Untitled - Donnemedico Treviso

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Untitled - Donnemedico Treviso
Atti dell’ Associazione Italiana Donne Medico
Treviso
aprile 2005 - marzo 2008
La realizzazione di questa opera, che costituisce la prima
pubblicazione dell’ A.I.D.M. di Treviso, è stata decisa perché
rimangano nella memoria non solo l’intensità formativa delle
emozioni vissute durante la gestione delle iniziative di studio e
di informazione prodotte, ma anche lo spessore del pensiero
dialogante di relatori che hanno fornito contributi scientifici e
di esperienza culturale, in forma scritta.
Sara Stefania Tabbone
Presidente
Treviso li 5 aprile 2008
COMITATO SCIENTIFICO
Enrica Corletto, Francesca Coghetto, Gigliola Tessari, Maria
Delucchi, Maria Ripoli, Mariella Dalmanzio, Nedelia Minisci,
Valeria Busetto
COMITATO DI REDAZIONE
Giuseppina Girlando, Laura Dapporto, Lida Polastri, Lorenza
Agosto, Lucia Barbon, Marzia Carniato
Via Pier Maria Pennacchi n. 4, 31100 Treviso - Tel 0422 301087
[email protected] ; www.donnemedicotreviso.net
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Finito di stampare nel mese di giugno 2008
a cura dell’Associazione Italiana Donne Medico
Sezione di Treviso
Si ringrazia Tecnosystemi s.p.a, produzione accessori per il
condizionamento, Zona Ind.le San Giacomo di Veglia
Via Mattei 2/4, 31029 Vittorio Veneto (TV),
Consigliera delegata: Dott.ssa Anna Munari.
INDICE
Ornella Cappelli
4 Presentazione dell’A.I.D.M.
Sara Stefania Tabbone
7 Campi di azione dell’A.I.D.M. TV
Valeria Busetto
9 Accompagnamento della coppia in climaterio
Francesca Coghetto
12 Sessualità, fertilità e infertilità nel percorso della
malattia neoplastica
17 Compliance terapeutica
21 Il paziente terminale
24 Il medico e il paziente incurabile.
Problematiche di rapporti nella diagnosi e nella terapia
Laura Dapporto
29 l ritardo diagnostico e l’insuccesso terapeutico
35 Diagnosi di cancro e reattività psichica
40 Don Lorenzo Milani prete
Giuseppina Girlando
48 Le malattie sessualmente trasmesse: conoscerle per prevenirle
Marilisa Grigolon
51 Le basi della comunicazione
56 La relazione di aiuto
Nedelia Minisci
60 La consulenza ginecologica all’adolescente:
ruolo del ginecologo consultoriale
Raffaella Peron
71 L’ostetrica accanto all’adolescente
Lenio Rizzo
76 Gli operatori ‘psi’ confrontati alla psicopatologia
dell’ adolescenza. Spunti per un lavoro di prevenzione.
Sara Stefania Tabbone
90 Le parole della cura
95 Violenza contro la donna tra le mura domestiche
102 Formazione relazionale in medicina:
protagonista la malattia neoplastica
106 Dal lavoro analitico con Raffaella B
110 Sessualità in climaterio
115 Da Donna a Donna
123 L’archetipo della dea:
spunti per una conversazione
127 Ancora violenza contro le donne
Gigliola Tessari
130 Le giovani adolescenti e le loro madri.
La contraccezione in un consultorio familiare del Veneto
139 Approccio integrato in ostetricia e ginecologia:
una relazione per la salute
Paola Volpato
145 Il cancro nell’immaginario collettivo:
tra continuità e cambiamento
150 Aspetti psicologici della famiglia del paziente
Aldo Zanon e Coll.
154 Il pediatra e la collaborazione tra operatori del territorio
Ornella Cappelli 1
PRESENTAZIONE A.I.D.M.
L’Associazione Italiana Donne Medico, A.I.D.M., nasce in Italia, a
Salsomaggiore Terme, nel 1921; è membro del Medical Women’s
Internazional Association, M.W.I.A. (fondata negli Stati Uniti
d’America nel 1919), di cui adotta l’emblema: la figura di Igea con il
motto “matris animo curant”.
L’associazione, apartitica ed aconfessionale, ha i seguenti scopi:
valorizzare il lavoro delle donne medico in campo
sanitario;promuovere la collaborazione tra le donne medico;
collaborare con le altre associazioni italiane ed internazionali,
incentivando gli incontri per lo studio delle problematiche sanitarie e
socio sanitarie che riguardano la salute della donna e del fanciullo;
promuovere la formazione scientifico culturale in campo sanitario.
Dal 1999 al 2006 la carica di Presidente Nazionale è stata ricoperta
dalla Dott.ssa Claudia Di Nicola che si è prodigata instancabilmente
per lo sviluppo dell’Associazione: durante la sua presidenza, il
numero delle Sezioni è passato da 19 a 65, ricoprendo tutta la
penisola, e registrando un aumento cospicuo (oltre il triplo) delle
associate. L’Assemblea generale delle socie, tenutasi il 26 novembre
2006, l’ha nominata
Presidente Onoraria dell’Associazione.
L’Associazione fa parte del Consiglio Nazionale Donne Italiane
(C.N.D.I.) e, dal maggio 2003, è entrata a far parte della Federazione
Italiana delle Società Medico Scientifiche (FISM).
Al fine di conseguire i propri obiettivi, l’Associazione si è mossa in
diverse direzioni: è stato richiesto al Ministero della Salute per
l’AIDM il riconoscimento del suo ruolo significativo nell’ambito di
un Osservatorio permanente del mondo lavorativo femminile
sanitario; da anni sono attive collaborazioni con Enti ed associazioni
che promuovono “formazione ed informazione” su campagne di
1
Specialista in Igiene e Medicina Preventiva, Coordinatrice Area Igiene e
Sanità Pubblica Azienda U.S.L. Parma. Presidente Associazione Italiana
Donne Medico, triennio 2006-2009.
5
prevenzione (“giornata della prevenzione del tumore al seno”;
prevenzione dell’osteoporosi, con l’ausilio di un bus itinerante con
Moc a bordo; interventi nelle scuole per campagne antifumo, lotta
alla violenza sui minori, educazione ad una sana alimentazione, ..),
utilizzando anche strumenti per un certo verso innovativi, come il
“Menopausa the Musical”, dove lo spettacolo è accompagnato da
una serie di incontri con specialisti sulle problematiche che
accompagnano questo particolare momento nella vita della donna.
Lo spettacolo, nato da un’idea originale della scrittrice americana
Jeanie Linders, che si è rifatta alla propria esperienza, è stato
proposto in Italia dalla regista Manuela Metri, con un cast
d’eccezione: Fiordaliso, Marisa Laurito, Crystal White e Fioretta
Mari, ed ha riscosso fin dal suo debutto uno strepitoso successo.
L’A.I.D.M. attraverso le sue socie, ha partecipato a trias clinici su
diversi argomenti medici, con un’angolatura speciale sugli aspetti di
“genere”: l’uso degli analgesici, la schizofrenia, la terapia
dell’osteoporosi, ma anche sull’umanizzazione degli ospedali;
insieme al Forum delle Donne del Mediterraneo è iniziato uno studio
sui problemi di salute della donna dei Paesi del Mediterraneo,
nell’ambito del quale sono stati organizzati corsi di formazione per
donne scienziate africane.
Dal gennaio 2001, l’A.I.D.M ha ricevuto il riconoscimento come
provider presso il Ministero della Salute: numerosi sono i Convegni
organizzati in questi anni, dove sempre si è cercato di focalizzare
l’attenzione sulle specifiche problematiche della donna.
Particolarmente significativo appare in questo contesto, il primo
congresso M.W.I.A. dell’Europa unita, tenutosi nel 2003 a Napoli in
concomitanza con il XXVI congresso AIDM e il Congresso
M.W.I.A. del Sud Europa, tenutosi nel 2007 a Roma in
concomitanza con il XXVII Congresso A.I.D.M.
Ornella Cappelli
Via Padre Lino Maupas n.12
43100 Parma
6
Sara Stefania Tabbone 2
CAMPI DI AZIONE DELL’A.I.D.M. TV
La Sezione A.I.D.M. di Treviso, riorganizzata il 5 aprile 2005,
gestisce iniziative nei seguenti campi di azione:
- valorizzazione delle caratteristiche attitudinali delle donne per
meglio applicarle, oltre che nella pratica diagnostico-terapeutica,
anche nel management in sanità con particolare attenzione alla
qualità degli interventi e specificamente alla comunicazione medico
paziente;
- collaborazione con Associazioni interessate a sviluppare studi sulla
‘differenza di genere’ nel campo della ricerca e dell’espressività per
lo sviluppo della medicina di genere e per l’identificazione di
obiettivi operativi e di integrazione culturale atti a promuovere il
riequilibrio di genere nei sistemi sanitari come in altri sistemi del
vivere sociale;
- diffusione delle conoscenze di sociale utilità in campo sanitario
anche mediante l’ utilizzo dei mass-media oltre che con Seminari,
Convegni e Corsi supportando tecnicamente, con consulenze
professionali, Associazioni non mediche che hanno particolare
penetranza nel territorio;
- svolgimento di attività di aggiornamento professionale e di
formazione permanente nei confronti delle Associate con programmi
annuali di attività formativa ( con accreditamento ECM, secondo la
normativa vigente), non escludendo laureati di discipline affini e
personale sanitario non medico;
- modulazione del programma formativo tenendo conto della
pluridisciplinarietà delle associate, privilegiando i temi gestionali
comuni alle varie discipline, i temi trasversali alle stesse, accanto a
quelli specialistici veri e propri, e con attenzione alle procedure di
verifica della qualità ;
2
Psicoterapeuta specialista in Psichiatria, libera professionista in Treviso.
Presidente A.I.D.M. TV, 2005-2011. Delegata A.I.D.M. per la Formazione
nel Triveneto, 2007-2010.
7
- attivazione di campagne di educazione sanitaria e di indagini
epidemiologiche per la promozione della salute delle donne.
Particolare attenzione è riservata anche ai bambini e agli anziani
riconosciuti, a vario titolo, soggetti deboli.
L’iscrizione in qualità di socia è riservata alle laureate in medicina ed
è libera e non condizionata: il tempo d’ impegno per la realizzazione
delle iniziative socioculturali, di formazione in medicina e di
solidarietà è comunque rispettoso degli interessi personali della
donna medico e dei compiti professionali e familiari che connotano il
suo universo relazionale.
L’assemblea delle socie stabilisce annualmente la quota sociale di
partecipazione; è stato istituito uno Young Forum per l’accesso di
giovani laureate, a quota sociale ridotta, per i primi tre anni di
partecipazione, ma con gli stessi diritti delle socie laureate da più
tempo.
L’A.I.D.M. di Treviso ha sede legale in via Risorgimento 11, 31100
Treviso, e sede organizzativa in via P.M. Pennacchi 4, 31100 TV
Tel/Fax 0422 305912 - Tel 0422 301087
e-mail : [email protected]
INFO
Riviste: “Salute ULSS 8” Anno VIII n° 2 Giugno ’05, p. 5; “Cà’
Foncello” Anno 44 n°2 Settembre ’05, p. 72; “L’Ordine di Treviso”
Anno XIII n° 4 Luglio-Agosto 2005, p. 26.
Siti: www.ulssasolo.ven.it; www.ulss7.it ; www.trevisoweb.com
www.donnemedicotreviso.net
Sara Stefania Tabbone
Via P.M. Pennacchi 4
31100 Treviso
8
Valeria Busetto 3
ACCOMPAGNAMENTO DELLA COPPIA IN CLIMATERIO 4
Il climaterio rappresenta per il medico una complessa problematica.
In particolare in questa fase della vita femminile e maschile
confluiscono implicazioni di varia natura ed è infatti un momento di
integrazione e di interscambio di situazioni cliniche, ma anche di
aspetti psicosociali, di ricerca e di intervento di tipo preventivo. Per
il MMG rappresenta anche il frutto di precedenti interventi di
educazione e di prevenzione in una coppia che di solito segue, e
dovrà assistere per anni. Se è vero che per ogni problema c’è la
tendenza a ricorrere allo specialista, è altrettanto vero che la figura
medica di tutti i momenti della coppia è il MMG che anche in questo
caso deve saper informare, e per tempo, sui fenomeni e problemi
legati al climaterio sia della donna che dell’uomo, sapendo
individuare le situazioni che debbano essere gestite con l’aiuto dello
specialista. Ecco la necessità di un approccio multidisciplinare e
l’opportunità che il medico di medicina generale svolga un ruolo di
coordinamento in modo che vi sia comunicazione fra specialisti, per
poter poi dare informazioni comprensibili ed esaustive alla coppia.
L'accompagnamento della coppia avviene sia con l'inquadramento
dei sintomi fisici e neuro vegetativi, sia degli aspetti psicoemotivi.
Mentre l'uomo vive il suo climaterio in modo lento , quasi per lisi,
verso la senescenza, la donna ha invece un cambiamento quasi per
crisi a modificare sia il fisico che la psiche: un organismo regolato
da un particolare assetto ormonale ora cambia.
E' l'interpretazione del cambiamento che è decisiva per entrambi.
Abbiamo sentito le manifestazioni: Per la donna : sintomi fisici e
3
Specialista in Pneumotisiologia, M.M.G. Azienda U.L.S.S 9 Veneto,
libera professionista in Treviso, Consigliera Segretaria A.I.D.M. TV 20052008, oggi Socia.
4
Relazione al 4° incontro formativo a titolo “La coppia e le sue stagioni”,
Mestre, 2007, organizzato dall’Azienda ULSS 12 Mestre Venezia,
responsabile scientifico Dr. Carlo Pianon, Direttore U.O. di Urologia,
Ospedale ‘Umberto I ’ Mestre.
9
neurovegetativi: vampate di calore, dolore muscolare ed articolare,
cefalea (o sua scomparsa), incremento ponderale, capogiro,
ipersensibilità mammaria, aumento dell’appetito, vertigini,
costipazione, parestesie, perdite vaginali, prurito anale;
modificazioni involutive tratto vulvo-vaginale e disturbi urinari;
alterazioni
della cute e annessi ; patologie cardiovascolari;
osteoporosi; sintomi psicoemotivi: irritabilità, affaticamento,
tensione, nervosismo, depressione, difficoltà di concentrazione,
ipotermia, demotivazione, insonnia, risveglio precoce, scarsa
memoria.
- Per la coppia : disturbi della performance sessuale legati a patologie
concomitanti (patologie articolari, cardiorespiratorie, diabete, iper
tensione, patologie maligne), alle condizioni del partner, all’uso di
farmaci, fattori psicologici e socio-culturali, alle modificazioni
involutive del tratto vulvovaginale.
- Per l'uomo invece la manifestazione fondamentale del climaterio è
legato alla diminuzione della libido e/o delle performance sessuali,
oltre quelli che sono gli aspetti fisici.
Le manifestazioni del climaterio dipendono in maniera più o meno
diretta dalla carenza estrogenica, per la donna, ma su entrambi sono
senza altro influenzati da fattori sociali- culturali, psicologici e
familiari. In molti casi, per entrambi, l'età del climaterio si
accompagna alla consapevolezza dell'avvicinarsi alla perdita del
proprio ruolo lavorativo (Stato permettendo!!) per i limiti di età ed a
livello familiare per il distacco dei figli dal nucleo familiare. In
questo momento la coppia può essere in difficoltà per la ricerca da
parte di entrambi di riafferrare una gioventù che inevitabilmente è
passata. Tutti i sintomi e segni del climaterio vengono interpretati
come segno tangibile del tempo che passa, per sfociare nella
cosiddetta conclusione dei ruoli, quasi l'idea di aver realizzato tutte le
aspettative di vita: aver dato tutto al lavoro, aver dato tutto alla
famiglia, aver dato tutto al compagno/a di vita. Un periodo che è
interpretato come ‘l’inizio della fine’ invece che un re-inizio avendo
il coraggio e la voglia di reinventarsi. In un mondo che ci vuole
'sempre giovani e produttivi' la paura delle rughe, segno di cedimento
cutaneo, cioè di invecchiamento, mette la coppia di fronte al
10
confronto generazionale, l'inevitabile idea della morte, ma soprattutto
delle malattie. In questo contesto il MMG che in genere conosce la
coppia da tempo dovrebbe prevenire, per quanto possibile, anche con
l’aiuto dell’intera famiglia, l’eventuale tendenza alla depressione o a
qualsivoglia patologia età correlata. Il MMG e i mass media
dovrebbero cominciare rivolgendosi anche ai giovani a fare capire
che il climaterio, così come la malattia, è una fase della vita da
accettare e superare specialmente se vissuta in coppia.(o con gruppo
di aiuto). Si è visto (da studi fatti in varie popolazioni)come i fattori
socio culturali ed ambientali uniti a fattori soggettivi e biologici
fanno sì che il climaterio possa essere vissuto dalla coppia senza
traumatismi psicologici, come un evento assolutamente naturale e in
questo l'equilibrio della coppia stessa è importante. In questa realtà il
MMG ha una funzione di ascolto, di prevenzione, ma soprattutto
normativa. Il medico dovrebbe essere la figura che rimette a
normalità, che non vuol dire banalizzare, ma di far rientrare nel
fisiologico (ove così sia) i cambiamenti età correlati che sono in ogni
caso espressione di evoluzione di vissuti. Concludendo la presenza
del MMG (di famiglia?) dovrebbe essere quello di sempre : curare
inteso come prendersi cura, con attenzione all'ascolto e al sostegno
psicologico; valutare i sintomi presentati dalla coppia, molte volte
impaurita da qualsiasi sintomo, e l'impatto di questi sulla qualità di
vita stessa decidendo di intraprendere una terapia; prescrivere, anche
avvalendosi di consulenze specialistiche, informando e concordando,
le terapie del caso; prevenire, investendo tempo, insistendo su
consigli di igiene di vita (moto, alimentazione, lettura,
socializzazione...) e appoggiando l'adesione agli screening. Il tutto
agendo sempre per la salute psico-fisica del paziente.
L’accompagnamento del MMG alla coppia nel climaterio, deve
essere quello di sempre, in qualsiasi stagione di vita del paziente.
“ L’ accompagnamento di un professionista preparato (compito non
sempre semplice) che conosce i pazienti da tempo, presente e aperto
al colloquio”
Valeria Busetto
Via S. Antonino 88/A
31100 Treviso
11
Francesca Coghetto 5
SESSUALITÀ, FERTILITÀ E INFERTILITÀ NEL PERCORSO
DELLA MALATTIA NEOPLASTICA 6
Fertilità e infertilità – In campo oncologico attualmente vi è
interesse e attenzione per le problematiche relative alla sessualità,
alla fertilità e alle eventuali gravidanze e paternità in pazienti
portatori di neoplasia. Questo interesse (nel Veneto si è recentemente
costituito un osservatorio ed è stato attivato un Registro da parte
dell’Associazione Oncologi e Ginecologi) è dovuta al fatto che la
popolazione oncologica vivente e in grado di procreare è aumentata ;
le terapie sono meno invasive; la sopravvivenza è aumentata e così i
pazienti che possono considerarsi guariti; si è spostata in avanti l’età
del concepimento sia per i maschi che per le femmine. Quindi
sempre più pazienti “giovani” richiedono ai medici di come poter
avere figli dopo aver avuto un intervento o essere stati sottoposti ad
un trattamento radiante o farmacologico. Le problematiche e relative
risposte sono varie per i diversi tipi di neoplasia. La funzione
sessuale e riproduttiva può essere alterata in modo diretto per
neoplasie che colpiscono gli organi riproduttivi e indiretto come
effetto secondario di terapie chirurgiche, chemioterapiche, ormonali.
Nel trattamento chirurgico certe implicazioni dirette sono evidenti
(per esempio nei tumori dell’ utero,ovaio retto, testicolo, prostata).Il
trattamento radiante a livello delle gonadi è potenzialmente
responsabile della deplezione delle cellule germinali e dell’ alterata
funzione endocrina. Nel trattamento chemioterapico sono soprattutto
i farmaci alchilanti responsabili di un’ alterata funzione delle gonadi.
Spesso i chemioterapici danno sterilità e in tal caso il recupero della
fertilità avviene nell’ arco di qualche mese dalla conclusione della
terapia nelle donne comunque sotto i 35 anni (1).Effetti
5
Specialista in Oncologia Medica e in Radiologia, Dirigente Medico e
libera professionista ‘intra moenia’ c/o Radioterapia Oncologica ULSS 9
Treviso, Socia A.I.D.M. TV 2005-2007 e Consigliera 2008-2011
6
Relazione al Seminario Multidisciplinare “Formazione relazionale in
medicina: protagonista la malattia neoplastica” Treviso, 2006 , A.I.D.M. TV
12
gonadotossici sono legati anche all’ endocrinoterapia nei tumori
mammari con il Tamoxifene.Nel 66% delle pazienti trattate, uno
studio multicentrico italiano ha dimostrato esserci amenorrea
persistente anche dopo la sospensione del farmaco soprattutto in
donne verso e oltre il 40° anno di età (2). L’infertilità resta
comunque un problema importante per entrambi i sessi anche solo
come notizia che viene comunicata prima di un trattamento a volte
solo potenzialmente castrante. Ciò accade , sia per i pazienti che non
hanno ancora un partner fisso, con profonde inferenze sul loro modo
di porsi nel futuro verso l'altro sesso (ad esempio pazienti giovani
che si sottopongono a trapianto di midollo osseo con abbandoni dal
partner nell’iter terapeutico), sia per le persone giovani o adulte già
coniugate che possono avere grosse crisi di coppia. Nel caso in cui
poi vi sia invece la possibilità di procreare subentrano altri problemi:
i pazienti si chiedono se possono in qualche modo trasmettere ai figli
eventuali patologie tumorali; le donne si chiedono se la gravidanza
può scatenare la malattia ( vedi cancro mammella); i medici stessi si
interrogano su quanto sopra: c’è poca conoscenza del problema
perché finora l’attenzione è stata rivolta più a “salvare la vita” che a
valutare il futuro procreativo dei pazienti (ci sono anche pochi studi
in tal senso); il desiderio di avere un figlio a volte è più una rivalsa
nei confronti della vita che un reale desiderio di maternità o
paternità; le seconde neoplasie sia iatrogene che naturali che questi
pazienti possono sviluppare nel tempo rappresentano un ulteriore
problema. La letteratura è più ricca di studi su questo argomento: le
persone curate per un tumore hanno la probabilità di ammalare di un
secondo tumore pari al 10/20% in più degli individui sani
compatibili per età e sesso (3). Il medico spesso poi filtra le domande
del paziente attraverso anche il suo vissuto poco aiutato dalla parte
scientifica che peraltro si sta sempre più mobilitando su questo
argomento (vedi osservatorio e recenti congressi). Le riflessioni che
spesso sorgono spontanee sono: “chissà perché questa persona che è
guarita e gli è andata bene,va a cercarsi altri problemi,magari lascia il
figlio orfano…” “è giusto che abbia un figlio anche perché può
salvare un rapporto di coppia…” “forse è meglio aspettare qualche
anno dopo le cure così si è più sicuri cha la malattia non riprende…”
13
Sessualità – La sessualità che sembra un problema, legato alla
fertilità è più vasto e delicato. Coinvolge il paziente, il partner,
l’affettività con i suoi vari modi di esprimersi al maschile e
femminile, i valori culturali sociali, il modo di porsi verso l’altro e
verso il mondo. Si misurano due fantasie/fantasmi:
cancro/morte – sofferenza/dispiacere; sesso/vita – gioia /piacere.
Nel percorso del paziente,dalla diagnosi almeno fino alla fine della
terapia resta in prima istanza la priorità di salvaguardare la vita.
Questa pulsione primaria non è sempre compresa dal partner e può
anche essere vissuta come senso di colpa dal paziente. La cascata
del disagio parte dalla diagnosi. La diagnosi di cancro, qualsiasi sia
l’organo colpito, si contrappone alla sessualità (vedi cancro/morte,
sesso/vita.). Alcune neoplasie sono più di altre attinenti alla sfera
sessuale. Nelle neoplasie dell’ utero: il disagio è reale per vagina
corta, secchezza mucose (per varie terapie), diminuzione della libido
ed è psicologico per senso di perdita della femminilità nascosta (ci
sono lavori che dimostrano tale sofferenza anche in donne
isterectomizzate per fibromi). Nelle neoplasie dell’ovaio: disagio
reale legato alle stesse situazioni dell’utero con una gravità di
patologia amplificata. Per le neoplasie della vagina e della vulva: la
mutilazione è di per se stessa l’impossibilità manifesta al rapporto
sessuale. Nelle neoplasie dei testicoli: anche qui c’è una parte
manifesta (spesso viene richiesta dal paziente una protesi) e una parte
psicologica che si traduce come senso di inadeguatezza con
diminuzione della libido , difficoltà nella eiaculazione. Per la
prostata: la chirurgia, le terapie ormonali, la radioterapia creano dei
problemi di erezione, di eiaculazione, a volte di incontinenza
urinaria, che minano pesantemente il modo di porsi verso la propria
sessualità e quindi anche verso il partner (di solito, data la fascia di
età colpita i pazienti sono in coppia). La figura maschile ne risulta
minata, il rapporto di coppia ne soffre. Il paziente spesso non accetta
che la figura femminile che è stata accudente in una intimità di
regressione (problemi urinari, pannolini ecc) torni ad essere un
oggetto sessuale (4). Nelle neoplasie del pene: come per la vulva. La
patologia è molto devastante di per se stessa. Altre neoplasie per la
sede di insorgenza, per le cure che vengono erogate generano forti
14
problemi nella sfera sessuale (ca. retto con ano praeter, ca. ano, ca.
vescica). Sono tutte neoplasie che, a parte il tipo di trattamento di
necessità a volte mutilante sui plessi pudendi deputati alla parte
fisiologica della funzione sessuale, creano al paziente una
regressione nel controllo degli sfinteri che chiaramente non gli
permettono di porsi in maniera gioiosa nei confronti del sesso (5).
Inoltre, neoplasie anche se non significativamente legate alla sfera
sessuale per le modificazioni corporee che creano e le alterazioni che
possono generare nei rapporti con gli altri causano ugualmente
difficoltà sessuali (ca mammella, ca cavo orale e laringeo, ecc.). Il
processo terapeutico spesso congela la sessualità anche se non è
responsabile in prima istanza di cause obiettive. La chemioterapia
causa perdita dei capelli, vomito, gonfiore, aumento di peso,
modificazione del corpo, amenorrea: le pazienti con ca mammella
spesso hanno queste modificazioni e disturbi che chiaramente
diminuiscono la libido ma anche l’autostima e quindi la percezione
della propria possibilità di seduzione (è significativo che le pazienti
domandino sempre se le terapie che eseguono facciano perdere i
capelli). La radioterapia sul piccolo bacino crea bruciori, irritazioni,
secchezza delle mucose (spesso le pazienti chiedono quando possono
riprendere i rapporti sessuali perché “si sa com’è con il marito, ma se
anche si dice un po’più in là nel tempo è meglio…”) come se il
rapporto sessuale divenisse un obbligo che però crea anche fastidio
fisico. Al termine della fase attiva del trattamento il paziente vive
una situazione di incertezza emotiva. E’difficile riprendere la propria
vita sessuale per favorire un ritorno alla normalità perchè vengono
considerati i miti sul rapporto sesso – cancro, l’impatto della malattia
sull’immagine corporea e sull’autostima,le reazioni del partner e si
pensa di non avere le risorse per ricominciare. Se il trattamento ha
causato cambiamenti fisici visibili e permanenti il paziente si sottrae
all’intimità per paura di suscitare nel partner la stessa reazione di
repulsione che anch’egli prova riguardo al proprio corpo trasformato.
Come osserva la Schover nonostante la notevole importanza
attribuita dalla nostra società alla sessualità, permane l’atteggiamento
di ritenerla , in presenza di un cancro , meno importante di altre
dimensioni della vita quotidiana, quali la ripresa del lavoro lo
15
svolgimento delle attività domestiche e il mantenimento dei contatti
sociali. I trattamenti oncologici non portano ad un aumento della
frequenza dei divorzi , ma spesso si osserva come, nelle coppie in cui
esistevano già delle tensioni, il trattamento porti ad una
esacerbazione dei conflitti e separazioni. L’elenco dei disturbi e
difficoltà sarebbe molto più lungo. Come si possono aiutare queste
persone? Bisogna essere aperti a fornire informazioni anche in
assenza di richieste dirette del paziente. Se il medico per primo
introdurrà questi temi come parte integrante della qualità di vita,il
paziente si sentirà incoraggiato a parlarne. Il nemico principale della
salute sessuale è il silenzio. E’importante parlarne con il proprio
pater ed eventualmente con un medico o uno psicologo
psicoterapeuta. Nei casi in cui le difficoltà sessuali sono sintomi di
disturbi psicopatologici, come la depressione, saranno necessari
interventi psico-farmacologici e psicoterapeutici (6). Una soluzione
di una problematica così complessa e delicata come sempre deve
passare attraverso maggior comunicazione e informazione tra medico
e paziente e tra paziente e medico e familiari con l’ausilio di
psicologi e con tanta disponibilità, apertura e sospensione di qualsiasi
giudizio da parte di tutti (7).
BIBLIOGRAFIA
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Morasso G.,Tomamicchel M., Sofferenza psichica e oncologia, Carrocci Faber.
16
COMPLIANCE TERAPEUTICA 7
Partiamo da una definizione per poi slegarci dagli schemi.
La compliance terapeutica è la reattività di un paziente di fronte ad
una proposta terapeutica: è adattabilità (1). In oncologia, essendo il
cancro una malattia ad andamento cronico evolutivo,la compliance è
molto legata all’immaginario collettivo di fronte a questa patologia
per cui il paziente e i familiari fanno domande che non farebbero mai
di fronte a patologie anche più importanti. Le domande più consuete
sono: ma servirà questo intervento, questa cura? Tanto non guarisco
e allora perché tanta fatica? Tanto devo morire, ha senso la
radioterapia e gli effetti collaterali? L’immaginario con molte funeste
fantasie va oltre il reale anche negli effetti della terapia oltre che
l’evoluzione di malattia. In aggiunta all’aspetto immaginario del
collettivo vi è anche l’aspetto culturale psicologico collegato al
problema cancro. Nella gestione della compliance non è solo questo
che entra in gioco ma anche il comportamento del medico, il
rapporto medico paziente, la potenzialità della struttura (grande
madre). Si inserisce chiaramente anche la famiglia nel sostegno al
paziente. La modalità della comunicazione della diagnosi e delle
terapie da eseguire quindi può modificare molto la compliance del
paziente oltre a variabili individuali e culturali sulle quali i purtroppo
brevi rapporti medico paziente sono inefficaci. Il medico, e
soprattutto lo specialista, ha davanti a sé solo dei flash della vita del
paziente, del suo vissuto, delle sue esperienze culturali e quindi, di
necessità, deve affinare le tecniche comunicative. La corretta
comunicazione di diagnosi e terapia, oltre che a passare attraverso
dei precisi obblighi di legge e deontologici, diventa strumento
efficace per poter aiutare il paziente a sottoporsi in maniera
7
Relazione della Dr. F. Coghetto al Seminario Multidisciplinare
“Formazione relazionale in medicina: protagonista la malattia neoplastica”
organizzato dall’ A.I.D.M. TV in 4 giornate, da settembre a dicembre 2006,
con i patrocini: O.M.C.e O. - F.I.M.M.G. - F.I.M.P. - S.N.A.M.I
.
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consapevole e ottimale alle terapie. Il compito della informazione è
quindi un dovere medico non delegabile ad altro personale sanitario,
e meno che mai ai familiari. E’ evidente che importante è il tipo di
neoplasia e il suo stadio. In linea di massima si può dire. Poca
malattia>grande spettanza di vita >molta informazione e viceversa.
La compliance alle terapie è poi specifica rispetto al trattamento. La
chirurgia con effetto terapeutico è di norma vista in maniera
favorevole dal paziente soprattutto se confinata all’organo ammalato
e quindi per quanto angosciosa ha il significato di asportazione del
male. Se però l’intervento riguarda organi la cui ablazione comporta
una menomazione, la fase preoperatoria è importantissima per la
preparazione della futura riabilitazione (2). La radioterapia proprio
per il tipo di trattamento e apparecchiature usato è ancora più
difficile da comprendere per cui il colloquio informativo con il
paziente è essenziale: il colloquio deve volgere anche al
funzionamento delle apparecchiature spesso considerate come
pericolose e poco sicure (molti pazienti riferiscono strani rumori in
corso di terapia, contano il tempo, controllano il posizionamento dei
fasci laser ecc.) e in questo ambito un ruolo importantissimo svolge il
ruolo del tecnico di radioterapia che ha il contatto quotidiano con il
paziente. La chemioterapia purtroppo spesso è gravata da numerosi e
sgradevoli effetti collaterali e quindi il colloquio esplicativo fra
medico e paziente assume un ruolo chiave nell’accettazione convinta
da parte del paziente delle terapie proposte. Gli effetti collaterali,le
modalità di somministrazione dei farmaci, in quanto incidenti in
maniera importante sulla vita del paziente devono essere illustrati a
lungo (3). Da questi veloci flash si evince che il tema ricorrente è la
comunicazione e le tecniche moderne della comunicazione vengono
in questo modo a costituire parte integrante del quadro terapeutico.
Di fronte a queste problematiche è evidente che la risposta non è una
formula, ma un altro problema. Non è dire o non dire ma capire cosa
e quanto dire (durante la malattia cambiano anche le esigenze di
verità). Al medico sta lo scoprire quanta verità è in grado di
sopportare il paziente e all’inizio questa verità deve servire al
paziente, deve essere anche funzionale a qualcosa (a sopportare un
intervento un terapia o alla mobilitazione di risorse naturali per
18
recuperare nel post trattamento). Durante le terapie e i controlli
bisogna tenere conto dei reali bisogni del paziente e dei vantaggi
oggettivi di una informazione a volte troppo dettagliata che non è
sempre positiva per la collaborazione terapeutica e per l’equilibrio
psichico del paziente. Bisogna anche trovare il momento opportuno
per iniziare una comunicazione. Non sempre il momento opportuno
per il medico è il momento opportuno per il paziente. I tempi sono
spesso diversi. La comunicazione non è solo una tecnica, ma un’arte.
Secondo me l’importante,forse anche attraverso degli errori
comportamentali, è non interrompere mai la comunicazione fra
medico paziente e famiglia,dando sempre al paziente la certezza di
non essere solo con la propria malattia, fargli capire che nel percorso
che lo porterà eventualmente alla terminalità potrà avere sempre
vicino il suo medico e la sua famiglia. La soluzione al problema
quindi potrebbe essere non tanto nell’attivare al meglio i due canali
separati medico-paziente, medico-famiglia, ma riuscire a comunicare
in maniera circolare. Abbiamo visto che da parte del paziente
l’integrità dell’Io deve essere difesa dall’angoscia di morte, filtrando
la “sua “ verità. I familiari spesso creano uno spostamento
dell’angoscia fuggendo nella menzogna verso il paziente o
nell’iperattività. Il sanitario si difende dall’impotenza terapeutica e
dal senso di colpa di non riuscire a guarire barricandosi o nella non
informazione o nella fredda informazione. La soluzione potrebbe
essere una ricerca di formazione informazione nella relazione con
l’altro che si traduce in una migliore gestione del tempo dedicato al
paziente e al familiare con un atteggiamento di disponibilità
all’ascolto che rassicura la persona del fatto che esiste qualcuno su
cui poter fare affidamento anche in futuro. A questo punto si
inserisce non solo il medico, ma l’équipe curante (Giovanni Gazzetti,
Conferenza ADVAR, L’accudimento attraverso il gruppo, 28-51994). “L’équipe è un contenitore di ansie e può aiutare pazienti e
familiari. L’équipe stessa va poi curata perché le tensioni che
vengono scaricate sull’équipe possono far male all’équipe e ad ogni
membro della medesima”. Si possono creare nel gruppo delle fratture
in sottogruppi secondo delle linee di frattura già esistenti. Nelle
istituzioni le fratture avvengono o fra i vari membri per ruoli
19
istituzionali o per gruppi vari. Andrebbero fatte riunioni settimanale
guidate per non creare fratture stabili. Ciò richiede fatica, tempo,
confronti (è più facile congelarsi nei ruoli e nelle frammentazioni ,
ma non va bene: il paziente è già frammentato..). L’atmosfera di un
reparto si sente. Cito una frase di Sandro Spinanti che ha scritto il
libro “L’alleanza terapeutica “1988: ”E’ difficile individuare quello
che il paziente vuole veramente sapere. Ciò che è decisivo non è solo
cosa si dice,ma la solidarietà nella situazione difficile”. Il medico si
trova così in una situazione di empatia intesa come un rendersi conto
del dolore altrui. Conoscere questo tipo di empatia vuol dire sentire
che il vissuto dell’altro, accolto e ospitato da me, mi tocca , si radica
nel mio centro e mi trasforma. “In questo punto l’empatia diventa
assunzione di responsabilità verso l’altro considerato come soggetto
che soffre o che gioisce che ama e che odia: l’empatia acquisisce
rilevanza etica.”(4). Anche se vi sono dei mutamenti nel
cambiamento dell’immagine medica negli ultimi decenni, il
coinvolgimento in una storia relazionale marcata dal soffrire e
desiderosa di liberarsene da parte del paziente entra come primo
contatto nell’idea che il medico ha di sé e nell’immagine con cui
viene accostato dall’esterno. Sul piano funzionale possono mutare i
volti e le figure di identificazione (medico padre, fratello, amico,
tecnico algido, professionista ecc), ma la coniugazione delle esigenze
di professionalità con quelle di solidarietà con la storia dolente del
paziente non può essere mai accantonata (5). E’ importante
l’accessibilità emotiva, l’arte cioè di essere totalmente presente a un
altro essere umano..
BIBLIOGRAFIA
1. Bellani Marco L.,Marasso et alii, Psiconcologia, Masson
2. Clinical trias Surgery 91, pag:17-23, 1982
3. Satta E.,Salvani L.,Corti L., Manuale di psiconcologia, 1989, Casa Editrice
Ambrosiana ,Milano
4. Boella L., Sentire l’altro, 2006, Cortina Ed
5. Autiero A., 1996, Il medico: molti volti, una sola anima. L’arco di Giano,
6. Sugarbaker P., et Alii, , 2002, Qulity of live assessment of patients in extremity
sarcoma
20
IL PAZIENTE TERMINALE
8
Si può dire che il paziente e' in fase terminale quando a giudizio dei
suoi curanti non c'e'più niente da fare per salvargli la vita e ci si
aspetta che avverrà la morte. Il tempo che intercorre tra giudizio
diagnostico di terminalità e l' evento morte identifica il processo del
cosiddetto morire che può avere durata variabile, ma che nel caso del
malato oncologico ha durata di mesi. La situazione esistenziale che
caratterizza questo paziente e' costituita dalla rottura del progetto di
vita. Oltre ad essere ammalato della propria malattia, e' in preda a
molte paure. Vi può essere paura dell'ignoto: quali esperienze di vita
non potrò più avere? Quale sarà il mio destino? Che cosa succederà
dopo la morte? Cosa succederà a quelli che mi sopravvivranno?
Come reagiranno alla mia morte gli amici? La famiglia? Cosa sarà
del mio corpo? Che reazioni avrò?; paura della solitudine: quando si
e' ammalati si ha già un senso di isolamento da se e dagli altri. Vi e'
un mutuo processo di allontanamento. Il distacco dal lavoro e dalle
attività ricreative accentua la perdita dei contatti quotidiani. E'
difficile mantenere le relazioni sociali. La paura della solitudine è
una delle relazioni fondamentali da affrontare per chi si trova di
fronte alla prospettiva della morte. Vi può essere paura dell'angoscia:
a nessuno piace affrontare le situazioni di angoscia e dolore: se e'
possibile si evitano; paura di non essere in grado di tollerare la
dolorosa esperienza della sofferenza; paura della perdita della
famiglia e degli amici. Si perdono familiari e amici. Esiste in questa
fase il cosiddetto "lutto anticipatorio". Si soffre in anticipo la
separazione; il cordoglio della separazione dovrebbe anticipare il
reale momento della morte. Vi può essere paura della perdita del
proprio corpo: il morente può disprezzare l’immagine deformata del
proprio corpo. Può accadere che lo nasconda ai parenti e che la
famiglia stessa non lo accetti e lasci solo il paziente. Vi può essere
paura della perdita dell'autocontrollo: il problema è più evidente
nella nostra società che enfatizza molto i concetti di autocontrollo e
8
Comunicazione della Dr. F. Coghetto al Seminario Multidisciplinare
“Formazione relazionale in medicina: protagonista la malattia neoplastica”
Treviso, 2006, organizzato dall’ A.I.D.M. TV
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razionalità. Quando si arriva alla esperienza del morire, la perdita del
controllo del corpo e sulla morte stessa creano ansietà e paura per la
propria integrità. E’ importante aiutare il morente a mantenere tutta
l’autorità che è in grado di avere per poterlo così aiutare a mantenere
il controllo dei suoi doveri e delle sue decisioni quotidiane e aiutarlo
a non avere vergogna se non riesce ad esercitare questo controllo. Vi
può essere paura della perdita della identità: la perdita dei contatti
umani, della famiglia, degli amici, delle funzioni del corpo, la perdita
dell'autocontrollo, tutto viene a minacciare la propria identità; paura
della regressione: è la paura di quegli istinti profondi che ci spingono
a ritirarsi dal mondo esterno, dalla realtà, riportandoci al sonno
primordiale dell'essere dove non c’è ne tempo, ne spazio
svegliandoci al mattino possiamo avere questa spinta verso la
regressione in noi stessi. Tale senso di regressione può essere
terrorizzante per il morente. L’angoscia di morte è data dalla
battaglia che si compie contro la regressione dell’Io. Non è possibile
dire quando inizia la fase terminale del vivere e comincia quella del
morire, ma quando inizia, il morente comincia a ritirarsi in se stesso,
assecondando i segnali del suo fisico che lo avvertono che deve
cercare dentro di se le proprie energie. La sintomatologia è simile a
quella dell'influenza e degli stati febbrili, in cui ci si ritira nella
propria malattia, non si vuole fare nulla ed essere lasciati in pace. In
questa fase comincia a diminuire l’ansia ed inizia invece
l’evoluzione depressiva. Vengono a cessare le speranze che il
paziente aveva all’inizio e si entra proprio nella fase definitivamente
terminale. Si riscontrano quattro processi di morte che di norma si
presentano nel paziente: la morte sociale, cioè il ritiro e la
separazione del paziente dagli altri. Questa fase può manifestarsi
anche mesi prima di altre se il paziente viene lasciato solo; la morte
psichica: la persona accetta la propria morte e si ritira in se stessa. La
morte psichica può essere accompagnata dal naturale indebolimento
dello stato fisico; la morte biologica: e' l'equivalente della morte
irreversibile; la morte fisiologica: gli organi vitali cessano di
funzionare. Questi processi non sono così sequenziali. Può accadere,
ad esempio, che il paziente prima che si attui la morte psichica, per
abbandono di familiari o amici, sia nella fase di morte sociale: ciò
22
crea ancora sofferenza. La fase terminale della malattia implica una
ridefinizione del ruolo dell'equipe curante e dei suoi scopi: l’equipe
curante non può più curare, deve solo alleviare le sofferenze. Questa
situazione può portare a frustrazioni mentre in realtà dovrebbe
allargare gli orizzonti culturali dell'equipe stessa, dando dignità
all'assistenza del paziente terminale. L'importante, per quanti errori si
possano commettere, e' che non si verifichi una rottura di
comunicazione fra il paziente e chi lo assiste. L'esperienza dimostra
che il morente non richiede solo un minimo di attenzione, ma vuole
avere presenze intorno sia che desideri parlare o meno. I pazienti, i
familiari ed i medici stessi avrebbero meno difficoltà se accettassero
il principio che vi e' un momento nella vita in cui l'inevitabilità della
morte è così chiara, che i mezzi per sostenere la vita possono o
dovrebbero essere omessi. Non ci sono regole codificate per la
relazione con il paziente, ma solo alcuni principi e linee di condotta:
l'operatore deve imparare ad ascoltare il paziente e ad intuire da lui i
suoi bisogni; le cure palliative dovrebbero iniziare ogni qualvolta che
il paziente od il medico sono d'accordo che tutte le misure per
guarire sono fallite; il fine di queste cure e' ridurre al minimo il
disagio psicofisico senza una specifica attenzione alla malattia di
base; tutti i medicamenti possibili dovrebbero essere prescritti per
alleviare i sintomi; non si dovrebbero usare misure di emergenza
estrema per prevenire la morte. Non vi sono problemi etici o legali
da affrontare se il paziente, il medico e i familiari sono d'accordo su
questa linea. Con l'accettazione di questo principio il morire non sarà
ritenuto una sconfitta ma un inevitabile conseguenza del vivere. Un
comportamento sereno permette di anticipare il lutto al paziente e ai
familiari in una fase in cui vi è osservazione medica e sostegno
psicologico piuttosto che dopo quando la famiglia sarà abbandonata
a se stessa. Importante è consentire all'ammalato di dare addio a tutti.
Queste indicazioni sembrano semplici, ma in realtà non è così
semplice condurre i propri ammalati a morire. Noi non dobbiamo
sentire come il nostro paziente (ciò potrebbe distruggere la nostra
capacità di aiutarlo), ma piuttosto sentire con lui. D'altra parte il
personale sanitario e chi si occupa di questi problemi deve anche
capire ed imparare a riconoscere il fenomeno di saturazione da morte
23
vale a dire che si può lavorare con persone morenti solo per quel dato
tempo con quella data intensità e partecipazione che non vadano oltre
i limiti della propria tolleranza personale. Assistere un morente e' un
compito che richiede molto. Ciascuno ha dei limiti alla propria
capacità di esposizione alla morte. Dobbiamo essere in grado di
identificare i nostri limiti di saturazione oltre i quali abbiamo bisogno
di allontanarci, di prendere le distanze,di riposarci, di poterci
ricostituire. Se ciò non accade le nostre difese psichiche ci
aiuteranno, ma non sempre nel modo giusto: potrà emergere il
rifiuto, il distacco, il disinteresse, la collera, tutte probabili
espressioni di esaurimento psichico. Nella situazione di malattia
terminale soffrono, oltre al paziente, anche i parenti e coloro che lo
assistono. Concludo con una osservazione di Charles A. Garfield:
“Per molti di noi la morte di un paziente al quale siamo stati
profondamente legati è una pillola molto amara da ingoiare ... Noi
temiamo per i nostri pazienti come per noi stessi di non aver dato e
condiviso abbastanza e che la morte arrivi sempre troppo presto …"
E, infine, con un frase di speranza di Albert Camus (Retour a
Tipaza: l’Etè): "Dans le coeur de l'hiver j'appprénais qu'il y avait en
moi un etè invincible."
IL MEDICO E IL PAZIENTE INCURABILE. PROBLEMATICHE
DI RAPPORTI NELLA DIAGNOSI E NELLA TERAPIA. 9
Inguaribile non significa incurabile:ogni malattia inguaribile è
curabile. La malattia inguaribile ‘tipica’ è il cancro perché più
impregnato di metafore di morte e in cui il concetto di terminalità è
più evidente (es. consueta frase da rotocalco: malattia inguaribile =
cancro). Considerando la difficoltà di dialogo fra medico e paziente
sugli argomenti inerenti la malattia, si intuisce come nella
comunicazione di una diagnosi a prognosi infausta il problema
aumenti soprattutto quando si è costretti a fronteggiare drammatiche
9
Comunicazione della Dr. F. Coghetto al Seminario Multidisciplinare
“Formazione relazionale in medicina: protagonista la malattia neoplastica”
Treviso, 2006, A.I.D.M. TV
24
dinamiche fra i diversi poli della relazione terapeutica: MedicoPaziente-Famiglia.
- In alcuni casi il medico informa il paziente in maniera esplicita
circa le sue conclusioni diagnostiche privilegiando il ruolo di colui
che sa e attiva il trasferimento dell’informazione per ottenere il
consenso informato agli atti terapeutici che andrà ad attuare. Questa
è l’ esperienza anglosassone ove soprattutto per i rischi legali e i
contenziosi nel caso di mancata o non esauriente informazione i
medici sono orientati ad una esaustiva informazione. Il pregio di
questo tipo di informazione è che,oltre ad essere “semplice” obbliga
a superare, di necessità, qualsiasi disagio interlocutorio. E’
interessante comunque notare che alcune ricerche eseguite negli
USA hanno dimostrato che pazienti che avevano ricevuto tutte le
informazioni, a distanza di tempo, o pensavano di essere
completamente guariti, o addicevano altre cause alla loro malattia.
Muss e coll. riferiscono che in questo campione solo un 50% era
conscio della prognosi infausta della propria malattia. Alle volte la
comunicazione della diagnosi di cancro rappresenta per il medico
una situazione nella quale egli è costretto a fronteggiare la propria
impotenza nei confronti della morte e costituisce un momento carico
di profondi sentimenti depressivi. Infatti la morte fantasmatizzata
nell’Altro rimanda alla propria morte e quindi quella con il paziente
a prognosi infausta diventa una relazione con una immagine
gravemente minacciosa. Questo a volte spiega l’irrigidimento nel
ruolo, il non coinvolgimento emotivo come difesa della messa in
crisi della propria impotenza terapeutica, fino alla decisione di tacere
la verità al malato, per non cadere nell’angoscia di morte con il
paziente. Spesso il disagio di parlare con il proprio paziente si
esprime attraverso la scelta di destinatari alternativi alla
comunicazione: è il caso del medico che decide di comunicare alla
sola famiglia la diagnosi e nella collusione con i parenti, causa a
volte un blocco ancora più intenso alla domanda di verità da parte del
malato.
- Il paziente affetto da patologia cronica a prognosi infausta e
chiaramente una persona in stato di ansia : infatti già l’ iter
diagnostico percorso è stato preoccupante e se è stato sottoposto a
25
qualche intervento, anche demolitivo, lo stato depressivo è maggiore
(amputazione dell’immagine di sé: Io corporeo ferito). E’ erroneo
aprioristicamente ritenere che il pazienta voglia sapere tutto o non
voglia sapere. Spesso il paziente che viene messo al corrente della
verità, seleziona quello che vuole sapere e ricordare; tiene presente
solo la verità che gli riesce sopportabile. E’ inutile insistere sulla
prognosi infausta o richiamare in continuazione alla realtà coloro che
dopo una esauriente informazione hanno messo in atto meccanismi
di difesa, attraverso cancellazione ad hoc,
per rendere più
sopportabile la malattia. Il paziente ha diritto di sapere della sua
malattia e di parlarne, e ha diritto di scegliere alternative
terapeutiche, senza perdere di essere curato e di ‘affidarsi’.
- La famiglia è mobilitata pesantemente dalla malattia neoplastica.
Le situazioni psicologiche prima descritte, (angoscia, morte,
malattia, verità ..) vengono vissute anche da ogni singolo membro
della famiglia e trasferite inconsciamente al paziente e poi al medico.
Importanti sono i rapporti che il paziente ha con i familiari, il ruolo
di ogni singolo membro della famiglia dentro al gruppo familiare e il
ruolo del paziente stesso nel gruppo. Diverso è se chi si ammala è
una figura “forte” o “debole”. Spesso la famiglia vuole imporre il
silenzio perché pensa sia meglio per il paziente e a volte il paziente è
costretto a recitare la parte di chi non sa, isolandosi ancora di più nel
silenzio e nella solitudine. Dal diario di un paziente: “Sono
frastornato e tutto sommato sereno, ho cercato di dire a R. che mi
sento praticamente alla soglia della fine e ho anche insinuato che lei
dovrebbe sapere qualcosa; la sua reazione è stata emotiva, non ha
aggiunto la benché minima luce a quello che io considero una quasi
certezza. Vorrei riuscire a non dimostrare le mie sofferenze,ma non è
sempre facile..”. Paradossalmente, piuttosto che condividere i
familiari sono disposti a prendere su di sé le sofferenze. Mantenere il
segreto richiede molti sacrifici; dissimulare e fingere calma, crea
tensioni. Queste risposte sono specifiche di un nobile comportamento
o celano altri problemi?. Deborah Gordon, antropologa, spiega così:
”Nella cultura italiana ove esiste ancora una forte associazione
cancro-morte, la sofferenza, la mancanza di speranza, la non
comunicazione della diagnosi equivale ad un meccanismo rivolto a
26
mantenere il “condannato” lo stesso nel mondo sociale, nel mondo
che si presume non in contatto con la morte e la sofferenza. Un
annuncio pubblico di cancro in questo contesto isolerebbe il malato
evocando la futura separazione dello individuo dalla unità sociale.Il
malato può essere simbolo di morte che minaccia il corpo sociale”.
Ovviamente queste posizioni sono sempre prese in buona fede.
Simile posizione è quella del medico che per comunicare la diagnosi
si allea alla famiglia perché gli è difficile accettare la morte del
paziente. Questa appena illustrata è una interpretazione sociologica
della situazione, però spesso vengono attivati meccanismi di difesa
singoli all’interno del gruppo familiare. Il familiare, prendendosi
carico dell’aspetto relazionale burocratico, operativo, sposta
l’angoscia della futura morte del congiunto nella iperattività fisica e
psichica. L’impossibilità di elaborare il lutto non ancora avvenuto
nella realtà, ma massivamente presente nella fantasia, può spiegare la
riluttanza o addirittura l’accanimento nel non voler comunicare la
diagnosi. Anche la fuga da un centro all’altro di terapia,da uno
specialista all’altro, a volte può essere interpretata come ricerca di
esperienze “schermo” sia per i pazienti che per i familiari. Di fronte a
queste problematiche è evidente che la risposta non è una formula,
ma un altro problema. Non è dire o non dire ma capire cosa e quanto
dire (durante la malattia cambiano anche le esigenze di verità). Al
medico sta lo scoprire quanta verità è in grado di sopportare il
paziente; quanta verità può essere funzionale a sopportare un
intervento chirurgico, una terapia o a mobilitare risorse naturali di
recupero dopo un trattamento traumatizzante. Durante le terapie e i
controlli bisogna tenere conto dei reali bisogni del paziente e dei
vantaggi oggettivi di una informazione a volte troppo dettagliata che
non è sempre positiva per la collaborazione terapeutica e per
l’equilibrio psichico del paziente. Bisogna anche cercare il momento
opportuno per iniziare una comunicazione perché non sempre il
momento opportuno per il medico (che ha poco tempo, che a volte
vuole sgravarsi del peso del colloquio) è il momento opportuno per il
paziente. I tempi sono spesso diversi e riconoscibili nella continuità
della comunicazione che non è solo tecnica, ma anche arte. E’ con il
mantenimento della continuità della comunicazione che si può
27
riuscire a dare al paziente la certezza di non essere solo con la
propria malattia, e che nel percorso verso la terminalità potrà avere
sempre vicino il suo medico e la sua famiglia. Ciò accade più
frequentemente, non tanto cercando di attivare al meglio i due canali
separati medico-paziente, medico-famiglia, ma curando la
comunicazione nella circolarità dei ruoli e degli affetti. Come già
detto , il paziente protegge l’integrità dell’Io dall’angoscia di morte,
filtrando la “sua “ verità. Questo fisiologico meccanismo di difesa
non è sempre rispettato dai familiari che spesso creano uno
spostamento dell’angoscia fuggendo nella menzogna o
nell’iperattività, e dal sanitario che si difende, dall’impotenza
terapeutica e dal senso di colpa di non riuscire a guarire, barricandosi
nella non informazione o nella fredda informazione. Il medico può
trarre giovamento lavorando in equipe quando è formata per fare da
contenitore positivo della triade terapeutica: medico-pazientefamiglia. Tale formazione va perseguita con idonee occasioni di
studio ed approfondimenti comunicazionali e relazionali perché non
accadano al suo interno spaccature in sottogruppi secondo linee di
frattura già esistenti fra vari membri e attraverso i ruoli istituzionali
(sono i meccanismi più facili per scaricare le angosce).
L’umanizzazione negli ospedali deve potere prevedere momenti di
incontro, confronto e formazione specifica da ricercare con
continuità perché è molto più facile congelarsi nei ruoli e nelle
frammentazioni, piuttosto che accogliere ed accompagnare
solidalmente un paziente già frammentato..). L’atmosfera di un
reparto ben curato e solidale, si sente. E’ importante l’accessibilità
emotiva del singolo e del gruppo dei curanti, l’arte cioè di essere
presenti all’altro essere umano sofferente. Concludo con una frase di
Sandro Spinanti ( in ‘L’alleanza terapeutica?, 1988): “E’ difficile
individuare quello che il paziente vuole veramente sapere. Ciò che è
decisivo non è solo cosa si dice, ma la solidarietà nella situazione
difficile”.
Francesca Coghetto
Vicolo Bertolini, 22
31040 Nervesa della Battaglia (TV)
28
Laura Dapporto 10
IL RITARDO DIAGNOSTICO E L’INSUCCESSO
TERAPEUTICO 11
Il ritardo nella diagnosi e l’insuccesso della terapia, eventi difficili da
comunicare a sé stessi e ai pazienti, frequenti in oncologia, disciplina
che lima ogni onnipotenza. La diagnosi di cancro arriva sempre in
ritardo, anche se è una diagnosi precoce con prognosi favorevole.
Allo stato attuale non c’è infatti, in nessuna parte del mondo, un
sistema di sorveglianza, nei rapporti di produzione, nell’assetto
sociale e giuridico che garantisca la prevenzione primaria. Eppure la
ricerca sulla prevenzione primaria e sugli stili di vita negli ultimi
anni ha aperto orizzonti nuovi, ma per essere efficaci richiederebbero
una radicale riconversione dell’economia occidentale e non vi sono
per ora segnali di voler procedere in questa direzione. Senza negare
l’importanza dell’impegno e della responsabilità personale, ne vanno
riconosciuti i limiti di efficacia in un contesto globale, in cui il
controllo personale possibile sugli alimenti, sull’aria, sull’acqua,
sull’ambiente in cui siamo immersi è molto limitato. Un tempo, non
molto tempo fa, si sosteneva che l’eziologia del cancro era
sconosciuta, che c’era una mutazione nel DNA, ma che non si sapeva
cosa aveva favorito quella mutazione. E’ stata una scienza recente,
l’epidemiologia, che pur non cercando e non indicando i nessi di
causalità, ha permesso di mettere in relazione alcuni agenti e
abitudini e ambienti e aree geografiche con alcune forme di tumore:
fumo e tumore del polmone, amianto e tumore della pleura, campi
elettromagnetici e leucemie, dieta povera di fibre e tumore del colon,
10
Specialista in Chirurgia Generale, Responsabile Centro di Senologia
Azienda ULSS 9 Veneto, libera professionista ‘intra moenia’ c/o ambulatori
ULSS 9 Borgo Cavalli - Treviso, Consigliera A.I.D.M. TV 2005-2007 e
Vicepresidente 2008-2011, Consigliera O.M.C.e O. Treviso 2005-2008
11
Relazione al Seminario Multidisciplinare “Formazione relazionale in
medicina: protagonista la malattia neoplastica”, 2006, organizzato dall’
A.I.D.M. TV c/o la sede dell’O.M.C.e O. di Treviso
29
società a rapido sviluppo economico e tumore al seno. E’ sempre più
evidente che molte forme di tumore sono precedute, per molti
decenni, da un processo infiammatorio cronico, che può essere
sostenuto da agenti irritanti, da virus – pensate al rapporto fra il virus
del papilloma umano e il cancro della portio - da batteri, da metalli,
da agenti esterni con cui veniamo a contatto. Sta così cadendo, come
per altre malattie, la separazione fra malattie infiammatorie e
malattie degenerative. Malattia degenerativa rimandava ad un evento
ad eziologia sconosciuta, difficilmente individuabile e non
prevenibile, qualcosa ci aggrediva dall’interno, invece per molti
tumori l’eziologia è un rapporto fra la personale, irripetibile unità
psiche-soma e agenti esterni. E’ su questa consapevolezza che si
infrange l’illusione che il ritardo diagnostico possa essere evitato.
Eppure di tumore ci si ammala e si può guarire, di tumore si vive,
quando la diagnosi arriva in un momento in cui è possibile una
terapia efficace nell’arrestare in maniera duratura i sintomi ed i
danni. La terapia chirurgica, che rimuove la parte malata, la
chemioterapia, che blocca le cellule a rapida proliferazione, la
radioterapia, che come un microscopico bisturi ripulisce il terreno,
intervengono sui sintomi, non rimuovono i meccanismi che hanno
portato al tumore, lo curano e la cura può essere così efficace e
tempestiva da impedire ai sintomi di manifestarsi di nuovo per il
resto della vita. E’ questo il senso della diagnosi precoce, una
diagnosi che arriva quando è possibile una cura efficace. Diagnosi e
terapia restano un binomio inscindibile, non solo per i tumori, ma per
tutte le sofferenze umane. Il concetto di ritardo diagnostico rimanda
ad un evento che aveva dato segnali, clinici o strumentali, che
potevano essere decodificati in un tempo precedente, un tempo in cui
una diagnosi tempestiva ed una cura efficace avrebbero potuto
cambiare il decorso della malattia, verso la guarigione clinica o verso
una più lunga sopravvivenza ed una migliore qualità di vita. Questo è
il senso dell’impegno a non incorrere in un ritardo diagnostico.
Diagnosticare e trattare un tumore non palpabile della mammella, di
pochi millimetri, in una donna di 80 anni, che diventerebbe malattia
a distanza di 10-15 anni, non incide sul suo tempo di vita, ma può
peggiorare la qualità della vita, accompagnata dal costo personale
30
della diagnosi di cancro. Diverso è diagnosticare e trattare la stessa
lesione o una lesione preneoplastica in una donna più giovane. In
Oncologia il ritardo diagnostico quasi sempre è riferito alla diagnosi
iniziale di tumore. Non vi è infatti evidenza scientifica che anticipare
la diagnosi di ripresa di malattia incida sulla sopravvivenza o sulla
qualità della vita e anche nel sentire comune si ritrova questa
consapevolezza. La diagnosi precoce di un tumore difficilmente è
clinica, quasi sempre è strumentale, in assenza di sintomi e di
obiettività, casuale nel corso di un esame eseguito per altro scopo o
cercata in un progetto di screening, personale o collettivo. Non sono
molti i tumori che dispongono di un test di diagnosi innocuo,
sensibile e specifico, ma è in questo l’ambito in cui, essendovi
investimento e aspettativa, si realizza il vissuto del ritardo
diagnostico. Ritardo diagnostico e diagnosi precoce sono entrati in
Italia, negli ultimi cinque anni, in una comunicazione più ampia di
quella medico-paziente ed hanno assunto una valenza sociale. Il
piano Sanitario Nazionale 1998-2000 indicò come obiettivo
prioritario del Sistema Sanitario Nazionale gli screening per la
prevenzione secondaria con l’obiettivo di incidere sulla mortalità del
tumore al seno, del collo dell’utero e del colon. E’ un progetto di
salute che segna un rapporto nuovo fra Stato e cittadini, che ha come
cardine la promessa che rispondere all’invito ad eseguire il test di
screening tuteli verso la diagnosi precoce. L’eco di questa promessa
è arrivato anche a chi si sottopone ai test in un progetto personale di
prevenzione e attualmente la maggior parte dei ritardi diagnostici
sono vissuti come mancata risposta a questa promessa. L’impegno
verso la diagnosi precoce in indagini di massa può avere un impatto
invasivo sulla popolazione se l’attenzione alla sensibilità
nell’individuare i tumori non si accompagna alla specificità, alla
capacità di riconoscere ciò che non è tumore e non deve essere
trattato. E questo vale anche al di fuori dei programmi di massa, in
tutti gli iter diagnostici e in tutte le indicazioni terapeutiche. E’ in
questo rapporto fra sensibilità e specificità che si riconosce la qualità
di ogni medico e di ogni struttura impegnata nella diagnosi precoce.
E’ quando il medico non lavora per il giudice, ma soprattutto per il
paziente che evitare il ritardo diagnostico diventa un atto di
31
responsabilità personale e sociale. Nella pratica clinica il ritardo
diagnostico impegna il medico, la struttura sanitaria in cui opera ed il
paziente in percorsi di riconoscimento e comunicazione non facili,
perché rimanda all’idea di “errore”. Interrogare l’eventualità di un
errore richiede una comunicazione circolare che superi il rapporto
individuale medico-paziente e coinvolga le strutture e gli strumenti
utilizzati e non utilizzati, in un percorso che partendo dall’epicrisi
dell’iter diagnostico, attraverso il riconoscimento dell’errore e
l’accertamento del danno, arrivi alla riparazione. Non sempre però di
errore si tratta. Interrogando il percorso che ha portato ad una
diagnosi differita, pur in presenza di un iter condotto con buona
pratica e con strumentazione di qualità verificata, si possono
incontrare dei limiti. Limiti strutturali degli strumenti di diagnosi,
limiti dovuti alla biologia e all’aggressività del tumore, limiti nella
comunicazione medico-paziente-strutture sanitarie. La riparazione
passa allora, per il medico e per il paziente, attraverso il riconoscere i
limiti e accettarli. Può essere un percorso più impegnativo del
precedente, perché riconoscimento e accettazione da parte del
paziente richiedono che il medico di riferimento, quando arriva il
momento di comunicarli al paziente, abbia già attraversato questi
passaggi e che il rapporto il rapporto di fiducia sia strutturato. Anche
se errore non c’è stato, c’è comunque una ferita da riparare, per il
medico e per il paziente. Ritardo diagnostico è diventato anche un
termine medico-legale, in oncologia più frequente che in altre
discipline. In Italia il numero delle azioni legali per ritardo
diagnostico è in aumento, mentre diminuiscono le condanne. In base
all’indirizzo giurisprudenziale più recente il nesso di causalità fra il
comportamento del medico e l’evento da cui emerge il danno deve
essere dimostrato con probabilità molto vicina alla certezza. E’ infatti
in questa direzione la sentenza 13065 del 2002 della Corte di
Cassazione a Sezioni unite sulla responsabilità penale del medico.
L’errore diagnostico può essere ricondotto al rapporto uomo/sistema
e al rapporto paziente/medico. La maggior parte degli errori si
consumano nella categoria uomo/sistema e l’errore è più frequente in
ambienti sanitari in cui c’è una sofferenza di gruppo, per mancanza
di una leadership riconosciuta, per carenza di organizzazione, per
32
conflittualità non risolte, per scarsa interazione e solidarietà fra i
membri del gruppo. Gli errori sono inoltre più frequenti quanto più
complesso e grande è il sistema. Senza voler disconoscere la
responsabilità personale a cui sempre siamo chiamati e personale
resta la responsabilità penale, l’errore spesso è riconducibile ad una
patologia di comunicazione all’interno del gruppo. Che l’errore di
sistema, di gruppo, sia percepito a livello di società civile lo dice il
fatto che attualmente molto rare sono le azioni legali verso un
singolo medico, mentre sono sempre più spesso chiamate in causa le
aziende sanitarie. L’insuccesso terapeutico invece difficilmente ha
valenza medico-legale, difficilmente è ed è percepito come “errore”.
L’insuccesso non è un dato obiettivo, il vissuto di insuccesso dipende
dal risultato atteso. Una terapia è vissuta come insuccesso quando
non risponde alle aspettative. In Oncologia insuccesso terapeutico
rimanda ad una terapia inefficace o ad una recidiva. Il medico
conosce i limiti della terapia, è abituato ad accettarli e se li aspetta,
ma spesso non può comunicarli al paziente. Non può non perché non
deve, ma è un “non posso” che viene da dentro. Come è possibile
proporre ad una donna un intervento al seno, la perdita dei capelli e
una castrazione chimica e contemporaneamente dirle che tutto ciò
potrebbe non avere successo? Sottoporsi ad una terapia presuppone
firmare un consenso informato, che comprende complicanze e limiti
della terapia. Ma difficilmente un paziente legge attentamente tutto
quello che firma e, anche se legge, ci sono dei meccanismi di difesa,
anche sani, che impediscono di capire ciò che in quel momento è
vantaggioso non comprendere. Il paziente comprende ciò che il
medico gli comunica, col linguaggio verbale e non verbale e il
medico che ha un rapporto empatico col paziente e desidera che il
paziente accetti la terapia e che la terapia abbia successo, per
comunicare fiducia e complicità verso la terapia, ha bisogno di avere
fiducia e di essere complice. Complicità come condivisione di
responsabilità nel trasformare un atto aggressivo in una riparazione.
La psicooncologia ci dice che una terapia, qualsiasi terapia, ha
maggiore probabilità di successo, se è vissuta come atto riparativo.
Anche se l’esito non sarà la guarigione, vivere una perdita – di un
organo, di una funzione, dei capelli - come riparazione ha più
33
probabilità di aprire un cammino vitale. Le dinamiche sono diverse
da quelle che giocano nella comunicazione della diagnosi. Una
diagnosi è comunicata su una certezza, ma nessun medico sa con
certezza quale sarà l’esito di una terapia oncologica. Ci sono delle
probabilità statistiche, il paziente può chiederle e il medico può dirle,
ma il messaggio che passa risuona col vissuto personale e con la
relazione che si è strutturata fra medico-paziente-struttura sanitaria.
Quando viene proposta una terapia è un momento magico per il
medico e per il paziente, è l’ora della possibilità e della speranza. Ma
stare insieme ad un paziente nel momento dell’insuccesso credo che
richieda maggior investimento di energie e molta ricerca personale.
Di solito la ripresa di malattia è abbastanza lontana dall’intervento
chirurgico - se c’è stato - da aver sbiadito il chirurgo come medico a
cui portare l’insuccesso e nel frattempo altre figure professionali si
sono prese cura del paziente. Di solito chi dialoga l’insuccesso è il
medico di famiglia, l’oncologo, il radioterapista. Il chirurgo può
incontrare l’errore, le complicanze, le conseguenze estetiche o
funzionali, la frustrazione, sempre più rara, di operare un paziente
che si rivela inoperabile sul tavolo operatorio. Gli insuccessi che
incontra lo impegnano a riparare e la sua riparazione è articolata nel
fare e si consuma nel tempo di degenza. Sempre più spesso si
dimette il paziente chirurgicamente guarito e al momento del saluto
c’è gratitudine e speranza. L’insuccesso viene presentato agli
specialisti che si prendono cura del paziente nel tempo e lo seguono
nel follow-up, ai medici di famiglia che, terminata la terapia,
continuano ad incontrarlo per richiedere ed avere risposta dei
controlli. Credo che aver avuto la possibilità di conoscere il proprio
paziente e farsi conoscere sia la condizione da cui attingere le risorse
per accogliere l’evento e di dialogarlo. Non da soli, paziente e
medico, ma con tutte le presenze che ci sono state. L’insuccesso
della terapia riapre una strada che si pensava di aver ormai svoltato.
Nel corso di questo Seminario ci sono state e ci saranno altre
occasioni per parlare di quando non c’è più nessuna terapia, adesso
preferisco salutarvi pensando a quei pazienti e a quei medici, che di
fronte all’insuccesso hanno ancora la possibilità e la generosità di
riprendere il cammino e di aggiustare la speranza.
34
DIAGNOSI DI CANCRO E REATTIVITÀ PSICHICA 12
Rivelare ad un paziente il “suo” cancro, significa incontrare il cancro
che “io” potrei avere, la comunicazione si articola sulle sue e le mie
emozioni: la reattività è del paziente e del medico. Il tumore è un
universo vario, trasversale ad età, sesso, organi e funzioni interessate.
Può impegnare e chiedere il sacrificio di parti del corpo esposte o di
parti che non si vedono. Può presentare, già alla diagnosi, prognosi
differenti. Diversi sono soprattutto le esperienze, i vissuti e lo
psichismo in cui affiora. Da qui nasce la persona malata, con cui
parlo. Conosco la malattia – eziopatogenesi, epidemiologia,
sintomatologia, diagnosi…. – ma molto poco conosco quella persona
malata. Eppure devo parlare al malato, non alla malattia. Del
paziente so la storia clinica e le cose che mi ha detto strada facendo,
ho raccolto e ascolto quello che comunica con la mimica del volto e
con i gesti, ma raramente conosco il vissuto personale in cui cade la
malattia. Invece della sua malattia so molto più di lui. Spesso, specie
all’inizio, nella fase di comunicazione della diagnosi, è su quello che
il paziente non conosce della sua malattia e che io non conosco del
paziente che si articola la comunicazione. C’è un interrogarsi a
vicenda: il paziente vuol sapere della malattia per ripensare il suo
futuro ed io vorrei sapere del paziente per trovare i canali di una
comunicazione aderente alla realtà e nello stesso tempo rispettosa dei
tempi di accoglienza di quella realtà. E non può durare a lungo, so
che una comunicazione chiara, senza reticenze è il presupposto per la
fiducia, la complicità nel percorso successivo e con la terapia. Non è
certo la prima volta che incontro quella persona, la diagnosi è stata
costruita in un percorso col paziente e comunicarla è compito del
medico che l’ha cercata. Quasi sempre è scritta, in un referto
citologico o istologico, in un esame di laboratorio e quando la carta
che porta la notizia passa dalle mani del medico alle mani del
paziente, la comunicazione deve essere già avvenuta. Eppure la
12
Relazione della Dr. L. Dapporto al Seminario Multidisciplinare
“Formazione relazionale in medicina: protagonista la malattia neoplastica”
Treviso, 2006, organizzato dall’ A.I.D.M. di Treviso, accreditato dal
Ministero della Salute
35
prima parola è della malattia. Sia il medico che il paziente fa
comunque i conti con ciò che cancro significa, “finge”
nell’immaginario collettivo e nell’immaginario personale. Questa
prima parola credo sia comune alla grande varietà dell’universo
cancro. La prima associazione resta sofferenza e morte.
Ragionevolmente sappiamo che non è sempre così, ognuno di noi ha
visto malati per decenni liberi da malattia fino a percepirli guariti, ma
la possibilità di guarire e l’esperienza della guarigione sono
conquiste troppo recenti per essere penetrate nell’idea della malattia
fino ad avere parola nel gioco delle emozioni. Negli ultimi decenni
c’è stata sicuramente un’evoluzione nel pronunciare e comunicare la
malattia neoplastica. Fino agli anni sessanta “cancro” era
innominabile. Nel parlare comune si diceva “tumore”, anche con una
certa disinvoltura se se ne parlava in maniera impersonale, ma se si
parlava di una persona ammalata si sussurrava “ ha un malaccio, un
brutto male..”. Nei paesi latini, fino alle soglie degli anni novanta
nella pratica clinica non c’era l’abitudine di informare il paziente
della diagnosi di cancro. Si parlava con tutti, con i figli, col marito, la
moglie, il medico di base, il prete, ma non con il malato. I parenti
erano spesso i primi a tessere la rete della complicità e del silenzio,
raccomandavano al medico di non dire al paziente, convinti di
proteggerlo. I primi a rivendicare la necessità di comunicare la
diagnosi e a farlo furono gli oncologi, quando era ormai impossibile
non associare la chemioterapia o la radioterapia alla malattia
neoplastica. Anche perché l’oncologo e il radioterapista erano tenuti
a fare i conti con la recidiva e la possibilità di un insuccesso
terapeutico a fronte di cure lunghe e spesso aggressive. E all’inizio,
in alcuni ambienti, anche medici, furono accusati di seguire le mode
dei paesi anglosassoni – che spesso frequentavano per
aggiornamento - senza tener conto della cultura del “latin sangue
gentile”. Per i chirurghi – e la mia è soprattutto un’esperienza
chirurgica - che sono quasi sempre i primi ad intervenire sul paziente
oncologico, era più facile non affrontare la realtà insieme al paziente,
anche perché lo spazio relazionale era molto occupato – e lo è ancora
– dal “fare”, esami preoperatori, intervento, decorso post-operatorio.
36
Adesso è nel codice deontologico della professione il diritto-dovere
all’informazione sulla diagnosi, la prognosi, il percorso terapeutico,
le possibili complicanze. L’obbligo giuridico al “Consenso
Informato” è attualmente riconosciuto come elemento di tutela, sia
dal paziente che dal medico. Il percorso che ha portato alla
possibilità e al dovere di parlare è nel segno di un’evoluzione del
costume che ha portato a dialogare in famiglia e nel gruppo sociale
anche altre condizioni un tempo tabù, come la sessualità e
l’omosessualità, la malattia mentale, la tossicodipendenza, spesso
non ancora gli abusi sui minori e sulle donne. Eppure è ancora
difficile. Una cosa certo è successa: come per le altre cose di cui un
tempo non si parlava, nel sentire comune è caduta la convinzione che
non parlare protegga il malato ed è entrata la consapevolezza che
parlarne significa non lasciarlo solo ad interrogare la sua malattia.
Credo che questo sia stato e sia tuttora il motore della ricerca di una
diversa qualità nella comunicazione. E’ una convinzione razionale e
ragionevole, è nel senso della relazione di aiuto, eppure spesso è
ancora difficile. Vediamo quando non è difficile. Nella fase della
diagnosi, quando si incontra un tumore a prognosi favorevole,
quando, insieme alla malattia si può, in maniera realistica e veritiera,
comunicare la possibilità di guarigione. In questa fase anche per
comunicare la necessità di un intervento, anche demolitivo, anche
per comunicare la necessità di una chemioterapia, le parole scorrono:
il “sacrificio” finalizzato alla guarigione è sintonico ad una cultura
latina e tradizionalmente cattolica come la nostra: morire a qualcosa
per rifondare la vita. Difficile invece nella malattia avanzata già alla
diagnosi. Alle domande del Paziente, la tentazione di svicolare è
forte, c’è una resistenza profonda a parlare di cosa succederà, come
se aver comunicato la diagnosi fosse aver già fatto molta strada. Il
retropensiero è che in fondo il paziente sa cos’è cancro, la tentazione
di ripiegare nell’immaginario collettivo è forte e interrogare il futuro
ci appare persecutorio. Come quei parenti che ci chiedevano di non
dire pensando di proteggere il malato, proteggiamo noi stessi,
quando si riduce l’aspettativa di vita c’è un ritorno alla tentazione di
illudere e sedurre. La prognosi si costruisce su una previsione
statistica che si chiama in aiuto quando la prognosi è favorevole, ma
37
se la prognosi è infausta la statistica diventa un territorio fumoso in
cui non addentrarsi, perché quel caso, quel paziente potrebbe
ricadere nell’estremità più fortunata e potrebbe essere imprudente
limitare la speranza. Perché sbilanciarmi verso l’esito positivo mi
sembra buono per me e per il mio paziente ed il contrario no? C’è un
passaggio ancora da compiere: dialogare la morte, la “mia” morte, il
momento in cui può venire meno la “mia” aspettativa di vita.
Difficile perché tutta la nostra cultura nega la morte, la religione
cattolica che tutti, laici e credenti respiriamo, si fonda sulla
resurrezione: la morte è un incidente di percorso. Eppure la morte si
vede e non si è visto nessuno risorgere, a parte il Cristo, in pochi,
tanto tempo fa…. Forse il passaggio è rendersi conto che quando la
vita c’è, c’è comunque un futuro, breve o lungo che sia, e il senso
dell’interrogare è poter immaginare cosa succederà per riformulare il
proprio progetto di vita. Rispondere in scienza, coscienza e amore
significa non lasciare il mio paziente da solo col fantasma di un
futuro compromesso. Fin qui le mie reazioni, adesso parliamo di
quelle che vedo nei pazienti. Anche questo è un universo
estremamente vario, ma ce ne sono alcune che ricorrono con maggior
frequenza o che comunque io registro con maggior frequenza.
L’interrogatorio: il paziente vuol sapere non solo quello che
succederà, ma anche tutto ciò che potrebbe succedere. Di fronte ad
una diagnosi certa di tumore, che devo comunicare, ma a tumore non
ancora stadiato, non sempre è possibile indicare una terapia e
avanzare una prognosi. Spesso la notizia attiva un atteggiamento
persecutorio e il medico-sanitario difficilmente ha gli strumenti per
contenerlo e tenere le redini di una comunicazione in cui reale e
possibile, probabile ed improbabile coesistono, in cui lo spazio della
relatività è più ampio di quello delle certezze. Mi viene in soccorso il
contratto che ho con il Paziente: non sono il suo psicologo, ma il suo
sanitario ed offro quello che a me è possibile per rispondere alle sue
domande: attivare gli interventi necessari a comporre il quadro, in
modo che quel colloquio termini comunque con un programma
condiviso per portare a termine l’iter diagnostico e iniziare la cura. Il
senso di costruire insieme al Paziente un progetto diagnosticoterapeutico è comunicare che c’è comunque un futuro di cui
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occuparsi, una strada da percorrere assieme per rispondere alle
domande, un tempo da darsi per riorganizzare ritmi e abitudini. Ma
non sempre è tutto così ragionevole, a volte, anche sulla porta,
mentre lo sto salutando, continua ad interrogarmi come se fossi una
maga con la palla di vetro. A volte la comunicazione è complicata
dalla presenza di un familiare che anticipa le domande della
Paziente, quelle che per lei non è ancora arrivato il momento di
porsele, “ …bisogna togliere tutta la mammella? …farà la
chemioterapia? …..perderà i capelli? Capisco che sta manifestando le
proprie preoccupazioni, certo legittime, ma sta occupando uno spazio
di comunicazione che dovrebbe essere della Paziente, caricando sia
me che la paziente anche delle sue emozioni. A volte, specie se è un
marito, butta la preoccupazione per la vita quotidiana che cambierà
per le necessità della malattia e della cura e può succedere che la
Paziente, invece di occuparsi della sua malattia e della sua
guarigione, sposta l’attenzione sui problemi del marito e a casa, da
sola, inizia a porsi questioni in cui aveva avuto l’occasione di essere
ascoltata e accompagnata. Il silenzio: mi guarda, mi guarda e non
apre bocca, non mi chiede niente. Dallo sguardo so che non sta
negando, ha capito che ha il cancro, ma per farle comprendere ed
accettare il piano di stadiazione e di cura avrei bisogno di essere
guidata da qualche parola, da qualche emozione verbalizzata.
L’incredulità: spesso, al momento di una diagnosi precoce di un
cancro asintomatico, emerso nel corso di interventi di prevenzione
secondaria, ad esempio una mammografia di screening, la reazione
con cui interagire è il dubbio: “…non è possibile, non sento
niente…vi state sbagliando…..”. Non è ragionevole, perché la
motivazione per cui si è sottoposta a quell’esame era una diagnosi
prima dei sintomi. Dall’incredulità, alla diffidenza, all’aggressività.
Il paziente incredulo fa di solito domande coerenti, ma ad ogni
risposta il rifiuto è sempre più forte. So che sta trasferendo su di me
il rifiuto e l’aggressività verso il tumore, ma lo percepisco ingrato e
la mia reazione è di frustrazione. Non sono stata io, l’ho solo
scoperto e probabilmente l’ho scoperto in tempo …In queste
situazioni il mio sentimento è – lo confesso - antipatia, proprio nel
senso di pathos contrario, accompagnato dal timore di rivelarla col
39
linguaggio non verbale e di non favorire nella paziente la fiducia di
poter essere compresa e accompagnata nel percorso appena iniziato e
che può essere lungo e non sempre lineare. Eppure quell’incontro in
cui si comunica la diagnosi fa strada nel cuore del paziente e a volte
viene restituito con riconoscenza a distanza nel tempo. Porto due
lettere di pazienti che hanno avuto una diagnosi di cancro della
mammella e, al primo impatto, una reazione di rifiuto verso la
malattia e verso di noi. Roberta, 30 anni, stava provando il suo abito
da sposa “….questa forza io l’ho trovata sicuramente dentro di me
…..ma principalmente me l’ha trasmessa lei, quando ancora non si
sapeva cos’era quel “visitor” che avevo nel seno. Ci sono molti modi
di comunicare le cose e lei è sempre riuscito a dirmi cose terribili con
tenerezza e gentilezza…” Lettera è rivolta ad un giovane collega
maschio. Stefania, 45 anni, due figli ancora bambini, esprime la sua
riconoscenza “…per avermi aiutata ad affrontare la malattia con
lucidità e pacatezza…per il modo in cui mi ha fatto aprire gli occhi
su una realtà a me sconosciuta, ma che all’improvviso diventava
profondamente mia…… sono quindi ripartita da lì…”
Cancro è sempre ripartire.
DON LORENZO MILANI PRETE 13
Quando Cora e Gioconda mi hanno invitata a ricordare Don Milani,
c’è stato un tuffo al cuore. E’ emerso il ricordo dell’autunno ‘67.
Una sera di 40 anni fa, quando ci siamo trovati, ragazze e ragazzi
della Treviso di allora, cattolici e laici a parlare di lui che se ne era
andato durante l’estate. Un cammello era passato attraverso la cruna
di un ago. Perché Lorenzo Milani era nato ricco, a Firenze, da una
famiglia ricca anche di culture diverse, da un padre professore
universitario e da una madre ebrea. Per lui, battezzato a dieci anni,
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!
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nel 33, per sfuggire alle persecuzioni razziali, essere cristiano fu una
scelta dei suoi vent’anni, essere prete dei poveri fu la risposta
generosa, evangelica ad una condizione che l’aveva portato ad essere
il pastore di Calenzano, un piccolo borgo operaio vicino a Firenze,
poi a Vicchio, un paese di montagna del Mugello, che aveva espresso
la genialità di Giotto, ma ancora povero come ai tempi di Giotto.
Giotto e San Francesco, San Francesco e la scelta di povertà, San
Francesco e il suo dissenso con la chiesa.
Anche quella di Lorenzo Milani fu una scelta di povertà. “Ho
quest’anno un giovane prete, non ha nessuna pretesa e vuol vivere
poveramente: un certo Don Lorenzo Milani”. Era il 47 e così il
Cardinale rispose al vecchio parroco di Calenzano che chiedeva un
cappellano. Non si era ricordato che quando i ricchi scelsero di
essere poveri furono spesso, nel loro tempo, una fonte di guai per
tutte le chiese. Ma forse il cardinale guardava lontano.
A Vicchio, lontano da Firenze, fu mandato invece dalla curia.
Era diventato un prete scomodo. Certo, fu un uomo di sinistra, ma
Don Renzo non confuse cristianesimo e marxismo ed è ben espresso
dal suo linguaggio. Non dice “proletariato” o “classe operaia”, parla
di “poveri”, ma i suoi poveri, gli ultimi, erano gli operai, i contadini,
i disoccupati del dopoguerra in Toscana e la maggior parte erano
comunisti. Fra lui e il poverello di Assisi ci sono sette secoli e Don
Renzo era convinto che ai poveri non tocca aspettare il regno dei
cieli per riscattarsi dalla miseria.
Vide la miseria nell’esclusione della conoscenza, vide il riscatto dalla
povertà nella conquista della lingua, del senso della storia, della
matematica, della geografia e di tutti i saperi che rendono gli uomini
capaci di capire la propria condizione e quella degli altri, di
comunicare. Vide che i poveri erano respinti dalla scuola proprio
perché poveri, ragazzi che nella miseria del dopoguerra spesso
dovevano lavorare, che dalle case sparse di un territorio montano
facevano tanta strada per arrivare a scuola e la scuola li bocciava e li
respingeva nella miseria.
Così aprì la sua scuola. La aprì a tutti, anche ai figli dei comunisti, li
andò a cercare nelle loro case, a spiegare ai padri che non c’era
contraddizione fra mandare a i figli a studiare in parrocchia e
41
frequentare la Casa del Popolo e il sindacato: nella scuola per essere
liberi non chiedeva nessun assoggettamento.
Pensando al clima di quegli anni, Don Renzo, disobbediente e
anticonformista, fu un costruttore di pace.
Ero bambina, eppure lo ricordo quel clima. Abitavo a Firenze, poco
lontano dai luoghi di Don Milani, in un rione popolare, Rifredi, che
aveva una composizione sociale simile a Calenzano, dove gli uomini
erano operai e le donne artigiane, sarte, ricamatrici, poche
casalinghe, tutti lavoravano. Si usciva da una guerra che aveva
lasciato nel mondo cinquanta milioni di morti, ricordo le case ancora
sventrate dalle bombe, i senza tetto, gli sfollati. Le ferite erano
fresche e non tutte le armi erano state deposte.
Democristiani e comunisti, che insieme avevano scritto la
Costituzione della nuova Repubblica, ora si contrapponevano in tutta
Italia nelle prime campagne elettorali. Ne ricordo i toni e la forza,
l’aggressività, perché iniziavo allora a sillabare le insegne delle
botteghe e i manifesti di propaganda: “mesti-ca-to-re” e “de-mo-crazia cris-tia-na” erano le parole più difficili. Il fascismo, sconfitto
dalle armi e dalla politica, resisteva in molte realtà, nelle gerarchie
militari, nei servizi segreti, nell’apparato burocratico dello stato,
nelle forze dell'ordine, nelle prefetture, nella scuola.
Non voglio dire che tutta la scuola del dopoguerra fu nostalgica, ma
c’era ancora una generazione di maestri e professori formata nella
retorica e nella cultura degli anni venti e trenta, per cui lo steccato fra
le classi sociali, fra ricchi e poveri era invalicabile. Eccoli, sono lì, in
“lettera a una professoressa”.
Il primo giorno di scuola la mia maestra disse “chi ha la tessera di
povertà, alzi la mano”. Si alzarono cinque mani, tre erano ripetenti.
Non erano più alte delle altre bambine ma finirono nell’ultimo
banco. La maestra sapeva a chi toccava il libro gratis, ma fece alzare
la mano, così il libro cessava di essere un diritto per diventare
un’elemosina.
Quello stesso anno una bambina ebbe il compito di controllare la
pulizia delle unghie e le più povere erano le più sporche.
Non fu un’opera di pace, la classe fu divisa fra sporche e pulite e chi
controllava le unghie prese anche qualche botta.
42
Eppure ho amato quella maestra per avermi insegnato ad amare le
poesie, la matematica e la geometria; la storia e la geografia no, fino
alle superiori. Era molto cattolica, ci leggeva il vangelo e la bibbia,
lasciando messaggi che scaldano ancora il mo cuore. Leggeva il
vangelo, ma non vedeva Cristo nelle ragazzine sporche e povere, in
lei vangelo e vita quotidiana non si incontravano. Non vedeva le sue
contraddizioni, quelle che ragazzi di Don Milani raccontano in
“lettera a una professoressa”, le stesse che respingevano dalla scuola
i poveri e i figli dei disoccupati, degli operai e dei contadini,
disobbedienti perché la scuola non era cosa per loro.
A Firenze, era sindaco La Pira, un democristiano attento ai ceti
popolari stremati dalla guerra, la cultura era diffusamente di sinistra,
i comitati di fabbrica e i sindacati non erano isolati, le case editrici
pubblicavano e vendevano libri scritti da operai e libri che entravano
con occhi nuovi nel mondo del lavoro, eppure quando alla maestra
che per cinque anni mi aveva dato nove e dieci fu chiesto di firmare
per il mio esame di ammissione alle medie, rifiutò e mi licenziò col
sei. Allora l’avvenire di un ragazzo si decideva in quinta elementare
e le medie era l’unica strada per accedere all’Università e alle
professioni. Lo stesso fu per altri ragazzi della mia famiglia. Dissero,
i maestri, che era ora di andare in fabbrica o di prendere in mano
l’ago, che sapevamo già troppo.
A Rifredi altri maestri firmarono per la nostra ammissione. Paolo è
Direttore del Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze,
Franca è preside della Facoltà di Storia, Lucia insegna Etologia
all’Università, Sandra è Direttore di banca. Sono i miei cugini, tutti
figli di operai, ma non è una storia personale, è la storia di una scuola
che rimase a lungo classista, soprattutto dove la pressione alla
crescita sociale e culturale delle giovani generazioni era molto forte.
A Vicchio era sicuramente più dura e Don Milani fece una scuola di
classe, dove gli ultimi, i ciuchi, avevano più attenzione dei primi,
dove studiare non era finalizzato soltanto al sapere, ma a partecipare,
ad avere voce, dove si leggevano i giornali, dove esserci era centrale:
“Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne
tutti insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”.
43
Questa la politica che insegnava ai suoi ragazzi. Ma negli anni del
giovane mandato pastorale di Don Renzo c’era anche ben altro.
Mai come allora ci fu nei ceti popolari il desiderio di emanciparsi
attraverso il sapere. La gente del popolo, i poveri, in molti avevano
partecipato alla lotta di liberazione, città e borghi e paesi erano stati
liberati prima dell’arrivo degli Alleati. C’era stato il riscatto morale
dalla vergogna nazifascista e la vittoria, che avevano fondato la
fiducia in un’emancipazione sociale possibile e la voglia, il piacere
di sudarsela fino in fondo.
Mai come allora ho sentito intorno a me tanta allegria e tante energie
positive, tanto investimento sul futuro. Nella Repubblica fondata sul
lavoro, operai, contadini, bottegai, artigiani iniziavano ad avere
coscienza della dignità e dei diritti del lavoro, a rivendicare per i loro
figli il diritto di studiare e anche chi non aveva voce e
organizzazione, profondamente, lo desiderava. Questo fu il terreno
fertile che fecondò il seme di Don Renzo.
Nel farlo restò prete, convinto che se il suo popolo conquistava la
parola avrebbe capito meglio la parola del vangelo. Lo fece in modo
pragmatico, senza steccati ideologici. A chi gli chiedeva perché
insegnava anche ai comunisti, rispondeva: “io gli insegno bene, gli
insegno ad essere un uomo migliore e se poi continua a essere
comunista sarà un comunista migliore”.
Al posto di una scuola per formare una classe dominante, pensò ad
una scuola per diventare migliori. Adesso qualcuno dice che, in
fondo, quella di Barbiana fu una scuola privata, che Don Milani
mosse una critica alla scuola pubblica. Tutt’altro! Fu una critica a
tutta la scuola, pubblica e privata. Una critica alla scuola che esclude
anziché includere.
Andava volentieri dove la gente discuteva e si interrogava. Venne
alla Galileo, la fabbrica che con la sua sirena scandiva il tempo di
Rifredi, otto – mezzogiorno – due – sei, venne a benedire la targa che
ricordava i partigiani caduti, venne anche alla Casa del Popolo,
insieme ad altri intellettuali cattolici, a La Pira, a Dossetti. Ero
bambina, non feci caso a quello che disse e quasi non ricordo come
fosse, ma ricordo bene che era vestito da prete, con la tonaca. Invece
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i preti operai dell’Isolotto non sembravano preti, vestivano come gli
altri uomini.
Furono anni, soprattutto quelli del secondo dopoguerra, che
segnarono un profondo cambiamento anche nella cultura cattolica, di
cui Don Milani fu precursore e protagonista.
Esperienze spesso fiorite spontaneamente, al di fuori delle strutture
organizzative tradizionali, che aprivano una riflessione sul rapporto
fra civiltà e religione ed il dialogo fra cristianesimo e marxismo.
Altri religiosi, Davide Maria Turoldo, Padre Balducci, come Don
Milani, indicano alla nuova coscienza cattolica il valore del
progresso sociale, partendo dai poveri, dai disoccupati e dalla
questione della pace. Allora ero a Treviso, dove avevo seguito mio
padre ferroviere e ricordo che alla Fuci, l’associazione degli
universitari cattolici che frequentai nei primi anni sessanta, si
leggevano e si discutevano le opere di Mounier e di Maritain, la
“nouvelle teologie”, fondata sullo spiritualismo evangelico e sul
giudizio morale sul capitalismo, un pensiero che portava di nuovo a
Don Milani e alla sua scuola.
Era anche il segno di un’Azione Cattolica che stava allentando i
legami con i riferimenti politici tradizionali. Erano gli anni di Papa
Giovanni, del Concilio Vaticano II, della “Pacem in terris”, eppure
Don Renzo restava ancora per molti un prete scomodo. Siamo nel 65
quando la risposta di Don Milani al Comunicato dei Cappellani
militari in congedo della Toscana porta al centro dell’attenzione le
questioni della pace e della coscienza personale, laica e religiosa, di
fronte alle armi e alla guerra. Il Comunicato, pubblicato su La
Nazione, il quotidiano di Firenze, condannava come viltà, in nome
della Patria, l’obiezione di coscienza al servizio militare. Gli
obiettori stavano pagando con il carcere e fra loro c’era un giovane
intellettuale cattolico, Gozzini, che aveva espresso la prima
obiezione per motivi di fede religiosa: il rifiuto delle armi sotto
qualsiasi forma per fedeltà al messaggio di pace del vangelo e del
nuovo ecumenismo. Gozzini fu condannato e con lui Padre Balducci
che lo aveva difeso. Nella scuola di Barbiana, dove i quotidiani erano
libro di testo, e dove ognuno stava imparando a sentirsi responsabile
di tutto, a sostituire il motto fascista “me ne frego” con “J care”, tutto
45
mi interessa, tutto mi sta a cuore, la questione non poteva essere
ignorata e Don Renzo rispose sulle pagine di Rinascita, in una ricerca
attenta sul senso della patria, della fedeltà e dalla disobbedienza.
“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per
cui l’obbedienza non è più una virtù, né uno scudo davanti a Dio”. In
queste sue parole c’è il segnale a capire e non ripetere una storia
recente in cui, per obbedienza, furono uccisi milioni di uomini.
Anche lui, ormai al termine della sua breve vita e troppo ammalato
per presentarsi in giudizio, fu condannato in contumacia da un
tribunale della Repubblica. Una Repubblica che aveva ed ha e spesso
dimentica una Costituzione che ripudia la guerra come strumento di
offesa alla libertà degli altri popoli e di risoluzione delle controversie
internazionali. Fu condannato insieme al direttore di Rinascita, ma
aprì un dibattito che durò quasi dieci anni, fino a portare, nel 72, alla
legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare. E le questioni
della pace, del rifiuto delle armi hanno attraversato i decenni
successivi, dalla guerra del Vietnam fino ai nostri giorni. Invitò a
disobbedire ai generali quando obbedire significa, per un credente,
disobbedire alla legge di Dio, per un non credente, disobbedire alla
legge morale che ognuno porta dentro di sé. Sostituire all’obbedienza
cieca – pronta – assoluta, la coscienza, la riflessione, la scelta. Ci ha
insegnato che la legge è dinamica. Quando è giusta obbedire è la
forza del debole, ma quando è ingiusta battersi per cambiarla è amare
la giustizia e credere che partecipare a costruire regole migliori sia
possibile.Il suo messaggio sulla disobbedienza civile è quello che più
profondamente è entrato nella mia coscienza, come in quella di altri
che furono giovani insieme a me e l’ha formata. Ricordò ai soldati e
ai cappellani – e tutti siamo soldati e cappellani, anche i giudici che
lo condannarono – che il patto di fedeltà a cui rispondere non è con i
generali, ma col popolo sovrano. Nel popolo sovrano, il popolo di
Cristo incontra il popolo che si da le regole della convivenza civile.
Nella vita di ognuno, come nella mia lunga esperienza di medico del
Servizio Sanitario Pubblico, non sono certo mancate le occasioni di
essere fedele e disobbediente. Don Renzo che vedeva e la mia
maestra che non vedeva, ma mi ha lasciato dei ricordi cui dare un
senso, hanno permesso anche a me, che a vent’anni scelsi di vivere
46
secondo un’etica laica, di coniugare, prima di tutto nel mio cuore,
l’umanesimo cristiano con l’umanesimo marxista.
Ho avuto in questi giorni l’occasione di conoscere una giovane
professoressa di scuola media, Sabrina Vincenzi, che mi ha fatto
dono di un lavoro che scrisse da studente, nel 90 e che mi ha
permesso di confrontare cosa hanno visto in Don Milani due persone
di generazioni diverse. Io avevo visto l’affinità con San Francesco,
Sabrina lo avvicina alla forza delle prime comunità cristiane, dei
primi apostoli. Il suo linguaggio è infatti forte, a volte aspro,
scandaloso per alcuni, è quello delle chiese nascenti e delle chiese
che si rifondano su nuovi valori. Mi chiedo e vi chiedo, se Don
Renzo oggi fosse con noi, dove vedrebbe gli ultimi, il suo prossimo?
Dove andrebbe a costruire pace? Dove sono gli steccati da abbattere?
Un prete dei nostri giorni, parroco di un paese qui vicino, Don Aldo
Danieli, ha offerto alla comunità mussulmana una stanza della casa
parrocchiale per pregare. Da uomo di religione, ha detto “preghiamo
lo stesso Dio” e il significato arriva a tutte le coscienze.
In un tempo in cui i fondamentalismi religiosi sono strumentalizzati a
fini di potere e di profitto, pregare sotto lo stesso tetto significa
liberare chi prega (cattolici o mussulmani) dall’assoggettamento,
dall’obbedienza a chi ha interesse alle guerre di religione.
Come la scuola di Don Milani generava emancipazione dalle miserie
che dividono gli uomini, pregare insieme libera le religioni dalle
manipolazioni che le impoveriscono. Ma l’iniziativa di Don Aldo è
caduta in un contesto che non ha capito nemmeno il vantaggio di
vivere più tranquilli, di non avere paura gli uni degli altri ed è caduta.
L’hanno costretto ad allontanarli con il pretesto che il luogo non è a
norma per pregare. Cosa avrebbe detto e fatto Don Renzo se, con una
logica da catasto, gli avessero ordinato di chiudere la scuola di
Barbiana? Avrebbe detto ancora “J care”, “io c’entro”, mi sta a cuore
la pace, i poveri, i nuovi esclusi dalla xenofobia e dal razzismo, le
nuove schiave della strada, gli esclusi dal lavoro, le vittime del
precariato…..
Laura Dapporto
Via San Vigilio 11
Dosson di Casier (TV)
47
Giuseppina Girlando 14
LE MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE: CONOSCERLE
PER PREVENIRLE 15
L’intervento, rivolto alla popolazione del Comune di Povegliano, su
richiesta del Comitato Pari Opportunità comunale, ha avuto un
carattere informativo e di sensibilizzazione, con lo scopo precipuo
di mettere ciascuna persona nelle condizioni di essere protagonista
della gestione della propria salute, attraverso la conoscenza dei
comportamenti a rischio e lo sviluppo di competenze per operare
scelte responsabili a favore della promozione della salute propria e
degli altri. E’ dimostrato infatti che l’attuazione di scelte preventive
da parte del solo 20 % della popolazione di un determinato territorio
dà gli stessi risultati in termini di salute di quanto fa il resto della
medicina attraverso diagnosi, cura e riabilitazione.L’argomento
della prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse (MST) è di
grande rilevanza soprattutto per le donne, i giovani e gli adolescenti,
vista l’epidemiologia delle malattie a trasmissione sessuale: 1/3 delle
MST colpisce infatti i giovani di età inferiore a 25 anni, l’HIV in
particolare contagia nei 2/3 dei casi giovani tra i 15 e i 25 anni, le
donne risultano oggi più colpite sia dalle MST che dall’HIV, poiché
hanno partner sessuali più vecchi, che a loro volta hanno avuto
diverse esperienze sessuali, un numero di partner maggiore rispetto
al passato, un’età più precoce dei primi rapporti, con un fattore di
rischio aggiuntivo legato all’anatomia stessa dell’apparato genitale
femminile. Tra gli obiettivi dell’intervento si è evidenziata la
motivazione al cambiamento di comportamenti a rischio attraverso la
conoscenza delle principali MST e della loro importanza come
problema di salute pubblica, delle complicanze e ripercussioni sulla
14
Specialista in Medicina del Lavoro, Dirigente Medico di Igiene Pubblica
e libera professionista ‘intra moenia’ c/o Dipartimento di Prevenzione
ULSS 9 Veneto, Socia A.I.D.M. TV 2005-2008 e Consigliera 2008-2011
15
Report dell’incontro con la Cittadinanza a tema “Prevenzione delle MST”
Povegliano (TV), 2006, organizzato dall’ Amministrazione Comunale e dal
C.P.O. di Povegliano con la collaborazione dell’A.I.D.M. TV
48
vita riproduttiva e sulla vita stessa, dei fattori di rischio (modalità di
trasmissione e comportamenti a rischio) e delle misure preventive.
In particolare si è descritto come le MST rappresentino un pericolo
in agguato per la sessualità e che per MST si intendono le malattie
infettive trasmesse durante l’atto e il contatto sessuale, spesso prive
di sintomi e subdole, alcune facilmente curabili, tutte facilitanti
l’infezione con l’HIV. Secondo l’ OMS ci sono 333 milioni di nuovi
casi di MST ogni anno nel mondo (escluso AIDS). Nell’ est-Europa
la diffusione delle MST è 100 volte maggiore rispetto all’ Europa
occidentale. Si tratta di malattie in continuo aumento per le ondate
migratorie, il turismo e il commercio e l’aumentare di rapporti con
più partner. L’ attualità del problema anche per l’Europa ha fatto sì
che nel 2000 sia stata istituita una Task force per rispondere alle
epidemie di MST nell’est Europa e proporre linee guida di
prevenzione. Il ruolo della prevenzione è infatti cruciale per il
controllo delle MST , riconosciute come una priorità per la salute
pubblica. E’ fondamentale pertanto conoscere le modalità di
trasmissione delle diverse MST per assumere comportamenti
protettivi efficaci. Si sono quindi distinti i rapporti sessuali genitali,
anali e orali, sottolineando come alcune MST si possono trasmettere
anche senza penetrazione, per solo contatto. Si sono quindi elencate
le cause microbiologiche: parassiti : pidocchi pubici; batteri
:clamidia, gonorrea, sifilide; funghi : candida; virus : Hiv, herpes,
epatite, papilloma virus. Sono state prese in esame le più frequenti
MST, in particolare: le infezioni da Clamidia, la sifilide, la gonorrea,
l’epatite B, l’herpes genitale, i condilomi acuminati da
papillomavirus,, l’infezione da Candida e la tricomoniasi genitale.
Tra le attività di
prevenzione possibili si sono evidenziate
l’informazione, l’adozione di comportamenti protettivi, come evitare
rapporti sessuali con partner occasionali, l’uso corretto del
preservativo, la rapida identificazione delle persone infette e dei loro
partner per eseguire un trattamento efficace, gli screening ( Clamidia
e papilloma virus), la vaccinazione ( epatite B e papilloma virus). Si
è anche sottolineato il ruolo del counselling inteso come consulenza
mirata in base ai fattori di rischio individuali, alle esigenze e alle
capacità di ciascun paziente. Si è quindi preso in considerazione in
49
maniera più approfondita il problema AIDS, sia dal punto di vista
della diffusione che delle possibilità di prevenzione. In particolare si
è dato rilievo al fatto che negli ultimi anni si sia passati da una
diffusione prevalente tra tossicodipendenti ed omosessuali maschi
alla diffusione prevalente nella popolazione generale attraverso i
rapporti eterosessuali. Un altro dato rilevante connesso a
quest’ultimo è che oltre il 50% dei sieropositivi scopre di essere tale
quando è già ammalato di AIDS e quindi a distanza di diversi anni
dal primo contagio. Ciò comporta gravi ripercussioni sia personali
(ridotta aspettativa di vita per un inizio tardivo delle terapie), che di
diffusione agli altri del virus, per mancata adozione di misure
preventive dovuta all’ignoranza della propria sieropositività. Infatti
l’ignoranza da parte di molti del fatto che il virus si trasmette
prevalentemente attraverso rapporti sessuali non protetti con partner
occasionali e i pregiudizi verso i gruppi considerati a rischio, quali
tossicodipendenti ed omosessuali (che in quanto riconosciutisi a
rischio adottano misure di prevenzione come siringhe monouso e
preservativo), fa sì che in Italia una persona ogni due ore contragga il
virus, con un totale di 130.000 sieropositivi.Tra le scelte di
prevenzione si sono proposte oltre all’uso corretto del preservativo,
anche la buona conoscenza del partner e della sua storia passata,
l’astinenza temporanea da rapporti sessuali penetrativi non protetti,
la fedeltà reciproca, l’esecuzione del test per l’HIV. Poiché non sono
ancora disponibili cure in grado di portare a guarigione, né vaccini in
grado di impedire il contagio, emerge con ancora più forza il fatto
che la prevenzione sia attualmente l’unica arma contro una malattia
che a tutt’oggi porta inevitabilmente alla morte. Gli interventi da
parte del pubblico sono stati pertinenti e interessati , con
apprezzamento soprattutto della chiarezza e della semplicità
dell’esposizione, elementi imprescindibili in ogni forma di
comunicazione, soprattutto se rivolta a non addetti ai lavori , con
l’obiettivo di promuovere la salute attraverso l’adozione di stili di
vita corretti.
Giuseppina Girlando
Via Verga 5
31100 Treviso
50
Marilisa Grigolon 16
LE BASI DELLA COMUNICAZIONE 17
L’ attività medica e sanitaria è svolta normalmente da persone che
hanno ricevuto una formazione tecnica specifica, atta ad affrontare e
risolvere i problemi fisici della persona malata, mentre le componenti
psicologiche e relazionali sono spesso lasciate all’intuizione e al
buon senso individuale. Il concetto stesso di “rapporto professionale”
sottolinea però la peculiarità relazionale dell’intervento medico e
quindi ci obbliga a considerare l’importanza di una maggiore
consapevolezza delle caratteristiche specifiche di tale relazione. In
particolare in ambito oncologico risulta allora fondamentale
approfondire il tema della Comunicazione e della Relazione per poter
realizzare un approccio con il paziente, che pur proponendosi di
perseguire gli specifici obiettivi diagnostici e terapeutici, si fondi
sulla comprensione della persona sofferente e si moduli
costantemente sull’ ascolto e sulla realizzazione di un clima
comunicativo positivo, nella convinzione della centralità di questi
aspetti nell’incontro con l’altro. L’acquisizione e il potenziamento
delle abilità comunicative e relazionali del medico rappresenta
dunque una necessità ed il presupposto per lo sviluppo di una buona
relazione terapeutica, che partendo dai principi di base della
comunicazione consenta alla persona colpita da cancro il migliore
adattamento possibile alla sua malattia. Una buona comunicazione
risulta inoltre determinante anche ai fini della raccolta di
informazioni complete ed accurate, migliora la collaborazione e
consente la corretta definizione dei problemi da affrontare nelle varie
fasi di malattia. La specifica analisi del Sistema Comunicativo
prevede la disamina di: ruoli, contesti, funzioni, finalità. Si definisce
16
Psicologa Psicoterapeuta, Socia ASVEGRA, libera professionista in
Treviso, Corrispondente AIDM TV nel triennio 2005-2008
17
Relazione al Seminario Multidisciplinare “Formazione relazionale in
medicina: protagonista la malattia neoplastica”, Treviso, 2006, A.I.D.M. TV
51
Contesto “ l’ insieme delle circostanze e delle situazioni in cui
avvengono gli scambi comunicativi, attribuendo significato e qualità
espressive differenti”. Il contesto pone delle regole alla relazione in
corso, influenza gli scambi comunicativi, attribuisce significato. Le
circostanze che influenzano il contesto sono: l’ambiente fisico,
l’ambiente sociale, l’identità dei partecipanti, gli avvenimenti che
hanno preceduto quel preciso evento comunicativo,il tipo di relazioni
che hanno avuto in precedenza i partecipanti all’interazione. Anche
la relazione tra medico e paziente risulta naturalmente influenzata da
questi aspetti, che agiscono simultaneamente e spesso inconsapevolmente. Esiste quindi un livello cognitivo-emotivo, che
riguarda le caratteristiche individuali della relazione, ovvero i vissuti
peculiari delle persone coinvolte e le dinamiche spontanee che
nascono in qualsiasi relazione umana. Le peculiarità della relazione
sanitaria risentono però anche dal livello sociale del rapporto e
guidano quindi anche l’espressione della relazione cognitiva-emotiva
in atto: ciò che le due persone vivono, pensano e sentono durante la
loro relazione professionale è controllato e veicolato dal livello
sociale e convenzionale del rapporto, che ha a che fare con il ruolo e
la funzione dei soggetti che interagiscono in quella precisa
circostanza. La professionalità del medico nel momento in cui svolge
la propria azione attraverso una relazione interpersonale e si propone
il benessere del paziente è proporzionale alla consapevolezza di sé
nella relazione stessa e alla capacità di considerare anche le variabili
legate al contesto. E’ ormai condiviso il significato di benessere del
paziente legato alla concezione di globalità ed unicità della persona e
alla concezione di cura intesa non solo come necessità di curare un
corpo malato nelle varie fasi della malattia, ma come necessità di
prendersi cura dell’intera persona garantendo il suo benessere fisico,
psicologico (cioè mentale ed emozionale), sociale e relazionale.
D’altra parte oggi sempre più frequentemente anche le persone, nel
ruolo di pazienti richiedono a chi si prende cura della loro salute un
diverso tipo di relazione, basato su una più accurata informazione, su
una più attiva partecipazione e sulla possibilità di esprimere scelte e
giudizi personali. Per questi motivi si impone la necessità di
comprendere e valorizzare tutti i processi della Comunicazione sia
52
nel trasmettere informazioni sulla malattia sia nel comprendere i
bisogni dell’altro. Comunicare significa “rendere comune”, “trovarsi
in contatto”, ”trasmettere” e rappresenta lo strumento principale di
relazione che l’uomo ha a disposizione per creare e mantenere
l’interazione; in ogni tipo di relazione esiste quindi uno scambio
comunicativo che coinvolge i soggetti che partecipano alla relazione
e che non si esaurisce nel semplice scambio di informazioni. ‘Non è
possibile non comunicare’ è il primo assioma della ‘Pragmatica della
comunicazione umana’ di P.Watzlawick (1971) e si riferisce alla
fondamentale osservazione che ogni nostro comportamento, azione,
atteggiamento, anche il silenzio stesso, comunica qualcosa e gli altri
vi attribuiscono un significato. Lo scambio tra le persone implicito
nell’atto stesso del comunicare implica quindi, oltre allo scambio di
informazioni, che rappresenta la parte più esplicita della
comunicazione, anche un certo coinvolgimento emozionale dell’uno
e dell’altro, che mette in gioco sia aspetti coscienti che inconsci e
trattandosi di un incontro tra persone non consente la neutralità e
attraverso la stessa presenza diventa Comunicazione. L’importanza
nel riconoscimento dello stato emotivo nel “qui ed ora” della
relazione con il paziente permette di evitare che le condizioni
emotive dell’uno e dell’altro vadano a discapito della relazione stessa
e degli obiettivi terapeutici. Si entra allora in un’area squisitamente
psicologica dove al fare si unisce il parlare, l’ascoltare, il pensare, il
sentire ed anche il gesto più semplice si arricchisce di contenuti
emotivi veicolati dalle parole, dalla mimica e dai silenzi delle
persone che entrano in relazione. Ogni atto comunicativo viene
vissuto in quanto situazione globale e complessiva, nella quale
numerose componenti si integrano in modo coerente e diventano
significative nell’ambito di un preciso contesto. Il rapportarsi con gli
altri prevede prevalentemente l’uso del linguaggio come strumento
privilegiato di comunicazione, vi è però un altro tipo do
comunicazione mimica e gestuale che viene definita Comunicazione
Non Verbale , proprio perché non si serve delle parole, anche se dal
punto di vista comunicativo risulta altrettanto importante e talvolta
ancor di più che il contenuto verbale. Nell’atto comunicativo allora si
e soliti distinguere la componente verbale (cv) e la componente non
53
verbale (cnv). La comunicazione non verbale si riferisce al
linguaggio del corpo come ad esempio: gli atteggiamenti, le posture,
le espressioni del volto, i gesti, il tono della voce, il silenzio. Questo
linguaggio del corpo, compreso il silenzio che talvolta viene
concepito come neutralità e mancanza di comunicazione, è invece
più eloquente di qualsiasi parola e può trasmettere messaggi molto
importanti e talvolta in contraddizione con i messaggi verbali. E’
accertato che ogni individuo, in presenza di due messaggi differenti,
uno verbale e uno non verbale, recepisce e crede di più al linguaggio
del corpo che non a quello delle parole. Saper riconoscere in se stessi
e negli altri la cnv
favorisce e facilita la Coerenza tra
l’atteggiamento fisico e l’atteggiamento psicologico e consente
quindi di realizzare una relazione più autentica. L’autenticità in
questo senso viene subito percepita dal paziente, se pure a livello
inconsapevole ed assicura un effetto positivo sulla coscienza e sul
morale, gli consente una maggiore possibilità di apertura e consolida
un rapporto di fiducia; la contraddizione invece dei messaggi verbali
e non verbali crea una incongruenza che determina in chi la riceve
sensazioni spiacevoli di ambiguità, di incertezza e di ansia. Saper
osservare ed attribuire un certo significato alle espressioni della
comunicazione non-verbale può facilitare inoltre nel formulare
risposte corrette o piuttosto tacere, sapersi avvicinare o tenere ad una
determinata distanza e migliorare quindi la qualità della
comunicazione nel rispetto della soggettività del paziente. Affinché il
medico possa creare relazioni funzionali, positive e costruttive con il
paziente deve saper fare anche un uso corretto della comunicazione
verbale e cioè del linguaggio; egli infatti deve fornire al paziente
informazione sulla diagnosi, sul trattamento ecc. cercando di creare
un clima comunicativo che consenta di rafforzare la motivazione e di
esprimere liberamente eventuali stati emotivi, che potrebbero
interferire con la cura stessa. Il linguaggio è il canale comunicativo
privilegiato nella gran parte delle funzioni comunicative e si presenta
come un fenomeno dinamico in grado di sincronizzarsi con i
movimenti della realtà e di adattarsi quindi al contesto. Per realizzare
una comunicazione efficace e’ opportuno utilizzare un linguaggio
diretto, semplice, con termini chiari il cui significato non dia adito ad
54
equivoci e che quindi risulti facilmente comprensibile; deve inoltre
risultare appropriato nel soddisfare gli obiettivi prefissati e adeguato
alla persona con cui si sta comunicando. Assumere il punto di vista
dell’altro, cioe’ mettersi nei suoi panni è una condizione
fondamentale per comunicare ed interagire in modo efficace; questa
condizione fondamentale prevede anche la capacità di comprendere
che esiste una prospettiva dell’altro diversa dalla propria, la capacità
di discriminare gli attributi di ruolo, cioè le caratteristiche specifiche
di un altro in particolare, la capacità di tenere presente la prospettiva
dell’altro durante l’interazione comunicativa. Si definisce feed-back
l’azione continua di controllo e di verifica da parte di chi comunica
dell’esito del messaggio, cioe’ che la comprensione sia avvenuta e
quindi il messaggio sia stato ricevuto; ciò chiarisce il concetto
fondamentale che la comunicazione non e’ un processo lineare, bensì
un processo circolare che viene costantemente influenzato e
modificato nel corso della comunicazione stessa e tiene conto sia dei
contenuti verbali che di quelli non-verbali. Fondamentale risulta
inoltre un adeguato atteggiamento di ascolto attivo che favorisce e
migliora in modo significativo la comunicazione: l’ ascolto consente
infatti di verificare e concordare gli obiettivi della comunicazione, di
fornire un feed-back positivo, di attribuire significato alla
comunicazione non-verbale e di mettersi nel panni dell’altro. Per
ascolto empatico si intende quella particolare capacità comunicativa
che consente di mettersi appunto nei panni dell’altro, in modo
autentico e cercando di comprendere i messaggi, i sentimenti e le
paure altrui, dal suo punto di vista e come lui li vive, mantenendo un
clima comunicativo positivo. Per concludere possiamo affermare che
il medico che è in grado di realizzare un atteggiamento partecipe,
fondato su questi principi comunicativi fondamentali, oltre ad
assolvere al suo fondamentale compito terapeutico, nel riconoscere la
legittimità delle emozioni e dei vissuti dell’ammalato, permette la
condivisione di affetti molto profondi e favorisce la fiducia nel
mondo esterno in grado di accogliere e fornire restituzioni positive.
55
LA RELAZIONE DI AIUTO 18
In considerazione della consapevolezza che il compito della
medicina non possa esaurirsi nella cura della malattia, ma debba
realizzare un approccio centrato sulla persona e sul miglioramento
della qualità di vita, la capacità di entrare in contatto con l’altro
diventa una competenza professionale fondamentale. Si è già
valutato come il concetto stesso di “rapporto professionale” sottolinei
la peculiarità relazionale dell’intervento medico e quindi l’enorme
potenzialità curativa di tale relazione, obbligandoci a considerare
l’importanza di una maggiore consapevolezza e di una adeguata
formazione alla relazione. Soprattutto in ambito oncologico dove non
sempre per il paziente il miglioramento della qualità di vita coincide
con la cura della malattia, si presenta per gli operatori sanitari la
necessità di fare i conti con i propri limiti e la necessità di recuperare
un approccio globale al paziente per realizzare al meglio una buona
relazione d’aiuto. Per relazione d’aiuto si intende una relazione che
si propone di “recare giovamento” e si instaura tra un individuo che
si trova in condizione di malessere, dovuto alla malattia fisica e
quindi ad uno stato psicologico e sociale particolare, comunque
limitante per la sua vita ed un altro individuo in possesso degli
strumenti e delle competenze utili ad alleviare la situazione di
malessere dell’altro. Una relazione d’aiuto non si può però
configurare semplicemente come una relazione intellettuale ma
prevede il reciproco coinvolgimento emotivo e la presenza di aspetti
sia coscienti che inconsci: nel campo delle relazioni umane infatti è
impossibile la neutralità e ogni incontro produce presenza e la
presenza è sempre comunicazione. Ecco perché il Medico, che
incontra il malato oncologico nelle varie fasi della malattie, oltre che
mettersi in gioco con le proprie competenze professionali e le proprie
qualità umane può avvalersi dell’approfondimento e della
condivisione di alcuni fondamentali principi di natura etica e di
18
Relazione della Dr. Marilisa Grigolon al Seminario Multidisciplinare
“Formazione relazionale in medicina: protagonista la malattia neoplastica”
Treviso, 2006, organizzato dall’ A.I.D.M. TV
56
alcune categorie concettuali, che oltre a definire in particolare la
relazione d’aiuto, hanno in realtà una validità estendibile a tutte le
relazioni interpersonali. Per stabilire una buona relazione di aiuto e
realizzare una comunicazione autentica esistono alcuni atteggiamenti
che vengono indicati come fondamentali, essi sono: il rispetto,
l’accettazione, l’ascolto, l’empatia. Il rispetto è la prima condizione
per instaurare una relazione umana, rispettare significa riconoscere
alle persone con cui entriamo in contatto una personale dignità,
intenzionalità, unicità di interpretazione del mondo, delle scelte di
valori e del progetto di vita. Il rispetto conosce e riconosce tutto
questo e si configura come un universo di atteggiamenti interiori e
pratici qualificati dal riconoscimento dell’altro come altro e come
soggetto, che ha il diritto di realizzare il suo bene nella libera
espressione del proprio essere. L’accettazione si configura come il
poter riconoscere agli altri la libertà di essere se stessi in un dialogo
libero e liberante , non valutativo, non indagatore, non direttivo, ma
comprensivo senza obbligo di costrutto né logico, né etico, né
ideologico. L’ascolto: per ogni persona che sta vivendo una
condizione di disagio è fondamentale poter parlare di sè e di ciò che
sta vivendo ed essere ascoltato; è accertato che questo bisogno è di
gran lunga superiore a quello di ricevere abbondanza di parole di
conforto, sostegno ecc.; offrire l’opportunità di parlare liberamente
attraverso un ascolto adeguato permette di ridurre il livello di
angoscia, di ansia, favorisce la consapevolezza ed aiuta a conferire
contorni più definiti ai sentimenti, alle emozioni e a certi pensieri,
avviando processi di chiarificazione talvolta risolutivi e di
cambiamento. L’empatia si identifica con la comprensione e la
capacità di dimenticare se stessi per immergersi nel mondo interiore
dell’altro e partecipare alle esperienze che egli ci comunica,
mettendoci al suo posto vedendo e vivendo le cose come lui, senza
esprimere alcun giudizio. L’atteggiamento empatico è un requisito
fondamentale per chi si prefigge di offrire una relazione d’aiuto
attraverso la propria presenza; la giusta presenza infatti è quella che
sa porsi anche alla distanza giusta, cioè che comprende e
compartecipa ma nello stesso tempo sa tenere distinta la sua
emotività, conservando così chiarezza nel valutare i problemi e le
57
eventuali soluzioni. Una modalità comunicativa e partecipe, fondata
su questi principi etici fondamentali riconosce la Legittimità delle
emozioni e dei vissuti dell’ammalato, permette la Condivisione di
affetti molto profondi e favorisce la Fiducia nel mondo esterno in
grado di accogliere e fornire restituzioni positive e si propone nel
contempo di evidenziare tutti gli elementi positivi, che possono
favorire l’accettazione e l’avvio di un percorso di speranza; consente
inoltre di aiutare la persona disorientata dalla malattia a ritrovare le
proprie “parti adulte”, di recuperare l’autonomia e di valorizzare le
concrete e reali prospettive future. Questo atteggiamento di ”aiuto”,
si pone come scopo principale la realizzazione , seppure nei limiti
imposti dalla malattia, dell’autonomia personale, della capacità
decisionale, della libera espressione di sé e la valorizzazione di tutti
quegli aspetti talvolta taciuti e non sufficientemente elaborati, che
possono di per sé migliorare l’attuale qualità di vita del paziente. Per
stabilire una buona relazione d’aiuto e realizzare una comunicazione
autentica, escludendo con il maggiore rigore possibile interventi
manipolatori o di persuasione, seppure “a fin di bene”, è opportuno
anche tenere sotto controllo alcuni meccanismi talvolta molto
spontanei e non consapevoli. Essi sono: la tendenza a interpretare( se
dice così è perché...); la tendenza a vedere somiglianze e costanti
(tutti quelli come lui fanno...; tutti quelli che hanno fatto queste
scelte...); la tendenza a dare giudizi morali o di valore ( una madre
dovrebbe...è inaccettabile che ...non bisognerebbe permettere...); la
tendenza ad innamorarsi delle proprie ipotesi o soluzioni, anche
quando esse si siano rivelate utili in talune situazioni. Esistono
invece altri comportamenti, definiti di supporto, che hanno lo scopo
di incrementare la comunicazione in un clima di comprensione; essi
sono: riformulazione, verbalizzazione, uso delle domande “aperte”,
uso del silenzio. La riformulazione consiste nel ridire e restituire la
comunicazione che abbiamo ricevuto, con le stesse o le proprie
parole, usando locuzioni del genere: “se ho capito bene…”, “mi
corregga se sbaglio…”, “mi pare di capire che…”.
La verbalizzazione: quando attraverso l’ascolto empatico si
comprendono la qualità e l’intensità dello stato emotivo relativo
all’esperienza che ci viene comunicata, la verbalizzazione consiste in
58
quell’abilità di comunicare a nostra volta quanto abbiamo percepito
con frasi del tipo “si deve sentire molto triste…”, “ti sei sentito
trattato molto freddamente…” ecc. Una modalità molto utile per
comprendere fino in fondo il pensiero dell’altro ed eventualmente
raccogliere determinate informazioni è l’uso delle domande di
“apertura”. Partendo dal presupposto che il nostro obiettivo è quello
di offrire alle persone un’opportunità di trovare le loro soluzioni e di
definire meglio anche quegli obiettivi, che non sempre sono del tutto
chiari, le domande di “apertura” si propongono di aprire uno spazio
di indagine e di riflessione che permetta di parlare liberamente e di
esprimere timori, speranze, desideri ecc. Questo tipo di domande
incoraggia la persona a descrivere a suo modo un fatto o una
situazione; rappresenta inoltre un atteggiamento mentale, che si
rivela adeguato e vincente, legato al saper rinunciare a delle certezze,
all’accettare di vedere con gli occhi dell’altro e a non smettere di
provare curiosità, di sorprendersi e magari di cercare di sorprendere
l’altro. L’uso del silenzio può rappresentare in certe circostanze, oltre
ad un momento di condivisione di tipo empatico, anche un
comportamento di supporto che favorisce ed incrementa la
comunicazione e rappresenta uno spazio offerto all’altro, perché
possa esprimere e formulare il suo messaggio nei modi e nei tempi a
lui congeniali. Per concludere: le relazioni e la comunicazione tra
persone costituiscono un terreno complesso in cui hanno libero gioco
gli elementi più diversi, dagli stili comunicativi personali alle
molteplici influenze del contesto, alle regole esplicite o, più spesso
implicite della comunicazione. Avere consapevolezza di tali
dinamiche è indispensabile per avviare una buona relazione d’aiuto.
Interagire con una persona all’interno di una relazione d’aiuto per
fare in modo che egli possa trovare la sua via per superare problemi e
difficoltà, comporta il dover abbandonare un certo tipo di spontaneità
e forse alcune, certezze per addentrarsi in uno spazio incerto in cui
cominciare a costruire strumenti nuovi.
Marilisa Grigolon
Via delle Roncole 23
31100 Treviso
59
Nedelia Minisci 19
LA CONSULENZA GINECOLOGICA ALL’ADOLESCENTE:
RUOLO DEL GINECOLOGO CONSULTORIALE 20
Lo scopo principale dei Consultori Familiari, servizi di I° livello per
la prevenzione e la promozione della salute, è quello di fornire agli
adolescenti: assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla
maternità e alla paternità responsabile e per i problemi della coppia
e della famiglia; divulgare informazioni idonee a promuovere o a
prevenire la gravidanza, consigliando i metodi ed i farmaci adatti a
ciascun caso; tutelare la salute della donna e del prodotto del
concepimento. Tra i livelli essenziali di assistenza (LEA) abbiamo
sia la promozione della procreazione cosciente e responsabile, sia
l’assistenza per l’IVG. Per tale compito il POMI identifica nei CF i
servizi di riferimento. Tra le adolescenti italiane si rileva che il 40%
ha già iniziato un’attività sessuale entro i 17 anni ed il 30% non ha
usato nessuna precauzione contraccettiva al primo rapporto ( 3-4-14);
si registrano 15.000 gravidanze all’anno , di cui 4000 vanno incontro
a IVG e circa 7000 proseguono in parto; si ha notizia di aborti
clandestini. Una corretta informazione assume ruolo di prevenzione
primaria evitando una gravidanza indesiderata ; proteggendo
l’apparato genitale dalle MST; evitando gli esiti di IVG ripetute,e
proteggendo, così, la salute riproduttiva della giovane donna .
Il ginecologo riesce ad effettuare prevenzione durante la visita
ginecologica; durante la prescrizione dei metodi contraccettivi; con
le prestazioni d’emergenza: allorché prescrive il test di gravidanza ,
o la contraccezione post-coitale; durante la consulenza e la
certificazione per l’IVG ; durante i controlli ginecologici e i controlli
19
Specialista in Ginecologia, Dirigente Medico c/o Consultorio Familiare di
Villorba ULSS 9 Treviso , Socia A.I.D.M. dal 2005
20
Relazione al Convegno Interdisciplinare a titolo “ Le fasi della
adolescenza e il ruolo della prevenzione” Treviso, 2006, organizzato dall’
A.I.D.M. di Treviso con i patrocini: O.M.C.e O. - Coordinamento Regionale
dei Collegi degli Ostetrici - F.I.M.M.G.- F.I.M.P.- S.N.A.M.I., accreditato
dal Ministero della Salute.
60
per la gravidanza. Ma per una corretta informazione agli adolescenti
è necessario offrire un’informazione/ educazione sessuale sia
attraverso i Corsi di Educazione Sessuale già a partire dalle Scuole
Medie ed Elementari e perché no, materne , in modo da non tagliare
fuori chi non prosegue un corso di studi., ma anche attraverso
consulenze individuali o di coppia sui temi della sessualità. Allorché
gli adolescenti, ma è meglio dire le adolescenti ( pochi sono ancora i
ragazzi che arrivano in C .F.) chiedono un primo colloquio vengono
principalmente: con l’amica del cuore; con il partner; in gruppo; con
la mamma che appartiene ad una generazione che ha ammesso per sé
e per le figlie i rapporti prematrimoniali e il diritto a cautelarsi contro
le gravidanze indesiderate. La richiesta di tali consulenze consente
l’attivazione di canali di ascolto per tutti quei bisogni che affiorano
in rapporto ad una sessualità vissuta. Occorre cogliere, per esempio,
le preoccupazioni sul proprio aspetto fisico, sulla normalità dei
propri genitali, su qualche difficoltà nei primi approcci sessuali ( 3),
su temi riguardanti la scelta omosessuale, su “attenzioni” o veri
abusi sessuali da parte di adulti. In molti casi, oltre che risolvere gli
aspetti clinici, occorre attivare reti di aiuto che permettano
l’elaborazione di esperienze negative verso il ritrovamento di una
sessualità sana ( 3).Tra gli adolescenti aumenta il numero dei
partners e questo ci impone di approfondire il tema delle MST, anche
quando la motivazione della consulenza verte su altri temi.
La contraccezione negli adolescenti
Un metodo contraccettivo ideale per adolescenti deve avere i
seguenti requisiti: alta efficacia, facile reperibilità, basso costo,
semplicità d’uso, protezione dalle MST, minima presenza di effetti
collaterali, possibilità di utilizzo saltuario, assenza di specifici fattori
di rischio per la salute riproduttiva, possibili benefici non
contraccettivi, minimo coinvolgimento di adulti o operatori sanitari.
E’, inoltre, necessario nella consulenza, considerare la compliance
contraccettiva, cioè la continuazione di quel metodo o la sostituzione
con altri; dare comunque informazione su tutti i metodi a
disposizione , anche in forma scritta; offrire la possibilità di contatto
per via telefonica in caso di dubbi o effetti collaterali; proporre un
61
incontro a distanza di 3-4 mesi che comprenda un colloquio di
verifica sull’accettabilità del metodo.
La contraccezione non ormonale
Rientrano in questo gruppo : il preservativo o condom ( in lattice o in
poliuretano), il preservativo femminile ( in poliuretano), il coito
interrotto, il diaframma, lo IUD, i metodi naturali. Il preservativo,
buona misura di prevenzione, è spesso utilizzato senza una
preliminare informazione per l’uso corretto che porta tra i ragazzi
ad un tasso di fallimento del 10% all’anno, rispetto a quello di coppie
più esperte che risulta essere inferiore a 2%°. E’ il contraccettivo di
scelta in caso di rischio per mst, per ragazzi con numero elevato di
partners sessuali , o in coppie non monogame. E’ una barriera
efficace contro Trico, Clamidia, Gonococco, HIV, Epatite virus,
Herpes ,HPV. Il preservativo femminile (FEMIDON ) è uscito nel
‘92 in Europa, ma solo da poco tempo è in commercio in Italia. Si
tratta di una guaina trasparente in poliuretano, che presenta due
anelli, uno più piccolo che si inserisce in vagina, prima del rapporto,
e l’altro ricopre i genitali esterni. Protegge sia dalle gravidanze che
da MST. Non provoca reazioni allergiche; ha una resistenza
maggiore del lattice; è efficace quanto gli altri metodi di barriera, e
non ha effetti collaterali; è già lubrificato; non ha necessità di
prescrizione medica ma ha ancora un costo elevato. A riguardo dello
IUD alcuni autori riferiscono che non ci sono più riserve nelle
coppie stabili sull’uso di tale metodo. Continua a non essere proposto
alle giovani coppie , se non in situazioni particolari, quali assunzioni
di farmaci antipsicotici, per esempio, non attendibilità per
l’assunzione, controindicazioni assolute alla contraccezione
ormonale. C’è necessità di visite ravvicinate subito dopo
l’inserimento, per il rischio espulsione e rischio PID. La causa più
frequente della rimozione è comunque la persistenza di
sanguinamenti.
Contraccezione ormonale
L’alta efficacia, la protezione della fertilità futura, la non interferenza
con l’atto sessuale fanno della contraccezione ormonale una scelta
valida per una coppia stabile, dopo avere escluso il rischio di MST.
62
Svantaggi: necessità di prescrizione, obbligo dell’assunzione
giornaliera , che con le nuove modalità di assunzione viene a cadere.
Le ragazze cercano una pillola sempre “più leggera“ e spesso la
lasciano per timore degli effetti collaterali. Hanno paura di aumento
di peso, soprattutto quelle che hanno forme più o meno sfumate di
disturbi del comportamento alimentare. Tale tema non deve essere
minimizzato, perché molto sentito ed ha un grosso peso all’adesione
alla contraccezione ormonale nel tempo. La Pillola contiene 15 o 20
o 30 microgrammi di Etinilestradiolo + Progestinico per 21 giorni.
L’Anello Vaginale dismette 15 microgrammi di Etinilestradiolo +
etonogestrel x 21 giorni (una applicazione per ciclo). Il Preparato
Transdermico settimanale, 20 microgrammi di Etinilestradiolo + 250
di norgestimate (Cerotto). Queste nuove modalità di assunzione
degli EP sono state accolte con molto interesse da parte delle donne.
Dalla mia esperienza appare che tra i tre metodi attualmente la fa
da padrona ancora l’assunzione per os. Paura che il cerotto si stacchi,
la necessità di toccare i propri genitali, almeno nelle ragazze alle
prime esperienze può dare fastidio. D’altro canto, l’efficacia
dell’anello vaginale e del cerotto non è influenzata da eventuali
disturbi intestinali importanti , come il vomito e la diarrea, ma si
riduce ugualmente durante il periodo di assunzione di antibiotici, per
cui , in questo caso occorre usare anche metodi di barriera.
La Contraccezione d’emergenza
Viene richiesta in caso di rottura del profilattico , quando si è usato il
coito interrotto, o non si è usata alcuna precauzione - o in caso di
violenza sessuale (2). Allorché si prescrive la contraccezione
d’emergenza ad un’adolescente occorre con precisione chiarire tempi
e modalità del rapporto presunto “ a rischio”; raccogliere una buona
anamnesi; spiegare il meccanismo d’azione e la modalità
d’assunzione; avvertire che il ciclo mestruale dovrebbe tornare più o
meno nella data attesa; dare una stima reale dell’efficacia del metodo
e rassicurare sui rischi teratogeni in caso di fallimento ( 3% ); dare
informazioni sui metodi contraccettivi disponibili per evitare altre
situazioni d’emergenza. Attualmente in Italia il farmaco più
utilizzato si presenta in confezioni da 2 pillole di 750 microgrammi
63
di Levonogestrel, che si possono assumere subito, in un’unica
somministrazione o a distanza di 12 ore l’uno dall’altra, ma entro 72
ore dal rapporto sessuale a rischio. Il Mifepristone, farmaco che
utilizzano in altri Paesi, non è in commercio in Italia. Meccanismo
d’azione principale è l’azione anti-annidamento, perché rende
inadatto l’ovulo eventualmente fecondato. Agisce durante il periodo
di pre-gestazione, che va dalla fecondazione all’impianto, durante il
quale l’uovo fecondato può essere intercettato.
Viene riportata
anche un’azione luteolitica sul corpo luteo e sul blocco
dell’ovulazione. L’efficacia è tanto più alta quanto prima si è iniziata
l’assunzione della pillola dopo il rapporto a rischio.
La prevenzione dell’I.V.G. nell’adolescente
Dal ’78 , anno in cui è entrata in vigore la legge n° 194 ad oggi, si è
osservato una notevole diminuzione del numero delle IVG nel
tempo, che viene motivata dalla maggiore diffusione ed uso dei
metodi contraccettivi, con un ruolo molto rilevante da parte dei
Consultori Familiari. Analizzando l’andamento delle IVG dal 1978
al 2005 attraverso il tasso di abortività rileviamo che il numero è
passato da 234.801 nel 1982 ( 17,2%° donne ) a 132.178 nel
2003 (9,6%°), a 138.123 nel 2004 ( 10,0%° di cui 101.392 italiane
e 37.000 straniere) , a 129.588 nel 2005 ( 9,3 %°). (Fig 1)
64
Il ricorso all’IVG ha subito un’ importante riduzione dall’82 al 2004
di oltre il 45%, soprattutto se si sottraggono dai dati le IVG
effettuate dalle donne straniere , il cui tasso di abortività è stato
stimato 3 volte maggiore di quello delle italiane. ( Decremento del
tasso del 45,9% rispetto all’82.)
Dalla Tabella dei tassi di abortività per età , 1983-2004 si nota
come dall’83 i tassi di abortività sono diminuiti in tutti i gruppi di
età, con riduzioni meno marcate ,però, per le donne con meno di 20
anni (Fig.2).
I tassi di abortività ( numero di IVG x 1000 donne feconde ) sono,
infatti, in aumento nelle giovani donne,con tassi più elevati tra i 2530 anni ,mentre sono in diminuzione, dopo i 30 anni.). (Fig.3) Dal
1995 osserviamo un leggero aumento dei tassi di abortività per le
classi di età < dei 20 anni, 20-24 e 25-29 , in diminuzione dopo i 30
anni , mentre i tassi riferiti alle giovanissime ( 15-19 anni ) hanno
superato quelli delle donne più mature di età, tra i 40-44 anni..
Incremento che la presenza di popolazione giovane immigrata con
comportamenti sessuali e contraccettivi diversi dai nostri non basta a
spiegare.( 1-9-12 ). La lettura del fenomeno è complicata dalla
persistenza, comunque degli aborti clandestini che vengono stimati
per il 2004 attorno a 20.000 casi , di cui il 90% al Sud. Dalla Tabella
del Tasso di abortività per età : confronti internazionali rileviamo che
65
al di sotto dei 20 anni abbiamo i seguenti tassi di abortività: in Italia
7,9 %° ( 2004), in Olanda 4,2 %°( 1992), nel UK 22,2%°( 2002 ),in
USA veniva registrato un tasso del 30,3 %°(1996 )
nell’ Unione Europea il tasso passa dal 12 al 25 % ° ( 2000) (Fig.4)
66
Permane differente la distribuzione italiana dei tassi di abortività per
classi di età rispetto a quella degli altri paesi industrializzati
occidentali. In questi Paesi, infatti, i valori più elevati si osservano
proprio al di sotto dei 25 anni, mentre in Italia i tassi di abortività
rimangono maggiori nelle donne delle classi di età centrali, anche se
nel corso degli anni si vanno riducendo tali differenze. In specifico
per le minori , in Italia , il tasso di abortività per il 2004 è risultato
pari a 5 per mille ( 4167 totali ). L’assenso per l’intervento è stato
rilasciato nel 69,7% dei casi dai genitori e nel 29,2% dei casi vi è
stato il ricorso al giudice tutelare. Nel Veneto nel 70,8 % dei casi
dai genitori e nel 28,1% dal giudice tutelare; manca l’assenso per
urgenza solo in 28 casi , di cui 1 in Veneto e sono state effettuate al
disopra dei 90 giorni 8 IVG ( nessuna in Veneto ). Per quanto
riguarda la distribuzione percentuale di IVG per settimana di
gestazione e per età , si osserva che tra le donne più giovani si ha
una percentuale più elevata di IVG a 11-12 settimane. Ciò potrebbe
significare un ritardo di ricorso o un accesso più difficoltoso ai
Servizi da parte delle giovani donne. La sfida attuale è quella di
offrire nuovi canali informativi, mirati sulle caratteristiche del
mondo giovanile, con particolare attenzione agli adolescenti che
vivono situazioni svantaggiate in termini sociali ( le giovani
extracomunitarie, i ragazzi tagliati fuori dal mondo scolastico),
pensando a spazi anche diversi , quali Centri Sociali, eventi
musicali, sportivi e di potenziare le offerte di consulenza
individualizzata.
Le malattie a trasmissione sessuale
I fattori di rischio delle MST ( in continuo aumento nel mondo 4-514 ) sono : l’inizio precoce dell’attività sessuale; le molteplici
esperienze sessuali; il mancato uso di metodi contraccettivi di
barriera; l’abuso e la violenza sessuale; i rapporti a pagamento e la
prostituzione; la tossicodipendenza; il turismo sessuale. In Italia ,
anche se non disponiamo di dati epidemiologici completi, il Sistema
di Sorveglianza per le MST dell’ISS ha evidenziato un 25% di
soggetti afferiti ai Centri di Riferimento per MST con età < di 25
anni , con un uso riferito di contraccettivi molto incostante e saltuario
67
(5). Un’indagine svolta in Italia dall’ISS su ragazze e ragazzi tra i
14-16 anni ha portato alla luce la scarsa conoscenza della fisiologia
della riproduzione con non conoscenza del periodo fertile del ciclo in
oltre il 60% degli intervistati. Riguardo all’esposizione ai rapporti
sessuali: il 18% ha già avuto rapporti completi. Di questi l’11% non
ha usato alcun metodo contraccettivo, e il 65% ha usato il condom .
Il 46% degli intervistati aveva avuto rapporti incompleti. Il 78% ha
indicato il preservativo come il metodo ideale di protezione per le
MST , ma solo il 54% sapeva dell’esistenza della data di scadenza
del preservativo. L’AIDS veniva riconosciuta come patologia a
trasmissione sessuale, ma solo il 58% riconosceva come tale
l’epatite e solo il 9% la gonorrea. Le buone conoscenze sull’AIDS in
contrasto con le scarse conoscenze sulle altre ben più comuni MST,
testimoniano forse un difetto di impostazione degli interventi
educativi per la prevenzione dell’AIDS con il coinvolgimento di
esperti della patologia, che hanno usato un approccio terroristico ,
settoriale e frammentato, piuttosto che esperti della promozione
della salute. La prevenzione delle MST può essere ottenuta
efficacemente solo con un approccio integrato, che parta della
fisiologia della riproduzione e da una buona relazione alla sessualità
(5). Gli adolescenti resi “informati” potrebbero costituire essi stessi i
soggetti di promozione di salute. E’ più utile attivare la discussione
all’interno della coppia in relazione alla sessualità e di negoziare
l’uso del profilattico, promuovendo così stima per sé e per l’altro
(14).
La gravidanza nelle adolescenti
In Italia si verificano ogni anno circa 15.000 gravidanze in ragazze di
età inferiore ai 20 anni. Di queste 4000 circa vanno incontro , come
abbiamo visto a IVG, e circa 10.000 all’anno continuano la
gravidanza (4). Negli anni ‘70-‘80 veniva riportato da studi condotti
su casistiche americane un maggior rischio ostetrico in queste
gravidanze . In realtà ,ad una analisi più corretta , se seguite
regolarmente non hanno evidenziato una maggiore morbilità
ostetrica , ma piuttosto dei rischi sociali. I possibili elementi di rischi
ostetrici-neonatali di una gravidanza in età adolescenziali sono stati
attribuiti a : basso numero di controlli prenatali; abitudine ad alcool,
68
sigarette e sostanze d’abuso; presenza di MST; presenza di disturbi
del comportamento alimentare o altri deficit nutrizionali; modesto
aumento di rischio di alcune complicanze quali la gravidanza molare,
il difetto del tubo neurale, il ritardo di crescita fetale intrauterina, la
pre-eclampsia; difficoltà a prendersi cura di sé e del neonato. Non è
stato riscontrato un aumento di patologie ostetriche, ma piuttosto una
diminuzione. Si presentano rischi socio-relazionali per la tendenza
a limitare le loro scelte di vita a partire dagli studi che spesso
interrompono, con relativo aumento della difficoltà d’inserimento nel
mondo del lavoro. Vi è una labilità della coppia adolescenziale con
precoce rottura del rapporto, una minore capacità nell’accudimento
del bambino, una relazione precoce madre-bambino meno
soddisfacente. Si riscontrano assenza o rottura delle relazioni con la
propria famiglia d’origine; ridotte disponibilità economiche e di
tempo della famiglia d’origine. Nelle situazioni più a rischio è
necessario ed utile creare una rete di relazioni di aiuto durante tutta la
gravidanza, il parto e il puerperio attraverso i Servizi Sociali ,
piuttosto che controlli medici in senso stretto. Molto efficace è
l’inserimento delle ragazze all’interno dei Corsi di Preparazione al
Parto dei Percorso Nascita per favorire gli aspetti informativi , ma
anche per stimolare la relazione precoce madre-bambino, la
costruzione di una relazione privilegiata con l’ostetrica che oltre che
in CF anche attraverso le visite domiciliari del post-partum possa
aiutare l’adolescente sia nell’allattamento, sia per la cura del
neonato. Rilevante è il ruolo dei Gruppi Post-Partum di Preparazione
alla Genitorialità e degli operatori, in assistenza domiciliare, che
aiutano la giovane a riconoscere e a
sostenere le nuove
responsabilità, senza trascurare la possibilità di completare gli studi e
di iniziare e mantenere una pratica contraccettiva efficace
Conclusioni
Avere le informazioni giuste per tempo aiuta ad essere più fiduciose
nelle proprie capacità di giudizio e abitua a valutare le scelte sulla
propria salute, sviluppando un’autonomia decisionale anche in
situazioni potenzialmente a rischio.
69
I genitori e gli adulti potranno essere più efficaci parlando con i
ragazzi, tenendosi informati ed aggiornati, tenendo un atteggiamento
positivo sui problemi si della sessualità, ma anche sul piacere e il
benessere , iniziando a parlare di questi temi quanto prima possibile.
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Firenze 2000
15. Italiasalute.it, Sesso e Sessualità, Adolescenti : in fatto di sesso più mature di
mamma e nonna
Nedelia Minisci
Via P.M.Pennacchi 13
31100 Treviso
70
Raffaela Peron 21
L’OSTETRICA ACCANTO ALL’ADOLESCENTE 22
L’ appropiatezza dell’ intervento dell’ostetrica nei programmi di
educazione del SSN è sancita all’articolo 1 comma 2 D.M. 740 che
recita: “ l’ostetrica/o, in quanto di sua competenza, partecipa agli
interventi di educazione sanitaria e sessuale sia nell’ambito della
famiglia che nella comunità”. Poiché al diritto è bene accompagnare
una specifica competenza, ho ritenuto opportuno la costruzione di
una specifica formazione professionale attraverso Seminari,
Convegni e Gruppi di Studio, ma anche facendo ricorso ad un
training personale per riflettere (volgere indietro) sulla mia
sessualità, etica, morale, credo religioso ecc e per ‘ripensare la mia
adolescenza ’. Ho ritrovato come mi vedevo fisicamente, i
sentimenti, le paure, la rabbia, di cosa mi vergognavo, di chi avevo
fiducia, che cosa speravo, per chi provavo amore, se avevo un’amica
del cuore, che cosa mi aiutava, e ancora quale era la parte del corpo
che non mi piaceva, come mi vestivo e se avevo un idolo. Non è
stato semplice, ma le esperienze di riattivazione dei ricordi e di
riflessione guidata mi hanno consentito di migliorare la capacità di
ascoltare e comprendere i sentimenti, che si celano anche dietro le
parole. Nell’incontro con gli Adolescenti ( 13-15 anni) continuo a
coltivare la congruenza tra la comunicazione verbale, paraverbale e
analogica corporea perché rende efficace l’informazione. Gli
adolescenti colgono perfettamente questi aspetti per cui il linguaggio
deve essere chiaro, onesto e neutro : rispondere alle loro domande, il
più delle volte allusive e indecifrabili, con l’uso appropriato delle
parole, della voce e della mimica, è necessario per aprire nuove
porte, specialmente quando si esplicitano temi inerenti la sessualità.
Imparare a decodificare il linguaggio degli adolescenti dà la
possibilità di dare risposte più proporzionate. Traghettarmi nel mare
aperto, alla ricerca dell’isola ‘il mondo adolescenziale’ in cui è
21
Laurea in scienza ostetrica. Ostetrica Consultoriale c/o ULSS 2 Veneto
Relazione al Convegno Interdisciplinare a titolo “ Le fasi della
adolescenza e il ruolo della prevenzione”, Treviso, 2006,A.I.D.M. Treviso
22
71
vietato calpestare le aiuole , ossia il loro spazio vitale-territorio,
perché nelle aiuole ci sono varie specie di fiori in crescita, è stata ed
è un’esperienza personale di ricerca, per consentire un approdo
prudente per essere accolta nell’isola. Questa plasticità si traduce in
rispetto dell’altro che si sta de-finendo e si sta chiedendo: chi sono,
cosa sono,cosa faccio, che destino avrò?. Il processo di
identificazione che ha inizio alla nascita attraverso l’attribuzione del
sesso, del nome e successivamente attraverso l’esperienza del fare,
del capire e del riconoscere, è un lavoro in continuo divenire. Da
Arlecchino vestito di ogni colore, a un certo momento diventa di uno
solo quando afferma ‘Io Sono’ e la necessità degli adolescenti di
nominarsi, di scrivere il loro nome in cento modi alla ricerca di sé,
tra affermazione e solitudine, solitudine e dolore. Non è vero che è
l’età spensierata, come dice un vecchio proverbio, dolore che non è
fisico, ma dolore senza riferimento preciso legato al fatto di esistere
quel giorno, in quell’ora in quell’esperienza. E’ l’età della
metamorfosi del sentire e della difficoltà del corpo nel mondo.
L’adolescente vorrebbe scappare da un corpo che non è più stabile,
che è in movimento verso una crescita a ‘ pezzi’. Quando si entra
nelle classi capita di dire ‘aprite le finestre c’è odore!’ si coglie
spesso imbarazzo, ma è l’odore di corpi in crescita, non lo dirò mai
più. Quando interagisco con l’adolescente devo anche sapere che egli
ha orecchie per vedere e gli occhi per sentire, ha grande attenzione
all’ascolto, ha un occhio acuto e luminescente: vede anche quello che
noi adulti non vediamo: in classe qualcuno sembra non ascoltare e
scarabocchia o guarda le immagini con indifferenza…..
Nell’incontro con i giovani, nella scuola, ho riscoperto le emozioni
e i sentimenti di rabbia, di vergogna, di speranza che caratterizzano
l’universo ‘adolescenza’. Rabbia fino alla collera e al desiderio di
vendetta, di trasgressione, comportamenti violenti , rifiuto delle
regole della famiglia, della scuola e dello Stato, sono frequenti in
questo periodo della vita, con i relativi rischi. La vergogna nasce e si
sviluppa rigogliosamente. L’adolescenza sospinge a ‘mettersi in
mostra ’ per conquistare visibilità sociale; induce a scoprirsi
mettendo in campo tutto fino allo scatenamento di dolorose crisi di
vergogna inconfessabili perché ritenute caratteristiche del mondo
72
infantile. Crisi di vergogna si accompagnano anche alle molestie
subite in ambito familiare o scolastico. Arrivare ad andare oltre la
vergogna è una necessità dell’adolescenza perchè le condotte sociali,
il corteggiamento, la seduzione, la costruzione della coppia e il
debutto sessuale, non siano inibite. Gli adolescenti tendono a dare
prova di coraggio perché hanno paura, paura della morte: non sono
più onnipotenti, come nell’infanzia, scoprendo che il corpo non è più
difeso e che si può ammalare. Quello che viene chiamato “delirio di
onnipotenza “ contiene già i germi di una presa di coscienza della
loro vulnerabilità, che si manifesta nella necessità di dimostrare di
non lasciarsi dominare dalle paure proprie del mondo infantile. La
speranza è al primo posto tra gli affetti, è decisiva per il benessere o
il disagio durante l’adolescenza. I bambini si illudono, fantasticano,
anche gli adolescenti lo fanno ma loro imparano anche a sperare,
ossia a formulare ipotesi su eventi futuri. L’adolescente non aspetta il
futuro lui è ‘qui e ora ’ ; non serve dirgli studia per un domani, egli
ne è consapevole: è necessario, invece capire le risorse che ha. Il
futuro senza speranza viene inteso dall’adolescente come un eterno
presente. La morte della speranza in adolescenza è un evento
intollerabile, ha conseguenze letali. Sostenere la speranza, quindi, è
un compito fondamentale per l’adulto che l’accompagna. Durante gli
interventi in classe cerco di dare spazio a tutti, di confidare sulla loro
parte buona, in particolare cerco di individuare quelli più silenziosi e
ritrosi, oppure quelli maggiormente irrequieti, e li invito ad aiutarmi,
a partecipare, e li ringrazio quando mi aiutano. Attraverso il
coinvolgimento e le esperienze riuscite, si sostiene la speranza, e si
attenuano la rabbia e il desiderio di vendetta. L’informazione
sessuale che arriva dai mass-media elimina vecchi tabù, ma ne crea
di nuovi: la finzione diventa norma di comportamento, si creano
aspettative esagerate nei confronti della sessualità determinando
insicurezze e ansia da prestazione. La pubblicità fornisce
un’immagine del sesso eccitante e senza alcun rischio che favorisce
la precocità nei rapporti sessuali con le conseguenze di gravidanze
indesiderate, di rapporti istintivi e senza prevenzione dove la
prestazione è più sul fare che sull’essere in relazione. Quando tutto
ciò accade, la società, dopo averli spinti al sesso precoce, grida allo
73
scandalo. Gli adolescenti vivono in questo difficile scenario
mondiale in cui, accanto ai vari progressi tecnologici, si diffondono
notizie sempre più allarmanti di conflitti, di insicurezze personali e
collettive per il dilagare della violenza, della criminalità , del
terrorismo e delle guerre. Altro aspetto inquietante di questo scenario
è il controllo della cultura popolare, delle reti ciberspaziali e
geografiche da parte dei “gate keepers” che fa salire la produzione
culturale al primo livello della vita economica, mentre informazione
e servizi scendono al secondo posto, con il risultato che si è passati
da ‘cosa posso acquistare che non ho ’ a ‘cosa posso provare che
non ho ancora provato’. Gli obiettivi della consulenza nella Scuola e
nel Consultorio sono : valorizzazione dei cambiamenti del corpo
(ristrutturazione dell’immagine corporea) attraverso la conoscenza
delle componenti fisiologiche della sessualità; l’implementazione
delle conoscenze sulla tutela della propria e altrui salute e
promuovere stili di vita che evitino le situazioni a rischio;
l’implementazione delle capacità di effettuare scelte responsabili,
quando lo sviluppo cognitivo ed emotivo non si è ancora consolidato;
il riconoscimento del senso della gravidanza e del parto. Per il
raggiungimento di questi obbiettivi è necessario attivarsi per
informare sui punti di riferimento istituzionali, tra cui lo spazio
“dedicato” presso il C.F. , a cui rivolgersi nei momenti di bisogno,
sostenendo comunque l’importanza della famiglia; informare sui
cambiamenti puberali perché il 70% dei ragazzi e il 40% delle
ragazze arrivano alla maturità biologica e sessuale senza essere stati
preparati a comprendere e a governare le trasformazioni che
avvengono nel loro corpo; prevenire la gravidanza precoce e le
M.S.T.; decodificare le domande reali rispondere alle loro domande
con affetto; destrutturare le false credenze; lasciare un segno emotivo
e cognitivo partendo dall’esperienza, per promuovere una riflessione.
Gli strumenti per la realizzazione delle azioni congrue al
perseguimento degli obiettivi sono: l’nformazione con spiegazioni
ed esplicitazioni delle domande in forma verbale e/o scritta; la
discussione di gruppo; il gioco di ruolo.
Dopo trenta secondi dall’ingresso nella classe ti hanno già
inquadrata, hanno preso le misure e gettato il guanto come in un
74
duello medievale. L’adolescente sembra avere uno speciale talento
per irritare facendo ricorso anche a battute … ‘di che cosa ci parla?
professoressa!! ma è sposata, ha figli? a lui non interessa, perché è
frocio, ecc. La difficoltà iniziale è coinvolgerli per conquistarne la
fiducia; se sentono che il proprio recinto non è invaso e che l’adulto
può essere un punto di riferimento sicuro, lasciano emergere
curiosità, perplessità e domande. Non riescono ad ascoltare per più
di 15/20 minuti, in posture rigide e atteggiate: i movimenti dei
maschi sono a scatti e grossolani, mentre le ragazze si presentano
più attente e controllate. La lettura delle loro domande deve essere
professionale, il calcare la domanda e la derisione dei compagni li
ferisce e li chiude in un silenzio invalicabile o al contrario in reazioni
provocatorie e poco governabili. Il programma di educazione alla
sessualità vuole mettere la persona in grado di maturare la
consapevolezza dell’integrità psico-fisica e fornire gli strumenti per
fare scelte responsabili. Ci sono delle cose che non si possono
insegnare, bisogna lasciare spazio all’immaginazione e al mistero,
non possiamo rovinare il gusto della scoperta, della sorpresa, ma
accompagnarli a vivere pienamente la sessualità. Durante la
consulenza in C.F. al Gruppo e al Singolo si registrano richieste di
chiarificazione in merito a difficoltà nei rapporti sessuali e in merito
a gravidanza non desiderata, al ritardo mestruale, alla
contraccezione e alla gravidanza.
La consulenza ostetrica all’adolescente, sia che avvenga in ambito
scolastico che nello ‘spazio dedicato’ in CF, diventa occasione unica
per una efficace prevenzione, in quanto si esplica senza eccessiva
medicalizzazione, ma con una puntuale e paziente informazione sugli
elementi dell’anatomia e fisiologia che caratterizzano i cambiamenti
tipici di questo periodo. Il rapporto fiduciario che si va a strutturare
permette il passaggio non solo di informazioni, ma di momenti
fortemente formativi.
Raffaella Peron
Via Scuole 12
32032 Feltre (BL).
75
Lenio Rizzo 23
GLI OPERATORI “PSI” CONFRONTATI ALLA
PSICOPATOLOGIA DELL’ADOLESCENZA.
SPUNTI PER UN LAVORO DI PREVENZIONE 24
Pemessa
Ciascuno che si trovi ad operare in campo socio-sanitario è portato a
pensare la prevenzione in rapporto sia alla propria formazione
teorica che al proprio operare concreto.
Per quanto riguarda il primo punto, farò solo qualche accenno nel
seguito di questa breve presentazione; per il secondo, devo ricordare
che le mie considerazioni derivano dalla pratica di responsabile di
un’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile, incardinata nel
Dipartimento Ospedaliero Materno-Infantile dell’Ospedale regionale
di Treviso.
I componenti di tale U.O. si occupano delle diverse questioni che
interessano i soggetti a partire dalla prima infanzia (talvolta dal
concepimento) e fino alla maggiore età, cercando la massima
collaborazione delle famiglie, degli insegnanti delle scuole
frequentate dagli utenti e, quando ne è il caso, dei colleghi che
operano coi soggetti in età adulta.
L’idea di prevenzione del disturbo psicopatologico è quindi per
noi molto estensiva e interessa buona parte dei nostri interventi,
talvolta anche quelli rivolti ai soggetti in tenera età e le loro
famiglie.
23
Direttore Struttura Complessa di Neuropsichiatria Infantile ULSS 9 TV;
Psicoterapeuta; Professore a contratto di “Psicopatologia dell’età evolutiva”
c/o Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria infantile e di
“Neuropsichiatria dinamica dell’infanzia e dell’adolescenza” c/o Laurea
specialistica in Psicologia clinico dinamica, Università di Padova.
24
Relazione al Convegno Interdisciplinare a titolo “ Le fasi della
adolescenza e il ruolo della prevenzione” Treviso, 2006, organizzato
dall’A.I.D.M. Treviso, accreditato dal Ministero della Salute
76
Teorizzare una prevenzione
Per quanto riguarda il primo punto citato, quello cioè del rapporto tra
concezioni teoriche e prevenzione del disturbo psicopatologico in età
evolutiva, gli inizi dell’importante dibattito si ritrovano intorno alla
metà del ‘900, quando, insieme a fatti storico-sociali sconvolgenti, si
è presentata ai clinici e ai ricercatori una serie di osservazioni e di
dati delle scienze sviluppatesi all’epoca. Da un lato, il
riconoscimento dell’importanza delle condizioni concrete di
esistenza delle famiglie (sul piano economico, abitativo, lavorativo e
sociale in genere) ha portato importanti studiosi della psicologia
infantile, quali Spitz, Bowlby, Robertson e Anna Freud, ad
ipotizzare, dopo i disastri causati dalla 2° guerra mondiale, ampie
riforme in ambito sanitario, educativo, psicoterapeutico e relazionale,
centrate sui bisogni emergenti dell’infanzia. Dall’altro, l’accrescersi
delle esperienze e delle conoscenze in ambito psicoanalitico, aveva
condotto una delle pioniere di tale approccio in infanzia, Melanie
Klein, ad ipotizzare l’utilità di estendere la pratica analitica ad ogni
bambino, a scopo preventivo, per favorire uno sviluppo psicologico
più equilibrato, una volta che egli possa affrontare ed elaborare i suoi
conflitti psichici. Attualmente, queste due posizioni risultano
piuttosto ben integrate tra loro, secondo l’ottica multidimensionale
che considera il soggetto umano nella sua globalità bio-psico-sociale,
in cui prendono rilievo sia fattori di rischio che fattori di resilience
(capaci, cioè, di sostenere il soggetto nel recupero di un percorso
regolare). Si tratta allora di dare la giusta importanza al
temperamento e alla personalità (concetti che richiederebbero
un’attenta rivisitazione), come pure ai funzionamenti fisiologici,
neuro-endocrini, neuro-cognitivi e comportamentali ma anche alle
profonde mutazioni delle istituzioni familiari, educative, sociali: tutti
questi fattori, certo importanti e tra loro interagenti, non ci fanno
tuttavia perdere di vista l’inderogabilità, e spesso la priorità, dell’
analisi psicopatologica dei processi sottostanti dei comportamenti
individuali e sociali, anche nei casi che evidenziano disturbi delle
condotte.
77
Una pratica sempre più “precoce” di prevenzione
Su questi fattori e con questi fattori, di rischio e di resilience, noi
andiamo ad operare, sia entro l’ospedale che nel territorio. Il
tentativo che noi cerchiamo di mettere in atto è quello di agganciare
quanto più precocemente possibile le situazioni in cui specifici fattori
di rischio si presentano con maggiore probabilità, talvolta con
evidenza, perché si possano stabilire più adeguate condizioni
relazionali tra i partner fondamentali della diade, della triade e dei
gruppi “naturali” che includono il soggetto. Noi oggi conosciamo, ad
esempio, dalla letteratura e dall’esperienza acquisita, il rapporto tra
alcune modalità di legame esperite in prima e seconda infanzia, in
particolare un tipo di legame genitori/figlio di tipo insicuroambivalente (o, ancor più, disorganizzato) e quanto avviene una
volta che il figlio diventa adolescente: si vanno a stabilire rapporti
difficili, conflittuali, contrassegnati dall’incapacità di separarsi, dalla
dipendenza, e al tempo stesso, dai ripetuti agiti, quali i rifiuti attivi, le
fughe, gli allontanamenti affettivi e gli atti aggressivi auto ed eterodiretti. Vi sono studi su popolazioni numerose di soggetti nati con un
basso peso e a lungo ricoverati dopo la nascita, tra i quali viene
reperita una maggiore prevalenza di disturbi strutturati in infanzia e
in adolescenza, con maggiore prevalenza anche di sintomi
psicopatologici. Allo scopo di intervenire precocemente, risulta
allora centrale il nostro costante collegamento con i reparti del
Dipartimento Materno-infantile: già in ostetricia stabiliamo i primi
contatti, ed eventualmente una prima relazione di aiuto, con quelle
coppie che stanno attraversando l’esperienza di una gravidanza
difficile, quando si possono prevedere intoppi nel processo della
genitorialità (quali certe condizioni problematiche nella
presentazione psicologica della madre, od una situazione patologica
riconosciuta nel feto, oppure ancora la nascita di un bambino
malformato con immediato risentimento sul piano dell’umore di uno
o di entrambi i genitori,…). Si tratta qui di situazioni in cui la realtà
di un’esperienza complicata coinvolgente la gravidanza tutta, o la
perinatalità, rischia di avviare un percorso in cui le angosce che i
genitori vivono per il figlio tendono a deformare le rappresentazioni
78
di figlio. Di conseguenza, la relazione tutta tra gli stessi genitori e il
bambino porta la situazione a rischiare la spirale dei disturbi delle
funzioni (sonno, alimentazione, tappe di sviluppo, linguaggio in
particolare) fino talvolta ad importanti disarmonie e più tardi anche a
turbe maggiormente strutturate. Nella stessa direzione va il lavoro
svolto in collegamento con la Patologia neonatale, nel sostegno delle
coppie genitoriali di bambini nati fortemente prematuri e che vanno
incontro a lunghe ospedalizzazioni e a frequenti complicazioni. In
questi casi, lo scopo evidente e dichiarato, incontrando le domande
eventualmente sempre diverse degli adulti coinvolti in queste
relazioni così difficoltose ad instaurarsi, è quello di favorire lo
stabilirsi di legami (anche fisici) tra i componenti di una triade così
duramente colpita fin dall’inizio del suo costituirsi: anche perché
appare sempre più evidente che il tipo di relazione che si andrà ad
instaurare in seguito, risentirà, oltre che dei pattern di attaccamento
dei genitori, di questi precoci contatti e, ancor più, delle possibilità di
elaborare le diverse problematiche psichiche inerenti alla nascita
potenzialmente traumatogena.
E quando i bambini crescono?
Per quanto riguarda la collaborazione con il reparto di Pediatria, si
potrebbe affermare che una buona parte degli interventi che noi
facciamo, nella tradizione della “pedopsichiatria di liaison”, sono
orientati anche in una prospettiva di prevenzione dei potenziali
successivi disturbi: in particolare, ogni volta che ci viene chiesto di
occuparci di un bambino che ha operato una scelta del sintomo
passando per il corpo, il fatto di proporre degli scambi attraverso la
parola, a lui stesso, ai suoi genitori e anche ai curanti, apre ad una
diversa modalità di affrontare, ora e in un altro eventuale momento,
con nuovi e più elaborabili strumenti, le difficoltà nei rapporti, il
fallimento di un progetto, eventualmente il conflitto interno. Questo
mi sembra particolarmente importante se ci riferiamo ad alcune
forme di relazione genitori/figlio nelle quali il disturbo del legame
reciproco appare ben collegato alla rilevanza assunta dai disturbi
attuali del figlio e in grado di contrassegnare tutto un futuro di
79
rapporti intra-familiari e sociali. Farò in proposito più avanti
specifico riferimento al caso delle patologie limite dell’infanzia.
Merita, inoltre (a proposito di dipendenze) almeno un cenno il lavoro
che conduciamo all’interno del Dipartimento Materno-infantile con i
soggetti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare,
anoressia in particolare, che seguiamo nel corso di ricoveri anche
prolungati e anche con trattamenti successivi al tempo del ricovero: è
evidente che in questi casi l’ottica prevalente è quella terapeutica, per
quanto riguarda la condizione somatica compromessa e lo stato
psichico spesso anche deteriorato sul piano dell’umore e di
importanti funzioni, ma risulta fondamentale lo sforzo di riavviare
una dialettica delle relazioni e dei desideri, duramente provati dalle
caratteristiche intrapsichiche dei soggetti e dai risvolti della patologia
sul piano dei rapporti sociali.
Il bambino e la scuola. La dipendenza e l’ ipercinesia, quali varianti
di uno stesso quadro
Tra tutte le problematiche dei soggetti che frequentano la scuola,
assumono oggi rilievo quelle che si presentano con aspetti
comportamentali eccessivi, siano essi isolati o si accompagnino a
specifiche difficoltà neuropsicologiche, tali da configurare talvolta
un disturbo dell’apprendimento. Secondo gli orientamenti finora
espressi, il bambino che risulta, ad una valutazione dei
comportamenti, un soggetto ipercinetico, deve essere secondo noi
riconosciuto nei processi che organizzano la sua vita mentale, via via
seguendo le modificazioni che contrassegnano le tappe importanti
della sua storia: il processo di individuazione-separazione, il conflitto
edipico e la fase di latenza, prima di giungere alle modificazioni
particolari dell’adolescenza. E’ così che, ben prima che un quadro
patologico si sia costituito nella sua forma caratteristica, alcuni
bambini già nel corso della prima infanzia presentano disarmonie
evolutive con disturbi della serie strumentale e cognitiva, associati
con manifestazioni della sfera affettiva. Essi ricordano alcune
caratteristiche dei quadri delle “Patologie limite” (Misès), situazioni
oggi frequenti, più numerose che non i casi classificati come
80
Autismo e Psicosi precoce da un lato, come pure rispetto ai disturbi
di tipo nevrotico. Tale problematica “limite” emerge dietro sindromi
dominate dalla depressione, dai disturbi delle condotte, dalle
disarmonie cognitive. Ci si rende dunque ben conto della diversità
dei sintomi predominanti; quindi le sintomatologie di superficie non
sono affatto sufficienti ad orientare verso una specifica diagnosi (di
patologia limite), tanto più che per lo stesso bambino le
manifestazioni spesso si modificano con il tempo.
Le difficoltà di una diagnosi precoce sono inoltre aumentate dalle
posizioni di un ambiente familiare che è spesso coinvolto, a livello
transgenerazionale, in alcuni aspetti dello stesso ordine.
Questi genitori operano un diniego della sofferenza del loro figlio e
giungono più volte a chiedere la consultazione solo su pressione di
terzi, insegnanti od operatori sociali, quando i disturbi si sono resi
ben evidenti e non è più possibile tenerli sotto silenzio.
Date queste condizioni, soltanto un approccio psicopatologico ad
orientamento dinamico consente di dare la giusta importanza ai
criteri delle patologie limite, che qui esporrò in forma schematica:
1. Le precoci carenze di appoggio sono la regola, non essendo stato il
bambino sufficientemente contenuto né seguito.
Si tratta di carenze che si manifestano spesso a seguito della
dissociazione della famiglia o altri eventi in cui vi è stata una ripetuta
rottura dei legami. In questi ultimi anni si è ugualmente messa in
rilievo l’influenza dei parametri socio-economici che caratterizzano
le condizioni di precarietà o di vera e propria esclusione sociale:
diversi lavori mostrano come aspetti clinici osservati a carico dei
bambini che appartengono ad ambienti massicciamente sfavoriti
corrispondano, in modo predominante, alla problematica delle
patologie limite. Più recentemente ancora, degli studi sociologici
condotti su famiglie ricomposte o monoparentali mostrano la
crescente frequenza di disturbi caratterizzati dall’eccitazione, dal
ricorso agli agiti, dalla somatizzazione e che riguardano, appunto, dei
soggetti che rientrano tra le patologie limite, che non accedono ai
normali conflitti del periodo edipico e che perciò non possono
entrare in una efficace fase di latenza. Appare inoltre essenziale
puntare ad un’approfondita valutazione della personalità dei genitori,
81
delle loro interrelazioni di coppia, considerando proprio il posto che
viene dato al bambino all’interno di quella data famiglia. In seguito,
tenderanno a ripetersi delle esperienze in cui il bambino, insieme
all’insicurezza, sperimenta la discontinuità. Alcuni studi condotti
sulle famiglie mettono invece in rilievo il controllo estremo
esercitato sul figlio da parte della madre, attraverso una relazione in
cui traspaiono i suoi fantasmi di morte e un atteggiamento inconscio
di sollecitazione incestuosa; questo, ovviamente in un contesto in cui
la gran parte dei casi sono di sesso maschile. Il padre, a sua volta, si
trova spesso messo in disparte dalla moglie tramite manovre che egli
accetta, dal momento che le sue personali carenze non gli consentono
di assumere una funzione di protezione e di separazione, come
d’altra parte egli non appare in condizione di costituirsi per il figlio
quale supporto identificatorio. Queste componenti comportano gravi
carenze nell’investimento libidico e narcisistico del bambino da parte
del suo ambiente, da cui derivano fratture e distorsioni nella
costruzione dei supporti della vita mentale e nell’elaborazione della
sua sessualità infantile.
2. A partire da ciò, i difetti di elaborazione della funzione di
contenimento tendono ad occupare un posto importante (in
conseguenza del mancato sostegno materno nella costruzione degli
abbozzi della sua vita mentale). Il bambino si trova in difficoltà
particolarmente nella costruzione di un proprio sistema paraeccitatorio che avrebbe il compito di proteggerlo dagli eccessi di
eccitazione di origine interna ed esterna. Egli risulta allora
minacciato dall’irruzione di movimenti pulsionali dagli effetti
potenzialmente disorganizzanti: se ne protegge attraverso la messa in
atto di scissioni dell’io, sostenute da difese arcaiche, da cui deriva un
predominante funzionamento con modalità a falso sé, del tutto
caratteristico delle patologie limite. Su queste basi, si fanno avanti
serie minacce sul funzionamento del preconscio e sui rapporti tra
processi primari e secondari; il bambino non riesce a mantenere
sufficientemente il pensiero logico e riflessivo, risultandone così
continuativamente carenti le capacità di mentalizzazione.
Da questo discende, per tutti questi bambini, una caratteristica
prevalenza delle manifestazioni corporee, anche attraverso gli agiti: è
82
proprio attraverso ripetuti comportamenti nel registro della motricità
che il bambino cerca quella riduzione delle sue angosce e delle sue
tensioni che non è in grado di ottenere attraverso un’elaborazione
interna.
3. Altre carenze si collegano alle precedenti nel registro della
transizionalità. In questo campo, l’osservazione mette facilmente in
evidenza delle manifestazioni significative: è ridotta l’importanza
degli oggetti transizionali e il bambino fa ricorso ad oggetti tra loro
interscambiabili. In questo contesto, al bambino manca l’attitudine a
giocare da solo, dapprima in presenza poi in assenza della madre. Il
bambino non trova piacere nelle attività ludiche.
Questi tratti mostrano bene che, a seguito del carente accesso allo
spazio potenziale di Winnicott, risultano alterati alcuni fondamenti
della stessa vita psichica che abitualmente sostengono il piacere che
si applica al funzionamento mentale e che costituiscono le basi per il
raggiungimento dell’autonomia attraverso l’esercizio del pensiero.
Infatti, è ben noto come il gioco abbia anche la funzione di far
padroneggiare psichicamente l’assenza: le carenze in questo campo
assumono una posizione centrale nelle organizzazioni limite, in
particolare attraverso l’incapacità del bambino a pensare la madre
assente. Ogni perdita di legame sperimentato nella realtà suscita una
minaccia insostenibile e spinge il bambino a ristabilire il suo potere
tramite i tentativi di controllo così caratteristici della clinica
dell’ipercinesia.
4. Altri aspetti che riguardano il lavoro di separazione si collegano
strettamente ai precedenti, nel quadro dell’accesso alla posizione
depressiva descritta da Melanie Klein. Tale posizione risulta appena
abbozzata e non pienamente elaborata: incapace di affrontare a fondo
i suoi conflitti interni, il bambino non è in grado di integrare le
angosce depressive e di separazione che vengono in primo piano, in
un movimento in cui la vulnerabilità alla perdita d’oggetto diventa il
problema centrale. Queste componenti contribuiscono allo stabilirsi
di un perdurante legame anaclitico tra il bambino e la madre e la
depressione occuperà un posto centrale sul piano dinamico, con una
sintomatologia che varia da un caso all’altro e da un momento
all’altro. In questo contesto, il ricorso a condotte agite costituisce un
83
tentativo di denegare la sofferenza psichica; e questo attraverso la
rimobilizzazione delle difese maniacali che apporta al bambino un
controllo sui suoi affetti e sui suoi oggetti. Altre carenze riguardano
il narcisismo e le si può reperire lungo tutta la storia del bambino.
Le esigenze di “tutto e subito” si esprimono imperiosamente nel
bambino instabile e lo fanno agire secondo modalità che gli
garantiscono il possesso di una scena da cui egli esclude gli altri
attori potenziali. Facendo ciò, attraverso il suo controllo
sull’ambiente, egli parallelamente organizza
“un transfert di
competenze attentive” (J. Menechal) che sposta su altri – i genitori,
gli insegnanti – il compito del controllo dei suoi gesti. In questa
“alleanza introiettiva”, l’altro (l’adulto presente nella situazione)
diventa prigioniero di una posizione in cui la sua attenzione deve
rimanere costantemente attiva, in modo da proteggere il bambino da
pericoli potenziali. Al contrario, l’attenzione del soggetto instabile si
sposta costantemente da un oggetto all’altro, con lo scopo
predominante di una cattura ripetitiva, destinata ad alimentare una
pseudo-identità, assolutamente illusoria.
Di fatto, attraverso i suoi atteggiamenti da dominatore assoluto, egli
cerca di controllare le origini di un’insoddisfazione interna
intollerabile e attiva, nei confronti di altri, delle modalità coercitive
che ripetono specularmene quelle che sono state in precedenza
esercitate su di lui. Inoltre, con i suoi comportamenti più provocatori,
il soggetto instabile sembra in attesa di interdetti che giochino per lui
un ruolo contenitivo di fronte ai rischi di debordamento.
Il bambino resta così preso entro legami arcaici, cercando di imporsi
nella sua lotta contro la sottomissione all’altro ed operando un
rovesciamento di posizione in rapporto alle costrizioni che ha subito
nelle fasi precoci dello sviluppo.
Qualche osservazione sulla tema della prevenzione dell’instabilità in
rapporto alla scuola
Nel corso della loro evoluzione, le instabilità legate alle patologie
limite includono, come abbiamo visto, svariate manifestazioni:
angosce, depressione, opposizione; vanno ugualmente menzionati i
84
disturbi del linguaggio orale e scritto e i disturbi cognitivi che si
incontrano sotto forma di “insufficienze disarmoniche” (Misès) o di
“disarmonie cognitive” (Gibello). In questo contesto, delle difficoltà
scolastiche sono spesso osservate; che si collegano a fattori
molteplici la cui relativa importanza varia da un caso all’altro.
Queste caratteristiche andranno a modificare anche l’evoluzione dei
diversi quadri clinici e sono la base degli approcci preventivi e
terapeutici:
1. L’evoluzione a lungo termine delle patologie limite avviene secondo
modalità tra loro molto diverse. Per le forme che comprendono
l’instabilità, ricordiamo che le espressioni psicomotorie sono
influenzate dai rimaneggiamenti dell’adolescenza; tuttavia, nella
grande maggioranza dei casi, la sintomatologia comportamentale
rimane dominante, prendendo spesso la forma degli agiti (Jeammet)
con disturbi gravi delle condotte, dipendenza da sostanze, anoressia
o bulimia compulsiva, manifestazioni depressive e auto-distruttive.
Questi disturbi si collegano all’attacco narcisistico, alla minaccia di
perdita dell’oggetto, alla depressione, alle carenze nel campo del
pensiero, cioè alle componenti instauratesi durante l’infanzia.
2. Dal punto di vista preventivo e curativo, gli interventi sono orientati
dai criteri psicopatologici su esposti. Il bambino si trova all’interno
di un quadro familiare contrassegnato da componenti trans
generazionali in cui si perpetuano le carenze delle istanze interne, per
cui si richiede una particolare attenzione. Le attività sono di regola
multidimensionali e allargate; rapportate all’originalità di ogni
singolo caso, rispettando alcuni principi essenziali: il confronto fra
modelli teorici, l’uso di strumenti diversificati, condivisi e discussi
fra tutte le persone implicate nella cura del bambino e del suo
ambiente familiare. Su queste basi, nel quadro di un dispositivo a
rete, è lasciata una grande libertà per la scelta e l’adattamento
progressivo dei mezzi terapeutici, educativi, pedagogici, sociali.
Lavorando con la scuola media superiore
Per ciò che riguarda gli interventi di prevenzione direttamente a
contatto e/o all’interno della Scuola media superiore, la mia
85
esperienza trevigiana si è fino ad ora specificata nella collaborazione,
attiva ormai da più di tre anni, con il gruppo degli operatori dell’
AULSS che intervengono nei CIC, sportelli per un primo ascolto,
presenti all’interno di tutte le scuole superiori di Treviso centro e
degli altri comuni che ne fanno parte. Si è trattato di incontri più o
meno regolari, in cui si discutono le questioni che i diversi
componenti del gruppo intendono di volta in volta portare: una volta
può essere un primo colloquio avvertito come particolarmente
impegnativo sul piano dei problemi presentati dallo studente venuto
a colloquio, un’altra volta le difficoltà maggiori possono riguardare
le dinamiche della classe venutesi a determinare a partire dalla
presenza di un soggetto con problemi particolari, un’altra volta
ancora vengono portate alla riflessione comune delle questioni
inerenti alle dinamiche istituzionali: a chi compete cosa, ad esempio
quali interventi siano da proporre o da fare direttamente nel caso di
uno studente che ha manifestato serie difficoltà per la sua esistenza,
mentre la famiglia mostra di non esserne ancora al corrente oppure di
non considerarle con la dovuta importanza. Più recentemente,
essendosi costituita una “rete” tra diversi Istituti superiori, finalizzata
anche ad apportare elementi comuni di formazione, sia degli
insegnanti che degli operatori dell’AULSS che vi sono impegnati, i
responsabili dell’iniziativa mi hanno proposto di svolgervi una
funzione sia nel Comitato scientifico che nel promuovere un ascolto
attivo da parte degli operatori scolastici, confrontati con un ruolo che
non è certo il loro specifico e che dovrebbe complessivamente
rientrare nelle finalità della “promozione della salute”.
Cosa prevenire e come?
Le considerazioni cui ho più sopra accennato a proposito dei diversi
momenti in cui si esplica la nostra pratica nelle diverse situazioni di
intervento diretto e indiretto, nei reparti o fuori, indicano come
abbiamo ricavato dall’esperienza (oltre che dalla letteratura) che quei
soggetti che in età adolescenziale agiscono le loro difficoltà in un
modo più o meno direttamente “distruttivo” contro sé o contro gli
altri, sono stati spesso da piccoli vittime del troppo: o troppo poco
86
investimento (da cui le famose “carenze affettive”, avvertite
dolorosamente) o troppo investimento, eventualmente ambivalente,
conflittuale, marcato dal senso di colpa. Da ciò, deriva un tentativo
costante di liberarsene, di disimpegnarsi rispetto agli investimenti
genitoriali, quali possono essere avvertiti anche, ad esempio,
all’interno della scuola, per l’interesse dimostrato da un insegnante
che viene caricato di funzione sostitutiva genitoriale. Ciò che questi
soggetti mostrano di non sopportare è proprio la loro dipendenza, in
senso reale o ancor più “affettiva”, legata al desiderio che essi hanno
dell’altro, alla fame di rapporto, che proprio in quanto tale viene
rifiutata, non restando allora altra soluzione che rompere, secondo un
rapporto proporzionale al grado di investimento che essi avvertono
verso di loro. La prossimità, a lungo desiderata dal giovane magari
nelle età e nelle fasi precedenti e talvolta ancora ricercata nella
fantasia di una relazione ideale, è avvertita in adolescenza come una
vera e propria minaccia esistenziale, per cui la ricerca risulta quella
di una continua regolazione della distanza. Pena il sentirsi cadere
nella depressione, che equivale a un sentimento di disistima, alla
percezione della propria reale dipendenza dall’altro e delle proprie
fragilità narcisistiche, in cui talvolta si innestano scarse capacità di
mentalizzare, con maggiori o minori difficoltà di elaborazione
linguistica. A questo talvolta cercano di supplire le difese maniacali
e i fenomeni più o meno agiti di onnipotenza. Anche le pratiche di
auto-eccitazione sensoriale (come ad esempio le scarificazioni o le
pratiche di sport e di attività estreme e rischiose) sembrano assolvere
al compito di mantenere attivo un senso di continuità di esistenza,
come pure il ricorso alle sostanze eccitanti o stupefacenti comporta
spesso dei rischi, legati anche ai modi per procurarsele, cui il
soggetto diventa dipendente almeno altrettanto che alle sostanze
stesse: si tratterebbe allora di una dipendenza ai passaggi all’atto,
come per taluni all’auto-aggressività inerente alla specifica stessa
pratica.
87
Che fare? Spunti per una “prevenzione primaria” nella scuola
Non considero qui la questione del “reperimento” dei soggetti a
rischio, che ritengo a scuola possa avvenire prestando attenzione ai
bruschi cambiamenti degli studenti, sia sul piano individuale che di
gruppo, nei loro comportamenti e nel modo di porsi (ad esempio
disinteresse e anche assenteismo da parte di chi si mostrava fino ad
allora presente e attento) e, comunque, dando, sia da parte degli
operatori degli “sportelli” che degli insegnanti, la massima
disponibilità al confronto e all’ascolto. Mi soffermerò, invece, su
alcuni punti che giudico essenziali e sui quali mi permetto di
sollecitare chi opera all’interno della scuola stessa, a partire
“dall’esterno”, da considerazioni tratte dal lavoro clinico con gli
adolescenti e con i loro genitori.
- Ricordare l’importanza fondamentale che nel lavoro con gli
adolescenti assumono le dinamiche, proprie ad ogni rapporto umano,
legate alle identificazioni, che un rilievo particolare hanno quando le
cose avvengono in gruppo e negli scambi che coinvolgono dei
giovani che dipendono da adulti che hanno rispetto ad essi una
funzione educativa e di insegnamento.
- Non dimenticare mai l’importanza che ha il corpo per i ragazzi di
questa età e, quindi, tenere bene in conto le vicissitudini che esso
presenta, ma anche i dubbi e le preoccupazioni che comporta per i
giovani: gli interrogativi sulla normalità fisico-psichica e sulla
sessualità ne sono solo alcuni degli aspetti più eclatanti!
- Nel corso delle ricerche sui temi “età specifici”, gli adulti non
dovrebbero puntare, né particolarmente né tanto meno in modo
esclusivo, sul “negativo”, sottolineando cioè tutti i rischi che esistono
e che sono facilmente alla portata dei nostri ragazzi; essi dovrebbero
cercare piuttosto di animare le potenzialità presenti, sia con
l’insegnamento curriculare che con altre proposte formative, spesso
attivate nelle nostre scuole e capaci di attirare l’interesse di giovani
assetati di novità e di mettersi alla prova in campi che sentono più
vicini alle loro esperienze attuali e personali.
- Puntare ad attività che in qualche modo coinvolgano i genitori, che
potranno così, in un lavoro almeno in parte condiviso con i propri
88
figli, affrontare alcune loro questioni legate ai primi anni di vita del
figlio: ad esempio le angosce di morte e di abbandono, cui si
collegano, come ricordato più sopra, un certo numero di agiti da
parte dell’adolescente stesso. Questo impegno dovrebbe aiutare a
riannodare i diversi fili di una storia che è certo individuale ma che è
anche familiare, sociale e culturale.
- Gli adulti dovrebbero sempre mettersi in relazione tra loro,
ovviamente parlandosi e provandosi a fare dei progetti, dando
quindi di ciò esempio agli allievi. Attraverso la capacità che essi
dimostrano di stabilire legami, essi evidenziano anche che ciascuno è
diverso dagli altri e che proprio per questo è possibile ed importante
che gli uni e gli altri comunichino (questo fenomeno fa il paio con la
ricerca dell’adolescente di costruirsi attraverso differenziazioni).
- Qualora se ne avverta la necessità, per esempio di fronte agli agiti
che, come la dipendenza, si dovrebbero ascoltare come una
domanda, per non lasciare l’adolescente solo di fronte al compito per
lui difficile di chiedere aiuto, bisogna essere in grado di “portarlo” ad
incontrare qualcuno, un terzo che funga possibilmente da mediatore,
che sia, a seconda dei casi, un educatore od uno psicoterapeuta.
BIBLIOGRAFIA
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Cramer B., Palacio-Espasa F., La pratique des psychotherapies mères-bébés, PUF,
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Misès R., Le patologie limite dell’infanzia, Masson, Milano, 1996.
Soubieux M.J., Soulé M., Psichiatria Fetale, Franco Angeli, Roma, 2007.
Lenio Rizzo
c/o Neuropsichiatria infantile
Ospedale Civile
31100 Treviso
89
Sara Stefania Tabbone 25
LE PAROLE DELLA CURA 26
Ringrazio l’A.M.M.I. dell’invito alla conferenza che ha organizzato
per trattare ciò che tutti vogliamo: una continuativa attenzione alla
qualità della relazione tra operatori sanitari e con i pazienti, pur nel
rispetto dell’economia e dell’organizzazione aziendale.
L’aspettativa del medico di una specifica formazione relazionale per
ottimizzare la comunicazione con colleghi e pazienti è disattesa
dalle istituzioni universitarie e ospedaliere. “La riunione di reparto e
di equipe ” del personale sanitario degli ospedali e dei distretti è uno
dei pochi presidi per tale formazione quando favorisce la circolarità
della comunicazione, il concepimento e la condivisione di idee, di
riportare le osservazioni, di confrontarle ed analizzarle, di mettere a
punto decisioni di cambiamento e di unificare i diversi risvolti della
funzione curante in un progetto coerente e condiviso. Queste riunioni
possono portare a sviluppare capacità di prestazione eccellenti
quando il coinvolgimento degli operatori è coerente e univoco; i dati
clinici e l’informazione relativa alla diagnosi, alla prognosi e alla
fase della malattia del paziente circolano; il rapporto tra curanti non
è influenzato dalla disparità di conoscenze, ma è improntato alla
condivisione delle responsabilità, nel rispetto delle differenze dei
ruoli e delle competenze, e alla libertà di critica; e infine quando il
tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e all’ascolto è
riconosciuto tempo di cura. Purtroppo sono invece frequenti le
riunioni che portano allo smarrimento in lunghe e inutili discussioni,
in cui si ingenerano confusione , frustrazione e malumore, che
portano all’esonero dall’assumere impegni o scelte difficili, dall’
25
Psichiatra e Psicoterapeuta di matrice psicoanalitica, di formazione
gruppoanalitica, socio ordinario della Società Gruppo Analitica Italiana
(S.G.A.I.), libera professionista in Treviso.
26
Relazione all’incontro con la cittadinanza a titolo “L’umanizzazione in
sanità come obiettivo importante da perseguire” Treviso, 2005, organizzato
dall’ A.M.M.I. di Treviso
90
accettare cambiamenti, con grave danno per gli operatori mentre i
pazienti, sempre attenti alle vicende dei sanitari, captata la
conflittualità, faticano a mantenere il rapporto fiduciario, con
inevitabili riverberi sull’esito della cura. L’atteggiamento critico di
chi giudica i cattivi risultati dei servizi sanitari dove accade ciò è
senz’altro legittimo e può essere a volte utile quando riesce a
sollecitare l’intervento di consulenti esterni per promuovere qualche
cambiamento, senza irrealistiche aspettative,
attraverso una
supervisione delle dinamiche di gruppo e/o dell’organizzazione del
lavoro, invece di fare ricorso alla rassegnazione. L’ attenzione alla
qualità della relazione tra operatori e con i pazienti , nel rispetto
dell’economia e dell’organizzazione sanitaria, è curata anche dai
medici di famiglia che però, a volte, sono costretti ad affrontare
decisioni, rapporti e trattamenti in navigazione solitaria. Le loro
difficoltà sono meno conosciute e poco studiate. Alcuni hanno
abbandonato “la navigazione solitaria” organizzando il lavoro in
strutture che albergano vari ambulatori, con sala di attesa e con
personale in comune. Questa soluzione, denominata medicina di
gruppo, oltre a consentire un notevole risparmio finanziario,
permette un confronto, nell’ora e qui del paziente, con colleghi
altrettanto motivati, e la gestione del servizio con copertura di tutte le
fasce orarie grazie a interscambi di sostituzioni e reperibilità. Altre
interessanti alternative adottate dai medici di famiglia, per migliorare
l’attenzione ai pazienti, per potenziare il servizio e favorire la
collaborazione tra colleghi, sono la medicina di associazione ( 3 o
più medici operano in stretto coordinamento, in sedi diverse
nell’ambito dello stesso distretto) e la medicina di rete per cui i
medici comunicano in rete virtuale e possono gestire fra di loro le
necessità del paziente, per via telematica.
Sospendo di trattare la relazione tra operatori e con le istituzioni di
riferimento per andare al rapporto paziente/medico, a partire dalla
Carta di Firenze, presentata a Palazzo Vecchio, il 14 aprile dell’anno
in corso, che al punto 3 recita: “ l’alleanza diagnostico/terapeutica si
fonda sul riconoscimento delle rispettive competenze e si basa sulla
lealtà reciproca, su un’informazione onesta e sul rispetto dei valori
della persona”. Della lealtà e del rispetto dei valori della persona
91
deve poterne godere anche il sanitario, che si trova a volte
ingiustamente accusato di mala-pratica. Purtroppo molti si ritrovano
incattiviti contro i medici e ad impegnarsi fino allo spasimo nella
dimostrazione che non hanno agito con competenza. Ciò accade
sempre più frequentemente, come anche accade frequentemente che
le diatribe sostenute da “pretese di guarigione e di salute a tutti i costi
“ dei medici e dei pazienti di oggi, diventino ricercato oggetto di
contesa tra avvocati e tra periti, inevitabile oggetto di “notizia” per i
giornalisti, piuttosto che oggetto di meditazione. Dell’umanizzazione
in sanità dovrebbe goderne anche al medico. Eppure diventa sempre
più difficile soffermarsi a pensare che forse tra quel medico e quel
paziente non si è strutturato un rapporto di fiducia, una reciprocità di
costruzione d’amore per la vita, una sana complicità a garanzia del
non accanimento terapeutico: ciò per motivi intrinseci alla identità
culturale di uno o di entrambi i soggetti in relazione, e comunque
per la solitudine di entrambi, in un sistema organizzato con tempi, in
luoghi e con aspettative, che non favoriscono la costruzione
dell’alleanza terapeutica. Voglio qui ricordare l’ illusione dell’uomo
di oggi che considera la tecnica come il rimedio per rendere, infine,
perfetta la sua strutturale imperfezione biologico-cognitiva.
L’ onnipotenza del medico, guaritore a tutti i costi, e l’aspettativapretesa del paziente di guarigione a tutti i costi, sempre più presenti
nella nostra società , nell’incontrarsi, fanno precipitare entrambi
nello scontro e nel fallimento. Sappiamo però che è possibile una
relazione riparativa, che riconosce il limite: è a questa relazione che
vorremo che i nostri figli aspirassero nello scegliere la facoltà di
medicina, e non alla possibilità di guadagno e di prestigio che ‘fare’
il medico, quando va bene, può consentire o al potere sulla vita e
sulla morte. E’ alla collaborazione con gli operatori sanitari che
vorremo che i nostri figli fossero educati a partire dalla scuola e non
alla pretesa della salute dai medici. Educare i figli alla salute come
patrimonio di tutti costruito con l’impegno di tutti, e di tutte le
istituzioni a partire da quelle governative ed economiche, è volere il
loro bene. L’impegno per la vita prevede la malattia non come
condanna per una colpa originaria ma come evento della fallibilità
della specie, da accompagnare con scienza e coscienza e senza
92
pretesa. L’impegno per la vita, prevede la morte come evento del
naturale accadere dell’uomo, da accompagnare senza accanimenti,
ma dolcemente. Per accompagnare serve il confronto, ma anche la
cortesia. Il confronto tra operatori sanitari, porta anche all’abitudine
al confronto con il paziente e con i suoi familiari, che così possono
entrare come parte attiva nel processo di cura. Per questa via il
medico non solo raccoglie notizie utili per la diagnosi, propone
orientamenti di comportamento per la cura, riceve sostegno nelle
decisioni, ma anche favorisce un clima relazionale che gli consente
di raggiungere l’obiettivo sanitario possibile ma anche un ritorno di
valorizzazione personale e di gratitudine del paziente. E la cortesia?
Credo sia uno tra i compiti sostanziali dell’operatore sanitario: come
impegno teso a creare benessere, attraverso una immedesimazione
orientata. I bambini di oggi non sono educati alla cortesia. E sì,
perché non è una dote naturale che uno possiede. La cortesia e una
capacità che si sviluppa attraverso quel veicolo così spesso trascurato
che è il sentimento. Ora capita che ai bambini insegniamo a
mangiare, a dormire, a parlare; ammiriamo i loro sprazzi di
intelligenza, le loro intuizioni ma poco ci curiamo della qualità del
sentimento che in loro si forma e talvolta non si forma. “E la ragione
va cercata nel fatto che sono sottoposti a troppi stimoli che la loro
psiche infantile non è in grado di elaborare. Stimoli scolastici, stimoli
televisivi, processi accelerati di adultismo, mille attività in cui sono
impegnati, eserciti di baby-sitter a cui sono affidati, in un deserto
affettivo dove passano
ordini, insofferenza, poco ascolto,
scarsissima attenzione a quel che nella loro interiorità vanno
elaborando. Quando gli stimoli sono eccessivi rispetto alla capacità
di elaborarli, al bambino restano solo due possibilità : o andare in
angoscia, o appiattire le risonanze interne dell’esperienza, il sentire.
L’appiattimento del sentimento solitamente non è avvertito perché
l’intelligenza non subisce per questo alcun ritardo. A volte avviene,
che in una riuscita sordità del sentire, meno influenzato
emotivamente dal rapporto con gli altri, il bambino diventi più
studioso, quasi geniale. La tonalità dell’anima a bassa emotività e a
scarso sentimento è qualcosa che si va diffondendo tra i giovani di
oggi, che di converso diventano sempre meno cortesi, mentre
93
acquisiscono valori di intelligenza, investiti nella competitività delle
prestazioni, con arrivismo quando non addirittura con cinismo”
(liberamente tratto da U.Galimberti, 2005). Riflettere sulle
connessioni tra educazione dei primi anni di vita nella scuola, nella
famiglia e nel gruppo di pari, e carenze relazionali nell’esercizio
delle professioni , nel mondo di oggi, ci può aiutare a promuovere
nella scuola , nelle università, negli ospedali attività di formazione
per meditare il proprio fare cercando di arricchirlo di una buona
dose di indispensabile umiltà, di capacità di gestione della
comunicazione e di cortesia nel rapporto con gli altri. Vorrei che le
madri ricordassero un po’ più spesso ai figli di essere cortesi con
l’anziano, di salutare il vicino, di esprimere liberamente il proprio
malessere, non per invaderne il mondo, o pretenderne l’immediata
risoluzione, ma per costruire possibili vie di positivo sbocco, con
spirito di cooperazione. Vorrei che tutti ci impegnassimo a
riconoscere che tra medico e paziente si struttura una relazione
finalizzata ad un progetto che radica in bisogni personali di entrambi:
il paziente ha bisogno del medico per continuare ad esistere, al
meglio della salute possibile, ed il medico ha bisogno di un felice
esito del rapporto terapeutico con il paziente per continuare ad
esistere quale professionista. Questa interdipendenza va ricordata
agli studenti in medicina oltre che ai pazienti. Concludo proponendo
una riflessione: sulla responsabilità delle Università e altre agenzie
scolastiche nella formazione dell’operatore sanitario sempre più
tecnicistica e meno umanistica; sulla necessità che la formazione alla
comunicazione e all’informazione venga inserita nell’educazione di
base e permanente dei professionisti della sanità; sul ruolo dell’
Ordine professionale in materia di valorizzazione della capacità di
comunicazione e relazione del medico, nell’ambiente di lavoro; sulla
responsabilità delle ULSS nella selezione ed osservazione in itinere
del personale sanitario (manager e curante), e nella gestione della
formazione in medicina sempre più orientata alla diagnostica, alla
terapia farmacologia o chirurgica, alle tecniche di assistenza,
piuttosto che alla formazione socio-culturale, alla capacità di ascolto
(come capacità di sentire e non solo di udire), e alle capacità di
accoglienza e accompagnamento dei pazienti, per la realizzazione del
94
progetto salute; sulla necessità di tempo per consentire all’operatore
sanitario di vivere la relazione con l’altro in prima persona. Questo
tempo è previsto nei protocolli di intervento dell’organizzazione
sanità?; sulle riunioni di equipe (reparto), specchio della relazione
intersoggettiva tra operatori sanitari, come risorsa di addestramento
al confronto per l’affinamento tecnico-scentifico ma anche per
l’alleanza terapeutica con il paziente e per l’ integrazione operativa
tra colleghi e collaboratori ; infine, sulla formazione delle giovani
generazioni al confronto e alla cortesia, a partire dalla famiglia.
Ebbene, nell’incontro con voi, ho trovato come completare il
‘titolo’ del mio contributo: “ Le parole della cura: confronto e
cortesia”.
VIOLENZA CONTRO LA DONNA TRA LE MURA
DOMESTICHGE 27
La violazione dei diritti umani fondamentali che si verifica ogni
volta che una donna viene maltrattata è un fenomeno trasversale,
addebitabile a uomini di varia età ed estrazione socio-economica e
culturale: è
ormai provato che
anche un alto livello di
scolarizzazione non modifica le strutture caratteriali e
comportamentali violente. Sulle cause e sulle motivazioni per cui le
donne subiscono violenza in famiglia, i ricercatori hanno ancora
molto da indagare: forza e debolezza coesistono nella vita delle
donne mentre la violenza si pone come problema maschile che gli
uomini non sanno valutare a pieno come tale. Ciò è storicamente
provato anche dal fatto che solo a partire dal 1975 viene di fatto
abolita l’autorità maritale, ovvero la liceità, da parte del coniuge, di
fare uso di “mezzi di correzione e disciplina” nei confronti della
propria moglie; che l’anno 1981 vede scomparire dal diritto “il
delitto d’onore” e “il matrimonio riparatore”, che metteva l’uomo al
27
Relazione della Dr. S. Tabbone alla cittadinanza durante la tavola
rotonda a tema “ Violenza in famiglia: società, istituzioni e tutela dei
diritti”, Treviso, 2005, organizzata dal Soroptimist International Club di
Treviso
95
riparo della condanna per il reato di stupro; e che dobbiamo attendere
il 1996 perché il reato di violenza carnale diventi reato contro la
persona. Nella famiglia nucleare di oggi la violenza è per lo più
agita dal coniuge, mentre per il passato nella famiglia estensa era
agita genericamente dai maschi conviventi di varia età e ruolo. Le
violenze riferite dalle donne, che accompagno quale psicoterapeuta
in un percorso riparativo/riabilitativo, sono agite prevalentemente
con minacce, menzogne, tradimenti, chiusure comunicative,
limitazioni della libertà, pedinamenti. Frequenti sono le percosse, gli
schiaffi, i pugni oppure il controllo della gestione della vita
quotidiana e la privazione dello stipendio. Meno lamentato è l’abuso
sessuale nell’approccio di coppia che in genere è riferito all’essere
obbligate a subire lo stesso tipo di umiliazioni e di violenze
rappresentate in film e riviste pornografiche. Apparentemente gli
individui violenti variano dall’essere freddi, rigidi, ossessivi e critici
all’essere passivi,infelici e disorganizzati. Eppure hanno molto in
comune da un punto di vista emotivo: l’essere inclini a periodi di
ansia intensa punteggiati da esplosioni di rabbia violenta. Benché i
loro bisogni di dipendenza siano molto radicati e forti, sono
straordinariamente diffidenti e incapaci
di creare rapporti
intimi:piuttosto cercano conferme in rapporti con persone deboli o
con sottoposti, con cui possono sentirsi più cautelati.
Progressivamente la violenza
di questi soggetti si rivolge,
direttamente o indirettamente, verso altri componenti deboli del
nucleo familiare. Nella maggior parte dei casi, si tratta dei figli,
anche molto piccoli. Può trattarsi di un maltrattamento diretto (fino
all’abuso sessuale) oppure del coinvolgimento emotivo nella
situazione violenta della coppia, da cui non possono più essere difesi.
Una improvvisa percezione della sofferenza dei figli, a lungo negata,
a volte è lo spunto di avvio di una richiesta di aiuto della donna,
oltre all’emergere di sofferenze personali tra cui ripetuti attacchi di
panico, sintomi ossessivo-compulsivi, disturbi del comportamento
alimentare e depressivi. A partire dalla prima, a volte ambivalente e
confusa, richiesta di aiuto, è possibile avviare un lavoro formativo
che implica sia passaggi concreti ( difficili quando si tratta di
cambiare casa, lavoro, di ristrettezze economiche, di tutela legale dei
96
figli ecc) che passaggi psicologici e simbolici in un percorso
complesso attraverso una ricostruzione dell’immagine di sé e
dell’immagine del proprio mondo relazionale, verso il ritrovamento
della dimensione affettiva per una riparazione progettuale di sé.
Molte coppie arrivano a separarsi e a divorziare, ma pochi riescono a
superare non solo quanto è accaduto ma anche l’insita istanza a
ripetere. I risultati migliori sono possibili quando c’è il sostegno di
realtà territoriali integrate, con operatori del pubblico e del privato
sociale capaci di intervenire a favore dei soggetti coinvolti nella
violenza, a partire dagli aspetti più concreti. Nel racconto dei miei
pazienti, è possibile trovare un dato confermato da statistiche più
ampie: la coincidenza dell’inizio dei maltrattamenti con alcuni
passaggi significativi della relazione di coppia, che mettono in crisi
equilibri di per sé precari. Tra le occasioni segnalate trovo il
matrimonio, la nascita di un figlio o l’uscita di un figlio da casa e il
cambiamento di lavoro. Questa coincidenza ci chiama a riflettere
sulla possibilità che, alla radice dei comportamenti di violenza
dell’uomo in ambito domestico, alberghino una difficile
differenziazione da relazioni simbiotiche primarie e un non risolto
legame di dipendenza. L’orrore che proviamo nei riguardi degli
uomini che hanno comportamenti violenti e il rifiuto che proviamo
per chi ne consente l’occultamento ci è mitigato oggi dal conoscere
sempre meglio il tipo di infanzia che i soggetti adulti coinvolti hanno
avuto. Benché sia inevitabile inorridire di fronte a certe azioni, noi
psicoterapeuti ci adoperiamo per curare le ferite psicologiche,
vecchie e nuove. Soprattutto cerchiamo di individuare e costruire vie
per prevenire lo sviluppo di modelli relazionali violenti in nuove
famiglie. Alle origini del nostro essere ed apparire al mondo siamo
tutti “cuccioli di uomo”, siamo tutti in una “cuccia” più o meno ricca
e calda, appagati dal latte e da una carezza, oppure angosciati
dall’assenza , anche se solo temporanea, di nutrimento e di gesti
accudenti. La creazione di noi stessi (autopoiesi) prende inizio dalle
nostre doti innate e iniziatiche della mente (protomentali),
nell’incontro con la gente e le circostanze dell’ambiente,con il
mondo che ci accoglie e anche ci determina, in un percorso
97
indefinitamente aperto di formazione. Il tutto avviene attraverso
molecole e cellule e dunque nel biologico-corporeo che ci appartiene.
Nel divenire si costituiscono differenti modelli strutturali della mente
e dei codici di relazione, in positivo e negativo, anche rispetto alla
vita amorosa. Tutti, comunque possediamo, dagli albori all’ultima
ora della
vita, infinita potenzialità di emancipazione dagli
assoggettamenti e di apertura al cambiamento. Chi condivide questa
filosofia di mondo, riconosce che in ogni soggetto è presente la
fallibilità ma anche la capacità di recupero e riabilitazione, la
capacità di crearsi e tornare a crearsi, in modo riparativo e
progettuale anche dopo esperienze di violenta devianza. Nella
considerazione di quanto fin qui espresso propongo di guardare
all’uomo che agisce violenza contro la donna quale persona capace
di cambiamento; so di toccare un argomento scottante, che può non
essere gradito alle donne che hanno subito violenza. Ribadisco che
non trovo giustificazione alcuna per la violenza alla persona, a un
gruppo oppure a un popolo. Ma questa sera voglio spendere un po’
del tempo a mia disposizione per parlare agli uomini che picchiano le
donne, e accoglierli nella loro improprietà di cultura che trova nella
loro intima natura e storia supporto e potenziamento. Accogliere non
significa accettare, così come comprendere non significa condividere
o giustificare, ma porsi con disponibilità riflessiva, di osservazione e
interrogazione, alla ricerca di senso di un fatto, un evento, un
fenomeno, per accompagnarlo verso un divenire positivo. Lo studio e
l’attuazione di interventi di prevenzione, recupero e riabilitazione
sono i fini di chi si pone nella dimensione del comprendere. Non tutti
gli esseri umani hanno la fortuna di incontrare, nel corso della loro
maturazione affettiva, le condizioni relazionali precoci che
permetteranno loro di accedere ad una organizzazione della
personalità sotto il primato dell’amore.
Alcuni uomini finiscono col vivere condizioni di sovvertimento della
struttura psichica nei rapporti tra rappresentazione ed esperienza,
ricordi e vita vissuta, emozioni e concetti che le esprimono,a partire
da una deprivazione di cure,in un universo relazionale abbandonico,
crescendo in società dove domina la cultura della guerra,
nell’indifferenza alla sofferenza degli altri e nella sopraffazione dei
98
deboli. Questi soggetti segnati da modalità pervasive di instabilità
delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e
dell’umore,possono arrivare ad odiare, punire e nel contempo
cercare la parte debole di sé nell’altro (donna o bambino), con
marcata impulsività. Molti degli uomini che hanno agito violenza
contro una donna sono già sulla strada di un positivo cambiamento,
e forse qualcuno è qui tra noi. Sappiamo, però, che tanti altri sono
immersi nella ripetizione, mentre la sofferenza, il dramma personale
e familiare continua, inesorabile fino a ché una donna, con il
coraggio di attraversare tutto il dolore dell’esperienza o spinta dalla
disperazione, arriverà a dire BASTA. Per questo basta delle donne
noi vogliamo e dobbiamo lavorare, un basta che le salva e aiuta gli
uomini a cambiare. La donna che arriva a dire basta va sostenuta
perché si ritrovi, si liberi dall’assog-gettamento alla vergogna e dalla
colpa in cui sovente precipita nel corso degli accadimenti di coppia;
va aiutata a riparare le lacerazioni prodotte nel suo mondo interiore
affettivo e relazionale, a volte radicate in esperienze infantili di
abuso, attraverso l’ asservimento e l’abbandono. Questo aiuto non
può esercitarsi solo con la solidarietà, con la difesa in ambito
giuridico, con aiuti finanziari e di accoglienza logistica protetta.
L’aiuto di ricostruzione della capacità d’amore, verso un
cambiamento della struttura relazionale, va ricercato con la
consulenza di persone a ciò preparate e deputate. I bambini che
hanno visto, che hanno udito, anch’essi coinvolti nel segreto
familiare, vanno aiutati per riattivare quei processi di crescita
affettiva e dell’autostima anestetizzati dall’angoscia. Per questi
bambini il futuro può riservare la malasorte di una ripetizione, in
comportamenti violenti contro se stessi o altri da sé, o in una
sofferenza psicologica che si cristallizza e poi si manifesta in forme
sintomatiche d’ interesse psichiatrico. Anche per loro non serve
compatimento o consolazione, dannosi nell’impatto con la loro
sofferenza interna, ma autenticità di affetto e vicinanza, e un aiuto
psicologico e/o psicoterapeutico altamente qualificato.
Il BASTA della collettività si costruisce con la prevenzione oltre che
con l’assistenza alle persone direttamente coinvolte nella
problematica della violenza in famiglia. Il BASTA di noi tutti radica
99
nell’ educazione al sentimento dei nostri figli. La cultura non
violenta e di costruzione di pace si organizza a partire dai primi anni
di vita nella famiglia e nella scuola, nei gruppi di coetanei. Nella
natura umana la tendenza a trattare gli altri nello stesso modo con cui
noi stessi siamo stati trattati è profonda; in nessun periodo questa
tendenza si manifesta così chiaramente come nei primissimi anni di
vita. I genitori e gli educatori che accompagnano la crescita dei
bambini sono chiamati a tenere conto del fatto che certi caratteristici
schemi di comportamento sociale, alcuni promettenti per il futuro,
altri minacciosi, si stabilizzano precocemente. Individuiamo sempre
meglio, nel comportamento di un bambino o in quello che dice,
dettagli che sono semplicemente i duplicati delle modalità con cui
quel bambino stesso è trattato. I bambini maltrattati spesso sono
riconoscibili per un tipo particolarmente sgradevole di aggressione,
che è stato chiamato molestia: si tratta di un comportamento che
sembra avere come unico scopo di fare esprimere un disagio alla
vittima, sia essa un adulto che accudisce o un altro bambino. Questo
comportamento non è mai presente nei bambini che hanno genitori
affettuosi e premurosi; essi esprimono generalmente un interesse
quando un altro bambino soffre e spesso si muovono per consolarlo.
Alcuni bambini maltrattati possono anche mostrare una sensibilità
insolita verso i bisogni degli adulti e soprattutto dei genitori.
Purtroppo hanno imparato, a spese di un’equilibrata crescita
affettiva, che ci si deve prestare alle pretese degli aggressori dando
attenzione continua ai loro desideri, per evitare il peggio in un
ambiente domestico, da cui è legittimo attendersi amore e sicurezza e
che invece si pone come mondo isolato e fuori della legge in cui
vengono praticati maltrattamenti fisici e psicologici, a volte
perpetrati fino alle sevizie. E ora una breve triste carrellata, a
testimonianza della connessione tra violenza subita e violenza agita e
da cui emerge che la donna può diventare complice e/o strumento
emanativo del potere violento di un uomo, per schivare da sé la
violenza che ricade sul soggetto più indifeso quale figlio/a.
Luisa: 11 anni; padre alcolista e abusante, la madre subisce vari
maltrattamenti. Lei tenta il suicidio. Vengo a conoscenza della sua
triste vicenda, attraverso il racconto di una sorella, mia paziente, che
100
conserva le tracce delle violenze a cui ha assistito da piccola nei
rituali compulsivi di controllo che le impediscono ogni tipo di
relazione intima con uomini.
Alessandra: 27 anni; “ io non volevo andare in bagno con mio padre,
ma mia mamma non capiva. Volevo denunciarlo, ma avevo paura di
non essere creduta. Temevo che lo licenziassero. Credo sia toccato
anche a mio fratello… per degli accenni, non ne abbiamo mai parlato
in modo esplicito. Vorrei che pagasse tutto, ma ho paura…che si
vendichi…che torni a picchiare la mia mamma.”
Renata: 40 anni; dopo otto mesi di sedute di psicoterapia racconta di
avere subito per anni, dall’età di 6 anni, l’abuso sessuale di uno zio
che sostituiva il padre. Ogni tentativo di ribellione rientra davanti
alle minacce di lui e della madre. Si sposa presto. Dice “l’ho fatto
per uscire dall’inferno ma poco dopo mi ritrovo con un marito
violento e manesco. Subisco per anni anche la sua violenza, finchè
non prova a picchiare anche il bambino. Oggi ho un nuovo
compagno, ma il mio corpo non esiste, mi è estraneo…mio figlio
chiede carezze e coccole che da me non escono, non ne sono
capace…”
Maria: 39 anni; a sette lascia i nonni nel Veneto per raggiungere i
genitori emigrati, gelatai in Germania. Il padre ‘se la prende’ subito.
Quando a 18 anni torna in Italia, scopre il mondo ‘di fuori’.
“Credevo che la normalità fosse la mia, invece no, non succedeva a
nessuna delle mie amiche… Impazzisco …nessuno mi può
toccare…non lo sopporto. Mia madre ancora oggi continua ad essere
picchiata da mio padre”. Il vissuto/sentimento fortissimo della totale
sudditanza e impotenza, dell’esperienza sconvolgente, espropriative
del subire violenza rimane radicato, come un imprinting, e può
sempre riemergere come paralizzante o come coazione a ripetere, là
dove si presenti una situazione che evochi identica intensità di
minaccia e violenza ( anche solo immaginata) e si costituisca con le
stesse polarità. La violenza genera violenza e nella famiglia la
violenza tende a perpetuarsi di generazione in generazione. In ogni
creatura che subisce violenza fisica e/o psicologica, rimane il
persecutore interno, ben più potente e pericoloso perché pronto ad
incarnarsi ad ogni nuovo incontro. Offrire vicinanza e vigilanza
101
nell’evoluzione dei giovani per la prevenzione delle violenze è il
dovere di tutti. Le donne che non hanno ancora potuto dire “basta”
devono sapere che hanno diritto ad essere aiutate e che, solo se
saranno aiutate, potranno aiutare i loro figli. Ma come esercitare
questo diritto se le politiche volte a contrastare il fenomeno della
violenza , leggi favorevoli alle donne, buone pratiche di pedagogia
orientata alla soluzione non violenta dei conflitti, tardano ad essere
tradotte in interventi propizi per una cultura della pace? Ecco perché
è necessario impegnarsi nella denuncia della violenza che ci
circonda, a volte mascherata da atteggiamenti protezionistici, e
respingerla e nel contempo, continuare a battersi per l’esercizio dei
diritti civili attraverso l’investimento di risorse umane e finanziarie
nelle iniziative a favore della libertà e della speranza di riscatto delle
donne e dei soggetti deboli che subiscono violenza. L’incontro a
questa nostra tavola rotonda è nel cammino della speranza.
“FORMAZIONE RELAZIONALE IN MEDICINA
PROTAGONISTA LA MALATTIA NEOPLASTICA” 28
Si propone un Seminario Multidisciplinare per sperimentare un’
esplorazione, attraverso setting esperenziali, di aspetti della
relazione tra colleghi, con il paziente e i suoi familiari correlati a
temi
tecnici e teorico/clinici in materia oncologica, per
l’ottimizzazione delle qualità assistenziale e gestionale in medicina
con l’affinamento delle competenze comunicative/relazionali.
L’esplorazione viene sperimentata ripercorrendo l’ itinerario
quotidiano comune ad ogni medico che, con la personale formazione
ed il sapere scientifico capitalizzato, va a nuovo sapere per tornare ad
28
Elaborato a cura della Dr. S.S. Tabbone trasmesso al Ministero della
Salute per la richiesta di accreditamento del Seminario Multidisciplinare
“Formazione relazionale: protagonista la malattia neoplastica” organizzato
dall’A.I.D.M. Treviso, 2006.
102
incontrare con competenza e disponibilità il paziente, e in fine che
attraverso la riflessione, nel ritrovamento di memorie ed emozione
dell’incontro, acquisisce nuove abilità comunicative e di risposta. Il
Seminario privilegia il lavoro di gruppo in modo che il medico, con
l’accompagnamento ed il sostegno di docenti in materia psicologicorelazionale, può riflessivamente confrontarsi con docenti in materia
oncologica e con colleghi di varia disciplina. Il lavoro di gruppo è
attivato avvalendosi di tracce di discussione e sussidi audiovisivi. Si
alternano l’esposizione di concetti teorici sulle dinamiche relazionali
e sulla comunicazione con momenti di discussione di casi clinici.
Specifiche esercitazioni e la conduzione guidata del lavoro di
osservazione consentono il confronto con le particolari
problematiche comunicative per realizzare una situazione formativa
fondamentale di comprensione di alcune esperienze e reazioni
personali. Il gruppo, luogo di apprendimento e motore di
cambiamento, si forma attraverso il gruppo il quale con i suoi
variegati intrecci relazionali, assume nella mente dei partecipanti la
valenza di uno spazio nuovo, differente dal contesto percorso
precedentemente da ciascun individuo, e configurabile come un
campo culturale progettuale originale nel quale, in un clima di
dialogo e di scambio, ciò che l’altro ‘porta’ diventa facilmente
proprio e viceversa. Il nuovo campo culturale, consente di ampliare
gli scenari del lavoro sanitario e lo sviluppo di nuove modalità di
lettura della relazione di cura e delle implicazioni affettive del
medico, che riflette su ciò che accade proprio mentre accade nel
gruppo di formazione oggi e può accadere in altri gruppi di lavoro o
nel proprio gruppo famiglia domani. L’esperienza che il Seminario
propone appare particolarmente preziosa perché il gruppo può
prendersi cura dei confini tra i saperi individuali, e promuovere la
ricerca di un nuovo approccio relazionale tra colleghi, con i pazienti
e i loro familiari a fronte delle varie malattie che il medico è tenuto a
trattare , a partire dal compromettente campo della malattia
neoplastica che lima ogni tendenza all’onnipotenza. Tale malattia e’
stata scelta quale protagonista del Seminario perché sollecita
complessi investimenti affettivi e inoltre risponde ai criteri di
precedenza nel procedimento di selezione dell’AIDM di Treviso
103
degli argomenti da trattare per la formazione in medicina. Essi sono:
trasversalità d’ interesse per la problematica che coinvolge uomini e
donne di varia età ed estrazione socio culturale; approccio
multidisciplinare nella presa in carico del paziente; occasione di
lavoro e incontro tra operatori dei servizi sociosanitari e dei servizi
assistenziali ed educativi del territorio; rilevanza della patologia per
la collettività con particolare attenzione alle donne. Anche l’ultimo
criterio è pienamente soddisfatto perché la malattia neoplastica è in
crescita tra le nuove generazioni e infine perché colpisce oltre che
direttamente anche indirettamente la donna che, per il ruolo ancora
ricoperto in famiglia, è massicciamente coinvolta nelle difficili cure
finalizzate alla guarigione o all’assistenza, in attesa di morte, del
parente portatore di un cancro.
Il Seminario si svolge in quattro giornate, con la ripetizione del
medesimo modulo operativo, da Settembre a Dicembre. Per motivi di
carattere organizzativo è preferito il Sabato. Il lavoro di ogni giornata
seminariale si svolge in prima sessione a partire da contributi teorici
e teorico/clinici forniti dai docenti in materie sanitaria, relazionale e
di comunicazione. Segue la discussione sui temi proposti attraverso
specifiche esercitazioni in piccoli gruppi, come stimolo per ulteriori
letture e riflessioni, per confrontare i vari contributi sia nelle
convergenze che nelle divergenze dell’abituale procedere nella
pratica medica e relazionale quotidiana. L’elaborazione che viene
prodotta in questi piccoli gruppi di discenti, senza alcun conduttore
in funzione didattica, si avvale simultaneamente degli apporti
individuali e delle dinamiche interpersonali che necessariamente si
svolgono. A fine esercitazione, capigruppo liberamente scelti dai
discenti presentano una sintesi del lavoro svolto a cui segue una
pausa conviviale che consente, oltre al ristoro, l’incontro informale
tra colleghi per un ulteriore arricchimento della vita di gruppo a
favore del prosieguo dei lavori. La sessione pomeridiana è centrata
sulla ricerca di un raccordo scientifico delle verifiche cliniche e
relazionali sul campo con quanto emerso durante le letture e relative
esercitazioni
del
mattino,
per
una
riflessione
sulla
relazione/comunicazione medico/paziente e con i familiari, e tra
colleghi. Ciò è possibile con il coinvolgimento di tutti grazie al gioco
104
dell’Acquario: i partecipanti si dispongono in due gruppi
spazialmente collocati sulla circonferenza di due cerchi concentrici.
Un piccolo gruppo, detto gruppo dei pesci, si riunisce nel cerchio
interno, mentre un secondo gruppo ( gruppo degli osservatori), si
colloca all’esterno. Il gruppo pesci, procede al confronto di
esperienze, a partire dal ricordo di una situazione clinica/relazionale
problematica stimolato dalle letture del mattino. Gli osservatori
annotano i contenuti emergenti, mentre gli accadimenti relazionali si
attivano, e colgono la possibilità di esplorare un mondo misterioso di
comunicazioni e proposte nell’interazione del/col gruppo pesci. In un
secondo tempo gli osservatori sono chiamati a lasciare il cerchio
esterno e a sostituire il piccolo gruppo nel cerchio interno, per
mettere a disposizione riflessioni ed emozioni che vanno ad
alimentare lo spessore e la dinamicità della vita del gruppo di
formazione nel suo complesso. Infine i vari contributi defluiscono in
un verbale, che rappresenta una sintesi condivisa di ciò che è emerso
durante la giornata di lavoro. Nei quattro giorni di formazione, i
partecipanti al gioco dell’Acquario si alternano, secondo un ordine
concordato all’inizio dell’attività, in modo che a tutti è consentito di
passare per le differenti posizioni e ruoli nel gruppo, partecipanti
attivi, partecipanti osservatori, ruoli parlanti e ruoli silenti, così che
il fare concepitivo relazionale e il fare esecutivo tecnico-scientifico si
incontrano, in un filo rosso di accompagnamento, dalla proposta di
racconto all’osservazione e all’elaborazione riflessiva della
esperienza. Al termine del lavoro seminariale s’intende porre il
medico nelle condizioni di utilizzare , nei propri interventi, quanto ha
riconosciuto e appreso, rimanendo l’equipe didattico-formativa
disponibile per un ulteriore e specifico percorso di supervisione che
richiede un secondo livello di ricerca-azione. Le modalità
organizzative dell’iniziativa seminariale e le procedure d’ intervento
relazionale sono di orientamento gruppoanalitico foulkesiano, e
liberamente ispirati ai contributi di Salomon Resnik presidente
onorario dell’ ASVEGRA conf. COIRAG, di Diego Napoletani,
fondatore e presidente onorario della SGAI e di Fabrizio Napoletani,
fondatore dell’ IGAR e della COIRAG.
105
DAL LAVORO ANALITICO CON RAFFAELLA B.29
Arriva al mio studio con una diagnosi di DAP – DCA e una
prescrizione di fluvoxamina da utilizzare ancora per due mesi a
dosaggio scalare, a partire da 200 mg pro die. Il collega psichiatra,
che frequenta da tre mesi e che le ha consigliato un trattamento di
psicoterapia analitica, scrive di averla conosciuta
“ a seguito del
ricovero al servizio psichiatrico, richiesto per la condizione di
emergenza in cui si è presentata, dopo una riunione di famiglia per
festeggiare i sei anni della nipotina”.Oggi sceglie di raccontare un
sogno e mentre lo rivede dice con voce fioca : sono in allarme, c’è
qualcosa che spinge, è buio e grigio. Vedo un’ ombra grande
diventare un oggetto trasparente. So che è un acquario. E’ costruito
a ridosso di una scaffalatura di cui intravedo le mensole. Dietro la
scaffalatura si muove un drappo setoso grigio a macchie scure,
mentre sta accadendo qualcosa che ha a che fare con delle spinte
che non riesco a vedere da dove arrivino. Voglio urlare ma non
posso. La voce si spegne, c’è come un singhiozzo trattenuto e
all’improvviso, quasi rincorrendo le parole, dice di vedere scorrere
acqua e forme rassomiglianti a due pesci-ranocchi e ad una lumaca
tra frammenti di vetro: l’acquario si è rotto e tutte le creature che lo
abitavano sono in pericolo. L’ultima immagine del sogno, da cui si è
svegliata spaventata e madida di sudore, è quella di un granchio tra i
vetri. Ricorda che, nel giorno del sogno, poco prima di fissare un
appuntamento per sottoporsi a mammografia clinica, guardandosi
nuda allo specchio, ha notato che il torace non lascia più vedere le
coste, che non è più asciutta, come è richiesto nell’ambiente che
frequenta. Racconta di provare dispiacere nel non riuscire a
contenere pienamente la sua insaziabile fame, nonostante le
numerose sigarette fumate per tenerla a bada e che mentre si
lamentava con il marito di non avere più il seno della giovinezza,
29
Comunicazione della Dr. S.S. Tabbone agli atti del Seminario
Multidisciplinare “Formazione relazionale in medicina: protagonista la
malattia neoplastica” Treviso, 2006, A.I.D.M. TV
106
sodo ed armonico nella forma e nel volume, contenibile in una coppa
di champagne, ha rivisto le mammelle spinte e schiacciate a
ciambella durante la sua prima mammografia. Ritrova l’immagine
del tecnico che le raccomanda di non urlare, l’ invita a non
modificare la postura che le ha fatto assumere e, tra il serio e il
faceto, sottolinea che non ha l’abitudine di rompere alcunché
schiacciando. L’atteggiamento scherzoso e nel contempo rigido e
formale dell’operatore sanitario, la richiama a quello del padre.
Quando gli poneva domande correlate alle insicurezze dell’infanzia
prima e dell’adolescenza dopo, lui soleva dire: “non c’è alcun motivo
di frignare e di tirare fuori problemi quando si possiedono bellezza,
salute e ricchezza”. Veniva annientata dalle parole del padre che le
riconosceva soltanto il diritto di parlare degli averi, pensare e volere
in termini di averi: già nel racconto dell’infanzia si descrive cercata
per la bellezza del corpo spendibile nella relazione con i genitori
prima, con i colleghi, con i corteggiatori e con gli amanti più avanti.
Ora raccorda l’urlo impedito durante la visita senologica all’urlo del
sogno e collega la rottura dell’acquario con la minaccia/promessa di
rottura del seno mentre si sofferma sulla immagine dei pesciolini ranocchi. La riconosciuta somiglianza di questi esseri del sogno con
dei feti, la conduce a ricordare due interruzioni volontarie di
gravidanza ricercati in giovane età, quando il seno era ancora nella
coppa di champagne. Dichiara di non volere tornare con la memoria
alle due nascite impedite, mentre rivive condensati in quegli urli
tutta l’impotenza e l’ostilità di una vita col padre e la rabbia per
essersi lasciata coinvolgere da bambina in giochi sessuali con un
cugino materno quarantenne. La madre usava spesso la frase “il
sangue non è acqua”, quando parlava dell’amore e del rispetto a cui
si è tenuti tra consanguinei; e a volte rinforzava il richiamo alla
devozione parentale dicendo che “i panni sporchi si lavano in
famiglia”. R.B. non è stata rispettata dal cugino e non le è stato
risparmiato nulla del perbenismo familiare che favoriva il rinforzo
dei segreti. Da bambina non rispettata, nel tempo è diventata
raffinata artefice di complicità e capace di provare piacere delle
disgrazie dei consanguinei a partire dal cugino, morto per una
neoplasia maligna alla prostata. Non si è perdonata di avere abortito,
107
non ha perdonato il cugino e il padre, non si perdona l’impegno ad
anestetizzare la fame con il fumo, per mantenersi magra, in linea con
i dettami della moda: fra i segreti della famiglia c’è anche una sua
anoressia nervosa giovanile, di cui si è molto accusata la madre.
Torna alle immagini del sogno e nello scaffale riconosce il suo
torace magro di un tempo, con le coste in bella vista; nel drappo
setoso, il lenzuolo sporco del sangue della verginità abbandonata da
ragazzina. Nell’acqua dell’acquario che scorre tra i vetri rivede il
sangue perso durante una IVG e ritrova il latte mai donato. Con
l’immagine del granchio costruisce la minaccia di un cancro al seno
come punizione dei propri attacchi alla madre, e per avere mentito, e
taciuto e ucciso: da cultrice di astrologia sa che il granchio è il segno
del cancro, una delle costellazioni dello zodiaco, casa della luna, il
cui tempo inizia nel momento del solstizio d’estate, quando le
giornate cominciano a diventare più brevi. L’immagine del granchio
associata al segno zodiacale le ricorda che, con i suoi 45 anni, ha
superato il solstizio d’estate. La menopausa già alle porte, per lei
fumatrice, è l’ingresso nella tenebra e non il passaggio ad una
stagione della vita: è il rischio di diventare come sua madre che vive
una triste vecchiaia, dopo una menopausa problematica. Il ricordo
della madre vecchia e sola la richiama alla mamma giovane. La
rivede attraverso la lumaca del sogno mentre scopre lei, ancora
bambina, in una pratica autoerotica. Racconta come la madre l’ ha
fatta sentire un verme: mostrando dolore, afferma che quell’evento
ha favorito il completamento di un abisso relazionale tra sé e le
persone desiderate, antico forse come la sua stessa vita. Ritrovato il
ricordo dell’accusa, le si presenta di avere spinto nella dimenticanza
la mammografia e le prescrizioni del senologo, per ubbidienza a
schemi relazionali interiorizzati che consentono al suo desiderio di
punizione di farsi strada; e riconosce di avere usato il sogno per
disvelare il non detto, come in un’ inchiesta storica che mette sulla
strada di verità fattuali. A otto mesi dal nostro primo incontro, a
trentanove anni da certi avvenimenti, giocando con il sogno, accanto
a me che l’ascolto in silenzio, ha trovato le parole per dire.
Riconquistata un po’ di speranza di non annegare nell’acquario degli
assoggettamenti, ha sviluppato una fiducia nella possibilità di
108
cambiare tale da sollevarla dall’angoscia connessa ad un possibile
tradimento di ambiti secretati e segreganti attraverso la vergogna: ha
portato alla luce il nascosto piacere del segreto. Da bambina godeva
di avere un segreto, un piccolo mondo tutto per sé da vivere nell’ora
del cugino, durante il riposino dei genitori – dalla cui intimità si
sentiva esclusa – o la sera al buio, nel suo letto di bimba, vittoriosa
sulla madre. Ora sento che con voce suadente sussurra mi fa piacere
pensare che questa storia resti tra noi due… che non ne parleremo…
e mi sorprendo a dire: possiamo fare come Lei propone se spostiamo
la seduta alle ore quattordici. Dopo un breve (lunghissimo) silenzio,
riprende: continuiamo lunedì….posso tornare … alle nove e trenta?.
Rispondo di si, e che ci sarò. Mentre scorrono i segni della
sospensione dell’incontro, Raffaella lascia il divano e abbozza un
sorriso: con fare pacato, raccoglie la borsa, appoggia la parcella sul
ripiano dello scrittoio dove è già pronta la ricevuta e si dirige verso la
porta, sostituendo il suo solito saluto con un grazie a mezza voce.
Ascolto i suoi passi giù per le scale e penso con emozione che porta
in sé la rinuncia a ricercare un piacere connesso ad un ambito che le
suscita profonda vergogna, e la ritrovata speranza di poter cambiare
anche nelle zone tenute segrete, di potere cercare il riscatto dal
destino segnato dalle appartenenze e finalmente riuscire a vivere con
moduli diversi da quelli dei giochi incestuosi. R.B. ha ritrattato la
profferta di continuare con i vecchi codici per tentare di coniugare il
noto del fare ( essere nel mondo così come è stata insegnata) con il
proprio esserci in un processo autopoietico, per un nascente che si
annuncia, che vuole accogliere e fare crescere, mettere in salvo e
fare entrare nella storia. Il ricordo della cultura omertosa della mia
terra d’ origine anticipa in me le sofferenze che la paziente dovrà
affrontare se si rivelerà in autenticità. Nella mia terra il mistero e la
complicità si accompagnano, inequivocabilmente e sempre all’
intensità delle passioni, che non è inibita. Altrettanto non è così nella
cultura di Raffaella, che peraltro per me è una cultura di adozione,
dove il mistero si accompagna a difese caratteriali di atteggiamento
opportunistico e comunque di conformismo sociale atte ad inibire
tale intensità. La lettura della nostra ( mia e con RB) relazione non
può non prescindere da questi fattori socioculturali (così come non
109
può non prescindere da altre diversità in gioco) , rispecchiati nelle
interlocuzioni e nella reciprocità delle costruzioni immaginarie e
simbolicamente neo-concepitive. La conoscenza della terra natia può
aiutare a comprendere tutti quegli elementi che non hanno
spiegazione plausibile nella storia di/con R.B. e che hanno agito e
continuano ad agire come facilitatore del processo empatico. Con
R.B., nel giorno del sogno, ho trovato un’interlocuzione allusiva,
che mi ha sorpreso non poco, proprio perché non mi è abituale, e che
ricorda la socialità della mia terra, con quel dire “non so”
accompagnato dal gesto della testa che è un “sì lo so”. Un modo di
fare e di essere che lascia aperte tutte le possibilità, ma che non è
ambivalenza. Alludere all’ ora del cugino, durante un ascolto e con
la mia voce, ha permesso di propormi disponibile “a quella, come a
questa” relazione, senza negare la sua storia, senza negare la
necessitazione dei suoi segreti. La mia interlocuzione spontanea e
possibilista le ha permesso di pensare di potere cambiare in mia
compagnia sopportando le sofferenze che sempre si provano quando
si lascia il noto, che magari è disfunzionale, per andare verso
l’ignoto? Oppure l’essere riuscita ad astenermi da operazioni utili a
lenire il suo dolore morale, ha favorito il suo non rintanarsi? Infine,
l’intuizione e l’empatia, forme di cognizione che con Diego
Napolitani colloco nell’asse “femminile”, hanno favorito tutto ciò?.
E comunque si è generata una soluzione diversa tra le numerose
possibili e scientemente prevedibili, di appartenenza esclusiva e
speciale dell’incontro con R.B. e del nostro lavoro analitico.
SESSUALITA’ IN CLIMATERIO 30
Abbiamo accumulato un po’ di ritardo. Per non aumentarlo non mi
abbandonerò al piacere di parlare a braccio ma leggerò quanto ho
preparato immaginandoci. Per ascoltarlo è richiesto di fare uno
30
Relazione della Dr. S.S. Tabbone al 4° incontro formativo a titolo “La
coppia e le sue stagioni” Mestre, 2007, organizzato dall’ULSS 12 Mestre
Venezia , accreditato dalla Regione Veneto
110
scalino (greco Klimacter - scalino) dal bio-logos, relazionato dai
colleghi che mi hanno preceduta, al linguaggio del racconto.
Non ci saranno immagini sullo schermo perché il racconto radica il
divenire sul patrimonio di immagini e sulla capacità di crearne già
presenti nell’ascoltatore partecipe.
“ C’era una volta nel cuore dell’inverno, quando i fiocchi di neve
cadono come piume dal cielo, una regina seduta ad una finestra.
Mentre cuciva si punse il dito con l’ago e tre gocce di sangue
caddero sulla neve. L’effetto rosso sulla candida neve fu così bello
che ella pensò:vorrei avere una bambina bianca come la neve e rossa
come il sangue. Poco dopo ebbe una figlioletta che fu chiamata
Biancaneve”.
Così i fratelli Grimm parlano alla fantasia del bambino
dell’innocenza dell’infanzia e del desiderio sessuale e lo preparano
ad accettare quelli che altrimenti sono eventi assai sconvolgenti,
come per esempio le mestruazioni prima e poi la rottura dell’imene
nel coito e ad accettare che senza effusione di sangue neppure lui
sarebbe mai potuto nascere.
Ma i due fratelli, privilegiando l’affermazione del valore della
maternità, non raccontano le associate emozioni di corporeità lesa
che tanta importanza hanno nell’esperienza intrapsichica della
donna, mentre sottolineano la ferita climaterica della matrigna
sconfitta alla fine dell’età fertile.
Gli adulti che oggi vanno verso il climaterio hanno ricevuto modelli
riferibili ai protagonisti della favola di Biancaneve in coabitazione
fantastica con Barbie,Ken e Big Jim.
Le loro madri, protagoniste degli anni cinquanta e sessanta, nel
viaggio da cenerentole bianche come la neve ad adulte emancipate
sono sopravvissute alla conflittualità con la morale religiosa e con le
tradizioni inaugurando una nuova era nel rapporto con l’uomo
attraverso l’affermazione del diritto di ricercare attivamente il
piacere sessuale durante l’amplesso e anche prima del matrimonio. In
un secondo tempo hanno raccolto la grande sfida di trasformare il
climaterio, che aveva mantenuto valenze di sconfitta e rassegnazione,
111
in momento di rinascita, di progettazione e di conquista di nuovi
traguardi, in un “mezzogiorno della vita”.
Con loro si è avviato un processo di consapevolezza che è possibile
la differenziazione e il distanziamento dai modelli assoggettanti
dell’universo culturale originario della donna per uno sviluppo
originale e sufficientemente robusto dell’identità che consenta una
costruttiva elaborazione delle numerose crisi, nei vari passaggi dal
menarca alle gravidanze, ai parti e verso un climaterio ricco di
autenticità dell’eroticità e dell’affettività, anche a fronte della perdita
della potenzialità generativa.
Grazie al procedere delle donne, e inevitabilmente, l’uomo è stato
sollecitato a ricercare un equivalente percorso di emancipazione dalla
modellistica onnipotente ben rappresentata dal principe azzurro, da
Ken, da Big Gim e da vari altri invincibili, per gestire i cambiamenti,
per condividere i piaceri dell’eroticità e dell’affettività anche durante
l’esperienza climaterica e per elaborare la paura della senescenza.
Attendibili indagini psicologiche e sociali e studi scientifici in campo
sanitario, ci permettono di affermare che i cambiamenti bio-ormonali
del climaterio non ostacolano l’ attitudine alla ricerca, alla creazione
e alla condivisione del piacere e dell’affettività che continua ad
essere presente per l’intero arco della vita e, se ben esercitata,
consente di godere di cogliere un bisogno, un’ offerta e un
suggerimento in uno sguardo o in un sorriso e in una carezza, quando
il corpo intero sia stato erotizzato, a partire dalle cure materne
infantili, e sia stata nutrita la sicurezza di base che sostiene la
sessualità, articolata sull’incontro e il godimento dei corpi nella piena
reciprocità di ascolto, di accoglienza e di empatia, quale intima
espressione relazionale di una coppia storica come di una coppia
temporanea oppure occasionale, sia etero sia omosessuale, libera dai
pregiudizi e capace di dare voce ai desideri più autentici.
Perseguire l’esperienza di un “climaterio buono” è possibile ma non
è facile, per la complessità dei fattori che intervengono.
Non è facile riuscire a vedere la storia nei solchi lasciati dal tempo
sulla pelle, rinunciando a pretendere di cancellare ferite e fallimenti.
112
Non è facile aprire l’archivio della memoria a contenuto erotico,
abbandonarsi alla fantasia e
affidarsi, lasciando inibizioni e
vergogne, per accarezzare, toccare, sussurrare all’orecchio le nuove
scoperte, parlare di desideri e aspettative, godendo il proprio piacere
e di dare piacere al partner.
In questa realizzazione l ’uomo ha un ruolo fondamentale: il suo
desiderio è lo specchio che la donna del terzo millennio continua a
privilegiare. Egli è ancora colui che può attutire il colpo
all’autostima della donna, nel momento in cui riesce ad accettare il
proprio cambiamento osservando il trascorrere degli anni sul volto e
sul corpo della propria compagna. Del resto ciò è abbastanza
comprensibile : a che serve ad una donna avere la consapevolezza
che, in teoria, la sua capacità sessuale può durare fino alla fine dei
suoi giorni se poi non si sente più desiderata?
Perché l’unicità e l’originalità di ciascuno continui ad essere
valorizzata, perché la sessualità ad ogni età diventi occasione
straordinaria di creatività produttiva di un piacere intenso e
condiviso occorre una prevenzione sociale diffusamente praticata che
favorisca un modello genitale maturo rappresentativo delle capacità
di realizzare armonicamente l’identità non solo nelle tradizionali
funzioni materne e paterne, ma anche all’interno di una relazione
affettiva e sessuale soddisfacente, senza che l’immaginario erotico, il
desiderio sessuale e il piacere vadano incontro a dissociazione
durante i cambiamenti della vita biologica e sociale ma continuino a
trovare espressione unitaria con forza creativa.
E’ questo un modello ben lontano dal giovanilismo ad oltranza delle
società ricche di oggi che riconoscendo valore alla donna per
l’apparenza che ha e all’uomo per il lavoro che fa sono obbligate a
sollecitare la negazione dell’esperienza climaterica e di tutti gli altri
cambiamenti verso la senescenza.
Fa prevenzione sapere che attorno al climaterio maschile c’è un gran
vuoto culturale non casuale, mentre florido è lo sviluppo di
comportamenti compensativi che riescono facilmente a mascherarlo
perché non si presenta con eclatanti fenomeni bio-ormonali connessi
113
all’apparato riproduttivo ma corrisponde ad un lungo periodo di
sfumate e progressive variazioni delle capacità procreative, senza
però azzerarle come nella donna.
Fa prevenzione sapere che uomini e donne possono avere orgasmi
anche dopo i 70 anni, senza formule magiche, e che nella donna
possono continuare a presentarsi ravvicinati anche se con meno
frequenti contrazioni dell’utero; che se il pene ha meno vigore e
reagisce meno agli stimoli visivi è però più sensibile allo stimolo
tattile; che nella donna il clitoride non perde sensibilità; che la
riduzione della lubrificazione vaginale non impedisce l’orgasmo ed è
risolvibile senza tecnicismi ritrovando l’attitudine al gioco della
complicità e dell’attesa, cardini del corteggiamento, che fa sentire di
desiderare l’altro e di essere desiderati dall’altro come persona.
Fa prevenzione diffondere la conoscenza che per sostenere al meglio
l’eroticità va prestata attenzione all’alimentazione e all’attività
fisica, tenendo stimolato e in esercizio il cervello.
Fa prevenzione sapere che per favorire un buon climaterio occorre il
dialogo con i compagni di viaggio senza dimenticare i giovani con
cui sono possibili confronto e aiuto se la generazione ‘fertile’ li
educa al sentimento, nel riconoscimento e nel rispetto dei propri
bisogni e dei bisogni degli altri.
Anche i medici sono chiamati a favorire il riconoscimento e la
soluzione di possibili sordità al sentire in famiglia, con i pazienti, con
i colleghi e i collaboratori, durante gli incontri e i dibattiti con il
pubblico, nelle Scuole di ogni ordine e grado e nelle Università dove
sono chiamati ad operare, affinché ognuno assuma la responsabilità
di ciò che forma una società, nella consapevolezza che l’ impegno
per l’integrazione di scienza, coscienza e amore è una delle sostanze
del bene ed è la medicina di sempre, per tutti.
Il medico, nella buona educazione personale e nella formazione al
lavoro clinico integrato ha forza sufficiente per cogliere gli elementi
a carattere relazionale e socioculturale dei cambiamenti in climaterio
e di accompagnarli a sostegno del benessere della vita sessuale dei
pazienti , senza perdere attenzione ai disaggi correlati ai mutamenti
bio-ormonali trattabili anche con farmaci, così che interventi
psicoterapeutici specifici siano richiesti solo quando è accusato un
114
malessere fondato su una crisi di identità conseguente a vissuti di
perdita e di lutto con riattivazione di problematiche intrapsichiche
antiche rimaste a lungo incistate o mascherate.
Essendo scaduto il tempo che mi è stato accordato, concludo la
relazione con l’augurio di una piacevole vita sessuale fino a tarda
età, mano nella mano di un buon compagno di letto e di affetto, utile
sogno che tutti cerchiamo di realizzare anche facendo ricorso
all’aiuto del medico. Vi ringrazio dell’ascolto.
DA DONNA A DONNA
31
Nel rispetto dell’affascinante diversità tra uomini e donne, la cui
complementarietà è l’essenza stessa della vita, parlerò di valori
aggiunti che le donne possono utilmente apportare e delle difficoltà
che devono affrontare. Provengo da Treviso dove l’Ordine
professionale è stato continuativamente governato da uomini. Nel
2005, cogliendo l’ occasione del rinnovo del direttivo ordinistico, noi
dell’AIDM abbiamo proposto un riequilibrio di genere attraverso la
candidatura di un congruo numero di colleghe, a garanzia della parità
di partecipazione e rappresentanza. Il nostro impegno è stato poco
premiato perché i voti di molte donne sono andati agli uomini: solo
quattro delle nove candidate sono riuscite a raccogliere il consenso
sufficiente per partecipare al direttivo. Possiamo però ben dire che un
passo avanti è stato comunque fatto: finalmente abbiamo due donne
consigliere e una donna revisore dei conti le cui candidature sono
state sostenute da associazioni sindacali, e una terza consigliera,
socia dell’AIDM; inoltre abbiamo ottenuto l’istituzione di una
commissione pari opportunità. Ciò è accaduto in una provincia dove
le donne rappresentano il 35% della popolazione medica, come in
ambito nazionale dove tra i giovani iscritti in medicina, che oggi
sono 28.077, le donne rappresentano il 61%. In controtendenza nella
professione infermieristica, che muove da una tradizione al
31
Relazione della Dr. S.S. Tabbone al Convegno “La Donna Medico Ieri
ed Oggi” Pavia, 2007, organizzato dall’Università degli Studi di Pavia e
dall’A.I.D.M. c/o Facoltà di Medicina-Aula Scarpa.
115
femminile, si registra una progressiva mascolinizzazione come in
campo ostetrico dove sono comparsi gli uomini. Questi dati
risultano congrui con l’ipotesi che le professioni si femminilizzano
quando diventano meno prestigiose e poco remunerative. Una
conferma viene dall’incremento degli infermieri e degli ostetrici a
seguito degli aumenti stipendiali e della valorizzazione della
professione attraverso l’accesso a diplomi di laurea e a diritti pari a
quelli dei medici. Il grande numero di iscritte in medicina conferma
che le donne non incontrano ostacoli nella scelta di diventare
medico. Ma non è certo privo di ostacoli il loro cammino verso la
stanza dei bottoni perché laddove si esercita il potere, il gap persiste
e persiste il pregiudizio che la maternità sia un freno alla carriera
femminile. E’un pensiero ridicolo, gia ché non esiste paese europeo
dove si facciano meno figli che in Italia. Il soffitto di cristallo rimane
invalicabile, anche nella ricerca scientifica dove manca l’attenzione
alle donne che invece potrebbero contribuire alla crescita di un
Paese, da tempo in cerca di uno slancio vitale, e in particolare della
Sanità , sistema con grandi potenzialità di sviluppo, che ancora non
è considerata una risorsa ma un'area di spesa. L’assenza di donne
nelle stanze del potere in tutti i sistemi della bella Italia è nello stesso
tempo causa ed effetto della incapacità a rinnovarsi. Con l’esperta di
organizzazione del lavoro, Maria Cristina Bombelli, pare di potere
affermare che “ Le rivendicazioni non bastano. Le aziende apriranno
alle donne solo quando capiranno che questa scelta è conveniente e
indispensabile”. Tutto sta a convincerle che non capitalizzare le
potenzialità di metà della popolazione, mina la loro capacità
competitiva. Tanti Paesi, anche in modo sorprendente, l'hanno capito
e probabilmente tra non molto se ne vedranno i risultati. E tra questi
Paesi non c’è l’Italia che è molto sotto lo Zimbabwe e poco sopra il
Pakistan nella classifica delle possibilità di carriera concesse alle
donne. Nel campo della partecipazione delle donne all'economia:
siamo 87esimi. Non è una sorpresa. E' invece piuttosto clamoroso,
sempre nel campo della partecipazione al mondo del lavoro, il fatto
che ai primi posti arrivino Paesi ad altissima emigrazione femminile
come la Moldavia (seconda), le Filippine (quarta), la Giamaica
(settima), la Tailandia (tredicesima): segno evidente che sono le
116
donne, come in molti altri Paesi, a guidare l'emersione dalla povertà.
Con questi dati voglio solo fornire uno spunto per orientare l’analisi
verso problemi che, riguardando l’economia, a partire dalle
problematiche di genere, diventano transculturali, nello specifico
della globalizzazione. Da alcune indagini sulla qualità di vita delle
donne medico sappiamo che lavorano oltre (e spesso ben oltre) le 37
ore settimanali e che durante la prima gravidanza tendono a restare al
lavoro (timore di essere penalizzati dall’assenza ad inizio carriera o
amore per il lavoro?). I figli risultano essere in media due per donna,
nascono dopo i trenta anni e per i primi tre mesi prendono il latte
materno. Poi, nella gran parte dei casi vengono affidati ai nonni e alle
tate; sono pochi ad andare in asilo. La donna medico non si fida del
nido? Forse non lo può sostenere, come non può sostenere colf e
badanti: fino ai 40 anni, quando la carriera comincia ad assestarsi,
infatti, è la donna medico che si sobbarca il grosso delle faccende
domestiche. Le resta poco tempo per una appagante vita sociale,
presa nell’ingranaggio della sua doppia vita (famiglia più lavoro),
dato che il cambiamento avvenuto nei luoghi di lavoro, verso una
maggiore fatica e responsabilità, non si è tradotto in un cambiamento
altrettanto forte nell’organizzazione della famiglia e dei servizi
sociali. Anche la flessibilità nei tempi di lavoro, esigenza espressa
soprattutto dalle donne, coinvolge le dottoresse che si dichiarano
interessate all’inquadramento con orario personalizzato praticato
all’estero o in alternativa tempo definito o part-time perché non
riescono ad avere sufficiente tempo per realizzare interessi personali,
che continuano ad essere repressi non solo per le pretese del mondo
del lavoro ma per la difficoltà di dare ascolto anche alle richieste
dei familiari senza sacrificare la propria soggettività. Ciò continua ad
accadere per molte donne grazie a una specifica educazione, che
egemonizza lo sviluppo, per cui le bambine vengono orientate alla
relazione di cura come schiavitù ai bisogni dell'altro e all’obbligo di
soddisfarlo , anche a costo di mettere in silenzio i propri bisogni,
senza attesa di un ritorno, in termini di arricchimento e/o
reintegrazione delle risorse spese. Il successo di questa violenza di
genere è favorito dal fatto che non sono previsti e non sono sollecitati
comportamenti di scambio e reciprocità della cura né investimenti
117
auto-diretti mentre viene premiata la riduzione fino all’eliminazione
dei tempi dedicati a se stessi per la realizzazione personale in altri
spazi e lo sviluppo dei rapporti sociali, con conseguente perdita
dell’accesso ad aiuti e sostegni esterni per allentare la pressione
dell’ambiente familiare e professionale. E’ di comune osservazione
che i tempi di svago fuori casa, come la realizzazione di interessi
personali extra lavorativi, siano all’improvviso generalmente ridotti
con il matrimonio e la maternità, mentre gli uomini nonostante il
matrimonio e la paternità li mantengono. Le donne “Angeli del
focolare” nel passato, aspirano oggi ad essere madri presenti con i
figli, lavoratrici vigili e aggiornate nella professione, pronte a
sostenere cure estetiche per corrispondere ai modelli imposti ed
essere appaganti nei letti, senza mai guadagnare diritto a speciali
ricompense, a riconoscimenti e a gratificazioni. Le lauree e le
specializzazioni non le difendono. Devono fronteggiare tutto e
sempre, non possono assentarsi e non possono sottrarsi alla necessità
del silenzio forzoso dei propri bisogni, devono ascoltare e
interpretare i bisogni dell’altro, devono accogliere, attendere,
tollerare le richieste. Devono rimuovere interessi e piaceri personali,
controllare le proprie reazioni aggressive, comprimendo gli
atteggiamenti di rabbia e di diniego, rimuovendo e negando i
sentimenti ostili, i desideri di fuga e di evitamento. Le più fragili
arrivano a sviluppare
dipendenza ai fini e ai bisogni altrui e
passività; trovano solo nel gradimento dell’altro il segno delle loro
capacità e del loro valore: dipendono dal giudizio dell’altro come
segno degli obiettivi raggiunti, e come termine e soddisfazione del
lavoro svolto. Tutto ciò favorisce l’ esposizione e la capacità di
tolleranza ad ulteriori violenze. Quando l’altro (l’oggetto della cura)
è violento, non si difendono ma si colpevolizzano pensando di aver
sbagliato la propria funzione di cura, e pertanto sono portate a
tollerare maltrattamenti di ogni tipo e a giustificarli attribuendosene
la responsabilità così come si attribuiscono la colpa di ogni
manchevolezza dei figli e nel contempo sviluppano sentimenti di
indispensabilità con sollecitazione dell’ onnipotenza primigenia e il
conseguente rischio dell’emergere di disturbi a carattere psichiatrico
che manifestano ad un collega dello psi, solo quando diventano
118
troppo pesanti per essere controllati nel “ fai da te”(abuso di alcolici
e ansiolitici). Ho incontrato donne medico compromesse da questa
violenza di genere che nel respingere
l’invito di far parte
dell’A.I.D.M. sostengono come “non occorra riunirsi per il piacere
dell’incontro tra pari, perché il poco tempo libero è preferibile
dedicarlo alla famiglia”. Affermano che ” non serve ricercare la
valorizzazione della professionalità e un rinnovamento della sanità
attraverso il riequilibrio di genere, perché le difficoltà si superano
rispettando le regole della meritocrazia”. Ricordare questa frase che
ho sentito da alcune colleghe mi porta ad una domanda “nelle
organizzazioni strutturate dagli uomini - per gli uomini e da essi
governate è possibile l’accesso della donna alla meritocrazia
regolamentata esclusivamente dagli uomini?“. Tutte le donne, anche
le medichesse, marciano un passo dietro l'uomo anche per altri
delicati aspetti che riguardano più la salute, tutta focalizzata sulla
bikini view (seno e organi riproduttivi), come se le altre zone del
corpo non fossero a rischio. La società presta scarsa attenzione a tutte
le fasi della vita della donna, da quella prenatale fino alla fragilità
della vecchiaia, nella sua completezza e complessità anatomica,
biologica, psicologica e sociale. Le donne finiscono in un letto di
ospedale più spesso degli uomini durante la vita, merito del parto, di
incidenti domestici e della longevità. Il consumo di medicinali è
percentualmente superiore rispetto a quello dell’uomo. Le donne
fanno maggior uso di psicofarmaci, antibatterici, antinfiammatori e
antireumatici, antiacidi, antiulcera e diuretici. L’uso di medicinali in
gravidanza è frequente e resta un’area poco chiara. Ma i dossier delle
case produttrici e dei centri di ricerca farmacologia sembrano
dimenticare l'altra metà del cielo. La complessità della
sperimentazione, a seguito dei cambiamenti ormonali continui e dei
conseguenti maggiori costi, hanno portato spesso ad escludere
soggetti femminili dai protocolli di ricerca con rischio di reazioni
avverse ai farmaci essendo dosaggi e somministrazioni sperimentati
su soggetti maschili. La prima volta in cui in medicina si parlò della
“questione femminile” risale al 1991 quando l’allora direttrice
dell’Istituto Nazionale di Salute Pubblica americano, Bernardine
Healy, in riferimento al comportamento discriminante dei cardiologi
119
nei confronti delle donne, dimostrò la maggiore probabilità di subire
errori diagnostici e terapeutici rispetto agli uomini. Piano piano dalla
cardiologia la critica alla medicina dal punto di vista di genere si è
spostata ad altri campi, come la psichiatria, la gastroenterologia,
l’oncologia. Grazie alla mobilitazione delle donne a partire già dal
1999, negli Stati Uniti, si è costituito uno specifico filone di
ricerca in materia di medicina di genere, cioè ad una medicina che
tenga conto delle fisiologiche differenze tra uomini e donne sia nella
teoria che nella pratica clinica di cui è previsto l’apprendimento già a
partire dai corsi universitari. E’ del 1998 l’invito della Comunità
Europea alle donne a partecipare alle ricerche e a presentare progetti
in medicina di genere mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità
organizzava un Ufficio, denominato Women’s Health and Gender
Mainstreaming, con lo scopo di mettere in evidenza il punto di vista
di genere in tutte le tematiche della salute. Nel 1999 l’Italia ha visto
la nascita del gruppo di lavoro “Medicina Donna Salute” che ha dato
un contributo fondamentale all'individuazione di una specifica
problematica di genere nel nostro paese. Nel 2003, il Ministero della
Salute ha affidato ad un’équipe di specialisti il compito di formulare
le linee-guida sulle sperimentazioni cliniche e farmacologiche che
tengano conto in modo sistematico della variabile uomo/donna,
nonché dell’utilizzo dei farmaci “gender-oriented”, ossia
diversamente testati su uomini e donne contrariamente alla tendenza
di gran parte della ricerca psicofarmacologica clinica condotta
prevalentemente nel sesso maschile per le ragioni già enunciate con
la inevitabile conseguenza di una più limitata conoscenza degli
effetti dei farmaci in generale e di quelli psicoattivi in particolare nel
sesso femminile. Un documento dell’OMS (Dipartimento per la
salute della donna) recita testualmente: “Sempre più, oggi, appare
evidente che la ricerca medica è sempre stata condizionata dal
genere. Gli argomenti scelti, i metodi utilizzati e la successiva analisi
dei dati riflettono una prospettiva maschile in più sensi. Il
pregiudizio di genere è evidente non solo nella scelta dei temi, ma
anche nel disegno di molte ricerche. Nei casi in cui le stesse malattie
colpiscono uomini e donne, molti ricercatori hanno ignorato le
possibili differenze trai sessi per quanto riguarda gli indicatori
120
diagnostici, i sintomi, le prognosi e l’efficacia relativa di trattamenti
differenti. Fin quando i ricercatori considereranno gli uomini come
la norma, la cura medica offerta alle donne continuerà ad essere
compromessa”. L’attenzione alla differenza di genere in campo
sanitario, apre interrogativi su molte problematiche che finora non
sono state neppure immaginate. La salute delle donne è cambiata
anche perché è cambiato il loro ruolo sociale. Oggi la donna si
confronta con un carico di impegni maggiore rispetto a quelli che è
in grado di gestire. Sono sempre più numerose le donne che devono
fare i conti con la fretta, con una maggiore ansia, un aumento dello
stress e disturbi correlati. I disturbi psichiatrici colpiscono con netta
prevalenza le donne che trovano nella malattia cardiocircolatoria la
prima causa di morte, primato che fino agli anni ‘80 era riservato ai
soli uomini. Tutti siamo nella condizione di subire le conseguenze di
modificazioni ambientali frutto di progetti tecno-scientifici su cui
non siamo stati consultati o di cui comunque abbiamo conoscenza
superficiale: dalle centrali atomiche, alle decisioni politiche
riguardanti i farmaci e la loro sperimentazione. E in questi ambiti, sia
per ciò che riguarda il problema generale della pianificazione
familiare, sia per tutte le questioni della procreazione assistita, della
manipolazione genetica e simili, sono proprio le donne che rischiano
di più di essere coinvolte in decisioni a cui non hanno avuto parte, e
che devono subire come puri soggetti passivi perché continuano ad
essere minoranza sia nelle sedi delle tecnologie sia in quelle del
potere politico. Quest’ultimo è il territorio in cui le cose vanno
peggio in tutto il mondo. Nella ricerca del world economic forum a
cura di Hausmann e Tyson, nessuno guadagna una sufficienza piena:
la Svezia - che è il Paese che arriva al numero uno – si ferma a
0,5501. Ma l'Italia è davvero in condizioni pessime: non tanto per il
72° posto ma per il punteggio, 0,0872, che è come non prendere
nemmeno 1 in un compito in classe. Le Filippine, almeno, arrivano a
0,2695, che è il 16° posto. Nelle centinaia di migliaia di anni
trascorsi si è formato, e questo è indubbio, un approccio diverso ai
problemi dell'umanità, e quindi anche della scienza, a seconda che si
sia maschi o femmine, come a seconda della condizione economica e
politica in cui si è collocati. Dobbiamo sapere qual è l'approccio
121
femminile ai nuovi temi, da parte delle donne scienziate, delle donne
che hanno responsabilità sociali, economiche e politiche nei vari
paesi e dell'opinione femminile in generale. Non dobbiamo
rinunciare al valore aggiunto di tali intelligenze ed esperienze. E’
mutilativo per la specie umana farne a meno. Bisogna dire basta! “Il
basta” al silenzio e all’esclusione delle donne va costruito ogni
giorno, in ogni luogo. Dobbiamo dare sostegno alla crescita culturale
delle donne. Noi donne dobbiamo smettere di avere paura del
successo, dobbiamo dare consenso alle compagne che osano cercare
il successo con opere responsabili e non attraverso la sudditanza
all’uomo, dobbiamo cercare di essere meno sollecitate dall’invidia e
di governare l’ammirazione ai fini della sinergia delle nostre
specifiche competenze per la valorizzazione di tutti. Le donne che
rivendicano il diritto a diventare protagoniste e non solo comprimarie
(a casa a preparare il cibo, a curare i bambini ecc.) nella vita sociale
possono essere considerate e rispettate quali avanguardia dei tanti
gruppi di esclusi (immigrati,omosessuali ecc) che continuano ad
esistere nelle nostre società perché l’avanzamento delle donne
attraverso il dialogo e la comunicazione, attraverso la ricerca di
sinergie in ambiti associativi, favorisce anche il processo di
allargamento di cittadinanza a questi gruppi. Ringrazio gli
organizzatori di questo evento. Li ringrazio dell’invito che mi
permette di continuare a lavorare, anche con tutti voi, alla
costruzione della presenza della donna e alla qualità dell’incontro
con l’uomo mentre il rifiuto della prevaricazione o dell'egemonia a
priori dell'uno sull'altro è una opzione in crescita. Dobbiamo
continuare questa opera di civiltà perché “Il basta” va costruito da
uomini e donne senza mai dimenticare che sono le donne che non
solo trasmettono, ma fanno praticare ai figli o il nuovo o il vecchio.
Insomma, anche per questa via, se le donne dicono di sì, è sì, e il
passo avanti si fa. Per l’AIDM la sfida è quella di individuare
meccanismi di sostegno alle Pari Opportunità, e aprirsi al
rinnovamento con nuovi valori per
una società dinamica e
'inclusiva', nel segno di quanto è emerso durante il Convegno di
Caserta del 28 settembre, voluto dalla FNMCeO, a tema “medicina e
sanità declinate al femminile” in cui è stata posta l'attenzione sul
122
come fare, cosa fare per affrontare in modo incisivo il tema delle Pari
Opportunità nella Sanità. Alle donne medico che non accolgono il
nostro invito ad iscriversi all’AIDM perché
“esclusivamente
interessate a lavorare, lontane dai giochi di potere e da associazioni
che si impegnano in discorsi di parità”; alle donne medico che non
si iscrivono perché convinte che “non è giusto aspirare alle stesse
gratificazioni dei colleghi non tanto, o non solo, per mancanza di
tempo da dedicare al lavoro e alla carriera, ma perchè meno
disposte ai compromessi e ai sotterfugi”; alle donne medico che non
si iscrivono ritenendo “ormai obsoleta la necessità di associazioni di
donne perché già si gode di pari diritti e privilegi, quando si è
meritevoli di competere con gli uomini” ; alle donne medico che non
si iscrivono perché “tengono famiglia” e a tutti voi che vi siete
iscritti all’AIDM o ne siete simpatizzanti, lascio una domanda:
“se si dovesse pensare alla clonazione dell'uomo, voi pensate che si
clonerebbero più uomini o più donne?".
L’ARCHETIPO DELLA DEA: SPUNTI PER UNA
CONVERSAZIONE 32
Nella storia dell’umanità l’Archetipo della Dea è la Dea-Madre o
Terra-Madre che risultano essere le prime divinità di cui si ha
archeologicamente testimonianza. Da sempre centro e nucleo di vita,
poiché il suo è uno spazio di accoglimento e di accudimento, e il
materno, sia che la donna sia o non sia biologicamente madre,
rappresenta la peculiarità . La Dea-Madre, infatti può non essere
biologicamente madre, e tuttavia vivere una piena ed appagante
maternalità. Anche nei dogmi della Chiesa Cattolica, Maria è
vergine, pur vivendo una reale maternità. A tale proposito è
interessante notare che i missionari, quando giunsero in Cina e in
Messico, scoprirono dee-lunari simili alla Vergine Maria. La
maternità, rappresenta sempre, come Madre-Terra la capacità di dare
frutti. Per questo essa è la nutrice di tutto. Ogni creatura nasce da lei,
così come, nel tempo ha continuato a vivere nella donna quale
32
Elaborato a cura della Dr. S.S. Tabbone, utilizzato durante un incontro
con le donne del Club Inner Wheel di Treviso, 2007
123
vocazione materna che si configura nell’attendere pazientemente
perché essa non sceglie il bambino ma lo riceve (2). Per quanto
riguarda il concetto di verginità , è interessate notare come
dall’antichità, la Dea-Madre esprimesse colei che non ha marito , il
ché non vuol dire che non abbia avuto esperienze sessuali, ma che
appartiene solo a se stessa e non al marito ( anche per la santa cinese
Shing-Moo è detto che concepì un figlio da vergine). La Grande
Madre è vergine anche quando, come le dee lunari della Cina e del
Messico, è dea dell’amore : dee che appartengono ad un sistema
matriarcale in quanto padrone di se stesse: è una- con- se- stessanon è un duplicato, ma è antica ed Eterna, la Madre di Dio. Ciò che
essa fa è vero (5). Popoli diversi, lontani geograficamente, hanno
concepito i medesimi contenuti mitologici, con al centro la figura
femminile nelle sue varie espressioni. Tanto da far considerare, agli
gnostici, femminile lo spirito santo, quale rappresentante dell’Eros,
poiché come dice Eliade (4) l’uomo è padre dei suoi figli solo in
senso giuridico. Tuttavia alcuni autori, tra cui Magli (8) sostengono
che la donna è alla base delle strutture simboliche della cultura ma
che tali strutture sono state create dall’uomo quindi la donna,
anche se dea, appartiene al mondo della natura, in cui l’uomo e solo
l’uomo l’ ha collocata La creazione culturale sarebbe per questa
autrice sfera del maschile. Senza entrare in merito, ci sentiamo di
dire, che i miti della creazione, come ci sono stati nel tempo riportati
dalla letteratura, pongono la dea madre al centro dei fenomeni
naturali, e in definitiva della fecondità. Ma possiamo dire, senza
tema di essere smentiti, che la Dea-Madre, in quasi tutte le religioni è
un archetipo (cioè il contenuto e la tendenza ad organizzare
esperienze e modelli predeterminati), in definitiva come un
recipiente che non si può mai svuotare né riempire. In sé esiste solo
potenzialmente e quando prende forma in una materia, non è più lo
stesso che era stato prima. Persiste attraverso i millenni ed esige
sempre nuova interpretazione (7). E’ un’ immagine interiore legata
non solo alla filiazione, ma anche ad una situazione psichica dell’Io,
che nel tempo si è concretizzata in vari aspetti. Ritorniamo al
discorso iniziale per dire che ci sono molte Grandi Madri le quali
costituiscono le forme attraverso cui la Grande Dea si manifesta .
124
Resta il fatto che la Madre è il centro vitale della vita. Nella teologia
indù, Kalì unisce in sé la madre divina e la forza vitale universale che
è anche il principio spirituale del femminile. E, negli altri aspetti di
Kalì un pensiero cosmocentrico include sia il macrocosmo che il
microcosmo. Kalì è una madre benevola e terribile, ma anche quando
a lei vengono offerti sacrifici, e appare terribile, resta sempre madre.
La madre divina, per gli indù, è la coscienza della manifestazione di
Shiva, è la coscienza della totalità. La Grande – Madre è un
simbolismo di vita e una realtà psicologica che si collega anche al
mare come corpo materno. E, il bambino, quando il mito si evolve
anche nella realtà attuale, fa esperienza della Madre come di un
femminile onnipotente da cui dipende, benevolo e rassicurante. Se
rivisitiamo, il mondo antico, incontriamo tutte le grandi dee: Gaia,
Rea, Era e Demetra per i Greci; Iside per gli egiziani; Ishtar per gli
Assiro-Babilonesi, Astarte per i Fenici, Cibele in Frigia dove è dea
della terra e della luna come le altre dee, Kalì madre benevola e
terribile per gli indiani, dea della fecondità e fertilità, delle piante e
dei raccolti. Questo significa che nella Madre, come archetipo
primigenio, risiede sia il simbolismo della luna ( nella sua
manifestazione del ciclo mensile) che del mare, che della terra.
Nascere ha sempre rappresentato uscire dal corpo della Madre, dalla
Terra. Ma la Madre, nutrice di tenerezza e accudimento, protezione e
nutrimento, può anche diventare oppressione e limite se è divorante:
un seno cattivo. Poiché ogni Dea, e in definitiva ogni madre, include
in sé molteplici aspetti sia positivi che negativi. Nel suo aspetto
negativo che possiamo anche incontrare nelle opere d’arte, in
meduse, Grifoni, Streghe, Arpie e Draghi, come direbbe la
psicoanalisi, essa assume connotazione di madre fallica. Così come
ambivalente risulta nell’archetipo delle dee del destino, delle Parche,
delle Gaie. Con il progredire della civiltà le donne iniziarono
qualcosa di molto simile all’emozione, che chiamiamo amore, e la
dea delle donne si elevò gradualmente (5) infatti sotto la superficie
assopita nell’inconscio, è nascosta la forma primitiva dell’istinto
femminile pronto a riaffermare il suo potere (5). E nel tempo, la
Grande Madre, il suo simbolismo e i suoi miti si sono incarnati in
altre manifestazioni. Ma la maternità, come vitalità fecondatrice, sia
125
essa reale o solo vissuta come atteggiamento maternale, proiettata
nella materia di opere d’arte, che diventano così figli immaginari, o
realizzata attraverso il prendersi cura, rappresenta sempre per la
donna la scelta che ha operato di essere e stare al mondo nel
proprio spazio di umanità (2). E l’archetipo della Madre, quale
patrimonio inalienabile di ciascuna psiche, appartiene ai valori più
alti dell’anima e ha popolato tutti gli olimpi delle Religioni (6). La
Grande Madre, la Dea di tutte gli dei , ha consegnato all’umanità
messaggi e simboli che esistono dentro di noi poiché guardarsi
anche attraverso il mito è incontrarsi con le proprie emozioni e nella
morale del mito che sempre esiste, solo si sia capaci di incontrarla,
interrogarla ed accostarla con umiltà e apertura la ricerca delle
origini è spiegazione, desiderio di conoscenza (9). E’ così allora che
l’archetipo della Dea-Madre si diffonde non soltanto in virtù della
tradizione, del linguaggio, della migrazione ma si può riprodurre
spontaneamente sempre e ovunque, in forme e modalità indipendenti
dalle funzioni esterne (6). Questo è il messaggio che la Dea-Madre
ci può offrire poiché nelle varie realtà in cui il femminile si esprime
essa esiste e continua a produrre le sue manifestazioni.
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Magli I., “ La donna un problema aperto”, Vallecchi, 1970
Resnik S., “Il teatro del sogno”, Boringhieri, 1982
126
ANCORA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
33
- So che lei si è occupata di violenza alle donne, cosa ci può
raccontare?
Dal 1979, per dodici anni, lavorando per la prevenzione delle
devianze giovanili e con cinquecentoquaranta giovani accolti nella
Piccola Comunità di Conegliano, per la cura delle tossicodipendenze,
ho frequentemente incontrato il problema, anche tra i familiari che li
accompagnavano. Dal 2005 me ne occupo con l’ A.I.D.M. , società
scientifica di cui presiedo la Sezione di Treviso, promuovendo
Convegni e Seminari, accreditati dal Ministero della Salute, per la
formazione dei medici e degli operatori sociosanitari. Quale socia
Soroptimist e coordinatrice dell’area salute dal 2005, sono stata
chiamata per l’attuazione di iniziative di formazione e
sensibilizzazione antiviolenza volte alla cittadinanza. Nel mio studio
di psicoterapia, dagli anni 70 ricevo anche persone violentate e
violentatori, perché le vie del recupero sono sempre aperte e per tutti.
- Ha una definizione di violenza alle donne?
L’ha offerta Kofi Annam, nel 2000, in sede istituzionale, affermando
che “La violenza contro le donne è forse la più vergognosa fra le
violazioni dei diritti umani. Essa non conosce confini geografici, né
culturali, né di benessere economico. Fino a quando essa esisterà non
potremo affermare di aver compiuto reali progressi verso la parità fra
generi, lo sviluppo, la pace”. Ciò è per me innegabile.
- Il fenomeno è quantificabile
E’ di difficilissima quantificazione per l’interferenza di schermi di
perbenismo, paura e perfino di assuefazione specifici delle vittime e
per la mancanza di informazione e di preparazione delle istituzioni,
delle categorie professionali e del personale medico a riconoscere le
situazioni di violenza domestica e non, che può essere causa di errori
diagnostici. Per quanto riguarda l’Italia , gli studi e le ricerche
statistiche si concentrano sulla casistica giudiziaria molto ridotta
perché sono poche le donne che denunciano, sull’analisi dei referti
del pronto soccorso e sulla casistica dei pochi centri antiviolenza
33
Report dell’intervista accordata dalla Dr. S.S. Tabbone alla giornalista
Dr. Laura Tuveri , per il giornale “La Piazza”,Treviso, 2006
127
esistenti che rappresentano le fonti di base. Le donne che si
rivolgono a tali centri sono ancora poche e provengono spesso dalla
classe operaia . Ciò indica che le donne appartenenti alle classi
privilegiate, si rivolgono ai servizi privati.
- Ha dati statistici
Tra i vari dati cito quelli forniti dal Consiglio di Europa che presenta
la violenza del marito, del fidanzato o del padre come la prima
causa di morte e invalidità permanente per le donne tra i 14 e i 44
anni, ancor prima del cancro o degli incidenti stradali. In Italia
abbiamo un omicidio in famiglia ogni 40 ore, con la Lombardia al
primo posto e le donne vittime in ben due terzi dei casi. Sono più di
mezzo milione le donne che nel corso della loro vita hanno subito
almeno una violenza sessuale. Gli sconosciuti c’entrano per il 18%,
ne sono invece responsabili in un caso su due parenti, amici,
fidanzati, conviventi, coniugi o “ex”. Nella nostra nazione le donne
che si rivolgono ai centri antiviolenza sono in grande maggioranza
italiane (85%- 90%). Piuttosto basse le quote per le donne dei paesi
UE ( 2%-3%) e dei paesi extra UE con o senza permesso di
soggiorno ( pari rispettivamente a 6%-7% e a 2%-3%). Ciò indica
che l’attività dei centri è nota soprattutto alle donne italiane.
- Oggi il fenomeno sembra essere più visibile. Quali i motivi ?
Tra i principali motivi trovo la raggiunta indipendenza economica
della donna, che l’aiuta ad uscire dall’isolamento in famiglia; la
tipologia della famiglia non più patriarcale, per cui sono venute
meno le figure cuscinetto repressivo del suocero, cugino o cognato
patriarca; l’esistenza di un apparato amministrativo che ha messo in
campo specifici servizi socio assistenziali e sanitari, pochi a dire il
vero rispetto alle necessità;una nuova cultura giuridica, con
l’introduzione di leggi più sensibili ai problemi famigliari; una
presenza più efficace del volontariato.
- Il fenomeno è aumentato?
Si assiste in tutte le nazioni ad una intensificazione dell’espressione
della violenza legata a condizioni sociali, culturali, politiche ed
economiche, adombrate da minacce terroristiche e di guerra, che
favoriscono ritorni alle tradizioni e nella tradizione purtroppo c’è la
legittimazione della limitazione della libertà di scelta della donna e il
128
suo controllo attraverso la violenza. E così le donne, che hanno
cominciato a “svelarsi” negli anni 50, con l’avvio del terzo
millennio tornano a “ri-velarsi”. Oggi anche la tecnologia consente
una intensificazione della violenza alle donne, in numerose nuove
forme. Tra queste emerge il fenomeno chiamato Stalking, ossia la
sindrome del molestatore assilante. Si tratta di un comportamento
patologico che si esprime con telefonate ripetute, sms ossessivi, la
costruzione di siti web in cui il molestatore a pagamento offre
immagini e prestazioni sessuali dell’ex patner, a sua insaputa. Lo
stalker agisce per via telematica la vendetta e il controllo sulla donna
che non è riuscito a dominare con altri mezzi.
- Anche i minori sono implicati nelle violenze domestiche?
I minori subiscono violenza in famiglia sia direttamente che
indirettamente attraverso la violenza alle madri a cui assistono
inevitabilmente: dobbiamo ricordare che nelle case dove c’è un
bambino anche le mura hanno le orecchie
- Abbiamo esempi di violenza alla madre perpetrati da minori. Può
parlarne?
Il fenomeno a lungo sommerso comincia ad avere visibilità, non solo
attraverso la notizia del ben noto omicidio di Erika.
Già si registrano decisioni giudiziarie di applicazione nei confronti
dei figli della legge n 154/2001 recante misure contro la violenza
nelle relazioni famigliari. La violenza dei figli può anche limitarsi ad
atteggiamenti aggressivi con l’uso di termini sconvenienti, con
espressioni colleriche fatte di gesti e comportamenti provocatori ed
offensivi: quando non è agita con la complicità palese del padre, può
rivolgersi anche contro di lui. I familiari di questi minori aggressivi,
che tendono a tenere celata la condotta del/la figlio/a, nel cercare di
risolvere in casa il problema , favoriscono il peggioramento dei
livelli di angoscia fino ad esplosioni indomabili che “consentono”
di rendere noto il complice segreto patteggiato per il “buon nome
della famiglia”.
Sara Stefania Tabbone
Via P.M.Pennacchi 4
31100 Treviso
129
Gigliola Tessari34
LE GIOVANI ADOLESCENTI E LE LORO MADRI.
LA CONTRACCEZIONE IN UN CONSULTORIO
FAMILIARE DEL VENETO 35
Nell’ambito dei Consultori Familiari, in Italia, il lavoro con le
adolescenti si è, fin dai primi anni, imposto come una priorità; ha
favorito nel medico un approccio alla complessità, ha obbligato gli
operatori al confronto, alla condivisione, ad interrogarsi sulla proprio
pratica, sul proprio schema di riferimento, sulla organizzazione dei
servizi. L’offerta condiziona la “domanda”, le modalità con cui le
adolescenti si rivolgono ai Servizi; va quindi continuamente
calibrata, in modo che l’organizzazione ed il setting siano adeguati ai
bisogni emergenti. Sono richiesti dei requisiti di base per un corretto
lavoro con le giovani: è importante curare le modalità di accoglienza,
rendere possibile la presenza di un gruppo di operatori di diversa
professionalità che sappiano condividere e integrare i loro saperi, è
fondamentale cogliere i propri pregiudizi e le proprie stereotipie.
Nei servizi di Consultorio Familiare, si è a lungo discusso quale
fosse il livello organizzativo ottimale per favorire l’accesso dei
giovani; era utile/necessario definire alcuni “spazi adolescenti” con
apertura e programmazione finalizzate all’accoglienza e alla presa in
carico specifica degli adolescenti? Alcuni operatori ritenevano
indispensabile favorire spazi nettamente distinti in cui permettere una
atmosfera adatta alla presenza dei giovani, evitare la possibilità di
incontrare degli adulti conosciuti, permettere un accesso libero.
A giudizio di altri operatori, queste caratteristiche potevano sì, per
alcuni giovani, essere importanti, ma ritenevano che
la
istituzionalizzazione di spazi “riservati”, potesse poi privare l’utenza
34
Ginecologa e Psicoterapeuta c/o Consultorio Familiare Vittorio Veneto
ULSS 7 Regione Veneto. Socia A.I.D.M. TV dal 2005
35
Comunicazione al Convegno Regionale del Triveneto a titolo “IVG e le
risorse della prevenzione” Treviso, 2005, organizzato da A.GI.CO. e
A.I.D.M. TV, accreditato dal Ministero della Salute
130
giovanile della possibilità di accedere ai servizi consultoriali nelle
modalità loro più consone; in questo senso, si preferiva predisporre
per i giovani “spazi preferenziali” nei tempi e nelle modalità di
accesso. Fin dall’apertura del Consultorio Familiare di Vittorio
Veneto, nella Regione Veneto, gli operatori hanno ritenuto
fondamentale il lavoro con gruppi di adolescenti, su tematiche
specifiche (contraccezione, sessualità); l’affluenza di giovani al
servizio era e si è mantenuta importante, grazie a queste iniziative e
alla presenza di tempi e modalità di accesso preferenziali, con la
riduzione dei tempi di attesa per i giovani e la possibilità di arrivare
da soli, o accompagnati da chi preferiscono.
Osservazioni sul vincolo Madre-Figlia
Si è così evidenziato un fenomeno inaspettato: molte madri
“portano” le giovani figlie al Consultorio Familiare, per problemi
collegati alla pubertà,
alle caratteristiche mestruali, alla
contraccezione; si è inoltre potuto notare, nella consulenza
ginecologica con alcune giovanissime, spesso accompagnate dalle
loro madri, l’intreccio di storie ginecologiche tra madri e figlie e
l’importanza della figura materna, per l’accesso ad una
contraccezione efficace e continuativa almeno fino ai 19 anni d’età;
questo aspetto si è rafforzato, negli ultimi anni. Su questi aspetti
erano rimasti aperti degli interrogativi, che abbiamo cercato di
approfondire, focalizzando l’attenzione sulle modalità relazionali e
comunicative tra madri e figlie. Per valutare l’approccio alla
contraccezione e gli elementi di differenza nel tempo, sono state
prese in considerazione le richieste al Consultorio, in riferimento alle
consulenze ginecologiche sulle scelte e sulla compliance
contraccettiva di 230 giovani, tra i 14 e 21 anni di età, negli anni
2001/2002, confrontate con osservazioni fatte negli anni precedenti.
Si è venuto affinando un metodo di lavoro basato sull’osservazione
del vincolo madre-figlia; vincolo inteso, secondo la concezione
operativa proposta da Pichon-Riviere, Bleger e Bauleo, come una
struttura complessa che include le interrelazioni tra due o più
soggetti, in cui i comportamenti, la comunicazione in relazione al
manifesto, alla problematica portata, rimandano alla relazione interna
tra i soggetti. La continuità negli accessi ha permesso una
131
valutazione longitudinale delle tematiche e ha favorito la possibilità
di riconoscere le caratteristiche del vincolo tra madri e figlie, grazie
anche ad appunti registrati in cartella, in cui erano stati evidenziati
spunti clinici significativi, alcune frasi, modalità di espressione, che
sottolineavano i concetti fondamentali, le osservazioni poste in
riferimento alla contraccezione e alla sessualità. La continuità del
lavoro nella stessa sede, per circa 25 anni, ha permesso inoltre di
“registrare” cambiamenti anche nel costume, nel “tessuto
relazionale”, nell’approccio alla sessualità, soprattutto confrontando
la casistica attuale con quella più “datata”. Nella consulenza
contraccettiva, si era notato che alcune ragazze non presentavano
effetti collaterali nell’utilizzo di estroprogestinici o non ne
lamentavano l’importanza; in altre, effetti anche inferiori erano
enfatizzati e ogni motivo sembrava utile per sospendere l’utilizzo
dell’estroprogestinico,
per alimentare richieste e consulenze
continue, per mettere in discussione il corretto utilizzo del
profilattico. Nel lavoro con le ragazze più giovani le informazioni, i
chiarimenti, non modificavano sostanzialmente i comportamenti.
Dovevano esserci altri fattori importanti, che non prendevamo in
considerazione; o sui cui non riuscivamo ad incidere. Valutando
anche longitudinalmente alcune storie cliniche e confrontandole tra
di loro, è risultato essere fondamentale, l’atteggiamento e l’appoggio
della madre, rispetto alla sessualità e alla scelta contraccettiva.
Abbiamo visto essere una costante la necessità di un riferimento, di
un appoggio di una figura materna benevola, per l’accesso ad una
contraccezione continuativa, almeno fino ai 19 anni di età. Le
osservazioni e i dati che ponevamo a confronto, confermavano che se
non c’è una madre in sala d’attesa, o con cui parlarne a casa, la
contraccezione sarà saltuaria, con un maggior numero di effetti
collaterali; le adolescenti continueranno ad avere comportamenti a
rischio sia per gravidanza, che per malattie sessualmente trasmesse,
ad interrogarsi sulla loro fertilità, ad essere stupite e/o spaventate da
aspetti fisiologici o parafisiologici. Se la madre non sa e non sa
soprattutto della vita sessuale, preferiscono utilizzare il profilattico
che sembra meno coinvolgente, potendo fare parte di una sessualità
vissuta, nell’immaginario, ancora in modo non continuativo, non
132
programmato. La pillola ricorda tutti i giorni la propria attività
sessuale e suscita il timore di un danno. La gran parte delle ragazze,
avverte la contraccezione ormonale come una scelta molto
importante, da condividere; dispiace loro non poterne parlare con la
propria madre. C’è bisogno di un consenso: c’è chi ne ha parlato con
la sorella maggiore che consiglia e rassicura. Molte giovanissime,
che arrivano in consultorio familiare a chiedere sulla pillola, sono
state “sollecitate” e a volte “convinte” dalla madre. “Il consiglio”
della madre fa superare molti ostacoli. L’ansietà correlata ad una
scelta contraccettiva, che avvertono come impegnativa, hanno
bisogno di condividerla con la madre; se è la madre ad assumere
l’ansietà e a calmare le preoccupazioni, la figlia può stare tranquilla.
Quando le ragazzine in casa non osano parlare di contraccezione, o la
madre non è d’accordo, arrivano ad una contraccezione stabile ed
efficace dopo fallimenti contraccettivi e più in la rispetto alle altre.
Nelle cartelle cliniche delle ragazze che erano risultate le pazienti più
a rischio, abbiamo trovato spesso annotate queste frasi: “… ne
parlerò a mia madre… se ne potessi parlare a mia madre…. Non mi
sento di fare le cose di nascosto, se poi mi scopre…”. Queste ragazze
cercavano non tanto e non solo informazioni e chiarimenti ma
qualcuno cui affidare le loro preoccupazioni; sopportavano un carico
d’ansia, che le faceva apparire più autonome, ma anche confuse e in
difficoltà, come se avessero ancora bisogno per un certo tempo, per
crescere, delle attenzioni, del dialogo nell’ambiente familiare.
E come sono le madri?
Ci sono madri attente con figlie ostiche, madri che sanno essere
discrete, che accompagnano la figlia di 16 anni e subito escono, per
lasciare la figlia libera di decidere. Madri che appaiono insistenti,
preoccupate, invasive. A volte sembrano volere fermare il tempo, far
si che tutto resti uguale; fanno di tutto per trattenere le loro figlie,
anche cercando di condividere aspetti della sessualità, la
contraccezione; le inviano al consultorio per la pillola del giorno
dopo, le accompagnano per una IVG. A volte si nota lo smarrimento
delle madri, di fronte alla sessualità della figlia. Anni fa, le ragazze si
nascondevano dietro le irregolarità o i disturbi mestruali, per avere
l’approvazione della madre alla pillola; ora succede di rado; adesso
133
arrivano le madri in aiuto alle figlie. Come ci sono madri che fanno
assumere la pillola, ce ne sono altre che la fanno smettere, a meno
che le figlie non siano veramente determinate e autonome: ho visto
madri tacere tutte le loro preoccupazioni, per non pesare sulla figlia
con il loro passato di gravidanze indesiderate e di lutti, per lasciarla
libera. Però, ci sono ragazze che non sono convinte dell’utilizzo della
pillola, mentre le madri insistono, pongono le loro motivazioni in
primo piano. Bisogna fare attenzione: l’utilizzo della pillola, può
diventare una “normativa” delle madri, mentre possono mancare le
motivazioni e le convinzioni personali da parte delle ragazze; quando
le madri appaiono prevaricanti, nei confronti delle figlie, può esserci
un fallimento nella motivazione e nella continuità contraccettiva.
Importanza del contesto
Per ogni ragazza, c’è un momento in cui sente quale contraccezione
può essere utile; ma questo avviene in un processo, in un percorso e
ci possono essere vari ostacoli da superare; la scelta contraccettiva si
sviluppa da un confronto tra necessità, paure, bisogni, possibilità.
Questi aspetti emergenti ci interrogano, nella loro complessità, sulle
modificazioni nella relazione madri-figlie e su quelle del contesto
familiare, sociale e culturale. Risuonano le parole di S. Freud,
quando nello scritto “Sessualità femminile (1931)” parla delle madri
che nei confronti delle figlie sono “custodi” della loro castità, fino a
provocare reazioni di ostilità e rifiuto. Un tempo tanto lontano? Sì,
per alcuni aspetti; no, se pensiamo a culture diverse con cui ci
rapportiamo e confrontiamo; no, se pensiamo ad un cambiamento di
compiti all’interno della famiglia. Le madri ora sembrano “vigilare”
sulla fertilità delle loro figlie, ma sono in grado spesso di farlo
affiancando, favorendo una maturazione; e sappiamo quanto sia
importante prevenire gravidanze precoci. Tendiamo a dimenticare
come fosse il clima sociale e culturale 30 anni fa, nei riguardi della
contraccezione , in Italia. Fino al 1971, quando la Corte
Costituzionale abrogò l’art. 543 del C.P., la propaganda e
l’informazione anticoncezionale erano vietate come attentato
all’integrità della stirpe; e negli anni successivi, la situazione si è
modificata con grande lentezza e difficoltà. Le madri che ora stiamo
vedendo, sono cresciute in tempi successivi alla libertà di
134
informazione; l’aumento della scolarizzazione, la possibilità di
scambio, di confronto, l’apertura culturale degli anni ’70, hanno
sviluppato nuove competenze. Sono le donne che hanno
maggiormente contribuito al calo percentuale degli aborti in Italia
nell’ultimo decennio ; sono donne in grado di proteggere sé e le loro
figlie; sono madri divenute punto di riferimento ancora più
importante, per i cambiamenti in atto nel nucleo famigliare. Queste
madri ci appaiono rappresentare un ambiente familiare capace
comunque di mantenere un ascolto anche in condizioni di difficoltà,
di trasformare le modalità comunicative e relazionali, al passo con la
crescita dei figli. Qui si aprono delle domande; una riguarda la
collocazione dei padri, di fronte a queste tematiche. Poche ragazze
riferiscono che sull’argomento viene coinvolto anche il padre ; la
maggioranza dice che - …no, con il papà no… sarebbe troppo
imbarazzante…- D’altronde la relazione padri / figlie ha
caratteristiche diverse; possiamo dire che quando coinvolti, per la
contraccezione, per l’assenso ad una interruzione di gravidanza in
minori di 18 anni, li abbiamo visti reagire in maniera viscerale, come
incapaci di far fronte ad eventi di tale portata e a segnalare che la
sessualità dei figli è un punto critico per la famiglia. Negli incontri di
educazione sessuale con i giovani, nelle scuole, sono soprattutto i
maschi a segnalare le difficoltà che incontrano nell’ambiente
familiare: dicono di sentirsi “trattenuti nell’infanzia” dai loro
genitori. Parlano di un conflitto aspro tra il bisogno di autonomia e il
bisogno, ancora forte, di appoggio alle figure genitoriali , che restano
fondamentali in questa età; parlano del bisogno di esprimersi, di
essere ascoltati, di essere visibili nei loro cambiamenti.
Quale può essere la funzione degli operatori?
Noi operatori abbiamo imparato quanto il riferimento alle figure
genitoriali sia fondamentale per i ragazzi e abbiamo imparato a
contare su questo aspetto, siano o meno presenti concretamente i
genitori nel momento del lavoro in Consultorio. Se la mamma dice
che la pillola può far male, non sarà certo un “operatore qualunque”
a far cambiare idea: restano ancora prioritari per le motivazioni alla
scelta e ai comportamenti contraccettivi, la madre e il contesto
familiare e sociale. Come dicevamo, molte ragazze arrivano da sole
135
su consiglio della madre; queste ragazze, specialmente tra i 17 e 19
anni, si stanno facendo sempre più numerose, in questi ultimi anni, di
solito utilizzano già il profilattico e dimostrano grande tolleranza nei
riguardi degli effetti collaterali: sono motivate. Gli operatori sono di
supporto per il rafforzamento della scelta, per un corretto utilizzo,
per una informazione approfondita. Ruolo degli operatori, sarà
ascoltare non solo le richieste, i dubbi, ma anche le condizioni di
possibilità; calibrare le informazioni sul campo, non sottovalutare la
complessità del processo decisionale. Nel tipo di scelta
contraccettiva, anche qui resta importante l’influenza familiare;
occorre aprire delle domande. Nell’utilizzo di un contraccettivo di
barriera, non basta fermarsi ad una prima risposta, positiva, che la
ragazza può dare; occorre soffermarsi sulla qualità dell’utilizzo, non
sempre costante e affidabile. Se c’è un clima familiare di attenzione e
di dialogo, il contraccettivo viene utilizzato correttamente.
L’attenzione dei genitori viene fatta propria dai figli. Un tempo,
erano preponderanti, la scelta ed il comportamento contraccettivo del
partner, la donna si affidava a lui. Attualmente sono le ragazze più
accorte dei loro coetanei, che riconoscono più propensi ad avere
comportamenti a rischio. Ora restano valide le maggiori difficoltà nel
corretto utilizzo di un contraccettivo, specie se di barriera, quando la
differenza d’età con il partner è notevole (5-10 anni): c’è un
trasferimento d’autorità, delega e sottomissione. Dicevamo che , in
questi ultimi anni, molte giovanissime che arrivano in Consultorio
Familiare a chiedere informazioni sulla pillola, sono state
“sollecitate” e a volte “convinte” dalla madre. E noi sentiamo che
queste madri hanno indirizzato le loro figlie verso qualcuno cui in
qualche modo affidarle. Questo dà la misura della fiducia che una
struttura come il Consultorio Familiare può acquistare e a volte
conquistare; una fiducia acquisita nel tempo, nel lavoro, nella
comprensione dei nuovi bisogni, nella vicinanza al contesto sociale.
Una struttura che può diventare un punto di riferimento. Quanti
condizionamenti ci sono nell’iter decisionale? E il ginecologo può
parlare liberamente? Ci troviamo spesso a vedere una asimmetria nel
potere decisionale, a favore della famiglia o della ragazza o del
partner o del medico. I giovani diventano protagonisti nella tutela
136
della loro salute sessuale e riproduttiva, attraverso una presa di
coscienza e di autonomia/potere decisionale. Nel lavoro con gli
adolescenti, quando l’urgenza/necessità loro e la disponibilità
/capacità nostra, aprono uno spazio relazionale, possono emergere i
punti salienti, i nodi problematici. In questo senso, sarà importante
anche favorire il lavoro in piccoli gruppi e il contatto/consulenza
anche con altri operatori. Dopo i 19/20 anni, l’operatore viene più
direttamente coinvolto, interpellato e le sue parole acquistano
maggiore efficacia; è come se, nel processo di discriminazione
dell’adolescente, si fosse superata una tappa, oltre la quale il piano
della realtà, della consapevolezza personale, sono più presenti. In
questa età, acquistano importanza soprattutto le considerazioni e le
esperienze di amiche, quando rafforzano un’immagine positiva della
contraccezione; nelle età precedenti, queste esperienze vengono
valorizzate; diventa più sfumata l’opinione dei genitori e risulta
fondamentale la condivisione ed il confronto con il partner.
L’operatore deve quindi imparare a differenziare molto il suo
intervento, collaborare con gli altri operatori, sapere quali supporti la
ragazza ha, capire la situazione, prima di intervenire. Possono esserci
altre domande, altre necessità, dietro le richieste contraccettive.
Oggi,c’è una generazione di donne attente ai bisogni delle figlie ; si
avvertono gli effetti del cambiamento del costume, della morale
pesante e chiusa precedente agli anni 70 ; si respira un’aria di
leggerezza e condivisione, si percepisce una vicinanza, una
partecipazione, tra madri e figlie, impensabile, 20-30 anni fa. Nel
periodo dell’adolescenza, genitori e figli hanno bisogno di percorrere
alcune tappe del processo di individuazione/ discriminazione, di
superare ostilità e tensioni, per arrivare a relazioni di autonomia e
fiducia. Solo allora, la funzione materna di cura e protezione (sì,
ancora anche nell’adolescenza) potrà esplicarsi nella capacità di
essere punto di riferimento e di condivisione nel processo di
maturazione sessuale e relazionale.
Le madri ora sono più “attente” sul versante dei rischi connessi a
malattie sessualmente trasmesse e “preoccupate” per la fertilità delle
loro figlie, sia attuale che futura; ne vediamo gli effetti: figlie che
dimostrano maggior stabilità nella scelta contraccettiva e capacità di
137
proteggersi da comportamenti e da relazioni a rischio, rispetto a 1020 anni fa; le madri capaci anche di restare in disparte e di
permettere alle figlie di diventare protagoniste delle loro scelte, sono
sempre più numerose. Ma, abbiamo visto da alcuni spunti, si possono
profilare anche nuove normative, limitazioni di libertà di scelta e di
autonomia, perdita della funzione discriminante della sessualità, il
mantenimento di una funzione di controllo, su piani diversi. Il “noi”
della condivisione, della partecipazione, può trasformarsi nel “noi”
della indiscriminazione, della non-relazione. Per le madri,
l’accompagnamento alle figlie è molto diverso da quello di 15-20
anni fa; non è più tempo di negare la sessualità delle adolescenti, con
i rischi che ci sono, sembrano dire le madri. Per le figlie, poter
parlare più liberamente in famiglia, fa sì che il comportamento
sessuale possa perdere alcune componenti di disapprovazione, di
perdita di autostima, che facilitano anche comportamenti a rischio.
Per gli operatori, porre in primo piano il vincolo madre/figlia, può
essere l’occasione di passare da una consulenza impegnativa, dagli
esiti incerti, ad un colloquio interessante e produttivo; la capacità di
includere, nell’approccio alle problematiche ginecologiche e
contraccettive, delle giovanissime, le considerazioni, gli atteggiamenti, le valutazioni dell’ambito familiare, favorisce una
integrazione con la complessità degli aspetti del proprio lavoro e del
contesto sociale e culturale.
APPROCCIO INTEGRATO IN OSTETRICIA E GINECOLOGIA
UNA RELAZIONE PER LA SALUTE 36
Il punto di osservazione da cui parlo è quello del lavoro in un
consultorio familiare della Regione Veneto, in cui da quasi trent'anni,
nel contatto con le coppie, le donne, i giovani, si pensa e si
costruiscono modalità di lavoro, strategie di intervento, che possano
essere aderenti ai loro bisogni, alle loro richieste, nel campo della
36
Comunicazione della Dr. G.Tessari agli Atti del Congresso MWIA Sud
Europa e XXVII Congresso A.I.D.M. “Donna e salute: attualità e nuove
prospettive”, Roma, 2007, accreditato dal Ministero della Salute.
138
contraccezione, dell'educazione sessuale, della gravidanza, dell'ivg,
della menopausa. Qui cercherò di rendere comprensibile il processo
che mi ha fatto entrare nel campo della maternità con occhi diversi e
che mi ha portato a distinguere tra visita ginecologica e consulenza
ginecologica in gravidanza. Con la formazione medico-ginecologica
acquisita, cercavo all'inizio di distinguere un confine tra normalità e
patologia, nel complesso delle ansietà, disagi, sofferenze, che le
persone in gravidanza portavano, in un fluttuare di stati d'animo, che
spesso disorientavano. Gli psicologi si occupavano e si occupano di
situazioni francamente problematiche, di adozioni, di difficoltà
relazionali importanti; anche la comunicazione tra operatori era
difficile, con un ‘ritaglio’ delle diverse competenze e un certo
‘arroccamento’ difensivo nel ruolo professionale; guardando ora agli
anni trascorsi nei Servizi Consultoriali, ci si rende conto di come
oggi ci sia negli operatori una consapevolezza maturata, su quelle
che sono le difficoltà affettive e relazionali delle donne in
gravidanza. Anni fa, dire, da parte di un ginecologo, che molto
spesso alla consultazione ginecologica le donne in gravidanza
riferiscono stati d'ansia e di angoscia, insonnia, momenti di
depressione, non era riconosciuto come una realtà diffusa; oppure,
venivano considerati aspetti che esulavano dalla competenza
ginecologica il cui obiettivo era in fondo ottenere un bambino sano
da una donna che si attenesse alle prescrizioni e non ostacolasse il
lavoro del medico su di lei. Ho rivisto alcuni giorni fa con inaspettata
emozione e rinnovata consapevolezza, un filmato di Blob (Rai 3 - 30
luglio 2007) in cui si rivedevano i cortei femministi degli anni '70;
risentire slogan quali: il corpo è mio e lo gestisco io... non più
puttana, non più madonna, ma solamente donna...; mi ha rimandato
indietro nel tempo e mi ha fatto ripercorrere la mia vita professionale
e personale ormai intrecciate, quanta ragione c'era allora e quante
ragioni ci sono ancora oggi. Anche a questo portava la formazione
medico-ginecologica: a pensare alla donna come contenitore, il più
possibile adattabile, alle esigenze del feto e alle prescrizioni che di
volta in volta riceveva; a trattare il corpo come un organismo, un
insieme di organi, di cui certo l'utero non è il più affidabile, visto che
è dal greco isteron=utero che deriva il termine di isteria, concetto
139
teorico fondante il pensiero psicoanalitico. In qualche modo ogni
ginecologo partecipava a questa formazione, facendola sua in modo
inconsapevole; anche quando i pensieri, gli affetti erano vicini e
comuni alle richieste delle donne, operava una specie di
dissociazione tra questi e l'operare quotidiano. Ma mi rendevo conto
che qualcosa non funzionava, quando le patologie in gravidanza
(ipercontrattilità, parti prematuri, gestosi) emergevano inaspettate ed
io me ne sentivo colpita: quali aspetti non erano stati valutati,quali
attenzioni erano mancate ? Ho preso man mano “confidenza” con la
persona gravida, ho imparato ad avvicinarmi di più ai suoi pensieri e
poi a cercare insieme un significato, un senso alle paure, alle
inquietudini; a comprendere che ogni gravidanza porta con sé
aspettative di gioia e la possibilità dello scatenarsi di insicurezze
angoscianti. Da subito. Anni, a completare la formazione con la parte
mancante, quella psicoanalitica, avvicinandomi e poi utilizzando il
modello teorico della “Concezione Operativa di Gruppo”, che deriva
dalla psicologia sociale analitica, sviluppatasi in Argentina intorno
agli anni '30, ad opera di Pichon-Riviere e del gruppo di psicoanalisti
che hanno collaborato con lui. E anche anni a cercare di capire, cosa
dicevano, cosa chiedevano, di che cosa avevano bisogno le donne in
gravidanza, finché non ci si è chiesti come mai ci fosse nell'incontro
della gravida con il ginecologo, una modalità particolare di aprirsi,
di mostrarsi. Scrivevo diciotto anni fa, nella tesi di specializzazione
in “Analisi Operativa di Gruppo” : - Credo sia necessario pensare per
i Consultori Familiari, ad un nuovo compito istituzionale, in cui la
gravidanza sia riconosciuta in tutta la sua complessità dagli operatori,
un compito contro la naturalizzazione della gravidanza e in cui il
cambiamento sia riconosciuto in tutta la sua forza dirompente. Un
compito che riconosca la gravidanza come cambiamento catastrofico
nel mondo interno del soggetto e nella relazione mondo internomondo esterno. Il compito non era facile; ma ora tutta quella
complessità dirompente non spaventava più, anzi attivava i soggetti
in gioco (operatori-pazienti ). Modificato l'obiettivo e la modalità di
consulenza ginecologica si è aperto il mondo della gravidanza, libero
di esprimersi; le donne gravide portavano la complessità della loro
situazione, il loro carico emotivo, gioie e paure e l'operatore poteva
140
cominciare a calibrare tempi e modi, di lavoro e di relazione. Si
esprime una particolare ‘trasparenza psichica’ in gravidanza; non
coglierla, ignorarla, significa mancare una possibilità di lavorare per
la prevenzione, togliendo ostacoli ed attivando le risorse delle
persone. Nella relazione medico-paziente è necessaria la costruzione
di uno ‘spazio’ per arrivare ad una consapevolezza degli affetti, degli
atteggiamenti, delle rigidità e delle ansietà che si trovano nel campo;
la costruzione di una relazione nel ‘qui ed ora’, nell' ‘attenzione ‘ a
quanto emerge nelle gravide, ma anche alle reazioni emotivoaffettive dell'operatore e alle sue preoccupazioni professionali. Si
costruisce così un ‘campo di lavoro’, delineato dal rapporto delle
persone in gioco e nello stesso tempo un ‘campo gruppale’; nel
campo, medico e paziente si modificano. Abbiamo un ginecologo,
una gravida; mentre parlano si guardano, si scrutano, si soppesano; la
gravida chiede, ma come comprendere, come avvicinarsi? Sarà
necessario partecipare al mondo della gravidanza, entrare nei
processi di identificazione; restandone fuori, non capiremmo nulla di
quello che dice e di come si esprime. Si determina come una
‘dissociazione strumentale’ dell'operatore: una parte si identifica, con
processi proiettivi e introiettivi; un'altra parte realizza una ‘eteroosservazione’ (di aspetti transferali e comportamentali, di difese, di
aspettative, di contenuti e di ansietà della gestante) ed una ‘autoosservazione’ degli stessi aspetti in sé. Anche il paziente può andare
incontro ad una forma di dissociazione , operando da una parte
processi transferali e identificatori con proiezioni fino a un vero e
proprio ‘deposito’, e dall'altra parte osservando il medico
innanzitutto, come parla, come si atteggia, che cosa coglie e che cosa
scarta, oltre all'osservazione dell'ambiente intorno. ‘Difese e
resistenze’ attraversano il campo relazionale medico/paziente:
resistenze a conoscere/riconoscere aspetti, movimenti affettivi,
comportamenti; difese che si esprimono in eccessiva/ridotta distanza,
giudizi, negazioni, scissioni. E’ possibile individuare atteggiamenti
paternalistico-autoritari, che favoriscono la sottomissione e la
dipendenza, mescolati ad atteggiamenti materni, che favoriscono la
regressione e la deresponsabilizzazione, oltre ad atteggiamenti
difensivi, che possono aumentare lo stato di confusione e di
141
svalutazione. C'è un aumentato livello di regressione in gravidanza,
ma non dobbiamo favorirla; c'è una aumentata fragilità psichica, ma
non dobbiamo favorire la dipendenza; c'è una aumentata avidità, che
non dovremo favorire né punire con limitazioni eccessive e non
dobbiamo confondere la sottomissione-obbedienza con la
compliance. La consultazione ginecologica può essere soddisfatta in
vari modi; se il medico inizia con le domande ”rituali” inerenti
all'anamnesi, il campo si chiude ed è definito dall'operatore, da
quello che lui permette o non permette. Se utilizziamo come
strumento di lavoro anche la tecnica del colloquio, aperto, si
permette che il campo si configuri il più possibile in base alla
variabili che dipendono dalla personalità dell'utente. Svelamento
della donna gravida e comprensione psicodinamica della gravidanza,
andranno così di pari passo e consentiranno l’espressione di un
mondo di fantasie, sogni, speranze, paure che il medico accoglierà e
accompagnerà, tacendo se si affaccia la fantasia di unitarietà madrefeto; sorridendo di fronte alle fantasie più ‘semplici’, ma più
radicate, cercando di rafforzare la capacità di contenimento e di cura
della donna gravida con informazioni adeguate e sostegno che non
interferiscano con la possibilità di fantasticare e di immaginare, ma
possano mitigare idee, racconti...riscaldare i momenti più difficili, i
passaggi più scabrosi. Spesso non vengono valutate a sufficienza le
reazioni delle pazienti; questo è particolarmente evidente nella
diagnostica prenatale, in cui può esservi un importante divario tra le
proposte del medico e l'intenzione delle pazienti, tra le informazioni
e la capacità di valutazione e di scelta. La donna (la coppia) assume
livelli di responsabilità decisionale elevati, su cui è necessario
soffermarsi; l'ansietà che ne può derivare, può raggiungere quote
intollerabili. E difficile riuscire ad informare senza ferire, perché
ogni sospetto di anomalia fetale, ogni variazione dalla norma, tutto
quello che comporta uno stato di allarme, possono aumentare l'ansia
della donna ( e del suo partner) fino a livelli ingestibili con il rischio
di danneggiare la sottile interazione della coppia madre-figlio.
Durante il primo incontro si svolge il compito di Osservare/annotare
come il paziente si presenta, che cosa esprime, che cosa trasmette.
L’eventuale nodo problematico si delinea in relazione al come il
142
medico accoglie il paziente, le frasi che dice, come permette o no di
parlare; come risponde ai comportamenti e ai contenuti, che cosa
decide di scegliere e di scartare, quali punti riprende, in relazione
agli indirizzi diagnostico-terapeutici che offre e come conclude
l’incontro. Dove c'è un osservare/pensare/immaginare, può esserci
una diagnostica, comprensiva dei tratti di carattere e di personalità,
più completa, più complessa, più utile per il lavoro. Una eccessiva
burocratizzazione dell’incontro, l'impazienza, il tempo limitato,
possono aumentare la distanza e la semplificazione, favorendo così
anche le incomprensioni e gli errori di valutazione, rendendo il
quadro clinico incompiuto, carente, confuso. Considerando la
complessità del campo, ci si domanda spesso: quanto riservare alla
consulenza ostetrica/ginecologica?quanto rimandare ad incontri di
gruppo?quanto approfondire con la consulenza psicologica/sociale?.
D'altra parte, la persona in gravidanza tende ad utilizzare per i suoi
bisogni, diversi nei vari momenti, varie figure professionali e questo
può scatenare rivalità e competizione tra gli operatori, tra territorio e
ospedale; non è facile, “passare la mano” ad altri, eppure occorre
saper terminare e favorire degli intrecci operativi, in cui i diversi
punti di osservazione possano comunicare. Dobbiamo ricordare: il
lavoro ‘integrato’ tra gli operatori e ‘integrato’ nella singola figura
professionale, tanto più è necessario tanto più diventa difficile in
gravidanza, dove c’è tendenza a scorporare gli aspetti psciologici
della maternità dagli altri. Gli elementi di cambiamento in
gravidanza sono così numerosi e importanti, che ogni donna prima o
poi presenterà un intoppo su cui è necessario soffermarsi; la risposta
del medico al sintomo, al problema, al comportamento presentato,
verrà a costituire un fattore della massima importanza, nel favorire
un irrigidimento o una comprensione della situazione. Nella
comprensione dei segnali, se si esce dal rapporto causa-effetto,
sintomo-farmaco, ma si ricorda la multifattorialità, si apre un
ventaglio di attenzioni e di possibilità; si possono annotare/annodare
tra di loro alcuni particolari, alcune caratteristiche delle gravide, da
rimandare loro. Il buon lavoro della coppia ginecologo/gravida,
aumenta il senso di sicurezza, la capacità di intuire le tendenze
materne della donna, e il suo specifico modo di divenire madre. Sarà
143
importante che il medico rinunci a dare risposte immediate e si
impegni perché si aprano domande, per approfondire, per dare tempo
e attivare risorse, perché la donna possa esprimere ansie e difficoltà,
riducendo la necessità di rimuoverle, di negarle e di esprimerle in
altro modo. I segnali di benessere/malessere, lo abbiamo visto,
possono derivare dall'area del corpo, dall'area della mente, dall'area
delle relazioni con il mondo esterno; ci sarà il predominio espressivo
di una di queste aree, ma andranno considerate simultaneamente
anche le altre, per una valutazione globale della persona, soprattutto
per capire come questa cerca di ridurre le sue tensioni, di sopportare
o risolvere i suoi conflitti e per favorire l’apertura di uno spazio di
espressione e di elaborazione della maternità psichica, anche nelle
sue difficoltà e possibili fallimenti. La formazione del ginecologo ad
orientarsi verso un'integrazione con la complessità degli aspettti del
proprio lavoro, oltre che verso una interazione ed integrazione con
diverse professionalità , può favorire l’ingresso in una dimensione
della maternità ( e della paternità), senza che disagi, ansietà,
incomprensioni e confusioni si sommino fino a sfociare in una
grave sofferenza, in una patologia della mamma e del bambino con
gravi conseguenze per la coppia e per la famiglia di provenienza.
BIBLIOGRAFIA
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sociale, Ed. Lauretana; (1979), Teoria del vincolo, Ed. Nueva Vision
Winnicott D.W.,1989, Sviluppo affettivo e ambiente, Ed. Armando
Gigliola Tessari
Via Lughera 31
31010 Fregona (TV)
144
Paola Volpato 37
IL CANCRO NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO:
TRA CONTINUITA’ E CAMBIAMENTO 38
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, ritengo utile, esaminare la
“malattia cancro” e le sue origini, in un’ottica psico filosofica.
Il Cancro da sempre è una patologia ammantata da un alone mitico e
la parola stessa, tabù per molti, ha molteplici significati: Cancro
come malattia – Cancro come crostaceo – Cancro come segno
zodiacale – Cancro come Tropico ed , infine, parola allegorizzante,
fatti ed eventi nocivi alla società (la droga, la mafia, il terrorismo
sono dei cancri sociali).
Se ci si attiene alla etimologia della parola: Cancro (dal latino
cancer) = granchio, carcinoma; Cancro (dal greco karkinos) =
granchio, cancro, tenaglia, strumento di tortura.
Atteso quanto sopra si evidenziano alcune delle molteplici cause che
hanno concorso a rendere la “parola-malattia cancro”, sinonimo di
terrore, di male oscuro,di sconvolgimento fisico e sociale.
E’ una malattia che scatena paure che provocano nella società, nei
pazienti e nei loro famigliari, significative difficoltà psichiche che
inducono nel malato intense e diverse reazioni nelle strutture
profonde della personalità.
Altro motivo di terrore è il “ divenire “ della malattia nel suo
decorso: il dolore intenso, il deperimento organico, che porta
l’ammalato a rinchiudersi in sé stesso evitando, per quanto possibile,
il contatto con parenti ed amici, sgraditi testimoni di un progressivo
decadimento. Per alcuni al crollo fisico può aggiungersi il crollo
morale quando il cancro sia considerato una punizione divina per
colpe reali o supposte tali.
37
Psicologa Psicoterapeuta, socia
ASVEGRA e COIRAG, libera
professionista in Treviso, corrispondente AIDM TV dal 2005
38
Relazione al Seminario Multidisciplinare “Formazione relazionale in
medicina: protagonista la malattia neoplastica” Treviso, 2006, A.I.D.M. TV
145
Parlando dell’Immaginario collettivo ci dobbiamo riferire alla
dimensione culturale e sociale della malattia in contrapposizione alla
dimensione biologica della patologia stessa.
Le componenti costitutive sono: le immagini, metafore, significati,
rappresentazioni, sensazioni ed emozioni. L’Immaginario collettivo è
spesso contrapposto alla scienza, alla verità, ai fatti.
Il Cancro è stato definito come una “piaga” un’”epidemia” pertanto è
pensato come “malattia che non perdona nessuno”colpisce buoni e
cattivi, ricchi e poveri. Viene associato alla morte, alla perdita della
speranza, alla sofferenza: “una morte lenta che distrugge la persona
che diviene uno scheletro”. Essendo una malattia avvolta di mistero è
spesso associata al fato, al destino, ad una punizione divina.
Qui rientra il concetto che la “malattia” è un’invasione dall’esterno
ed il corpo è vissuto come colui che deve intraprendere una guerra
contro l’invasore. Esiste anche la metafora che il cancro è “una
bestia”, un animale che divora dentro. L’associazione con
l’immagine medioevale del “diavolo” è implicita nella dicotomia
medica del tumore “benigno” e “maligno”. Il Cancro è inoltre
considerato nell’Immaginario collettivo una malattia della nostra
civiltà in riferimento alla tossicità dell’ambiente fisico e mentale.
Le metafore ed i significati associati ai tumori hanno però
contribuito, con il passare degli anni a dei cambiamenti.
Partendo dalla associazione cancro-morte, oggi si può parlare di
cancro curabile, in altre parole si può considerare il cancro come
malattia con esiti diversi.
Sempre più la malattia viene presentata come una sfida che è
possibile vincere ed al malato viene affidata la responsabilità della
sua malattia e della sua guarigione.
Si parla di più di speranze di sconfiggere il cancro anche attraverso la
diagnosi precoce ed una riconcettualizzazione del cancro concepito
come malattia genetica, ossia una patologia che comporta delle
alterazioni nei geni. Ma tutto ciò non tranquillizza, perché viene
ancora chiamato in causa l’Immaginario collettivo con immagini,
emozioni, relativamente ai termini come “genetica”, “ereditarietà”
“familiarità”. Ciò che è genetico è considerato nel pensiero
tradizionale come parte della natura e contrapposto a ciò che è
146
ambientale. In questo modo si colloca la causa, per esempio, il
cancro al seno, all’interno della famiglia o del corpo della donna.
Da ricerche fatte si è riscontrato che tra le donne ad elevato rischio
familiare per il tumore al seno, l’ereditarietà è vissuta con vergogna
ed ostilità anche verso la madre, portatrice iniziale, che viene
stigmatizzata o discriminata.
I cambiamenti avvenuti nell’ Imma-ginario collettivo negli ultimi 30
anni, hanno visto questa patologia uscire dal silenzio ed entrare nella
vita pubblica, ma ancora non è sufficiente a sfatare del tutto le grandi
dicotomie: vita-morte, sé-altri, mente-corpo, individuo-società,
salute-malattia, buono-cattivo, dentro-fuori.
Alcuni cambiamenti sono avvenuti: la diagnosi precoce con una
nuova idea di prevenzione atta a sfatare la vecchia concezione di
malattia; l’aumento dell’informazione medica e scientifica nei mass
media ed un atteggiamento, da parte dei medici, verso i pazienti, con
un rapporto che si regge su tre principi: la beneficità, è quella del
medico che mette il suo sapere ed il suo potere curativo al servizio
del paziente; l’autonomia, è quella del paziente che ha il diritto di
non accettare tutto ciò che gli viene proposto in sede diagnostica e
terapeutica; infine, il prendersi cura.
Il prendersi cura contiene un “andar oltre verso gli altri”, il verbo
riflessivo ci impegna nel senso che l’intervento non può essere a
binario unico, orientato verso una persona che dà ed una che prende,
ma ci si coinvolge nell’atto in cui si prende cura dell’altro, e nel
contempo, si sta prendendo cura anche di noi stessi, in un modo
circolare e consapevole.
La circolarità del prendersi cura, prevede il riconoscimento che
realmente la vita ci sta mettendo nelle condizioni di poter prendersi
cura dell’altro, offrendoci una grande possibilità di crescita.
Nel vocabolario Treccani sotto il termine “cura” si legge:
“interessamento solerte e premuroso per un oggetto che impegna sia
il nostro animo, che la nostra attività”. Qui per oggetto, dal punto di
vista psicoanalitico, s’intende un referente esterno, un movimento
libidico che impegna il nostro animo e la nostra attività, un moto
dall’interno, ma anche un muoversi, un agire verso l’esterno.
Pertanto il prendersi cura ha due radici: il sentimento e l’azione.
147
All’origine della relazione umana, il prendersi cura ci riporta al
primo modello, quello materno: la mamma si prende cura del
bambino perché è piccolo, indifeso, ed essa con la sua presenza
empatica, riesce a contenere le angosce del figlio, i suoi fantasmi
interni e tenta di umanizzare l’ambiente che circonda il bambino,
rendendolo rassicurante. L’altra funzione di contenimento, o del
prendersi cura, è affidata al padre in un secondo tempo, ed è una
funzione culturale, d’insegnamento, di guida, d’appoggio, di
riferimento sociale. Nei popoli primitivi, il prendersi cura, è
collettivo, gruppale, ed anche nel momento della malattia ritroviamo
questa coralità. Il prendersi cura ricavato dall’esperienza infantile, ci
propone un aspetto idealizzato, perché vi è la gioia di condividere un
momento di festività, come la nascita.
Diverso è l’accudimento di una persona affetta da una malattia grave
o cronica, perché s’incontra la “disillusione”, perché il prendersi cura
di qualcuno che va verso la morte, presuppone di essere riusciti a
perdere l’”incanto” che il prendersi cura è gratificante, assumendoci
un atteggiamento di rispetto per l’altro, con un maggior senso di
completezza. Accompagnare chi non va verso la guarigione, ma
verso la morte, permette di guardare in faccia la propria morte, di
sopportare la solitudine della morte ed incontrare la nostra morte.
Lo sguardo e l’atteggiamento del medico deve essere umano e
soccorrevole da una parte e dall’altra scientifico, per cui il “curare”,
che è sempre “conoscere”, lo porta anche a rassegnarsi
all’ineluttabile e diventare un semplice e umano “accompagnatore”.
Dopo aver parlato del prendersi cura, cerchiamo di approfondire il
termine Cura. Che cosa intendiamo per Cura? Esistono contesti
diversi nei quali si parla di cura, dove cambiano il ruolo dei curanti e
quello delle persone curate.
In un 1° modello di cura, semplice, spontaneo, l’intervento del
curante raggiunge l’obbiettivo della guarigione o meglio il malato
ritorna alla situazione precedente la malattia. Molto spesso il malato
anche se recupera la salute, ha una memoria affettiva, perché
l’attraversamento di certe situazioni, gli può cambiare la vita.
In un 2° modello di cura vi è la misura di guarigione necessaria per
continuare a vivere. Non c’è una restituzione all’integrità, ma una
148
guarigione “sufficiente”. In questi casi che sono i più frequenti,
l’assistenza, il prendersi cura del malato,sono molto importanti tanto
da consentirgli di continuare a convivere e sviluppare il progetto
esistenziale.
Dopo aver esaminato i due modelli di cura, se pensiamo alla
formazione dei curanti, essa può variare a seconda dell’obbiettivo da
raggiungere, perché oltre al ruolo del terapeuta, è necessaria la
partecipazione consapevole del paziente.
Nel 1° modello, come ha riflettuto un medico spagnolo “Gregorio
Maranon”,”il paziente comincia a guarire quando obbedisce al
medico” e così la consapevolezza richiesta al paziente è assente.
Nel 2° modello, la partecipazione consapevole dell’ammalato è
necessaria ed auspicabile. Il curante deve essere sempre formato
nella competenza tecnica, ma anche nella capacità di comunicare al
paziente, coinvolgendolo nelle scelte che lo riguardano, per arrivare
al “consenso informato”ed affinare le possibilità di essere molto
presente, esercitando un “ascolto attivo”, per poter com-prendere il
momento che il paziente sta attraversando e tutto ciò lo possiamo
definire una relazione fra persona/persona, dove la cura non è solo
competenza professionale, ma umanizzazione del rapporto.
Ho trovato negli scritti di S.Spinsanti “un mito” che lui considera
molto suggestivo, riportato da Igino, uno scrittore romano del II°
secolo d.C., in cui si parla di una dea molto singolare: Cura. Secondo
il mito: “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del
fango cretoso, ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma.
Era intenta ad osservare che cosa aveva fatto, quando intervenne
Giove. Cura lo pregò di dare lo spirito alla forma: Giove acconsentì
e la forma divenne un uomo. Cura pretese di imporre il proprio nome
alla forma umana, Giove volle fosse imposto il suo nome.
Allora intervenne la Terra reclamando anche lei per il nome, perché
aveva dato alla forma una parte di sé stessa. I contendenti elessero
Saturno a giudice ed egli sentenziò: Tu Giove hai dato lo spirito e al
momento della morte riceverai lo spirito, Tu Terra hai dato il corpo e
riceverai il corpo, Cura ha dato per prima la forma a questo essere, e
per questo fin che vive lo possederà”. Concludo con S.Spinsanti “
finché noi viviamo, dalla nascita alla morte, siamo figli di “Cura”.
149
ASPETTI PSICOLOGICI DELLA FAMIGLIA DEL PAZIENTE 39
La presenza di un malato di cancro, soprattutto in fase terminale,
all’interno di una famiglia, comporta profonde risonanze; il più delle
volte si tratta di una famiglia che ha già percorso, dal momento della
diagnosi, un iter molto lungo e tormentato di stress, di sofferenze, di
angoscia e che ha vissuto insieme al proprio caro i momenti di
ripresa, gli assestamenti e le ricadute della malattia e che si trova, a
questo punto,spesso con poche speranze, con molte risorse esaurite.
Incontriamo quindi delle persone che di riflesso alla malattia del
famigliare appaiono anch’esse molto provate dal punto di vista
psicologico; la famiglia che ci troviamo di fronte può presentarsi
“malata”, sofferente per le difficoltà emotive e materiali che sta
vivendo, turbata in quell’insieme di ruoli, ritmi ed equilibri che la
caratterizzavano. L’analisi psicologica dei gruppi familiari ha
mostrato che la famiglia può essere considerata la sintesi di due
funzioni apparentemente contraddittorie : la tendenza alla
conservazione dell’equilibrio come possibilità di mantenersi costante
di fronte alle continue variazioni dell’ambiente circostante e la
capacità di trasformazione come capacità di modificare le regole che
informano la sua specifica modalità di funzionamento. L’intergioco
tra questi due processi mantiene il sistema famigliare in un equilibrio
provvisorio, che ne garantisce l’evoluzione, la creatività e quindi la
possibilità di cambiamento e di adattamento a situazioni nuove e
complesse. La famiglia di un ammalato di cancro sta vivendo questo
doppio sforzo, da un lato di preservare la propria identità e continuità
verso l’esterno, e dall’altro di dover riorganizzare ruoli e pesi
affettivi, come conseguenza della frantumazione causata dalla
malattia e dai continui cambiamenti ad essa collegati. Le reazioni di
una famiglia alla malattia, benché non siano del tutto prevedibili e
dipendano da molteplici fattori, che entrano in gioco, possono
39
Lettura della Dr. P. Volpato al Seminario Multidisciplinare “Formazione
relazionale in medicina: protagonista la malattia neoplastica” organizzato
dall’ AIDM TV, 2006
150
organizzarsi secondo le seguenti modalità: fiducia realistica - la
fiducia nelle prestazioni assistenziali e la disponibilità a collaborare
creano un clima solidale e protettivo che si riflette positivamente sul
malato; incapacità ad accettare la realtà e negazione - la famiglia è
sorpresa, non capisce, si penalizza ed entra in crisi e può arrivare a
comportarsi come se nulla fosse, negando la gravità della malattia e
la necessità delle cure. Si rileva incapace di collaborare e di
trasmettere fiducia al paziente che vive questa situazione con
notevole ansia; sfiducia di fondo - ci sono pressanti richieste ai
diversi operatori, continua messa in discussione, resistenza a
collaborare, diffidenza, talvolta aggressività. L’ansia e la precarietà
vengono trasmessi all’ammalato; vittimismo e rivendicazioni - i
famigliari si abbandonano al pensiero che questo non doveva
succedere proprio a loro, che non se lo meritavano ecc. questo si
riflette sull’ammalato, che si trova costretto a rassicurare la famiglia;
reazioni di sconforto e di disperazioni - che anticipano, magari
inconsciamente, esiti negativi. E’ l’atteggiamento più distruttivo,
perché si riflette sul malato, come messaggio depressivo e può
allontanare i familiari; ipercoinvolgimento - tutte le abitudini della
famiglia si riorganizzano attorno all’imperativo di curare la persona
malata, accudirla e ridurre la sofferenza: l’ansia di tutti i familiari
raggiunge un grado molto alto, massime sono le pressioni e le
insistenze sui curanti ed anche il desiderio di terapie “magiche” o
“alternative”; di stanziamento - l’esistenza della malattia è accettata,
ma la presenza in casa del malato rifiutata. Tutte le responsabilità
terapeutiche ed assistenziali sono legate ai medici e alle istituzioni
sanitarie. Le richieste di ricovero sono frequenti: il malato deve
essere collocato fisicamente fuori dall’ambiente familiare. Tutte
queste reazioni non sono di per sé né positive né negative, perché le
nostre reazioni ai comportamenti ed il nostro modo di percepire le
azioni degli altri hanno una vastissima possibilità di oscillazione: per
esempio, in certi casi, l’ipercoinvolgimento di una famiglia, viene
vissuto dal malato, come fatto positivo, per altri, come intrusione
negativa. Il compito dei curanti non è solo di risposta ai bisogni ed
eventuali vuoti, ma anche di stimolo, seppure molto discreto, per
favorire un’apertura ed una circolarità della comunicazione che aiuti
151
a vincere la reticenza su alcuni argomenti importanti per contrastare
l’isolamento e la solitudine. Anche i familiari, così come la persona
ammalata, fanno ricorso a dei meccanismi psicologici di difesa per
lottare contro l’angoscia scatenata dalla gravità della malattia, come
la negazione e la regressione e anch’essi percorrono, a proposito del
processo di consapevolezza ed accettazione della malattia, le fasi
individuate dalla Kubler Ross, psichiatra americana, che sono:
Rifiuto e Negazione, Rabbia, Patteggiamento, Depressione,
Accettazione. Così come per la persona malata, anche per i familiari,
queste tappe “psicologiche” non seguono naturalmente l’ordine
temporale descritto, ma possono sovrapporsi, alternarsi, ripetersi
all’interno di un percorso che è sempre fluttuante e senza una
corrispondenza fra le fasi vissute dal malato e quelle vissute dai vari
componenti della famiglia. E’ importante intuire a che punto di
questo processo il famigliare si trova per rispettarne i tempi, i
momenti e perché la relazione possa permettere di dare voce ai reali
sentimenti, ai vissuti ed alle angosce legate alla malattia: una
famiglia che si sente confermata e sostenuta ha anche le possibilità di
recuperare, potenziare e valorizzare le sue risorse. In particolare una
delle necessità più importanti, che comporta dei positivi risvolti
psicologici nei famigliari, è di avere un dialogo aperto con i medici e
più in generale con tutti gli operatori sanitari e le persone che
gravitano attorno al paziente. Una delle dinamiche familiari, che
ostacola maggiormente la comunicazione è quella relativa alla verità,
che viene definita “la congiura del silenzio”: tutti sono a conoscenza
della reale situazione di gravità, ma alcune parole ed alcuni
argomenti non vengono mai affrontati ed anzi è fortemente radicata
la convinzione che un idoneo comportamento verso il malato
richieda una serena ed ottimistica “facciata”. Questo gioco
relazionale, che si instaura molto spesso in modo inconsapevole, è
sostenuto dalla convinzione che non vedere il problema faccia
soffrire meno. Il conflitto però fra queste reazioni può produrre
ambivalenze verso il paziente e l’ansia nell’interazione con lui
possono arrivare ad evitare fisicamente il malato e proibire anche ad
altre persone ogni forma più aperta di comunicazione sulla malattia.
Queste discrepanze fra il comportamento verbale positivo e non
152
verbale negativo, vengono infatti percepite dal paziente che vive un
sentimento di abbandono e di non comprensione, tanto da tentare una
maggiore risposta empatica, o amplificando gli aspetti negativi, o
viceversa nascondendo parte della sintomatologia per essere più
accettato. Il malato può in questi casi sentirsi un peso e responsabile
di tanta sofferenza e non trovare a sua volta il modo di esprimere il
proprio dolore psicologico al familiare che vede tanto provato
dall’assistenza, con l’effetto che nessuno parla di quello che sta
realmente provando. In questa fase è possibile far sapere alla
famiglia che un dialogo più aperto alla verità può essere benefico e
motivo di profondo sollievo per il paziente, si può prospettare l’idea
che non necessariamente essere consapevoli della realtà è un fatto
negativo e come, talvolta, le ragioni del silenzio servano più a
difendere i familiari dalla loro angoscia soggettiva, che non a
difendere un bisogno stesso del malato. Attraverso una adeguata
comunicazione è possibile, insieme alla famiglia, riprendere in esame
il carattere, la personalità e le reazioni del paziente, al fine di
decidere, sulla base di un confronto costruttivo, la correttezza della
linea di condotta da adottare e quindi, se continuare come già
stabilito, o informare il malato in modo più completo. In questo
modo si può pensare ad un’assistenza che si realizza come un
accompagnamento della famiglia e del malato, attraverso un
atteggiamento etico globale che, oltre alle competenze professionali
più specifiche, possa, possibilmente, fare anche riferimento ad un
esperienza formativa che riguardi l’acquisizione e la conoscenza
degli aspetti psicologici, che riconosca il valore fondamentale della
comunicazione e che preveda momenti di discussione sul proprio
operato e sulle proprie esperienze, di approfondimento su alcune
questioni di natura etica, di umanizzazione del rapporto
medico/paziente trasformandolo in un rapporto persona/persona ed
infine di riflessione personale sulle tematiche legate alla malattia,
alla sofferenza e alla morte.
Paola Volpato Antonelli
Viale Brigata Marche 53
31100 Treviso
153
Aldo Zanon e coll.40
IL PEDIATRA E LA COLLABORAZIONE TRA OPERATORI
DEL TERRITORIO 41
Premessa
Il pediatra di famiglia è il primo medico che ha rapporto con
l’adolescente. Quella con l’adolescente è una relazione che va
costruita nel tempo, partendo da lontano, fin dalla prima relazione
col bambino e che non può essere “scoperta” alla pubertà.
La formazione del Pediatra in questa che è una vera e propria
specializzazione, la cura dell’adolescente, è ormai indispensabile.
La salute che l’adolescente cerca è una salute globale che comprende
sia l’aspetto fisico che psichico ma che specialmente ha a che fare
con le domande di senso, domande profonde, domande importanti,
che richiamano la dignità della persona umana. Sono domande di
conoscenza, di curiosità, di verità; sono domande che riguardano
difficoltà di rapporti, di ricerca di amicizia, di amore…; sono
domande attinenti alla ricerca del bello, all’ attrazione per la
bellezza. La vita dei nostri ragazzi è piena di queste domande,
vissute in modo entusiasmante e spesso radicale. In una società che
non ha punti di riferimento oggettivi, l’adolescente con il suo star
male, con i suoi atti provocatori ma anche con i suoi entusiasmi
continua a testimoniare l’oggettività della dignità umana. E se la
definizione di salute dell’OMS non parla espressamente di dignità,
si può con chiarezza scorgere un suo richiamo nella Dichiarazione
dei Diritti dell’uomo che la stessa Organizzazione delle Nazioni
Unite proclama e nella Carta della Dichiarazione dei Diritti e dei
Doveri Dei Giovani proclamata ad Assisi nel 1993 dalla Società
Italiana di Adolescentologia (SIAd). I pediatri spesso sono perplessi
40
Pediatra di famiglia, Bassano del Grappa, Presidente SIAdVe. Coll.:
Roberto Marinello, pediatra di famiglia in Padova; Dario Zanon,
specializzando in pediatria, Università di Padova
41
Relazione al Convegno Interdisciplinare “ Le fasi della adolescenza e il
ruolo della prevenzione” Treviso, 2006, A.I.D.M. TV
154
e si interrogano sui lunghi tempi che loro occorrerebbero per
introdurre nella propria professione un’attenzione qualificante
dell’adolescente. Non si tratta di impiegare nuovo tempo ma di
orientarlo verso una globale attenzione alla persona, alla sua salute e
dignità sin dal primo incontro come prevede la Medicina Centrata
sulla Persona (MCP).
Esempi di momenti pediatrici “occasione”
1. Il primo incontro:
A . Importanza della dignità della persona: accoglienza dignitosa del
bambino oltre che della madre e del padre.
B . Importanza dell’allattamento al seno:
non solo per l’aspetto biologico fisico ma anche come relazione tra
madre e figlio e della coppia madre-bambino con il padre e il resto
della famiglia; come momento segreto di dolcezza che accoglie
ancora meglio il neonato e lo fa sentire importante rafforzandolo
nell’autonomia e nella fiducia in se; come momento di crescita della
madre nella fiducia in se e nella fiducia nel bambino abile già in
questa prima fase a badare alle sue “esigenze alimentari” (vedi
disturbi alimentari in adolescenza); come momento di chiara
esperienza dell’importanza dei ruoli (che poi saranno così importanti
in adolescenza), come momento rafforzativo della specializzazione
del ruolo della madre, artefice di una buona partenza, molto distinto
da quello del padre; come momento equilibrato e naturale di
impostazione delle relazioni tra bambino e mondo esterno.
2. L’accesso alla scuola materna: in questa fase il bambino comincia
a “reggere il rapporto” con il medico. Possiamo cogliere l’occasione
per iniziare a parlare con il “protagonista”, senza saltare la madre (e
in genere il genitore).
3. Valutazione auxologica: la visualizzazione grafica del progresso
auxologico può essere occasione di responsabilizzazione
dell’adolescente verso il controllo del proprio equilibrio ponderale,
per una coscientizzazione della crescita, non solo fisica.
4. La preadolescenza : l’incontro in preadolescenza da occasione
per far sentire al ragazzo il rispetto della persona rendendolo
155
soggetto della visita: non solo corpo visitato ma persona ascoltata
con cui il medico parla, senza saltare il genitore, suo “punto di
forza”. Questo, in genere, è molto apprezzato dal ragazzo.
Rapporto con il medico di medicina generale
Il pediatra è in una posizione privilegiata, è in prima linea e può
cogliere i precoci segni di disagio, assieme ai primi segni di
maturazione puberale e alle difficoltà di relazione tra i genitori ed il
figlio. Gode della fiducia dei genitori e spesso anche degli
adolescenti, se ha saputo essere equidistante, corretto, rispettoso, non
complice dei genitori, ma “tutore” dell’adolescente. Potrà quindi
fornire al medico di medicina generale tutta una serie di informazioni
non solo sullo maturazione e lo sviluppo, ma anche sulla presenza di
eventuali patologie croniche o che comunque possano interessare
l’età adulta e soprattutto potrà fornire utili informazioni
sull’ambiente familiare e sullo sviluppo psico-relazionale. La
conoscenza tra colleghi è una risorsa preziosa nel momento
dell’orientamento della famiglia e dell’adolescente nella scelta del
“medico dei grandi” a seconda delle problematiche di salute
dell’adolescente. Un buon accompagnamento di ‘questo cambio’ fa
si che diventi per il ragazzo occasione di crescita, uno di quei rari
“momenti di passaggio” che aiutano al distacco dall’infanzia.
Rapporto con i colleghi dei Servizi NPI
Avendo ben chiaro che i problemi più gravi degli adolescenti
nascono proprio nella sfera psicologico – emozionale, è importante
che il pediatra sappia “passare la mano”, al momento opportuno, ad
un consulente esperto (psicologo, psichiatra), continuando ad essere
un elemento di raccordo tra le varie figure professionali ed un punto
di riferimento per la famiglia e l’adolescente stesso. E’ compito del
Pediatra curare la conoscenza con tali operatori a cui affidare il
ragazzo e/o i genitori, per specifici interventi. Occorre la
collaborazione con colleghi ‘psi’ anche quando diventa necessario
fornire aiuto psicologico continuativo ai genitori degli adolescenti
156
che nel rivolgersi al pediatra per essere direttamente assistiti, gli
fanno correre il rischio di perdere credibilità agli occhi del ragazzo
che lo vedrebbe non più come un punto di riferimento, autonomo
dalla sua famiglia.
Rapporto con altri operatori sanitari
L’adolescente può aver bisogno di molte altre figure professionali:
dall’ortopedico al fisiatra e al fisioterapista, dall’endocrinologo al
foniatra e al logopedista,… A questo riguardo insorgono alcune
difficoltà dovute all’eccessivo carico di lavoro di questi operatori
specialisti, al loro alto numero e turnover, alla tipologia della loro
specializzazione, spesso fortemente orientata sul versante biologico
fisico. Tali difficoltà possono essere risolte positivamente attraverso
l’impegno del pediatra di curare con attenzione i rapporti con gli
specialisti senza mancare di continuare ad essere
punto di
riferimento per l’adolescente che nella consulenza specialistica può
trovare una ricca occasione di confronto con un adulto
particolarmente autorevole e credibile, utile modello nel suo
processo di separazione individuazione.
Rapporto con operatori dello sport
I pediatra è tenuto ad intervenire anche nell’ambito delle attività
sportive, con idonee conoscenze delle opportunità da consigliare e
della qualità delle offerte presenti nel territorio, perché lo sport è in
genere molto gradito e praticato dall’adolescente. Gli è di aiuto nel
superamento di varie difficoltà; può sostenerlo nello sforzo di
integrazione nella nuova persona di quel corpo, che sta così
velocemente cambiando; può essere occasione di ritrovamento in se
stesso, momento di acquisizione della fiducia in se che così spesso
viene a mancare in questa età a causa di un ritardo costituzionale
della crescita e/o della pubertà, di una pubertà precoce, di difficoltà
scolastiche, di squilibri.
157
Il Pediatra e la Scuola
A 11 anni, facendo il suo ingresso nella scuola media, l’adolescente
prova entusiasmo per la “scuola vera” ed il “lavoro serio”, ma presto
le cose cambiano e si fanno evidenti le difficoltà. L’ansia per il
successo, non è minore della paura di fallire e di restare troppo
indietro. Le interrogazioni, i compiti in classe, le premiazioni e le
bocciature, rafforzano queste ansie non solo nei ragazzi, ma anche
(soprattutto?) nei genitori. Purtroppo, a volte, la scuola diventa per
l’adolescente fonte di tensione insopportabile, proprio nel momento
in cui avrebbe bisogno della massima serenità per scoprire il suo
modo di imparare e i suoi interessi, mentre a causa dei cambiamenti
fisici e psichici vive difficoltà di accettazione dell’immagine
corporea e di ridefinizione dei rapporti intrafamiliari ed
extrafamiliari. Si parla di adolescenza come di nuova nascita. Se
nella prima nascita, una cattiva assistenza può portare ad una asfissia
e a delle conseguenze patologiche durature, una cattiva assistenza
nella seconda può portare a danni permanenti per cui anche
l’insegnante, pur nel suo ruolo, può essere di grande aiuto.
È necessario dunque che il pediatra e i professori, impegnati in
questo privilegiato e prezioso lavoro maieutico, mantengano un buon
raccordo, che continuerà in seguito anche con il medico di famiglia,
per un efficace aiuto alla nuova vita.
Conclusioni
La crescita dell’adolescente e la prevenzione del disagio richiede un
impegno di integrazione tra le varie agenzie che di lui sono tenuti ad
occuparsi, nel rispetto della dignità della sua persona. Gli operatori
della scuola, i pediatri ed i medici di famiglia, gli specialisti dei
servizi territoriali, se così responsabili, possono collaborare con la
famiglia, nella promozione della sua giovane vita.
Aldo Zanon
Via s.Antonio 106
35013 Cittadella (PD)
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