"fondazione longobarda" di Borgo San Dalmazzo (CN)
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"fondazione longobarda" di Borgo San Dalmazzo (CN)
INDAGINI ARCHEOLOGICHE NELL’ABBAZIA DI “FONDAZIONE LONGOBARDA” DI BORGO SAN DALMAZZO (CN) di EGLE MICHELETTO Soprintendenza Archeologica del Piemonte Nel 1955 veniva pubblicato un sintetico resoconto degli interventi di scavo che avevano evidenziato per intero la cripta romanica dell’antica abbaziale di Borgo San Dalmazzo, all’imbocco delle valli Gesso e Vermenagna, a pochi chilometri da Cuneo (CAMILLA-LAMBOGLIA 1955). Allo scavo, condotto dal parroco don Viale nel 1953 si accenna appena, a conferma che gli autori verificarono lo stato di fatto a lavori compiuti, preferendo quindi rivolgere l’attenzione alle epigrafi romane recuperate, con particolare riferimento all’iscrizione della Quadragesima Galliarum (CAMILLALAMBOGLIA 1955; MENNELLA 1992). Non esiste alcuna relazione di dettaglio sulle indagini, essendo le poche pagine dattiloscritte conservate nell’Archivio della Soprintendenza Archeologica la copia fedele dell’articolo a stampa; notizie orali ed indizi ancora presenti sul terreno consentono tuttavia di ipotizzare che lo svuotamento avesse interessato il settore occidentale del presbiterio, dove le volte a crociera sottostanti erano da tempo collassate. Un sottile muro aveva infatti, presumibilmente in epoca napoleonica, delimitato la porzione di cripta superstite (ormai un semplice scantinato) ad est, i cui sostegni furono poi consolidati con un rivestimento in laterizi; essa era raggiungibile dall’esterno mediante un nuovo accesso ricavato con un taglio obliquo nel muro nord. L’opera di scavo, pur attestandosi al livello del battuto di malta che costituisce ancor oggi il piano di calpestio dei vani interrati, proseguì in più punti con scassi in profondità, la cui entità si è potuta verificare e documentare nelle indagini avviate nel ’95. In particolare: venne liberata dall’interno parte della scala di accesso meridionale al presbiterio; una lunga trincea penetrò al di sotto del muro d’ambito ovest, spingendosi per circa 2 m sotto la scala centrale di comunicazione navata\presbiterio; si intervenne in più punti della navatella centrale della cripta, sia nel settore già intaccato da un ossario in muratura, coperto da volta a botte, la cui prima notizia è contenuta nella visita pastorale del 1698 (Archivio Vescovile di Mondovì, Visita pastorale Isnardi, p. 159), e del quale si conserva la lastra di copertura in pietra, sia in corrispondenza delle fondazioni dell’altare addossato all’abside. Si procedette quindi con un vero e proprio scavo in galleria, puntellando il plancito ligneo della soprastante sacrestia, in corrispondenza dei settori terminali della navata sud della chiesa, in un’area quindi non occupata dalla cripta, asportandone per intero la sequenza stratigrafica, ben oltre i piani di calpestio medievali, sino a raggiungere il terreno naturale ed evidenziando resti murari precedenti l’impianto romanico, oltre ad ampie porzioni di pareti affrescate da porre in relazione con una complessa articolazione di questa parte della chiesa nella seconda metà del XV secolo. I lavori si conclusero con la costruzione di una nuova soletta in tavelloni e cemento armato, ripristinando il pavimento del presbiterio, pur variandone la quota con l’eliminazione di uno dei sei gradini di accesso dalla navata. Ad un quarantennio da quel primo intervento, un rinnovato interesse promosso dall’attuale parroco don G. Quaranta e dalla comunità parrocchiale, ha coinvolto gli uffici di tutela nell’elaborazione di un progetto di consolidamento del settore presbiteriale della chiesa e della cripta, la cui situazione statica presenta notevoli problemi. Ciò ha determinato l’avvio dello studio archeologico, concretizzatosi ad oggi nel rilievo e nell’analisi stratigrafica degli elevati, ampliato alla navatella settentrionale dove insiste il basa- mento del campanile romanico ed a quella meridionale, prima non accessibile perché occupata dai depositi della vicina Casa di Riposo per Anziani, che ha sede nel palazzo abbaziale, settori nei quali è stato possibile procedere anche con limitati scavi. Si sono quindi riaperte le due scale di accesso alla cripta dalla navata maggiore, mettendo in luce l’antica articolazione della gradinata centrale. Ulteriori modesti interventi sono stati condotti all’esterno, sul sagrato per la posa di servizi e nel porticato settecentesco che delimita la chiesa a sud. Contemporaneamente si è proceduto, da parte del restauratore S. Pulga, in stretta collaborazione con gli archeologi, a due successive campagne di sondaggi stratigrafici sugli intonaci della cripta, non affrescati, che rivestono completamente gli elevati impedendo la valutazione delle sottostanti murature; i risultati di tali saggi (che saranno integrati dalle analisi chimiche delle malte e delle parti di rivestimento in stucco, queste ultime già in parte ultimate) sono confluiti in uno schema preliminare di cronologia relativa per le diverse fasi dell’impianto romanico (IENTILE et al. 1996). Nell’ipotesi che nell’intervento di restauro, dopo i necessari consolidamenti statici, si decida di asportare l’intonacatura tardo cinquecentesca (il vescovo Scarampi, nella visita pastorale del 1583, nell’indicare la necessità che uno dei due altari della cripta venga eliminato, informa che il: «... locum qui confessio appillatur dealbari coeptum est e propediem perficiendum») (Archivio Vescovile di Mondovì, Visita pastorale Scarampi, p. 201), sarà possibile verificare i diversi punti di raccordo e di sovrapposizione degli intonaci medievali, che si suppone siano conservati sull’80% delle superfici murarie. Si sono infine condotte, a completamento di questo primo lotto di intervento archeologico, tassellature di verifica della sequenza di piani pavimentali, già in parte visibili in corrispondenza degli scassi, e del loro rapporto con i rivestimenti parietali. L’ABBAZIA SANCTI DALMACII SITA QUONDAM PEDHONA La prima menzione dell’abbazia è contenuta in un documento del 902 (SCHIAPARELLI 1910, doc. 5, pp. 80-83), di cui viene ora accettata l’autenticità (BORDONE 1980), che ne vede la concessione imperiale al vescovo di Asti Eilulfo, insieme al comitato di Bredulo. In precedenza essa era compresa nella diocesi di Torino, come evidenzia la narrazione dell’Additio Moccensis (nell’edizione di RIBERI 1929, pp. 367-391), una passio redatta da un anonimo cronista della vallis Moccensis, identificata con la valle dell’Ubayette, pervenutaci in codici del X e XI secolo (GABOTTO 1911). La sua datazione è controversa (COMBA 1983, p. 37, nota 42), essendo inoltre state ridimensionate le presunte devastazioni subite dal sito per le scorrerie saracene (SETTIA 1988, pp. 300 ss.), ma dovrebbe porsi sullo scorcio del IX secolo (BERRA 1962; GIACCHI 1976; CASIRAGHI 1979), in un momento immediatamente antecedente il trasferimento di diocesi. Il vescovo Audace promuoverà la traslazione delle reliquie di San Dalmazzo a Quargnento nell’Astigiano, come confermano la datazione al X secolo dell’iscrizione votiva del reliquiario (CIPOLLA 1889; FISSORE 1979) ed un atto del 948 (GABOTTO 1904, doc. 64, p. 117), nel quale si esplicita anche il rapporto della chiesa di Borgo con l’antica città di Pedona. Il centro romano, fiorente nei primi secoli dell’impero e statio per l’esazione della Quadragesima Galliarum, come attestano i ritrovamenti epigrafici ricordati poco sopra, malgrado un sicuro momento di crisi nel III secolo, quando fu sottoposta ad un curator (CIL V, 7836), dovette godere di una certa rilevanza ancora in età gota, per la sua posizione di controllo degli assi viari transalpini attraverso i colli della Maddalena e di Tenda. Sappiamo infatti da Cassiodoro (I, 36) che fu sede comitale mentre è citata quale civitas ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 1 nella Cosmografia dell’Anonimo Ravennate (V, 3) alla fine del VII secolo. La sua localizzazione sul terreno continua ad essere problematica, come pure le vicende legate alla sua decadenza e scomparsa (LA ROCCA 1992; MICHELETTO in stampa), sino alla formazione del nuovo centro demico presso l’abbazia (COCCOLUTO 1994); in un passo della già citata Additio Moccensis si descrive Pedona lambita sul lato sinistro dalla Stura, la cui ripa scoscesa ne costituiva in pratica elemento di difesa, sul lato destro dal Gesso. I dati archeologici in nostro possesso non sono ad oggi risolutivi: vecchi scavi e recenti ritrovamenti durante lavori per la posa di servizi nelle vie dell’attuale centro storico, a ridosso dell’abbazia, confermano la presenza di aree sepolcrali romane – esterne quindi all’antico centro urbano – con tombe ad incinerazione, in parte databili al I-II secolo e più tarde tombe ad inumazione (MOLLI BOFFA-MICHELETTO 1983); è da rammentare inoltre l’accertata sovrapposizione ad una tomba ad incinerazione, nell’attuale via dell’Ospedale che fiancheggia a nord la chiesa, di tombe a cassa in muratura e copertura a lastre di pietra, attribuibili alle fasi romaniche del cimitero dell’abbazia. Il recentissimo sondaggio (settembre ’96) aperto in corrispondenza del settore settentrionale della facciata della chiesa ha mostrato una sequenza di almeno tre livelli di sepolture, le più superficiali delle quali in piena terra, molto disturbate da interventi moderni; esse si sovrappongono a tombe a cassa in muratura, con pareti in pietre e ciottoli legati da malta, fondo e copertura a lastre, analoghe per tipologia e cronologia a quelle di via dell’Ospedale. In alcuni punti queste ultime tagliano inumazioni in piena terra, con fossa scavata direttamente nel terreno naturale; anche qui è da segnalare materiale ceramico romano e tardoromano, in un contesto stratigrafico completamente sconvolto. Il ritrovamento di una porzione di un impianto termale, con fasi comprese tra il I ed il V secolo d.C., ai margini del pendio che digrada verso il Gesso (MOLLI BOFFA 1994), insieme ad altre strutture murarie messe in luce in strade limitrofe (ritrovamenti inediti in via Avena, nel 1979, 1990 e 1996), potrebbe riferirsi anche ad un edificio suburbano, come parrebbe ipotizzarsi per alcune delle murature evidenziate nel 1953 nei livelli sottostanti le fondazioni della chiesa. Esse si addossarono al ripido pendio, opportunamente terrazzato con una massicciata di ciottoli e malta, dopo azioni di taglio del terreno naturale come si è ora potuto verificare con la realizzazione di un sondaggio nel portico meridionale, che dovrà proseguire con una trincea verso l’alveo del torrente. Lo scavo ha purtroppo confermato come l’attuale muro d’ambito del portico, inserito nel progetto di riedificazione dell’abbazia all’inizio del ‘700, voluto dal vescovo Isnardi, avesse completamente asportato sia la stratificazione che le strutture dell’edificio di culto, di cui permane quindi sconosciuta la chiusura su questo lato, oggetto di un ampliamento nel XV secolo. Le murature, caratterizzate da filari di embrici, intercalati a ciottoli, pur in assenza di livelli d’uso, disturbati dalle costruzioni più tarde, paiono attribuibili al periodo tardoromano; oltre ai materiali ceramici, è da segnalare il ritratto marmoreo maschile della metà del III secolo, dalle superfici molto consunte, già reimpiegato nella facciata romanica (MERCANDO c.s.). Altri resti sono emersi nell’annesso meridionale alla cripta, conservati anche qui per pochi filari di fondazione: la struttura presenta un andamento curvilineo, con uno sviluppo dimensionale difficilmente determinabile. Essa si innesta direttamente nelle ghiaie naturali, come le murature dell’ambiente adiacente, con le quali è tuttavia problematico ipotizzare un sicuro collegamento planimetrico; al tratto nord-sud di queste ultime si addossa un’altra struttura, di cui si è riscontrato il proseguimento sin sotto il muro perimetrale quattrocentesco, mentre a nord formano un angolo, all’interno del quale si colloca una grande tomba a cassa di lastre marmoree. Completamente svuotata e scavata negli anni ’50, essa mantiene in sito la lastra di fondo e quelle dei lati lunghi, mentre la copertura venne probabilmente asportata al momento di costruzione del muro di chiusura ovest della sacrestia nuova, descritta nelle visite pastorali dal 1710; la sezione di terra conserva inoltre le tracce di una pavimentazione in cocciopesto, tagliata a sud dalla fondazione della chiesa romanica. Se non è sostenibile, in assenza di dati di scavo, la contemporaneità di tomba e struttura muraria, e pur nell’incertezza della datazione della sepoltura sulla base degli elementi strutturali superstiti, è certo che fu inserita in un ambiente ancora in uso, vista la perfetta corrispondenza con l’angolo in questione e la notevole conservazione in elevato del muro al quale si addossò. Con questo ambiente alcuni degli ultimi studi sull’apparato decorativo (COCCOLUTO 1986) e sulla chiesa (TOSCO 1996) identificano il primo luogo di culto altomedievale sulla tomba del santo, considerandolo a tutti gli effetti un annesso alla cripta. In realtà il vano, del quale non sono accertabili le dimensioni, ma che si estende verso sud, non potè mai avere alcun rapporto con quest’ultima essendo completamente obliterato al momento della costruzione romanica. La tentazione di collegare tali elementi archeologici alla ricostruzione della vita del santo e delle vicende della chiesa a lui dedicata, formulata dal canonico Riberi (RIBERI 1929) sulla base di fonti documentarie, alcune delle quali sino al 1929 inedite e non reperibili dopo la pubblicazione , non è scevra da rischi. Secondo l’A. l’esistenza di un piccolo edificio di culto, sorto già in epoca tardoantica sul luogo del martirio del santo, in un’area precedentemente occupata da sepolture pagane nei pressi della città romana, sarebbe comprovata dall’identificazione con Pedona e la sua chiesa dei siti descritti in un’omelia in dedicacione ecclesiae che egli attribuiva a Valeriano, vescovo di Cimiez nel V secolo (tale paternità è fortemente dubbia, anche se il testo pare riconducibile ad un autore del V-VI sec.). Le incongruenze insite in questa ipotesi sono state recentemente evidenziate (CANTINO WATAGHIN c.s.), con una serie di obiezioni che, partendo dalla genericità del riferimento topografico ai due fiumi che definivano il territorio occupato dalla chiesa, all’assenza di tracce a Borgo di un culto a S. Tecla (questo elemento meriterà tuttavia un approfondimento, dal momento che un tardo pilone votivo che rammenta il sito di una cappella dedicata a S. Sebastiano, reca su di lato l’immagine della santa), allo specifico riferimento del testo ad un martire, mentre San Dalmazzo non è esplicitamente indicato come tale nelle diverse redazioni della Vita, si conclude con una argomentazione forse decisiva: l’omelia sarebbe stata pronunciata in una città episcopale. In attesa di ulteriori verifiche sul ricco apparato documentario e agiografico, di fondamentale importanza anche per l’interpretazione archeologica delle strutture materiali che abbiamo descritto, si segnala il costante riferimento, anche nelle fonti più tarde, ad un culto delle reliquie in corrispondenza del settore terminale della navata sud, area dove si conservano i resti strutturali più antichi: «In capitae quartae navis, sub titulo S. Dalmatii, habet bradellam angustam, sub fornicis picta. Prope illud est hostium sacristiae, sive loci qui vulgo appellat S. cta Sanctorum. Post ipsum altare est depositum ad formam Arcae sepulcri, in qua ex traditione asseritur recondi corpus s.cti Dalmatii Martiris» (Archivio Vescovile di Mondovì, Visita Scarampi, 1583). Maggiori certezze sull’esistenza di una chiesa altomedievale, di cui per il momento non si è rinvenuta traccia archeologica, forniscono i numerosi materiali scultorei datati all’VIII secolo, da tempo noti, in parte conservati presso il Museo Civico di Cuneo, in parte a Borgo S. Dalmazzo, considerati il prodotto di una bottega di lapicidi operante sui due versanti delle Alpi Marittime (CASARTELLI NOVELLI 1974; EAD. 1978). Il nucleo di reperti, cui si devono aggiungere ora un frammento di pluteo recuperato nel tamponamento della scala nord della cripta, insieme al negativo di un’altra lastra, non conservata, nella malta di allettamen- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 2 to di un grande blocco parallelepipedo ai piedi della gradinata di accesso al presbiterio, consentono di riconoscere parti di un’iconostasi che separava quest’ultimo dalla navata, confrontata con quella del S. Leone a Capena (CROSETTO c.s.). Sulla scia di F. Meyranesio (1729-1793), che faceva risalire la fondazione del cenobio benedettino ai primi anni del VII secolo per diretto impulso di Teodolinda e Agilulfo, su una base documentaria rivelatasi falsa (GIACCARIA 1994), si consolidò comunque la tradizione “longobarda” della nascita dell’abbazia. Ripresa dal Riberi, che la riconduceva piuttosto al tempo di Ariperto (RIBERI 1929), essa trova ulteriori conferme nell’attribuzione a questo periodo storico dei nuclei originari della Vita del santo (LANZONI 1927; CANTINO WATAGHIN c.s.). Ritrovamenti anche recenti di materiali longobardi nel Piemonte sud-occidentale – a Savigliano, Fossano, Scarnafigi, Centallo (MICHELETTO-PEJRANI c.s.; MICHELETTO c.s.), che si aggiungono a quelli a suo tempo schedati (VON HESSEN 1974) cominciano a gettare una luce diversa su un territorio che si considera tardivamente conquistato da Rotari insieme alla Liguria. Il ruolo non trascurabile assunto dal colle della Maddalena durante le ripetute incursioni longobarde verso Avignone, Arles e Grenoble negli anni ’70 del VI secolo potrebbe giustificare un più precoce controllo stabile di queste vie di transito (PAVONI 1995); certo il sito di Borgo San Dalmazzo vedrebbe confermato un ruolo di importanza strategica non secondaria, già evidente nelle fonti di età gota e forse definitivamente sancito con una fondazione longobarda agli inizi dell’VIII secolo. È ancora una volta l’Additio Moccensis ad illuminarci sull’articolazione dei corpi di fabbrica in età preromanica: il narratore descrive all’interno della chiesa “duo opuscula”, che parrebbero riferirsi al monumento funerario del santo, più che ad una cripta di fase carolingia, come sinora ipotizzato (COCCOLUTO 1986; TOSCO 1996). La chiesa romanica e le fasi della cripta L’impianto attuale è frutto di numerose ristrutturazioni, fra le più cospicue delle quali si segnalano la costruzione e decorazione pittorica della c.d. Cappella Angioina, che si propone di attribuire agli anni 1450-70 per impulso del primo abate commendatario, il vescovo di Mondovì Aymerico Segaudi (TOSCO 1996). Nello stesso arco di tempo sarebbero state edificate anche le cappelle laterali, cosicché nelle visite pastorali cinquecentesche la chiesa è descritta «quattuor navibus quinta bellorum iniuria destructa sed muro divisa ita ut tutior ecclesia reddita sit» (Archivio Vescovile di Mondovì, Visita Scarampi, 1583). Nel XVI secolo, come diretta conseguenza di episodi bellici, la chiesa ed il monastero divennero sede di contingenti armati francesi, con conseguenti rappresaglie di Cuneo e danni alle strutture; tali vicende culminarono nella profanazione dell’arca di S. Dalmazzo e nel furto di parte delle reliquie, che la tradizione vuole fossero state ricondotte a Borgo nel XII secolo. Nuove modifiche si segnalano a fine Cinquecento e nel secondo quarto del Seicento, in quest’ultima occasione per una più idonea sistemazione delle reliquie, come attesterebbe un disegno conservato all’Archivio Vescovile di Mondovì, recentemente edito (TOSCO 1996, fig. 23), con la costruzione di un pontile sorretto da sei colonne, ad occupare l’abside maggiore (sondaggi su intonaci e murature dovranno verificare se tale impianto non ne ricalchi uno più antico) . La piattaforma sopraelevata ospitò un altare dedicato al santo, mentre la porzione absidale retrostante, nascosta da un muro rettilineo, fu successivamente ricostruita ed ampliata, e questo nuovo spazio occupato da un coro ligneo. Un progetto di radicale ricostruzione del palazzo abbaziale promosso dal vescovo Isnardi e ultimato nel 1703, comportò il definitivo abbattimento dei corpi di fabbrica medievali, mentre il contemporaneo restauro della chiesa, pur obliterando parti importanti dell’impianto antico, conservò ampi settori delle murature romaniche. In primo luogo la facciata, interamente inglobata in quella settecentesca e da questa enucleata negli anni 1981-83, con una scrostatura del paramento in pietre, intercalate a ciottoli e laterizi; questi ultimi delineano sei lesene concluse da archetti che seguono i salienti del tetto. Sul lato sinistro rimane traccia dell’originaria monofora, che doveva ripetersi sul lato destro; al di sopra del portale centrale, è ricavata nella muratura una grande croce, che conserva due fasi di intonaco, il più antico dei quali affrescato con un’immagine di Cristo in croce, già datato al XIII sec. (GALANTE GARRONE 1991) e che si propone ora di attribuire, in fase con l’edificazione della facciata stessa, alla metà dell’XI secolo (TOSCO 1996). Il cleristorio romanico, con monofore a doppia strombatura e soprastanti archetti pensili è visibile sul lato meridionale, essendo quello nord occultato all’esterno da un rifacimento moderno delle coperture: nel sottotetto è tuttavia verificabile la sovrapposizione delle volte alle murature più antiche, intonacate e con tracce di decorazione pittorica di fasi diverse. La navata centrale era separata dalle laterali da pilastri: in corrispondenza del presbiterio, due di essi rivelano il nucleo originario, con il profilo rettangolare movimentato sui due lati brevi da semicolonne. La riapertura delle due scale di discesa alla cripta ne ha evidenziato una struttura ancora più complessa, con fondazioni quadrangolari in pietre e ciottoli, sulle quali si impostano pilastri ottagonali, che potrebbero forse costituire solo una zoccolatura. Su quello meridionale si conservano estese porzioni di stucco (in traccia percepibile anche su quello settentrionale), applicata direttamente alla muratura, con una decorazione ad intrecci viminei, già parzialmente visibile dopo i lavori del ’53 e per i quali si è proposta una cronologia al IX secolo (COCCOLUTO 1986). Il risvolto di questa decorazione su un brevissimo tratto di pavimentazione in fase con la mazzetta dell’accesso alla cripta, unitamente al ritrovamento di altri cospicui resti, sia di frammenti con decorazioni vegetali e animalistiche dal riempimento degli ingressi originari, sia di parti ancora in situ all’interno di quest’ultima inducono ad una certa cautela, che non esclude una datazione più tarda. I primi risultati delle analisi chimiche condotte dal Laboratorio della Soprintendenza per i Beni Culturali della Valle d’Aosta, ancora in corso di esame, non sembrano infatti rilevare sostanziali differenze tra i campioni prelevati nei diversi punti, che avrebbero potuto costituire indiretta conferma di differenti fasi decorative. La tipologia del pilastro ottagono troverebbe d’altra parte uno stringente confronto con quelli dell’abbazia di S. Maria di Cavour, fondata nel 1037 dal Vescovo di Torino Landolfo (BAUDI DI VESME et alii 1909, pp. 8-12), interessata inoltre da una cripta ad oratorio con navatelle laterali, dallo schema molto simile a quello di Borgo (non si affronta in questa sede il discorso sulla diffusione di planimetrie analoghe, per cui si rimanda a titolo esemplificativo a GIGLIOZZI 1995; CARITÀ 1994; THIRION 1990; TOSCO 1996). La nostra cripta si presenta, allo stato attuale dei lavori, e soprattutto dopo l’abbattimento della tamponatura della porta di comunicazione con l’annesso meridionale, con un corpo centrale, diviso in tre navatelle da due file di sei sostegni su cui si impostano, senza la mediazione di capitelli, le volte a crociera che ricadono su semicolonne innestate in uno zoccolo in muratura lungo le pareti laterali e l’abside, interrotto in corrispondenza delle porte nord e sud di comunicazione con gli annessi. Solo tre dei sostegni, posti nelle prime due campate occidentali, sono visibili in quanto non foderati da laterizi nell’Ottocento: ad un nucleo lapideo, costituito in un caso da un grande frammento di pilastrino altomedievale di reimpiego (che non pare essere mai stato a vista), sovrapposto ad una base anch’essa più antica, venne applicato uno spessore di malta ed un intonaco. L’accurata ripulitura del piano pavimentale attuale, ha eviden- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 3 Fig. 1 – La provincia di Cuneo con i centri di età romana ed i principali assi viari. Fig. 3 – La facciata della chiesa (Foto Lovera). Fig. 4 – Navata sud. In primo piano resti murari tardoromani e tomba a cassa (Foto Lovera). Fig. 2 – Pianta della chiesa di San Dalmazzo. Stato attuale. ziato anche qui consistenti tracce di una fase intermedia di rivestimento in stucco, conservata solo nella parte del basamento, essendo stata completamente rimossa sugli elevati per le successive reintonacature. Gli unici lacerti si conservano sulle semicolonne meridionali, casualmente sopravvissuti a seguito di un innalzamento del bancone in muratura che le inglobò, rimosso forse nel XVIII secolo, in conco- mitanza con la tamponatura dell’accesso all’annesso sud e la realizzazione del pavimento attuale, in malta di calce e ghiaia. È probabile che allo stucco parietale si accompagnasse un nuovo suolo: consistenti tracce di quest’ultimo, già visibili in più punti delle sezioni irregolari in corrispondenza degli scassi del 1953 ed interpretato in un primo tempo come piano di cantiere, sono emerse durante tassellature di verifica. In esso si distinguono parti gessose alternate a settori in cocciopesto, disposti a formare elementi decorativi geometrici e floreali. Nel settore absidale ed in più punti della navatella nord esso è direttamente appoggiato su di un pavimento in malta su vespaio, di cui non pare esservi traccia nella navatella sud, nella quale i resti sono peraltro molto più alterati dagli interventi moderni. Un esteso tratto di questo suolo è stato messo in luce nell’annesso meridionale; sigillato da quadrelle in cotto moderne, esso poggia direttamente su un vespaio di piccole pietre annegate in abbondante malta, direttamente sovrapposte al terreno naturale ed alla struttura curvilinea di cui abbiamo già discusso. Qui i dettagli decorativi sono meglio leggibili e conservano inoltre traccia di tessere di mosaico e di lastrine litiche che ne lasciano solo intuire la ricchezza e l’inusualità; forse la pavimentazione era articolata in settori non tutti ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 4 Fig. 5 – Planimetria della cripta e degli ambienti adiacenti dopo i lavori 1995-96 (Ril. G. Abrardi). ugualmente calpestabili, in stretta connessione con la destinazione liturgica degli spazi. L’annesso settentrionale è posto ad una quota ben più alta (+ m 1 ca.), come conseguenza del forte dislivello dei terrazzamenti sui quali fu costruito il complesso; esso era raggiungibile dalla navata centrale mediante una scala, probabilmente lignea vista l’assenza di tracce strutturali, ed una porta archivoltata (ora parzialmente tamponata e trasformata in finestra) simmetrica a quella sud, che immettevano nel basamento del campanile, aperto verso la parte terminale della navata con un arcone. Lo scavo ha evidenziato tracce di un sottile battuto, con residui di cocciopesto ancora usato come piano di calpestio in tempi recenti, a contatto con il terreno naturale ed in adiacenza ai gradini in laterizio connessi all’accesso obliquo ricavato solo nell’Ottocento verso il corpo centrale della cripta. Pur non potendo in questa sintetica scheda preliminare entrare nel dettaglio dell’analisi già condotta su intonaci ed elevati (si sono riconosciute almeno sei diverse fasi), è evidente l’incongruità dei due supporti centrali della cripta, di forma oblunga, la cui dimensione (m 1 ca.) trova riscontri in irregolarità della superficie muraria dei perimetrali ed in differenze anche nell’imposta delle crociere sui lati est ed ovest. Essi parrebbero il risultato di un lavoro di parziale demolizione di una struttura più consistente, che potrebbe trovare un confronto nel massiccio murario della cripta della cattedrale di St. Jean de Maurienne, articolato da due passaggi laterali e da una fenestella centrale, che costituisce punto di giunzione tra due distinte fasi costruttive romaniche, da tempo in discussione (SAPIN 1995; PARRON 1995), peraltro in spazi di dimensioni più ampie. Anche nel nostro caso le anomalie planimetriche parrebbero riferirsi, più che ad un’unica fase di cantiere, con articolati elementi di separazione tra due ambienti di uno stesso spazio, a momenti strutturali distinti, la cui sequenza cronologica permane incerta. I sondaggi stratigrafici condotti sugli intonaci parrebbero individuare una prima fase nel settore occidentale, con una netta interruzione in corrispondenza dei due sostegni anomali già descritti, dove si evidenzia la sovrapposizione di un secondo intonaco “unificante”, che si ritrova a diretto contatto con la muratura nell’abside centrale ed in quella dell’annesso sud; qui il rivestimento più antico è stato rilevato lungo il tratto occidentale del perimetrale nord e sull’esterno dell’abside che costituisce la parete ovest del vano. Due intonaci analoghi definiscono anche due distinte fasi della gradinata di salita al presbiterio: la più antica larga m 2, con le due porte laterali inquadrate da mazzette aggettanti verso la chiesa; la seconda ampliata di m 0,50 per lato. La porta sud presenta una sequenza più completa, con la netta sovrapposizione delle due stesure di intonaco e l’ulteriore aggiunta alla scala centrale di semicolonne in laterizi, ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 5 Fig. 8 – Panoramica degli accessi alla cripta e della gradinata centrale di salita al presbiterio (Foto Lovera). Fig. 6 – Panoramica della cripta da ovest (Foto Lovera). Ai dati preliminari forniti dalla sequenza di intonaci (l’analisi non ha per il momento compreso l’annesso nord), che definirebbero una prima fase di cripta limitata al settore occidentale del presbiterio, sulla quale si sarebbe innestato un ampliamento verso est con ambienti annessi, si contrappongono elementi di non agevole inquadramento nella seriazione delle strutture, soprattutto riguardo ai piani pavimentali ed alla presenza di resti murari sottostanti il suolo più antico dell’abside maggiore, di difficile lettura, che inducono ad una doverosa cautela in attesa del proseguimento dei lavori di restauro e che si presentano in termini problematici alla discussione in questa sede. BIBLIOGRAFIA Fig. 7 – Particolare di uno dei supporti della cripta, con pilastrino altomedievale di reimpiego e resti di decorazione in stucco (Foto Lovera). con una malta ancora diversa. È infine da rilevare che l’ampliamento della scala si appoggia al pavimento della fase precedente, con un tratto di cocciopesto e lastre di pietra, queste ultime conservate anche nel settore settentrionale, in parte asportate solo al momento della costruzione di grandi ossari in ciottoli, che emergono dalla sezione in corrispondenza della navata. Risulta quindi definita la quota di calpestio romanica della navata, a -m 1, 10 dalla soglia della chiesa, mentre quella del suolo attuale della cripta si trova a -m 2,40; un vistoso dislivello di quota tra il sagrato e l’interno, accertato con il modesto scavo nell’area cimiteriale che occupa il primo, si rileva anche dalle visite pastorali cinquecentesche. BAUDI DI VESME B., DURANDO E., GABOTTO F. (a cura di) 1909, Cartario dell’Abbazia di Cavour fino all’anno 1300, Biblioteca della Società Storica Subalpina III, Pinerolo. BERRA L. 1962, Le “Passiones” di S. 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