone così al servizio della lode, del
ringraziamento che deve permeare la vita. Essa offre le ragioni della lode, e, come avverrà appunto
con il cap. 13 (il Cantico di Tobi), istruisce il linguaggio della lode. Questo avviene in modo
macroscopico con la collezione dei Salmi, ma anche gli altri scritti intendono sostenere e plasmare
il linguaggio della preghiera. La preghiera è, per il libro di Tobia, uno dei temi assolutamente
portanti. Funzione dello scritto è ricordare alla preghiera del fedele giudeo che essa è momento di
rivelazione. La preghiera fa eco allo scritto, che rivela il ‘segreto del Re del cielo’, segreto che, a
differenza dei segreti dei re terreni, va svelato, comunicato. In che cosa consista il ‘segreto del Re
del cielo’ viene mostrato proprio dal racconto di Tobia, che si presenta come documentotestimonianza di una fede solida nella bontà di Dio verso le sue creature.
1.3. L’autore diventa attore: il senso di un periplo
L’ordine di scrivere tutto ciò che è avvenuto non dice solo il modo con cui l’angelo rimane, ma
lascia anche intuire come lo stesso scrittore diventi uno degli attori del libro; il suo scrivere si
presenta infatti come conseguenza dell’aver udito l’ordine angelico e dell’avergli obbedito. Questa
semplice ingiunzione ci offre una chiave per aprire il libro di Tobia in modo adeguato e anche per
intendere vari altri libri biblici. Riferire l’ordine internarrativo di scrivere quanto è accaduto, è come
dire che l’autore diviene anche lui un attore del dramma, s’identifica (non biograficamente, ma
narratologicamente) con il percorso dei suoi protagonisti. Egli, per il fatto di scrivere, sta
concretamente eseguendo la volontà di uno dei suoi personaggi principali. Così se il libro di Tobia è
un incontro del figlio con il padre, e del padre con il figlio, anch’egli, l’autore, ha conosciuto una
simile vicenda, che consegna come testamento nella sua opera scritta. Egli ha sperimentato la
diaspora, la situazione di difficile identità ebraica in un mondo indifferente alla fede, e sente perciò
il bisogno di ritornare da ‘suo padre’, ossia al patrimonio di fede del suo popolo. Ritorna realmente
ai Padri, a lui accessibili ormai nella forma scritta del corpus dei Profeti e soprattutto della Tôrāh.
Ecco qui la ragione della natura intrigante dell’opera di Tobia, con le continue evocazioni, allusioni,
alle vicende patriarcali dei testi di Genesi e anche di altri testi biblici, come Esodo, Deuteronomio,
ecc.
L’autore torna alla tradizione del suo popolo, ossia a quella Parola che diventa per lui motivo di
vita. È uno scritto che si rivolge agli scritti precedenti e ormai normativi per la comunità di fede;
compie questo ritorno non per confermare l’ironica constatazione di Qoelet che i libri si
moltiplicano senza fine (Qo 12,12), ma per ritrovare nei medesimi una luce che illumina i momenti
della prova, una risorsa per il cammino, un tesoro nella desolazione dell’esilio.
Il contenuto del libro di Tobia si potrebbe sintetizzare per l’appunto come l’intrecciarsi di un
doppio periplo: è il periplo dell’angelo che viene dalla Gloria di Dio e ad essa ritorna, ed è il periplo
di Tobia, che si allontana dal padre per ritornare da lui.
Il primo periplo è un viaggio invisibile, che diventa visibile soltanto nella testimonianza del
racconto. L’angelo, svelando la propria identità e la propria missione, rivisita con Tobi e Tobia il
loro passato, fino ad affermare davanti a loro: «Io presentavo l’attestato delle vostre preghiere
davanti al Signore» (Tb 12,12). Ciò che non era visibile viene adesso riconosciuto. È questa la
potenza della parola, e ancor più della parola che, nella sua forma scritta, permette di riandare al
passato, di rivisitarlo finché il segreto in esso celato si manifesti.
L’ermeneutica dell’angelo nei riguardi delle vicende della famiglia di Tobi è, in ultima analisi,
l’ermeneutica che il libro vuol fare della storia del popolo di Dio, a vantaggio del singolo credente.
Tobia: uno scritto per attualizzare la biblioteca d’Israele!
In sintesi il ritorno di Tobia al padre Tobi è parabola della riscoperta dei Padri che l’autore stesso
del libro ha fatto e vuole promuovere presso il lettore.
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Questo percorso di riattualizzazione delle tradizioni dei Padri motiva la collocazione che
attualmente il libro ha presso gli esegeti, ossia la sua catalogazione nel genere midrashico.
Intendiamo qui midrash, ancora più che come una tassonomia precisa del genere letterario, come un
atteggiamento particolare del giudaismo intertestamentario nei confronti dei libri che ritiene sua
Scrittura normativa. Midrash significa un’opera che cerca di rendere comprensibile un testo della
Scrittura e soprattutto di evidenziarne la rilevanza per le successive generazioni. È quanto
esattamente persegue lo scritto di Tobia.
Il midrash di Tobia costituisce pertanto una ripresa sottile e perspicace della storia passata, in
modo che essa illumini il presente. La modalità di questa ripresa non è tanto quella del rieditare un
genere profetico, quanto quella della rivisitazione sapienziale, attraverso il modulo narrativo,
romanzesco. Il tono sapienziale emerge infatti da ogni pagina; l’ospitalità tanto esaltata nel libro e le
pratiche giudaiche descritte e raccomandate, orientano chiaramente a definire questa nostra operetta
come romanzo sapienziale breve, i cui destinatari sono gente del popolo giudaico della diaspora,
con i suoi problemi quotidiani e con la domanda di come trovare Dio nelle difficoltà e nelle gioie di
ogni giorno e come vivere nella sua Legge anche in condizione di minoranza culturale.
1.4. L’Antico sulla soglia del Nuovo Testamento
Annotavamo che il libro di Tobia è dato dall’intreccio di due peripli: quello trascendente
dell’angelo, che parte dalla Gloria e ad essa ritorna, e quello dei protagonisti umani. I due
movimenti si sfiorano, ma non si congiungono mai; sono come linee che possono convergere senza
incontrarsi pienamente, forse perché non sono state tracciate tanto estesamente da giungere fino a
quel punto infinito in cui si incontreranno. Queste due linee, il periplo di Tobia e il periplo
dell’angelo, il cammino orizzontale e quello verticale, conservano qui una distanza, uno scarto.
L’angelo ci tiene infatti a sottolineare questo scarto, perché nel momento in cui sta per tornare al
suo punto di partenza afferma: «Voi avete creduto di vedermi mangiare, ma io non mangiavo nulla:
ciò che vedevate era solo un’apparenza» (Tb 12,19).
Certamente la volontà di affermare il fatto che la manducazione da parte dell’angelo era solo
apparenza potrebbe essere il segno di una volontà sapienziale di venire incontro alle istanze della
cultura greca e ai suoi noti sospetti verso la corporeità e alla difficoltà di collegare corporeità e
trascendenza, ma quasi certamente vi è in gioco qualcosa di più profondo, una verità inattesa.
Proprio perché lo scarto è fermamente indicato, paradossalmente la congiunzione delle due linee
acquista una forza incomparabile! Noi lettori, che leggiamo nella luce del Nuovo Testamento,
sappiamo che le due linee e i due peripli sono ancora più distanti di quanto li pensa l’autore del
libro di Tobia, assolutamente non paragonabili tra loro, perché da una parte stanno i percorsi
dell’umanità, dall’altra i passi dello stesso Eterno Signore, e non semplicemente i passi di un angelo
da Lui inviato.
Il Nuovo Testamento annuncia ciò che Tobia riteneva impensabile: questa insuperabile distanza
è stata colmata dal Dio che si è fatto vicino, l’Emmanuele. Leggendo questo passo, palesemente
preoccupato di salvaguardare la distanza tra angeli e uomini, tra cielo e terra, siamo posti dallo
Spirito di Cristo come alle spalle dello scrivano del libro di Tobia, che, pur con tutta la sua
acutezza, riesce a guardare lontano soltanto fino ad un certo orizzonte, mentre è chino sulle pagine
da lui vergate; stando in piedi, alle sue spalle, noi scorgiamo invece uno spazio molto più lontano e
vediamo le due linee - destinate a non toccarsi mai - congiungersi invece mirabilmente in un Inviato
di Dio, che provenendo dalla Gloria ritornerà alla Gloria. Prima, però, non soltanto assumerà
l’apparenza di un uomo, ma diverrà davvero carne, uomo. E non si limiterà ad accompagnare coloro
che devono bere il calice della prova, ma lo ha trangugerà egli stesso e diverrà un Raffaele
assolutamente incomparabile: Colui che, con le sue piaghe, guarisce l’umanità intera! Egli non
sembrerà semplicemente mangiare con gli uomini, come fa qui Raffaele, ma condividerà davvero
tutto di loro, fino alla morte!
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2. Tb 13: Un inno alla misericordia
2.1. Un inno alla misericordia
Tb 13 è costituito da un Cantico che, per il fatto di presentarsi come scritto, rievoca il Cantico di
Mosè in Dt 32. L’analogia tra i due testi è evidente sia per il tema della misericordia divina che
supera il peccato del popolo, sia per lo sguardo proiettato sul futuro reso disponibile da questa
misericordia divina.
Il Cantico, non soltanto viene ad affiancarsi al libro del racconto della storia Tobia, ma deve
essere ritenuto parte integrante, come confermano anche i frammenti aramaici ed ebraici rinvenuti a
Qumran. Lo scritto di Tobia non può raggiungere il presente, l’oggi del lettore, la modernità, se non
al prezzo di portare il peso del tempo, cioè il peso della storia effettiva che rivela l’inadeguatezza di
Israele a vivere nella legge quale dispositivo dell’alleanza volto ad assicurare l’osservanza, la
fedeltà di Israele. Di questo fallimento ne ha fatto esperienza uno degli stessi protagonisti del
racconto: il pio Tobi. Questo peso del peccato non può che ricordare al lettore che la legge è iscritta
nella logica della misericordia divina e che il materiale scrittorio può, in definitiva, essere solo il
cuore dell’uomo, la sua libertà come fa intuire il v. 6 del cantico di Tobia: «convertitevi a Lui con
tutto il cuore e con tutta l’anima».
Per l’aspetto letterario del cap. 13 è chiara la sua natura antologica e in questo richiama un
genere molto praticato nel periodo del postesilio. Si ricorre, infatti, alla letteratura dei Salmi e ai
testi dei profeti per elaborare nuove composizioni, le quali però non restano semplici e meri
centoni, ma piuttosto formano testi ad intarsio. Certamente il risultato è quello di una certa
ripetitività, ridondanza, poste però a servizio della conferma del messaggio Nondimeno questi
testi possono offrire esempi di reale creatività e di una certa originalità nonostante la loro natura
redazionale. Nel nostro caso ciò si riscontra soprattutto nella seconda parte dell'inno (vv.10-18), nel
movimento dedicato alla nuova Gerusalemme. Per quanto riguarda la funzione nel racconto di
Tobia l’inno di Tb 13 è da affiancare al parallelo di Gdt 16, ossia funge da sigillo teologico al
racconto.
La scelta del genere innico è poi coerente con l’andamento dell’opera. Se infatti il libro di Tobia
è pervaso continuamente dalla lode e in ogni pagina traspira un’atmosfera di preghiera, qui nel
Cantico lo spirito del libro di Tobia assume la sua piena espressione. Il fatto che si dica che Tobi lo
recita (dopo averlo scritto) per obbedire al comando di Raffaele, significa che, in qualche modo, la
preghiera è sempre un’obbedienza all’invito che Dio ci fa a rispondergli con la lode, con l’esultanza
per i suoi benefici. Il nostro Cantico si compone di due parti, di cui la prima è una riflessione sulla
pedagogia divina e la seconda è una celebrazione di Gerusalemme, che riecheggia gli ultimi capitoli
di Isaia e in particolare i salmi di Sion (Is 60; 62; 66; Sal 48; 84; 87; 122; 137; Bar 4,5-5,9).
Dal punto di vista della struttura Il nostro brano va almeno articolato in due parti inquadrate,
come le due ante di un dittico, tra i vv. 2 e 18b. La linea di demarcazione tra le due unità è oggetto
di discussione.
Alcuni commentatori come Pautrel distinguono tra i vv. 1-8 e i vv. 9-18; altri come Schökel tra i
vv. 1-9 e 10-18; per altri, come Virgulin, tra 1-10 e 11-18. Per altri, come G. Ravasi, il v. 9 funge da
linea di demarcazione e di connessione medesimo tempo così da concludere il primo movimento
con l'inclusione con il v. 2 e da fungere come introduzione all'inno a Gerusalemme.
Nei vv. 1-8/9 in tonalità di benedizione-ringraziamento si eleva una celebrazione della
misericordia divina, che risplende anche nel tempo amaro il buio dell'esilio. Il linguaggio è quello
della parenesi deuteronomistica (Dt 4,29-31; 30,1-10). Nella seconda parte ai vvv. 9/10-18 l'inno
distende come in un grande respiro e canta il sogno di Sion.
2.2. Dio, Signore della storia
Ci soffermiamo ora sulla prima parte del Cantico, una preghiera dell’esule che loda Dio per il
giusto castigo dei peccati, castigo che per lui si è tradotto nell’esilio. Però Dio lo libera chiamandolo
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a conversione. Il nostro testo di Tobia prende la finzione letteraria della forma profetica, della
predizione per il futuro. Attraverso passi successivi si cerca comunque di penetrare nel cuore del
mistero della sofferenza per rendersi conto che può esistere anche una pedagogia divina nella
sofferenza, una pedagogia che la rende capace di redenzione. L’autore comunica la propria
riflessione sapienziale al popolo e gli fa quindi capire la condotta di Dio nei suoi confronti. La
forma non è però tanto quella della riflessione, quanto della celebrazione, della lode a un Signore
che di volta in volta castiga e perdona, fa scendere nell’abisso e fa risalire dalla perdizione.
2.3. La misericordia divina sorregge la storia
Il primo movimento ha al centro il tema della misericordia divina che supera il peccato umano.
Tale tema trapassa poi anche nel secondo movimento.
Per tre volte nel testo ci incontriamo con il binomio lessicale del castigo-misericordia, (non
sempre rispettato dalle nostre traduzioni). In greco questo binomio è offerto dalla coppia verbale
mastigoûn -eleeîn (sferzare -avere misericordia) (v. 2. 5 e10 di castiga da per le opere dei tuoi figli
e di nuovo tra misericordia per i figli dei giusti.
Il castigo divino origina dall'ingiustizia d'Israele e si manifesta nella prova dell'esilio. L'esilio
però non è una sentenza irreversibile, ma ha funzione pedagogica con lo scopo di trasformare il
cuore del popolo (vedi sotto). Subito dopo subentra la misericordia divina.
Nel v. 2 appare la duplice azione contrapposta: quella della sferza, come il significato originario
del verbo castigare (mastigoûn in greco) e quella della fedeltà misericordiosa. Essa viene illustrata
attraverso un’amplificazione parallelistica che viene formulata nel codice Sinaitico in questo modo:
«egli fa scendere fino agli inferi più profondi della terra/ e fa risalire dalla grande perdizione/ nulla
sfugge alla sua mano». Appare chiara la citazione libera di 1Sam 2,6 e del motivo generale biblico
che Dio ha in potere morte e vita (Dt 32,29; Is 43,13). Da manifestazione della punizione il castigo
è ricondotto all'interno della generale signoria storica di Dio, espressa qui attraverso il polarismo del
far scendere e far risalire. Si indica questo polarismo, questo nadir e lo zenit delle vicende umane,
nel peccato e la grazia, nella sofferenza e nella gioia, nella schiavitù e nella liberazione. Sono le
due polarità all'interno delle quali si esercitala signoria di Dio. Gli eventi non sono frutto di una
casualità o di una dialettica tra forza del bene del male, ma sono sotto il controllo della mano di
Dio, cioè sotto quella sua mano alla quale nulla sfugge, simbolo della potente azione di Dio.
2.4.
Dio può rendere anche la sofferenza sorgente di bene
E’ l’amore del Signore che può rendere ciò che sembra un disastro (qui l’esilio in mezzo alle
genti), uno strumento per la rivelazione della sua gloria, per manifestare un amore ancora più
grande. Questa gloria si rivela come misericordia e favore verso i deportati di Sion. Si intuisce tra le
righe allora che la pena, oltre che valore educativo, a volte è anche valore missionario. Qui la
dispersione tra le nazioni serve, nel piano di Dio, a diffondere la fede nel Dio vivo e vero (v. 4 e v.
11). E così, allora, quando il popolo sarà ritornato dalla golah (cioè dall’esilio) riceverà la visita e
l’omaggio di numerosi popoli. E Gerusalemme diventa proprio il centro del pellegrinaggio
mondiale, cioè del cammino della storia del mondo.
2.5. La missione di Israele tra le genti
Possiamo ora interessarci di alcuni dettagli della prima parte del Cantico. Si esordisce
benedicendo Dio, conformemente a tutto quello che il libro di Tobia ha già fatto molte volte. Il
nostro testo verrà ripreso dal Benedictus di Lc 1,68-79. Si benedice Dio perché è Lui che abbatte e
che esalta, e perché nulla sfugge al suo potere (cfr. 1Sam 2,6-8; Lc 1,52-53). In questo riconoscimento della signoria di Dio si intuisce già che vi possa essere una misteriosa risposta al
problema della sofferenza e della prova a cui l’uomo è sottoposto. Israele, in quanto è il popolo che
ha riconosciuto Dio nel mistero della sua signoria, può farlo conoscere in mezzo ai popoli. Ecco che
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allora la dispersione nella diaspora può diventare uno strumento nelle mani di Dio per farsi
conoscere: Israele diventa il popolo della missione, il popolo sacerdotale e profetico.
«Esaltatelo davanti ad ogni vivente; è lui il Signore, il nostro Dio, lui il nostro Padre, il Dio per
tutti i secoli» (Tb 13,4). Si noti che qui Dio è invocato come Padre ed è questo uno dei titoli più
belli che noi troviamo nell’Antico Testamento, anche se raro (Es 4,22; Dt 1,31; Is 63,16; 64,7; Ger
3,4; Os 11,1 ss; ecc.). Ci sembra che qui il concetto della paternità di Dio non sia semplicemente
quello della sua signoria, ma proprio quello della sua pedagogia d’amore verso il popolo. Questa
pedagogia prevede anche l’uso di strumenti di correzione; ma proprio perché Israele è corretto da
Dio, può sperimentare la paternità di Dio, educatore del suo popolo. Il tema del peccato-castigo
viene dunque connesso indissolubilmente al tema della conversione-perdono proprio perché Dio è
Padre per Israele. Tale nesso è già classico nel libro dei Giudici, ma lo si ritrova in molti altri testi,
come Dt 30,1-5; Is 43,5 ss; Ger 29,14; ecc.
2.6. L’esperienza del perdono divino
Se il castigo è meritato e sanziona colpe evidenti, nondimeno il suo scopo non è mai di punire,
ma di preparare il cuore a riconoscere la necessità del perdono. Il disagio suscitato dalla pena rende
tale pena medicinale, capace di muovere il cuore alla conversione e quindi alla riscoperta del Dio
della giustizia e perciò alla pratica della giustizia.
La conversione si manifesta come un atto di sottomissione alla giustizia di Dio, come un
riconoscere che Dio è giusto nel suo agire verso di noi. E’ chiaro poi come questa riflessione sul
valore pedagogico della sofferenza, allorché sia vissuta nell’ottica di fede, sfoci nelle riflessioni del
v.7, laddove Tobi, continuando la lode, vede nella sua situazione di esiliato una condizione
privilegiata proprio per testimoniare Dio tra i popoli. Qualche volta, in modo simile, certe nostre
situazioni di sofferenza, di disagio, possono diventare attraverso la grazia di Dio, se messe nel
Signore, un luogo per cercare Dio più intimamente, con più verità e per testimoniarlo con più
convinzione, con più efficacia. Così anche la malattia. Essa non è solo un ostacolo a incontrare Dio,
ma a volte è il luogo in cui Dio ci chiede di cercarlo, di trovarlo.
Lo stesso si dica per le altre situazioni di sofferenza, almeno finché questa non diventa così
aggressiva da paralizzare l’uomo, al punto di impedirgli un gesto di offerta libera. I versetti 8-11a
mancano nel codice sinaitico e vengono invece riportati dal codice vaticano. La nostra lettura
liturgica li prevede. Notiamo come abbondino gli appellativi di Dio, chiamato qui: Signore, re dei
secoli, re del cielo. Se i primi due titoli, Signore e Padre, si situano in rapporto a coloro che lo
pregano, gli altri due titoli ricordano opportunamente a ciascuno che noi siamo semplicemente ‘una’
delle creature con cui Dio intrattiene una relazione, perché egli è il Signore di tutti gli esseri
disseminati nello spazio e nel tempo. E del resto la nostra condizione di esistenza è comunque
sempre di esilio, non abbiamo una patria stabile in questa terra; ma proprio in questa condizione di
esilio dobbiamo dar lode al Signore e manifestare la sua forza e grandezza.
2.7. Il pellegrinaggio dei popoli verso la “nuova” Gerusalemme
Dal v. 10 al v. 18 si snoda dunque la seconda parte del Cantico, centrata attorno al tema
ecclesiologico di Gerusalemme. Il testo è tutta una serie di reminiscenze, di passi profetici, come Is
60; Mi 7,19; Am 9,11; Is 44,26-28; Is 9; Bar 4,31ss.; Is 66; Sal 122; ecc. In questa parte del
Cantico, Gerusalemme è la parte eminente del popolo di Dio, il centro del popolo di Dio, la città
santa, la dimora del santo Nome di Dio. Appare l’idea della città eletta come l’ombelico del mondo,
dal quale si irradia la bontà e la misericordia di Dio per tutti gli uomini della terra. Si vuole esprimere il pensiero che il rinnovamento e la salvezza del mondo provengono da Dio, ma passano
attraverso il popolo di Dio e in particolare attraverso la preghiera e la liturgia che il popolo di Dio
celebra nel tempio di Gerusalemme, dove risiede il santo Nome.
Vi è un’importante intuizione teologica e cioè che il mondo può cambiare, ma non
esclusivamente per gli sforzi e per l’impegno dell’uomo, ma fondamentalmente per la grazia di Dio.
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Tale grazia si comunica all’uomo che vive moralmente nella giustizia e all’uomo che celebra la sua
fede nella liturgia. Il libro di Tobia ha una concezione molto alta della liturgia, quale canale concreto di salvezza, quale luogo che Dio offre all’uomo per l’incontro con Lui. Questa seconda parte del
Cantico di Tobi traccia l’ideale della nuova Gerusalemme riedificata. Le splendide immagini delle
torri d’avorio, dei baluardi di oro finissimo, delle strade lastricate con turchese, con pietre di Ofir,
delle porte di zaffiro e soprattutto dei canti di esultanza che riempiono Gerusalemme, dicono tutto
l’amore dell’orante per la sua città.
Gerusalemme non è un qualsiasi luogo geografico, è invece il simbolo della speranza e della
fede. La città non interessa come punto geografico, ma come segno che Dio è realmente presente
nella storia dell’uomo. Lì nella liturgia Dio si comunica e rivela qualche cosa della sua gloria al
credente che celebra le lodi di Dio. L’autore è cosciente tuttavia che Gerusalemme, pur essendo la
città santa ed eletta, è abitata da peccatori. Proprio per questo ha subìto il castigo per i peccati, ma là
dove vi è il peccato dell’uomo più grande è la misericordia di Dio, che vuole abitare in questa città
per dare la sua salvezza. Questa salvezza è ciò che attrae i popoli e che muove il desiderio
nostalgico dell’esule che si sente sradicato dalla sua terra.
Gerusalemme rappresenta un punto di pellegrinaggio, il centro del mondo e la speranza per i
popoli proprio perché in essa il Signore manifesta la sua gloria e la sua presenza che salva. E’ anche
interessante notare come la sorte degli uomini sembri decidersi in base al loro rapporto con
Gerusalemme. Si dice di Gerusalemme ciò che il testo di Genesi diceva di Abramo: “Beati coloro
che la amano, maledetti coloro che la maledicono”. Proprio per ciò si vede la valenza universale di
Gerusalemme in questo testo; infatti essa non vale solo per un popolo particolare, ma ha una
capacità obiettiva di veicolare la salvezza di Dio per ogni uomo che, nella fede, riconosce i progetti
di Dio, del re del cielo, del Dio che si è rivelato ad Israele.
Umiliata e irrisa dai nemici, Gerusalemme è prostrata da un dolore profondo; ma proprio per
questo la sua ricostruzione, la sua rinascita non è motivo di una gioia solo esteriore, ma di una gioia
intima, grande, quasi indicibile. La “pace” di Gerusalemme è da una parte legata alla dimensione
politica (cfr. Ger 6) - come opposto della guerra e della perversione della città (Zc 8,10.16) - e
anche economica (Zc 8,12); dall’altra parte, conformemente al Sal 122, la pace è una dimensione
globale del vivere in Gerusalemme, che corrisponde del resto al significato stesso del nome della
città: Gerusalemme.
2.8. Attualizzazione cristiana
Ci possiamo ora chiedere quale è il senso che può avere per noi cristiani il canto di
Gerusalemme, come città di pace, di giustizia, di verità. Questa domanda si connette con
l’interrogativo più vasto e cioè “quale è la verità di Gerusalemme?” Essa è legata alla Gerusalemme
storica o è una verità che diventa simbolo e figura di un’altra Gerusalemme?
Al di là della risposta che si dà a questo interrogativo di fondo, senza dubbio l’immagine di
Gerusalemme, quale emerge nei testi biblici, è una provocazione per noi, per il nostro essere allo
stesso tempo concittadini dei santi nella Chiesa (Ef 2,19) e cittadini di tante diverse città del mondo.
Per una lettura cristiana e un’attualizzazione del nostro Cantico possiamo accogliere l’invito a
contemplare ciò che il Signore ha operato con noi, a benedire il Signore nella giustizia, proiettando
su questo Cantico i pensieri e le osservazioni di san Paolo nella lettera ai Romani a proposito della
giustizia di Dio. Se tutti hanno peccato, sia giudei che pagani, Dio punisce ma senza condannare;
egli punisce offrendo la redenzione realizzata da Cristo Gesù (Rm 3,21-26).
È in Cristo che si realizza il paradossale castigo di Dio, manifestato in un perdono senza limiti,
offerto a chi aderisce a Gesù nella fede. E difatti noi non siamo stati salvati dopo esserci convertiti,
ma ci convertiamo proprio perché Uno ci ha salvato quando eravamo ancora peccatori. Da questo
può quindi sgorgare un nuovo sentimento di riconoscenza, di fervore, di gioia, con cui ridire il
Cantico di Tobia, con uno spessore nuovo rispetto persino al tenore originario del testo. L’autore di
Tb 13 è un appassionato cercatore di Dio ed un amante del popolo di Dio; la medesima cosa deve
valere per noi: siamo invitati a credere con entusiasmo nella bontà di Dio e a rallegrarci per quello
che Dio opera nel suo popolo.
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