Dalla “tratta delle bianche” alla “tratta”

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Dalla “tratta delle bianche” alla “tratta”
Dalla “tratta delle bianche” alla “tratta”
Il termine tratta non è nuovo, ma ha una connotazione storica e semantica molto ingombrante,
risalente al fenomeno della cosiddetta “tratta delle bianche”, che esplose all’inizio del ‘900. In
quella fase storica, i processi di industrializzazione avevano generato delle forti spinte
migratorie dalla campagna alla città, ma anche da un paese e perfino da un continente all’altro.
Le donne provenienti dalle classi più povere o dalle campagne presero parte a questi processi
migratori, spesso in quanto soggetti non accompagnati e dunque viste come una minaccia alla
salute delle classi borghesi. In un contesto caratterizzato da paure e ansie sociali verso la
promiscuità delle razze attraverso la sessualità, le donne che lasciavano i villaggi venivano
sottoposte ad uno speciale regime di controllo sociale, come quello delle leggi contro le malattie
veneree in Inghilterra, di cui la storica inglese Judith Walkowitz (1980) ci dà un eccellente
resoconto. Come già notato da alcune ricerche risalenti anche a quel periodo storico, in effetti
quello della tratta delle bianche fu un fenomeno più mediatico che reale, in quanto spesso si
ttrattava di donne e ragazze che lasciavano i loro villaggi impoveriti per trovare nelle città
migliori condizioni di lavoro e di vita, oltre che un ambiente sociale meno oppressivo che
potesse loro permettere di perseguire una vita sessuale più indipendente, anche attraverso
l’uso di metodi di interruzione di gravidanza anonimi e a portata di mano (Gerodetti e Bieri,
2006). Le campagne anti-tratta produssero una serie di trattati e convenzioni che, alla fine della
seconda guerra mondiale, portarono alla Convenzione per la Soppressione della Tratta di
Persone e dello Sfruttamento della Prostituzione di Altri, firmata nel 1949 sotto l’egida delle
Nazioni Unite. In questi documenti con il termine tratta si intende il reclutamento e il trasporto di
persone, specie donne e bambini, in vista di un loro sfruttamento nella prostituzione.
Un punto cruciale nelle varie definizioni di tratta prodotte in ambito internazionale è, oltre
all’individuazione della prostituzione come unico settore dello sfruttamento delle donne, anche
la presenza o meno di consenso da parte della vittima. Si dava il caso, infatti, che spesso
quest’ultima lavorava già come prostituta nel suo paese di origine, mentre in altri casi una
donna che lavorava come domestica decideva di arrotondare il suo reddito attraverso servizi
sessuali saltuari. È chiaro che un’interpretazione rigida della tratta come prostituzione migrante,
con o senza il consenso della presunta vittima, porta facilmente a politiche migratorie
oppressive nei confronti delle donne e dei minori. Ciò fu infatti una delle principali conseguenze
delle campagne contro la tratta delle bianche, oltre che un regime sociale oppressivo che
sottoponeva la sessualità delle donne ad un controllo da parte delle autorità sanitarie e delle
forze dell’ordine.
Alla base di questo regime di controllo delle donne c’era una concezione della sessualità a
“doppio standard”, laddove le donne venivano considerate come le depositarie delle virtù di
purezza sessuale (oltre che razziale), mentre gli uomini venivano giustificati nei loro
comportamenti promiscui, per via di una presunta natura maschile “predatoria”. Secondo questa
concezione, la donna “per bene” non doveva possedere una sessualità attiva, e, quando essa
mostrava un comportanmento diverso da quello prescritto dal codice morale, come ad esempio
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intraprendere rapporti economico-sessuali, veniva inevitabilmente definita o come “donna
caduta” (peccatrice) o come “vittima passiva” del vizio del maschio. La patologia stava alla base
della definizione eziologica della prostituta, come gli scritti famosi di Cesare Lombroso (es. La
donna delinquente, la prostituta e la donna normale,
1893) dimostrano.
Le odierne campagne anti-tratta si inseriscono in un contesto di migrazioni globali legate a
processi di riforme strutturali imposte nei paesi in via di sviluppo dall’occidente. La cosiddetta
femminizzazione delle migrazioni è legata al bisogno o alla volontà da parte di molte donne di
uscire da una situazione di povertà individuale e familiare e di trovare sbocchi per un futuro
migliore per se stesse e per i propri figli. La mobilità è per molte donne la chiave di accesso ad
un processo di crescita che è ad un tempo economico, sociale e culturale. Ma la
globalizzazione, insieme con l’emergere di altri fenomeni quali il turismo a sfondo sessuale, ha
reso il mercato del lavoro altamente segmentato per genere, oltre che per etnia. Le donne sono
sempre più richieste in servizi che attengono alla sfera dell’intimità, come quelli sessuali e quelli
domestici e della cura alla persona. Si tratta di ambiti lavorativi che, a ben vedere, hanno come
matrice storica la servitù come forma meno aberrante della schiavitù in senso stretto (la
cosiddetta “chattel slavery”, dove lo schiavo non è che un’appendice del padrone, che ne può
disporre come vuole). La servitù domestica ha sempre avuto come accessorio lo sfruttamento
sessuale da parte del capo famiglia e più in generale le due sfere sono storicamente contigue,
usate da molte donne alternativamente o contemporaneamente come fonte di reddito. Lo
sfruttamento e la violazione di diritti umani in questi ambiti “intimi” è conseguente alla loro
connotazione come sfere dove i rapporti difficilmente possono essere riportati su un terreno
giuridico-sindacale, che possa configurarli come rapporti lavorativi contenenti istanze di diritti.
Per quanti sforzi si siano fatti e per quanto progresso sia stato fatto negli ultimi cinquant’anni
nella sfera del lavoro domestico, a partire dall’introduzione di un contratto collettivo firmato dalle
parti, questa sfera rimane, in Italia soprattutto, uno dei settori più sommersi, oggi ancora più a
rischio di sfruttamento per la presenza degli immigrati, donne e uomini spesso senza uno status
giuridico o comunque con uno status giuridico reso molto precario dalle leggi sull’immigrazione,
e quindi disposti ad accettare regimi di sfruttamento e abuso da parte di datori di lavoro che
assumono un ruolo di veri e propri padroni.
Oggi come ieri, il concetto di tratta assume un peso di genere, nonostante gli sforzi dimostrati
dal comitato speciale riunito per formulare il testo del Protocollo di Palermo. Forse, a differenza
di quanto avveniva ai tempi delle campagne contro la tratta delle bianche, c’è stata una
maggiore e più attiva partecipazione delle lobby femministe nel processo che istituisce la legge
internazionale contro la tratta. Ma le lobby femministe più potenti, come l’americana Coalition
Against Trafficking in Women (CATW), erano, e sono, animate da un progetto che intendeva
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attaccare la prostituzione, vista solo ed esclusivamente come uno strumento di subordinazione
delle donne che ha radici nella struttura patriarcale delle società tutte, escludendo ogni
possibilità di analisi socio-economica che desse spazio ad un concetto di prostituzione come
forma di lavoro (o sex work) o ad una contestualizzazione storico-geografica del concetto
stesso di patriarcato. La considerazione della prostituzione come istituzione necessariamente
subordinante e come forma di schiavitù, origina da un’elaborazione del concetto di sfruttamento
sessuale a partire dalle campagne femministe degli anni ’80 contro la pornografia.
Il Protocollo - questo strumento di affermazione di diritti umani violati in specifiche circonstanze
legate a percorsi migratori e lavorativi (a percorsi di vita, se intendiamo la migrazione come fatto
totalizzante) – ha aperto la possibilità di dare nuovi significati al concetto di tratta, dal momento
in cui ha voluto includere più ambiti lavorativi di sfruttamento, diversi dalla prostituzione.
Tuttavia, il linguaggio rimane ancorato ad una matrice storica che considera ancora le donne e i
bambini come categorie vulnerabili per eccellenza (il titolo completo è “Protocollo per prevenire,
sopprimere e punire la tratta di persone, specialmente donne e bambini”) e la sessualità come
luogo dove avvengono le più odiose violazioni dei diritti e delle dignità della persona e dove si
manifestano le forme peggiori di schiavitù.
I concetti cardine attorno cui ruota la tratta come discorso, nel senso foucauldiano del termine,
rimangono la schiavitù e lo sfruttamento sessuale, due concetti a ben vedere di difficile
definizione. Mentre il secondo termine non è mai stato definito in alcun documento
internazionale, il primo è stato soggetto a diverse interpretazioni e riformulazioni, sino ad
ottenersi, all’interno delle Nazioni Unite, una vera e propria proliferazione di “pratiche simili alla
schiavitù”, tra cui si annovera la schiavitù da debito (o debt-bondage), quando il lavoro di una
persona viene usato come compenso per un debito contratto, ma il debito non viene mai estinto
per la continua svalutazione del lavoro e dei servizi; poi c’è la servitù legata alla terra
(storicamente servitù della gleba); il matrimonio forzato e il lavoro minorile. Nonostante i tanti
sforzi per condannare una pratica che viene vista come proveniente da un mondo pre-moderno,
e dunque incivile, barbaro, la schiavitù rimane un termine che sfugge ad un inqudramento
all’interno dei sistemi di sfruttamento lavorativo esistenti nell’attuale fase del capitalismo
globale. Ciò perché la schiavitù sembra essere ancora imbevuta di significati che rimandano ad
un passato non troppo remoto, quando la schiavitù era iconograficamente rappresentata dalle
catene e dalla frusta come elementi essenziali del controllo totale esercitato sul corpo dello
schiavo, un corpo invariabilmente immaginato nero.
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