terzo racconto

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terzo racconto
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SAKAKAW EA
quinto racconto tratto da
"Dietwald e gli altri"
di ©Raffaele Corte
Il libro "Dietwald e gli altri" è in vendita online sul sito "ilmiolibro.it":
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=911296
5. Sakakawea
"Ormai è vera emergenza: gli uccelli delle nostre città sono sul piede di
guerra.
Non colpiscono gli uomini, non confondiamoli banalmente con quelli del film di
Hitchkock.
La posta in gioco è alta, le città sono in pericolo, l'Arte è in pericolo. Come la
nostra Storia.
Gli uccelli si sono organizzati, i loro strateghi hanno compreso che non vale
tanto colpire gli uomini quanto ciò che ne testimonia l'esistenza.
Gli uomini prima o poi scompariranno (si stanno dando un gran daffare per
accelerare i tempi di questo ineluttabile evento), ma di essi rimarrebbe per
sempre traccia attraverso le opere d'arte.
Gli uccelli si sono organizzati, gli scienziati alati hanno scoperto le immense
possibilità distruttrici della loro più terribile arma: lo sterco.
Gli uccelli si sono organizzati, i loro comandanti hanno formato battaglioni,
squadre, cellule di attacco. Sono inquadrati per distruggere la rappresentazione
ai posteri degli esseri umani. Hanno suddiviso razionalmente il territorio, stanno
sferrando un attacco massiccio.
Gli strateghi, gli scienziati, i comandanti e - non ultimi - i politici della razza
umana hanno il dovere di salvaguardare la memoria della nostra esistenza. Ma le
soluzioni tardano ad arrivare.
Nei parchi, nelle vie e nelle piazze, le statue sono coperte di merda!"
(dal "Phantic Journal")
Abbasso il giornale sulle ginocchia, reclino indietro la testa fino allo
schienale della poltrona, la comoda poltrona che avrei voluto godere tutto il
giorno - in santa pace - approfittando di una giornata di libertà.
Fisso il soffitto, fino a sentirmi completamente avvolta dal suo bianco, fino
a perdere cognizione di tutto ciò che ho intorno.
È un sistema infallibile per pensare: creare uno spazio vuoto nel
quale liberare la mente come se volasse (già, il volo…) trascinandosi dietro
il resto del corpo. Lievemente.
Non è semplice, non tutti ne sono capaci.
Anche a rischio di apparire altezzosa, piena di me, "fanatica" (e non lo sono
affatto), credetemi: ci sono cose di me che non a tutti sono concesse, e altre
che non tutti hanno la voglia o il coraggio di concedersi.
Non me ne vanto né me ne dolgo. Semplicemente, le vivo.
Non sono una donna qualunque. Proprio no.
A meno che non vogliate considerare "qualunque" una donna di nome
Sakakawea.
«È una qualunque straniera. Una delle tante forestiere dal nome
esotico» direte. Sbagliando.
Sono nata qui, in questa città, in questa nazione dove sono nati i
miei genitori e i loro genitori prima ancora.
Qui, dove la gente - per dare un nome ai figli - apre semplicemente il
calendario, scegliendo un nome qualsiasi. Bello o brutto che sia (de
gustibus…), ma "normale".
Sono nata nella nazione dove è nato mio padre, dicevo. Ma per mio
padre questa nazione pareva semplicemente un punto geografico.
Certo, leggeva i giornali, aveva un'idea politica - per quanto non troppo
chiara - e si presentava regolarmente ai seggi elettorali. Ma tutto questo lo
coinvolgeva come se a viverlo fosse un altro fuori da lui.
La verità è che andava matto per le nazioni indiane (sì, quelle dei
pellerossa!), ne conosceva le storie, gli usi, le leggende, le virtù e le
nefandezze. La sua mente (grande mente, per carità…) entrava con
disinvoltura nelle storie western e si metteva d'incanto dalla parte del
Grande Capo Nomestrano.
Lo ha fatto sin da piccolo, quando per lui "giocare ai cowboy"
significava - solo contro tutti, perché a quei tempi nessuno voleva fare
l'indiano - appiattirsi a terra cercando di raggiungere i visi pallidi con il
passo del giaguaro, attentando poi al loro scalpo con un pugnale giocattolo.
Mia nonna è dovuta intervenire non poche volte per liberare quel ragazzino
biondo, grassoccio e armato dalle grinfie delle altre mamme, preoccupate
per le capigliature dei loro piccoli "visi pallidi".
Col passare del tempo, comunque, il biondo grassoccio è cresciuto, si
è asciugato, si è laureato e, mentre i capelli dorati cominciavano appena a
tendere al canuto, ha conquistato, presso la nostra Università, la
prestigiosa cattedra di Antropologia delle Nazioni Pellerossa al corso di
Storia degli Stati Uniti d'America.
Quando sono nata era invaghito della tribù degli Shoshoni, e non
servirono a nulla le implorazioni - e le imprecazioni - di mia madre nel
tentativo di dissuaderlo dal chiamarmi come una figura simbolo di quella
gente: Sakakawea, appunto.
"Donna uccello", secondo una delle più convincenti interpretazioni
etimologiche del nome.
Non sono una donna qualunque. Proprio no.
A meno che non vogliate considerare "qualunque" una donna che non
sogna incubi popolati di mostri, ma di statue.
Di marmo, di bronzo, di cera, a contorno di una fontana o triste e solitaria
al centro di un parco… Non importa: una statua è una statua, mi incute
terrore, e non solo nei sogni.
In questo caso la responsabilità ricade su mia madre, che è riuscita
così a pareggiare con mio padre i conti sul complesso dei disagi che mi
trascino dall'infanzia.
Avrò avuto circa quattro anni. Successe nel corso di una passeggiata
in centro che avevo ritenuto fin lì assolutamente soddisfacente (vestitino
buono, giocattolino e gelato inclusi).
In un angolo non particolarmente illuminato di una piazza che
ancora oggi evito di frequentare, c'era una statua: bella, tutta bianca,
presumibilmente eretta a imperitura memoria di un qualche notabile di
città.
I passanti (frettolosi) non le riservavano particolare attenzione, cosa che in
qualche modo mi turbava. Io ne ero affascinata, non riuscivo a distoglierne
lo sguardo. Sembrava viva.
Non mi chiedevo, ovviamente, la ragione per la quale davanti ai suoi
piedi bianchi - che appena spuntavano dal lungo manto immacolato qualcuno avesse posto un vecchio barattolo di latta, tal quale a quelli del
caffè che si usava in casa. Non ero presa da altro pensiero se non quello di
ammirare quell'opera perfetta, immobile, dallo sguardo penetrante. Forse
troppo profondo, per un pezzo di marmo.
Mia madre si fermò, guardandola per un istante. Poi cominciò a
frugare nella sua borsetta (altro oggetto che risvegliava nella mia mente
bambina le fantasie più sfrenate, pieno com'era di… tutto). Alla fine ne
estrasse una moneta che mi ficcò in mano, quella momentaneamente libera
dal cono gelato e, malgrado questo, sensibilmente appiccicosa.
«Mettila nel barattolo della statua!»
«Perché?»
«Così… Perché poi la statua è contenta!»
A quattro anni si vive di fantasie, si creano mondi paralleli nei quali è
prevista la presenza di immagini mentali destinate ad accompagnarci nella
scoperta del mondo reale.
Ma non si è abbastanza stupidi da immaginare che la mamma possa
credere nella gioia del marmo. Avevo sentore di fregatura. Però obbedii. E
fu l'inizio della fine.
Mi avvicinai alla statua continuando a leccare il mio gelato e gettai la
monetina nel barattolo. Fu un attimo.
Sentii una risata - fragorosa, grassa, forzata - provenire dalla statua, le cui
braccia si allargarono stendendo l'ampio abito bianco per poi ripiegarsi su
di me in un abbraccio troppo avvolgente per non essere soffocante.
Il gelato si spalmò in parte sulla mia faccia, in parte sulla veste immacolata
della statua - evidentemente posseduta da un qualche demone - che,
malgrado le mie urla disperate, non voleva saperne di lasciarmi andare.
Per liberarmi dal mostro ci volle l'intervento di mia madre.
«Fermo, basta così! Lasciala! Non senti che sta urlando? Apprezziamo
la tua gratitudine, ma ora… MOLLALA!»
Terminò la frase strattonandomi violentemente, e nell'attimo del
distacco la statua - come niente fosse stato - si ricompose tornando
immobile com'era prima. Con un'ampia macchia di gelato sulla veste. Come
se non fosse successo nulla.
Improvvisamente la sua credibilità venne meno, ma nonostante
questo a nulla servirono le spiegazioni e le rassicurazioni di mia madre, che
tentava di spiegarmi che quella era una persona travestita e che il suo era
un lavoro e che faceva quello che aveva fatto per far contento chi gli avesse
regalato un soldino.
Macché, niente da fare: la statua aveva preso vita per un maledetto
sortilegio e mi voleva ammazzare!
Era la mia convinzione, nulla al mondo avrebbe potuto farmi cambiare idea
e quell'artista di strada segnò il mio futuro come il mio gelato aveva segnato
il suo mantello.
Non sono una donna qualunque. Proprio no.
A meno che non vogliate considerare "qualunque" una donna cresciuta con
un nome impossibile che forse l'ha marchiata (o forse è stato solo un segno
del destino).
"Donna uccello", ricordate? Di professione ornitologa. Una delle migliori, a
detta degli accademici e delle riviste specializzate, quelle stesse che
pubblicano le mie ricerche.
Ho viaggiato in lungo e in largo, ho cercato uccelli ipotizzati senza
trovarne e trovato uccelli reali credendoli leggende.
Ho scritto del colibrì come del condor delle Ande, di uccelli volanti e
non volanti, anche se, in realtà, è proprio il loro volo a coinvolgermi,
emozionarmi, stordirmi….
Io non studio gli uccelli: li amo. Come ogni amore non ha ragioni né
spiegazioni, è forte, profondo e - credo - anche ricambiato. Una follia (me ne
sono resa conto solo in età matura) troppo simile a quella di mio padre per
i pellerossa. Quasi un'ossessione.
Con la differenza che lui, ad un certo punto della vita, ha incontrato mia
madre - la sua squaw -, mentre la mia, di ossessione, mi ha tolto del tutto
tempo per gli uomini e per il loro (più naturale) amore.
Così quando le statue vengono a popolare i miei sonni, nel momento
del pericolo maggiore - le volte che non riesco a svegliarmi di soprassalto,
sudata e tremante - non c'è un principe azzurro a correre in mio soccorso,
ma ecco arrivare l'aquila reale, o l'avvoltoio, o nuvole di storni, a colpire il
mostro. E colpiscono coi loro becchi, e colpiscono e colpiscono e ancora e di
nuovo e più forte, fino a quando l'assalitore non sia ridotto ad un mucchio
di macerie.
«Dottoressa, abbiamo un grosso problema. Ha letto quella maledetta
spina nel fianco del "Phantic Journal"?»
La telefonata risale a un paio di ore fa. Il ministro all'Ambiente in
persona mi ha svegliato in uno dei pochi giorni tutti per me che riesco a
rubare agli impegni di lavoro.
«Leggo poco i giornali, specialmente nei giorni di riposo. Specialmente
quando dormo!»
«Mi scusi, ma quell'intollerabile foglio ha scatenato un vero putiferio e
ho un mare di impegni, adesso non ho tempo per spiegarle. Facciamo così:
vada a comprare il giornale, si faccia un'idea. Ci risentiamo più tardi.»
«No, scusi, quale problema… quale putiferio?»
«A dopo, devo andare!» Clic!
"Razza d'imbecille", ho pensato, mentre già montava la rabbia per
una giornata libera rovinata.
Dovevo vestirmi, liberarmi di quella seconda pelle festiva che è il mio
pigiama, procurarmi un dannato giornale e sperare di capire che cosa
diavolo si volesse da me.
Tutto questo mi faceva oltremodo incazzare, in ogni modo lo feci.
Passate circa due ore, ho capito - o credo di aver capito - il motivo per
il quale mi hanno cercata. E questo mi fa incazzare ancora di più.
Hanno chiamato l'ornitologa, ma in realtà sono alla ricerca di una
specie di pifferaio di Hamelin.
Hanno chiamato l'ornitologa, senza sapere niente di lei, senza sapere
che dall'altra parte del filo avrebbero trovato Sakakawea, la "donna
uccello", con le sue passioni, con i suoi incubi.
Ora Sakakawea, sottratta al suo riposo e con un inutile quotidiano
sulle ginocchia, aspetta una telefonata e pensa, anche se il dubbio non l'ha
sfiorata nemmeno per un attimo ed il pensiero è solo il frutto di un
semplice esercizio mentale.
Finalmente il telefono squilla. Assaporo la durata dello squillo, il
numero degli squilli, il tempo che sto facendo passare. Immagino il mio
interlocutore all'altro capo del filo.
Probabilmente suda, tra breve inizierà ad imprecare, poi comincerà a
disperarsi. Il pifferaio non risponde.
E gli uccelli cacano!
«Pronto!» concedo alla fine.
La voce è concitata, racconta di minacce ricevute, di richieste di
dimissioni, di una situazione insostenibile.
Si sofferma (quasi con voluttà) nella descrizione di montagne di merda che
ricoprono i busti di tutti gli eroi nazionali ("questo non possiamo
permetterlo, non crede?").
Si dilunga addirittura sul danno arrecato ad una giacca nuova di zecca,
irrimediabilmente
inzaccherata
durante
il
tentativo
di
salvare
("personalmente!") un busto dall'attacco degli storni.
Solo dopo altri interminabili blateramenti, finalmente arriva il nocciolo
della questione.
«Dottoressa, lei è la massima autorità nel campo. Può darci… No,
meglio: può darmi una mano?"
La voce esce dal telefono con la stessa consistenza del miele fresco e mi viene da considerare - anche con la stessa vischiosità.
Attendo in silenzio, come se dovessi ancora pensare.
Preparo la mia risposta - semplice come un panino al fiele - ed un bel
sorriso, bello abbastanza da poter essere percepito anche per via telefonica.
«Mi dispiace, ma proprio non posso aiutarvi!»
Clic!
* * *
Scarica* gli altri capitoli di "Dietwald e gli altri":
1. Dietwald (prologo)
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2. Diogene
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_diogene.htm
3. Rossella
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_rossella.htm
4. Giobbe
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_giobbe.htm
5. Sakakawea
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_sakakawea.htm
6. Ugo
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_ugo.htm
7. Lucia
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_lucia.htm
8. Dietwald e gli altri
(epilogo)
http://www.linguaggi.eu/testi_files/dega/download_epilogo.htm
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