Desiree Laura Petit Rodriguez Uno scherzo fra ragazzi. Quel

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Desiree Laura Petit Rodriguez Uno scherzo fra ragazzi. Quel
Desiree Laura Petit Rodriguez Uno scherzo fra ragazzi. Quel venerdì di seconda media l’avrebbero ricordato in pochi. Nina avrebbe camminato tra i corridoi della sua scuola da sola come sempre. Si sarebbe rifugiata in un angolo della sua classe, dietro gli ultimi due banchi in fondo, come sempre. Si sarebbe nascosta in qualche stanzino polveroso della scuola. Sarebbe corsa verso l’uscita con la stessa disperazione mista a felicità con cui un uomo perso nel deserto vede comparire un’oasi in lontananza, e con la sua stessa rabbia sarebbe caduta a terra quando, a illusione evaporata, un paio delle sue compagne l’avrebbero presa. Tutti a scuola sapevano quello che stava succedendo, ma nessuno diceva niente. All’inizio alcuni avevano provato a fermare quella violenza, anime buone che non sopportavano che un gruppo di ragazzine potesse essere fonte di tanto dolore. Ma nessuno poteva fare niente. E Nina fuggiva. Aveva avuto un’amica, quando di quest’incubo non immaginava l’esistenza. Sara e Nina erano insieme dalla prima elementare. La loro amicizia si era formata col tempo e la pensavano infinita. Come tutte le bimbe che finivano le elementari, sognavano avventure e amicizie alle medie e si erano abbracciate felici quando, il primo giorno di scuola, una professoressa dal cipiglio severo, radunando gli alunni della classe 1° E, aveva chiamato entrambe le bambine. Sara voleva bene a Nina, ma non quanto amava sé stessa. Scoprì quanto le piacesse essere considerata bella, e davvero lo era: una ragazzina bionda e dai grandi occhi marroni, a cui piaceva vestire bene il suo corpo ancora acerbo. Quando la violenza cominciò, Sara capì che non voleva essere coinvolta. Nonostante ciò, combattendo contro la sua stessa natura, tentò di difendere due o tre volte la sua cosiddetta amica, ma ben presto si stancò di un’amicizia così impegnativa e un giorno, dicendole addio, la abbandonò al suo destino. Un anno dopo, davanti ad un agente di polizia, alla domanda sul perché si fosse allontanata da Nina, la piccola Sara, sorridendo mesta, sospirò un semplice: “Lei non voleva essere più mia amica.”. E tornò a casa. All’inizio della prima media Nina si stava già sviluppando ed aveva sicuramente un paio di chili in più, che appesantivano la sua figura già di per sé poco aggraziata, ma non certo brutta. L’unico suo errore fu lasciar vedere, attraverso la limpidezza delle sue iridi, la debolezza del suo animo e la fragilità della sua psiche. Non conosceva ancora bene la malizia e l’arte dell’ipocrisia. Per i suoi compagni fu una cosa quasi naturale cominciare a prenderla in giro per i suoi difetti. “Cicciona!“, cominciarono a definirla in classe. Nina non capiva perché la chiamassero così, ma non le piaceva. Presto altre voci si unirono a quella prima parola pronunciata da un volto che persino nella sua memoria rimase anonimo. Chissà come, ad un certo punto le persone intorno a lei cominciarono a notare ogni suo difetto. Era nella mira di tutti, e a Nina sembrò che la gente sfogasse su di lei tutti i sentimenti negativi che provava, come se girasse per la scuola con un cartello appeso al collo con scritto: “Deridetemi. Vi sentirete meglio dopo!” Cominciò a morire dentro. Troppo presto l’oppressione sistematica attuata senza compassione dai suoi compagni trovò i suoi leader: quattro ragazzine annoiate che avevano trovato in lei il pretesto per riempire le loro vite vuote. Tre di loro sembravano imitare lo stereotipo delle bulle: ragazze smilze, dai leggings strappati, che giravano già con il rossetto nello zaino. La vera anomalia era la quarta. Nina si chiese più e più volte tra le lacrime, nell’oscurità umida dei bagni della scuola, che cosa ci fosse di diverso tra lei e la ragazza che da giorni metteva in giro voci maligne su di lei, convincendo tutti a lasciarla da sola. La quarta ragazzina era bassa e sempre spettinata, di una bruttezza che si intuiva già a prima vista: faceva parte del suo animo, oltre che del suo aspetto. Nonostante tutto, lei era circondata di amici e rideva per le strade, mentre Nina piangeva e non capiva, mentre il resto del mondo andava avanti. Poi c’erano i professori, che avevano paura dei ragazzi e che, davanti a scene di violenza psicologica, minimizzavano. “Sono solo ragazzi!”, li scusavano. Per loro erano solo degli scherzi innocenti ed in ogni caso era molto più facile chiudere gli occhi e girare la testa. Perché in una società in cui, se sgridi un bambino, stai già compromettendo il suo sviluppo, nessuno osa più rimproverare neanche chi il cervello sembra non averlo. A casa sua nessuno si accorse di nulla, fino a quel venerdì. Sua madre, una donna estremamente orgogliosa, non faceva che disperarsi quando si trattava della figlia. Era la sua unica macchia, quella bimba buona a nulla. Non bella e piuttosto sgraziata, era un fallimento anche a scuola. Non era brava in nessuna materia e, anzi, pareva ai suoi genitori che gioisse nel collezionare insufficienze in serie, quasi lo facesse apposta per farli sfigurare di fronte ad amici e parenti. Sua madre la considerava una battaglia persa in partenza, sua figlia lo sapeva, ed entrambe preferivano ignorarsi. Suo padre era chiuso nel suo mondo. Viveva nel suo studio e non gli interessava sapere se la sua famiglia fosse felice o meno, perché gli bastava sapere che una famiglia lui l’aveva. Nessuno poté mai comprendere quanto avesse realmente sofferto quel venerdì e nei giorni che seguirono. Si limitò a dire ai giornalisti che era così distrutto dal dolore che gli pareva che il tempo si fosse fermato. A molti sembrò che il suo mondo fosse rimasto invariato, ma alla fine, se anche così fosse stato, non erano affari della gente, e presto anche lui tornò all’oblio a cui proveniva. Non aveva fratelli, la piccola Nina, perciò la solitudine presto divenne la sua compagnia preferita. Dopo essere diventata il bersaglio di tutta la classe, cominciò a bramare, oltre la solitudine, anche il sonno, come gli unici momenti in cui le pareva che la sua vita si fermasse in una sorta di limbo infinito, dove si crogiolava nei sogni a metà della sua infanzia spezzata. La violenza continuò. Nina si chiuse in sé stessa e cominciò ad odiarsi. “Ma guardati allo specchio, mostro!”, le dicevano. “Sfigata!”, le sussurravano nei corridoi quando camminava a passo svelto per cambiare aula. “Se avessi rispetto per il mondo, ti suicideresti, deficiente!”, le consigliavano. E Nina, da brava ragazza, ascoltava i consigli. Si ritrovò persa e intrappolata nel suo presente, senza un futuro né un passato a cui aggrapparsi. Le voci a scuola continuarono imperterrite e un giorno Nina cominciò a sentirle anche a casa. All’inizio credette di impazzire, poi capì. Erano arrivate dentro di lei. Si erano insinuate sotto pelle come un cancro e si stavano espandendo. Ed un giorno quel male le arrivò al cuore. Non ci volle molto, i ragazzi della sua classe sapevano dove colpire. Nina pianse tutto la sua impotenza e la sua mente, fomentata dalle voci che le sussurravano di dare ascolto ai consigli dei suoi compagni, vide rosso. Neanche lei capì come, ma improvvisamente si ritrovò una lama in mano. La avvicinò tremante all’avambraccio, chiuse gli occhi e disegnò una lunga linea orizzontale, mentre stringeva le labbra fino segno tracciato. Lacrime stanche le colavano lungo le guance. Quando vide ciò che era riuscita a fare, le sembrò che l’universo stesse dando ragione ai suoi compagni. Davvero lei era nata solo per morire. Per quello aveva avuto coraggio, ma non per difendersi dagli insulti avvelenati. Si sentì destinata alla morte ed ebbe paura, mentre una grande voragine si apriva in lei. Nessuno la amava. La sua esistenza era inutile; dunque perché restare in vita? Per chi mai avrebbe vissuto? Non avrebbe mai avuto una famiglia, era troppo brutta e troppo poco per chiunque. Uno scarto umano. Nina vide infinito dolore nel suo futuro. Ma c’era anche un’altra scelta. Sarebbe bastato un gesto di grande coraggio, ma lei quel coraggio ora sapeva di averlo. Un gesto. Una sola decisione e il suo dolore avrebbe avuto fine. Accolse questo pensiero come una rivelazione. Quella notte sognò di essere uguale a tutte le altre. Non più quella strana, non più diversa, goffa, insicura. Non più lei, ma solo una ragazza normale. Da quel momento in poi, questo pensiero diventa la sua ossessione. Non riuscì a non pensare a come tutti sarebbero stati meglio senza di lei. Si sentì causa dei problemi di tutti, dei suo i genitori insoddisfatti, dei suoi insegnanti arrabbiati, dei suoi compagni furiosi. Ogni cosa era colpa sua e sentì che meritava il dolore che provava. Si guardò allo specchio e si odiò, si toccò il viso e avrebbe voluto strapparsi la pelle con le mani, perché sapeva che questo l’avrebbe paradossalmente fatta sentire meglio. E un giorno i suoi compagni la colpirono lì dove le faceva più male. Le chiesero di sparire, le gridarono che era inutile, così inutile che era ancora più inutile vivere. Nina non poteva fare a meno che essere d’accordo. Disprezzava sé stessa e quel venerdì, dopo la scuola, Nina tornò a casa, prese la lama e incise la sua pelle ormai martoriata dalle cicatrici. Ma non le bastò più. La rabbia perseverava e le lacrime non si fermavano. Non c’era nessuno a casa. Nina andò in bagno, prese dal cassetto dei medicinali il sonnifero e lo ingoiò. Poi si sdraiò sul suo letto. Chiuse gli occhi e ricordòa tutte le volte che aveva sofferto. Scivolò nell’incoscienza. Pensò ai suoi genitori, ma senza preoccupazione. Si sarebbero presto consolati. L’ultimo pensiero fu per la ragazza che più di tutte la derideva. “Addio…”, sussurra flebile prima di sprofondare nell’oblio. Quel venerdì non so ben dire chi si dolse con sincerità o meno, ma posso dire per certo che un angelo pianse la crudeltà della società in cui viveva la piccola bimba che, valorizzando la piattezza di un mondo fatto da persone tutte uguali, dimenticava che l’unicità della nostra specie sta proprio nell’essere tutti diversi.