gliaia di braccianti che lavora

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gliaia di braccianti che lavora
I
Mi chiamo Dris Quastalani, ho quarantaquattro
anni, sono nato in Marocco. Faccio parte delle migliaia di braccianti che lavorano nella Piana del Sele
vicino a Salerno e di quelle centinaia di miserabili che
vivevano a San Nicola Varco. Questa è la storia dello
sgombero di quel campo, una giornata difficile che
resterà per sempre scolpita nella mia mente. Dal mio
cuore l’ho cancellata subito.
E magari c’abbiamo pure noi qualcosa da raccontare.
La sera prima dello sgombero quasi tutti nel campo
avevamo chiaro in testa che quella volta sarebbe successo per davvero, che una qualche terribile sorpresa
ci avrebbe fatto ricordare per sempre quella notte di
inizio novembre. Davanti agli occhi tanti giorni infelici trascorsi lì dentro, ma quello che ci attendeva sarebbe stato anche peggio. Un disperato presentimento c’era piombato addosso schiacciando uomini e
cose. Sembravano bell’e passate le convinzioni che
molti si erano messi in testa. Dicevano che, comunque fosse, mai nulla avrebbero potuto farci, avevano
assoluto bisogno dei marocchini per il lavoro nei
campi, non c’era più nessun italiano disposto a farlo,
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e prima o poi ci avrebbero trovato anche una sistemazione in qualche campo ben attrezzato, con prefabbricati muniti di luce, acqua e servizi igienici. Non
saremmo rimasti lì per sempre, giusto un altro po’,
per dare tempo a chi doveva prendersi cura del nostro e del loro futuro. Poveri illusi! Bei ragionamenti
davvero, consumati in lunghe discussioni e ingannevoli progetti. Mai come in quella situazione, contrariamente al solito, chi li faceva aveva torto, chi la
pensava così sbagliava di grosso. E questa volta non
pareva nemmeno fosse come le altre, quando tutto si
risolveva con piccoli e momentanei sfratti che non ci
sconvolgevano più di tanto, particolari di poco conto.
Era così! Da quando vivevo a San Nicola Varco
c’erano stati molti avvertimenti di minacce incombenti. Tutte alla fine si sgonfiavano la mattina, o si
tramutavano in semplici, si fa per dire, retate; quelle
che, per intenderci, all’alba annotavano l’arrivo di una
mezza dozzina di macchine della polizia e dei carabinieri. Queste giungevano in silenzio, si bloccavano all’ingresso, sul piazzale vicino alla fontanella. I militari
balzavano giù stancamente obbedendo ad ordini silenziosi, poche parole calme, sempre le stesse, che
scalfivano appena il silenzio della notte. A rimetterci
erano sempre quelli che riposavano nella prima palazzina, proprio a fianco al cancello d’ingresso. Per
loro non c’era scampo, non avevano nessuna opportunità di sottrarsi. Appena sentivano i bisbigli si preparavano a traslocare, la loro notte sarebbe finita altrove. I militari accerchiavano quella struttura e poi
stanavano uno alla volta gli assonnati e rassegnati
ospiti. Era inutile scappare dalle finestre e rischiare di
spezzarsi le ossa, non sarebbe servito a niente, i mili18
tari avrebbero comunque catturato quegli sprovveduti.
Vivevamo come in un branco, anzi no! Come in
uno stormo di passeri che sul calare della sera volava
compatto come una nuvola, rassegnato alle scorribande dei rapaci che attaccavano dai lati, beccandone
sempre alcuni, imponendo allo sciame brusche e repentine deviazioni che disegnavano nel cielo sagome
ovoidali.
I ragazzi più anziani avevano imparato che era
molto meglio restare a letto. Avevano sperimentato
più volte quelle incursioni, sapevano che si concludevano quando le macchine dei militari si riempivano:
quella si mostrava l’unica certezza assoluta. Solo allora i carabinieri o la polizia si accontentavano e si ritiravano. In un primo momento ero convinto che
l’alternanza delle operazioni dei due corpi dell’arma
fosse casuale; mi convinsi in seguito che essa rappresentava un disegno preciso, congiunto ad una specie
di punteggio assegnato ai due corpi dopo ogni operazione. Nessuno dei due contendenti mostrava di voler
soccombere nella singolare competizione.
Per gli abitanti di quella palazzina non c’erano vie
di scampo. Molti di loro (sprovvisti del permesso di
soggiorno) avevano ammucchiato un numero spropositato di decreti di espulsione. Il primo posto apparteneva ad Aziz: ne aveva messo insieme tredici.
Quelli della palazzina di fronte, distanti un centinaio
di metri, osservavano tutte le manovre dai buchi delle
porte, che erano sufficientemente ampi per garantire
una visuale completa. Parlottavano in silenzio dietro
quei buchi, escogitando strategie che non potevano
avere che un’unica soluzione: quella di darsela a gam19
be. Si trattava di definire il momento preciso e la direzione da seguire, tutto il resto era in mano alla sorte. Seguivano taciturni e turbati la serie di operazioni.
Stavano zitti, immersi nei loro pensieri, e soffocavano
i lamenti mentre udivano, di tanto in tanto, i lagni
flebili e rassegnati dei loro fratelli catturati. Non facevano nessun rumore, e soprattutto non si sognavano
neanche per un istante di accendere fiammiferi o
candele. Si tenevano pronti a dileguarsi nel caso i militari non si considerassero paghi del primo carico e
decidessero di rivolgersi verso le loro abitazioni per
completarlo. Tutto questo succedeva all’alba, tra singhiozzi e suppliche avvolti nella tenue luce della mattina. Chi invece dormiva nelle baracche della parte
centrale del campo ormai quasi non prestava più attenzione a quelle scorribande notturne. Mai nessun
poliziotto o carabiniere, sebbene in competizione, si
era spinto nel cuore del «ghetto», di notte, per quel
tipo di operazioni. Sinceramente non comprendo cosa li trattenesse, sono certo che nessuno avrebbe opposto la benché minima resistenza anche da quelle
parti, perché sarebbe stato molto meglio proseguire la
nottata al caldo o al fresco, dipendeva dalle stagioni,
di qualche prigione che restare in quelle topaie. Chi
non voleva correre quel rischio si vestiva, avvicinava
le scarpe al letto e si ricopriva. Pronto alla fuga nel
caso ce ne fosse stato bisogno. Non avevo mai sentito un silenzio notturno assoluto dentro quel campo.
Sopra quegli uomini che tacevano immersi nei loro
pensieri c’era sempre il rumore di una ritirata travolgente provocato da una cavalleria devastante che si
addentrava nella notte, s’insinuava tra le tane, rumoreggiava, distruggeva brandelli di vita, frantumava
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speranze. Un pauroso terrore premeva su ogni giaciglio. Mi piacerebbe sapere dove, su tutta la terra, dove si possa trovare un altro posto simile a questo!
Dopo un paio d’ore, quasi sempre, tutto finiva. I
poliziotti, come i rapaci, sazi della loro caccia e del
bottino, se ne tornavano nelle caserme dalle quali,
qualche ora prima, erano partiti. Noi, come passerotti
impauriti, tornavamo ad appollaiarci sui nostri nidi.
Era inutile in quei giorni alzarsi per andare a lavorare.
La piazzetta dove di solito si svolgeva il mercato delle
braccia sarebbe stata presidiata fino a sera. Nessun
caporale sarebbe passato da quelle parti per l’ingaggio. Tanto valeva approfittare e riposare il più a
lungo possibile. Sarebbe stato pericoloso anche soltanto allontanarsi dal «ghetto», perché in quelle circostanze le forze dell’ordine aumentavano i controlli
con le pattuglie volanti, e ti potevano fermare per una
verifica dei documenti. In quelle maledette circostanze la giornata era finita prima ancora che cominciasse
e la trascorrevi a roderti il fegato. Non c’è nulla al
mondo di più desolante che essere costretti a trascorrere la giornata tra baracche provvisorie. Peggio che
stare in prigione.
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II
Questa volta nell’aria si avvertiva qualcosa che
avrebbe suscitato molto più scalpore, diverso da tutto
quello che era successo fino ad ora, e noi non avevamo la minima idea di ciò che ci aspettava. Non si sarebbe trattato della solita retata, c’era qualcosa che
non lasciava pensare a questo. Si percepiva che le cose sarebbero andate diversamente. Da molte parti
della Piana del Sele arrivavano notizie dell’avvistamento di numerosi mezzi e uomini delle forze dell’ordine, alle quali si rivolse l’interesse di tutti. Se non
erano lì per un convegno la loro attenzione, e non
solo quella, era puntata su di noi. D’altronde era da
diversi mesi che circolava la notizia che quello sarebbe stato l’anno dello sgombero definitivo del «ghetto». E tuttavia nell’angolo del nostro cervello più
matto era riposta ancora una speranza, magari l’ultima, quella che ci avrebbe ancora una volta salvati e tirati fuori da quella triste faccenda. Pensieri che
sfrecciavano nella mente di ognuno, disposti ad aggrapparsi a qualsiasi spiraglio di salvezza, mentre la
paura cominciava ad affrescare i volti. Ma tutti restavamo ancora al nostro posto, nessuno osava andarsene ancora.
La sera del 10 novembre 2009 era calda, per niente
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autunnale, sembrava di andare verso l’estate piuttosto
che verso l’inverno. Aveva piovuto nei giorni precedenti, all’intorno c’erano pantani e fango. Il campo
era tutto allagato, la luna lo rischiarava e si rifletteva
nelle pozzanghere, le stelle brillavano più del solito.
L’aria, pulita e piacevolmente fredda, rinfrescava i
polmoni. Quasi tutti avevamo abbandonato bar e
abitazioni. E verso mezzanotte, quando dovevamo
essere già a letto, il campo era in trambusto. Occorreva decidere, e farlo in fretta. Mancavano sei ore
all’alba, uno spazio di tempo appena sufficiente per
stabilire il da farsi, e farlo. Che il momento fosse particolare lo si capiva da tante cose. Un cupo destino
incombeva sulle nostre teste e tuttavia, strano a dirsi,
riusciva ancora in qualche modo a tenerci uniti, a
renderci solidali più del solito. C’era uno scompiglio
totale e nei volti di ognuno si avvertiva una trasformazione. Una singolare inquietudine s’impossessò di
noi. Tutti ci chiedevamo cosa sarebbe stato più opportuno fare, nessuno era nelle condizioni di dare un
responso ai tanti interrogativi che si ammassavano e
spingevano. Più di ogni altra cosa si doveva stabilire
se non si trattasse dell’ennesimo falso allarme. Molti,
per pigrizia o per disperazione, lo valutarono tale e
tornarono a dormire, senza chiedersi come sarebbe
andata a finire e senza lasciarsi ossessionare dall’angoscia. La stessa che aveva preso quelli come
me... quelli che avevano dubbi e si tormentavano in
complicati ragionamenti, in quella notte chiara e limpida che cominciava a diventare umida. Sono sicuro
che se fosse stata rigida, come avrebbe dovuto essere,
in tanti sarebbero ritornati a dormire. Per indolenza,
per stanchezza, per freddo e per fame: tutto avrebbe
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concorso a vincere anche la paura delle conseguenze
del temuto sgombero. Ma la serata, viceversa, era
buona, e allora ci si poteva anche perdere in lunghe
disquisizioni su quello che era stato e su quello che
poteva essere. Camminavamo su e giù nel campo
senza una meta precisa, mentre nella testa si accavallavano brandelli di idee, pensieri, immagini. Sono un
imbecille! continuavo a ripetermi, dovrei essere lontano mille miglia da questo posto, e da mille anni,
non ho avuto mai la forza di sottrarmi, che idiozia,
mi ripetevo mentre a passi pesanti percorrevo piccoli
tratti evitando di finire dentro le pozzanghere.
La decisione da prendere non era semplice e pareva comportasse grandi tormenti. Sembrava che tutto
il supplizio di una vita fosse arrivato al suo termine.
A quel punto qualsiasi conclusione poteva andare bene. Se si decideva di restare, in fondo, non sarebbe
stata una risoluzione per niente originale. Avrebbe
manifestato la volontà di metter mano ad un’altra sfida, e se fino ad allora era andata bene, poteva andare
bene anche questa volta. Se invece si stabiliva di approfittare di quell’occasione per partire, insomma sarebbe stata la volta buona, l’alibi giusto, per dare un
calcio a quella disonorevole condizione. Si sarebbe
smesso di dare la caccia ai topi di notte e si sarebbe
provato a vivere una vita degna di questo nome.
Nella mente sfrecciavano queste puerili considerazioni. Alla fine, anche questa volta, tutto andrà per il
meglio! Impossibile! pensai immediatamente, e smarrito, disperato, con la testa piena di incertezze, e
quindi vuota, mi fermai a guardare il buio. Testa
vuota e buio, tutto restava offuscato.
I misteri si infittivano, uno in particolare: dove an24
dare quella notte? Una singolare agitazione s’intrufolò
nell’animo di ognuno. Decisioni rinviate per tanti anni potevano all’improvviso trovare un rifugio? Non
c’era bisogno di ascoltare le parole e i discorsi che si
rincorrevano nel buio, nessuna certezza in quelle frasi. Molti silenzi, in quelle ore, si confondevano con la
notte. Gli occhi non si incrociavano e non si fissavano. Ognuno era libero d’ascoltare quelle poche voci
che di tanto in tanto si alzavano: non volevano
orientare le decisioni degli altri, trasmettevano solo le
loro preoccupazioni. In due o a piccoli gruppi tutti ci
interrogavamo e cercavamo nelle parole e nei silenzi
degli altri soluzioni che nessuno era in grado di trovare. Qualcuno ci scherzava sopra con ironia, risate
strette fra denti cariati che la luna non riusciva a far
risplendere. Discorsi se n’erano fatti già tanti. Lahbech, tu che fai? Non lo so, sono indeciso, forse torno a dormire. E tu? Io stasera vado a dormire dai
miei amici che stanno qua vicino a Ponte Barrizzo,
non si sa mai. Domani poi vediamo. C’è un posto anche per me, dai tuoi amici? Non lo so, ma se vuoi
faccio una telefonata e verifichiamo subito. Lahrimi,
tu che cosa hai deciso di fare? Vado alla stazione di
Battipaglia e prendo il primo treno per Modena, ho
chiamato mio cugino, mi aspetta e mi può ospitare
per qualche giorno.
Partire? No, davvero. Non avevamo avuto la vita
facile in questi ultimi tempi da queste parti, ma nessuno ne conosceva una migliore. Parole smorzate
morivano in gola. I sussurri non convincevano neanche chi li pronunciava. E mentre ancora si ragionava
qualcuno aveva oramai risolto: iniziarono a scorgersi
le prime ombre, cariche di borsoni straripanti, rasen25
tanti il punto di esplosione. Le cerniere chiuse in
parte cercavano invano di contenere i panni che fuoriuscivano e parevano code di animali variopinti. Si
trattava, beati loro, di quelli che avevano deciso di
farsi un biglietto per una qualunque stazione, non
importa quale. Alcuni avvolsero tutto dentro una coperta, se la caricarono sulle spalle e con buste di plastica in mano si avviarono a piedi nella notte. Gente,
quest’ultima, che non sarebbe andata molto lontano,
sarebbe rimasta sicuramente nei paraggi. Incominciarono a muoversi le prime biciclette. Caricate all’inverosimile. Ecco apparire anche le prime macchine,
coi fari che fendevano il buio della notte. Avevano
raccolto e infilato tutto nei bagagliai e sui portapacchi
sistemati sulle tettoie. Senza pensarci su più di tanto,
in parecchi avevano deciso di anticipare la partenza
per la Sicilia e la Calabria, dove stava per entrare nel
vivo la raccolta degli agrumi. Alcuni erano diretti a
Rosarno, dovevano semplicemente proseguire lungo
la statale 18 per raggiungerlo in tre, quattro ore. Si
trovarono lì nei giorni della rivolta.
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