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100 libri-100 fiori “Che cento fiori sboccino, che cento scuole gareggino”, proclamava, tanti anni fa, il “Presidente Mao”. Le bibliografie ragionate della collana partono da quell’idea: cento titoli selezionati che possono costituire “cento fiori” da leggere, sfogliare, studiare. Un progetto che intende indicare a librai, studenti, operatori professionali e semplici lettori quei “cento” libri che a giudizio di ciascun compilatore, rappresentano punti fermi della materia, proposte stimolanti, percorsi interessanti. Soprattutto, è questa la novità, intendono essere bibliografie “aperte”: aperte perché disponibili a integrazioni successive e suggerimenti esterni; aperte perché non hanno e non vogliono avere alcun carattere di esaustività o di scuole. Suddivise in sezioni e colori, esse intendono fornire un primo strumento bibliografico su ogni aspetto del sapere e del costume sociale. Questo almeno è la speranza e l’augurio che ci facciamo. Suggerimenti, consigli, integrazioni da parte dei lettori non solo saranno utili ma costituiranno una linfa importante per le successive nuove edizioni di ogni bibliografia. Le sezioni: 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) Ambienti e paesi La storia Costume e tempo libero Arti Economia e lavoro Movimenti e Istituzioni Scienze umane Autori e personaggi 2 Bibliografie pubblicate Giochi –Viaggi e viaggiatori – Pornografie Cinema – Scuola –Pacifismo – Mente/Corpo Oralità/Scrittura – Ontologia – Il gioco del calcio Black music / Musica nera – Astrologia – Mitologia Guide turistiche. Italia – Verità – Fumetti – Bioetica Diritti degli animali – Giornalismo – Auto(bio)grafia Multiculturalismo – Cristianesimi – Enogastronomia La Sinistra – La Destra – Evoluzionismo Giordano Bruno – Guide turistiche. Europa Letteratura fantastica – La Shoah –Biblioteche Archivi – La Resistenza – Il Sessantotto La Repubblica sociale italiana Alessandra Chiappano MEMORIALISTICA DELLA DEPORTAZIONE E DELLA SHOAH EDIZIONI UNICOPLI 4 Biblioteca Antonio Ferrari dell’Istituto Storico di Modena www.istitutostorico.com L’Istituto storico di Modena è associato all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia Il libro è pubblicato in collaborazione con Fondazione ex Campo Fossoli Prima edizione: gennaio 2009 Copyright © 2009 by Edizioni Unicopli via Festa del Perdono, 12 - 20122 Milano tel. +39.02.42299666 www.edizioniunicopli.it È vietata la riproduzione, anche parziale, a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata dall’editore. INDICE p. 7 Introduzione 9 I primi scritti di memoria (1945-1958) 24 Gli anni Sessanta e Settanta 38 Gli anni Ottanta e Novanta 64 Dopo il Duemila INTRODUZIONE Alessandra Chiappano ∗ Gli scritti di memoria sulla deportazione e la shoah sono andati moltiplicandosi in questi ultimi anni in modo quasi vertiginoso. Non è dunque impresa agevole dare conto di tutto quel che viene pubblicato, anche perché spesso si tratta di pubblicazioni edite presso case editrici minuscole per cui esiste anche un problema di reperibilità dei testi. Inoltre va tenuto presente che non tutto quello che viene pubblicato è valido: non solo da un punto di vista letterario, ma anche documentario. Si è scelto in questa breve rassegna di dare conto dei testi che riguardano l’esperienza vissuta sia da coloro che furono deportati perché si erano opposti al nazifascismo, sia da coloro che furono deportati soltanto per il fatto di essere nati ebrei. Naturalmente si è trattato di esperienze anche molto diverse, tuttavia chi scrive resta convinta che sia necessario avvicinarsi al tema della deportazione accogliendo un’ottica il più possibile complessiva, il che non significa misconoscere destini differenti, ma anzi cogliere le differenze di un fenomeno che ha coinvolto migliaia di cittadini italiani. Proprio seguendo questo criterio sono stati inclusi anche due titoli che riguardano la deportazione in Germania dei soldati italiani arrestati subito dopo l’8 settembre 1943. Il lettore sappia che non si tratta certo di una bibliografia esaustiva: per avere un quadro completo sul caso italiano occorre rifarsi a due volumi, quello curato da Anna Bravo e Daniele Jalla, Una misura onesta, Consiglio Regionale del PiemonteANED-Franco Angeli, Milano 1994 e il suo ideale seguito, Le ∗ Responsabile del settore didattico dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Milano. 8 parole e la memoria. La memorialistica della deportazione dall’Italia 1993-2007, curato da Guido Vaglio, EGA, Torino 2007; mentre per una analisi critica e letteraria si rinvia all’eccellente lavoro di Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Questo volumetto si limita a dar conto delle letture indispensabili (per questo sono state segnalate anche memorie non italiane), e naturalmente le scelte sono frutto di un preciso orientamento di chi scrive, che anche in questo caso, come in quello della bibliografia sulla shoah, ha voluto dare la massima diffusione ai testi scritti dalle donne, nella convinzione che la loro voce sia a volte più espressiva e intensa di quella dei loro compagni maschi. Il criterio che è stato seguito è stato quello cronologico di pubblicazione, anche per permettere una più agevole consultazione. La realizzazione di questo piccolo volume non sarebbe stata possibile senza la collaborazione della Biblioteca della Fondazione memoria della deportazione, e in particolare di Vanessa Matta, che con pazienza mi ha visto aggirarmi fra gli scaffali e talvolta disturbare l’ordine della sua biblioteca. Un ringraziamento all’Istituto storico di Modena, al suo presidente Giuliano Albarani, al direttore scientifico dell’INSMLI, che sempre mi segue con grande affetto, Gianni Perona, agli amici e tutor Brunello Mantelli e Bruno Maida per i loro suggerimenti. 9 I PRIMI SCRITTI DI MEMORIA (1945-1958) I primi scritti sulla deportazione e la shoah furono elaborati dalle vittime immediatamente a ridosso della liberazione. Alcuni di questi, scritti da deportati ebrei, non sono mai stati pubblicati e sono conservati presso l’Archivio delle Comunità ebraiche di Roma. Si tratta di brevi testimonianze, quasi di deposizioni, che avevano lo scopo di documentare la tragedia immane che aveva colpito la comunità ebraica italiana. Tra i primi testi a stampa figurano quelli di cinque donne ebree, che dopo aver conosciuto l’orrore del campo femminile di Birkenau, hanno deciso di affidare alla pagina scritta la propria memoria. Le prime edizioni di questi volumi sono ormai introvabili, sono stati quasi tutti ristampati recentemente da piccoli editori. Si darà conto quindi della prima edizione come della ristampa. Tra questo nucleo di primissimi scritti va ricordata la prima edizione di Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato dall’editore De Silva di Torino, che tuttavia non riscosse un grande successo fino all’edizione einaudiana del 1958. In questa prima stagione non mancano tuttavia testi di notevole importanza, come il capolavoro di Giacomo De Benedetti, 16 ottobre 1943. La cifra di questi volumi sembra essere soprattutto quella della documentazione: a ridosso della liberazione tutti coloro che avevano conosciuto i campi nazisti sentivano il desiderio di rendere testimonianza anche a nome di quelli che non avevano fatto ritorno. Subito dopo questo primo nucleo di scritti sul tema della deportazione scese il silenzio; erano gli anni della ricostruzione e nessuno aveva il desiderio di tornare a pensare agli anni terribili della guerra. Inoltre, tra la fine degli anni Quaranta e gli 10 inizi degli anni Cinquanta, sebbene marginalizzata, a causa della politica centrista, dominata dalla Democrazia cristiana, è dominante l’immagine del partigiano che combatte contro i nazifascismi, il deportato aveva poco di eroico. Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, O.E.T., Roma 1945, poi Sellerio, Palermo 1993 È sicuramente, un piccolo capolavoro, pubblicato mentre ancora la guerra era in corso, nel novembre del 1944 a Roma. Giacomo Debenedetti racconta in uno stile drammatico e terso la retata di oltre mille ebrei avvenuta a Roma il 16 ottobre del 1943. Si è trattatato della sola Aktion contro gli ebrei organizzata in grande stile nel nostro paese: più di mille persone furono deportate e ritornarono solo in 17, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino. Il testo di Debenedetti ha l’andamento di un’opera tragica: rievoca l’arrivo nel ghetto, dove vivono ammassati gli ebrei più poveri, alla vigilia del sabato, una donna, Celeste, che con fare concitato avvisa gli abitanti del ghetto di scappare, di cercare un rifugio. Come appunto accade nelle tragedie dell’antichità classica, nessuno le crede. Il racconto si blocca e l’autore si sofferma a narrare dell’inganno perpetrato dai tedeschi con la richiesta dell’oro alla Comunità di Roma. La corsa contro il tempo e poi la tranquillità, almeno apparente: consegnato l’oro, gli ebrei della più antica comunità del mondo si sentono al sicuro. Ma la mattina del 16 ottobre, all’alba, le SS fanno irruzione nel rione del ghetto e arrestano più di mille persone. De Benedetti fa sì che la scena si dipani dinnanzi ai nostri occhi: c’è chi rie- 11 sce a fuggire, chi non se la sente di abbandonare i propri cari, chi ce la fa a trovare rifugio dentro le mura dei conventi, chi si salva grazie alla sorte. Poi mentre gli ebrei sono rinchiusi in una caserma, in attesa di partire per Auschwitz, nel ghetto regna solo il silenzio. Bruno Vasari, Mauthausen bivacco della morte, Casa editrice La fiaccola, Milano 1945, ristampato presso Giuntina, Firenze 1991 Uno dei primi scritti sulla deportazione ad opera di un uomo che dedicò gran parte della sua vita affinché la deportazione diventasse oggetto di studio e di ricerca. Bruno Vasari, infatti, fu l’instancabile organizzatore dei seminari promossi dall’ANED su diversi aspetti della deportazione, tutti pubblicati in una collana edita presso Franco Angeli. Questo suo breve scritto risente di un taglio documentario piuttosto che letterario: l’esigenza è quella di testimoniare ciò che è avvenuto nel campo di Mauthausen, uno dei campi dove fu più alto l’afflusso degli italiani, soprattutto di coloro che furono deportati per motivi politici. Gino Valenzano, L’inferno di Mauthausen, S.A.N. 1945, poi ristampato presso Stamperia Ramolfo 2003 Uno dei primi scritti sulla deportazione ad opera di Gino Valenzano, che viene arrestato e deportato insieme al fratello Piero, mentre cerca di raggiungere suo zio, il Maresciallo Badoglio. Il volume si compone di capitoli brevi e di descrizioni puntuali. A segnare la salvezza per i due fratelli è il trasferimento, dal sottocampo di Schwechat al lager principale di Mauthausen. È interessante notare come Valenzano comprenda con estrema lucidità che per sopravvivere era necessario abbandonare in 12 qualche modo quello che da una sopravvissuta di rara intelligenza come Lidia Beccaria Rolfi fu definito il “proletariato del campo”. Giuliano Pajetta, Mauthausen: …le SS presero delle sbarre di ferro e li finirono tutti. Pochi minuti dopo dei carri trainati da uomini portavano i cadaveri al crematorio, Orazio Picardi, Milano 1946 Luciana Nissim Momigliano, Pelagia Lewinska, Donne contro il mostro, Ramella Editore, Torino 1946 Pajetta, militante comunista, fece parte dell’organizzazione clandestina del campo di Mauthausen e divenne una figura importante per tutti gli italiani che arrivarono in quel Lager: il suo nome infatti ritorna in più di una memoria. Il suo è uno scritto di poche pagine, in cui l’autore si sofferma a descrivere non solo il campo di Mauthausen, ma l’intero sistema concentrazionario nazista. Sono interessanti le pagine in cui Pajetta racconta come l’organizzazione clandestina del campo si adoperasse per salvare quanti più prigionieri era possibile dalle uccisioni di massa degli ultimi giorni. Naturalmente, come sa bene Pajetta, non era facile scegliere chi salvare: «Era una lotta difficilissima in cui bisognava avere il coraggio di scegliere, su tante persone votate alla morte e che si sapeva di non poter salvar tutte, i quattro o cinque su cui concentrare i propri sforzi per strapparli al destino che i nazi riservavano loro» (p. 30) Il contributo di Luciana Nissim Momigliano portava il titolo Ricordi della casa dei morti. La Nissim fu arrestata e deportata, dopo una breve esperienza partigiana vissuta sulle montagne sopra Sain-Vincent, insieme a Primo Levi, Vanda Maestro e altri amici. I tre, dichiaratisi ebrei, furono inviati prima a Fossoli e di lì ad Auschwitz. 13 Primo e Luciana fecero ritorno, mentre Vanda morì presumibilmente alla fine di ottobre del 1944. Il racconto della Nissim dedica poco spazio sia alla scelta resistenziale che alla permanenza a Fossoli: il racconto si concentra sull’ esperienza estrema vissuta a Birkenau, dove la Nissim poté prestare la sua opera come medico. Si tratta di un racconto asciutto, che concede pochissimo all’emozione, ma nella sua icasticità ci presenta un quadro estremamente preciso sulla condizione delle donne nel lager femminile di Birkenau e ci fornisce una importante testimonianza sull’arrivo e la distruzione degli ebrei ungheresi, arrivati a Birkenau nella primavera-estate del 1944. Non è agevole comprendere perché alla testimonianza della Nissim l’editore Ramella abbia deciso di affiancare quella di Pelagia Lewinska, che recava il titolo Venti mesi ad Auschwitz. Il testo della sopravvissuta polacca appare decisamente più debole da un punto di vista letterario rispetto a quello della Nissim e probabilmente questo fu il motivo che condannò l’intero volume. Il testo della Nissim è stato recentemente ripubblicato, corredato da alcuni scritti inediti, tra cui alcune lettere scritte subito dopo il ritorno da Luciana Nissim a quello che diventerà di lì a poco suo marito, Franco Momigliano, con il titolo Ricordi della casa dei morti e altri scritti, a cura di Alessandra Chiappano, con una prefazione di Alberto Cavaglion, presso Giuntina nel 2008. 14 Frida Misul, Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzesca delle realtà, il più realistico dei romanzi, Stabilimento Poligrafico Belforte, Livorno 1946 La memoria della Misul appartiene al gruppetto di memorie scritte all’indomani della Liberazione di cui si è già detto. La scrittura della Misul appare assai più legata al mondo della letteratura che a quello della testimonianza e questo aspetto appare evidenziato anche nel titolo: è significativo che la Misul faccia esplicitamente riferimento al termine romanzo. In effetti, nel suo scritto, gli squarci romanzeschi non sono infrequenti e il lettore si trova spesso di fronte a situazioni che possono destare la sua perplessità. In realtà, senza affrontare qui il complesso tema del rapporto fra testimonianza e storia, appare evidente cha la Misul, nel tentativo di rendere percepibile al lettore la indicibile realtà di Auschwitz-Birkenau, abbia fatto ricorso all’iperbole, all’esagerazione, che col passare del tempo ha offerto materiale ai negazionisti, che attendono solo che i testimoni cadano in qualche contraddizione, per cercare di dimostrare la fondatezza della “menzogna di Auschwitz”. Liana Millu, Il fumo di Birkenau, Casa Editrice La Prora, Milano, 1947, ristampato presso Giuntina, Firenze 1986, con la prefazione di Primo Levi Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad uno scritto precoce sulla deportazione, ancora una volta ad opera di una donna ebrea. Liana Millu viene arrestata in realtà come partigiana, ma scoperta poi la sua origine ebraica, viene deportata a AuschwitzBirkenau. La sua narrazione è decisamente più vicina alla letteratura che alla testimonianza e riflette la vocazione della Millu, che già prima della guerra aveva fatto qualche esperienza come giornalista. Il racconto 15 si snoda attraverso sei lunghi capitoli, in cui l’autrice condensa la storia della sua deportazione. L’andamento del racconto non è cronologico, nulla ci viene detto della autrice e della sua vita prima di Auschwitz, anche se il testo è scritto in prima persona e rimanda evidentemente ad una esperienza diretta e autobiografica. Da un punto di vista letterario, la scrittura della Millu appare, fin da questa prima opera, matura e la realtà terribile del campo di annientamento si dipana davanti ai nostri occhi grazie alle potenti pennellate di Liana, che con uno stile incisivo e potente, ci presenta una galleria di personaggi, quasi tutti femminili, di grande efficacia. Anche in questo scritto compare il tema, ripreso e sviluppato da più di una exdeportata, della maternità in campo, anzi per meglio dire della maternità negata. Nel Il fumo di Birkenau la storia di Maria e della sua bambina Erika, nessuna delle quali riuscirà a sopravvivere, occupa uno spazio non irrilevante: in questo episodio, così come nella vicenda di Bruna e Pinin, madre e figlio, morti nel lager, si squaderna di fronte al lettore tutta l’immensa tragedia di essere donna nei lager nazisti. Aldo Bizzarri, Mauthausen città ermetica, O.E.T., Roma 1946, poi riedito a cura di Questa memoria di Bizzarri, come osserva Federico Cereja nella sua bella introduzione, fa parte del nucleo di memorie scritte subito dopo la liberazione, addirittura nell’agosto del 1945. Come afferma Cereja, «pare importante rileggere quello che i deportati scrissero immediatamente al loro ritor- 16 Federico Cereja, Il Segnalibro Editore, Torino 2003 no, a ridosso degli avvenimenti, con la sconvolgente e tragica novità che davano di un mondo davvero inimmaginabile per tutti gli altri, da loro conosciuto e da cui ritornavano» (p. 3). Aldo Bizzarri viene arrestato a Budapest per attività antinazista e trasferito nel maggio 1944 a Mauthausen, dove resterà fino alla liberazione nel maggio del 1945. La memoria di Bizzarri si configura come una vera e propria testimonianza di tipo documentario: l’autore non sceglie la via del racconto, ma quella della descrizione precisa, dal sapore scientifico, con il preciso scopo di far capire al lettore ignaro che cosa fosse il lager di Mauthausen e quali fossero i metodi adottati dai nazisti per piegare l’opposizione politica. Alba Valech Capozzi, A 24029, Soc. An. Poligrafica, Siena 1946, ristampato nel 2005 dalla Nuova Immagine editrice, Siena Fa parte del primo gruppo di scritti sulla deportazione. L’autrice si sofferma a narrare le vicende della propria famiglia segnata dalle leggi razziali. Segue l’internamento a Fossoli e da qui a Auschwitz. L’importanza di questa memoria sta soprattutto nel fatto che è stata scritta a caldo, a pochi mesi dalla fine del conflitto. Paolo Liggeri, Triangolo rosso: dalle carceri di S. Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione Don Liggeri, nativo della Sicilia, era stato ordinato sacerdote nel 1925. A Milano, dopo l’8 settembre 1943, organizza una rete di soccorso per perseguitati politici e razziali. Arrestato, inizia una lunga trafila che lo porterà in diversi KL. La sua testimonianza è fra le prime che sono state 17 di Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Dachau (marzo 1944maggio 1945), Istituto La Casa, Milano 1946, riedito nel 1963 scritte e l’autore adotta uno stratagemma: finge che si tratti di un diario consegnatogli da un amico, che portava il suo stesso nome. Sono interessanti le osservazioni di questo sacerdote dalla personalità ricca e versatile: cerca di comprendere il mondo che lo circonda. Puntuale nelle descrizioni, sono notevoli le osservazioni sulla situazione dei religiosi rinchiusi nel lager di Dachau (su questo tema si veda anche AA.VV., Religiosi nei Lager. Dachau e l’esperienza italiana, Franco Angeli, Milano 1999). Giuliana Fiorentino Tedeschi, Questo povero corpo, edizione originale EDIT, Milano 1946, riedito a cura di Lucio Monaco per le Edizioni dell’Orso, Alessandria 2002 Si tratta di una delle prime memorie sull’esperienza nei lager nazisti e significativamente è una memoria femminile. Giuliana Fiorentino Tedeschi viene arrestata nel 1944 insieme al marito che non farà ritorno. Una fedele donna di servizio, Annetta Barale, riesce a porre in salvo le due figlie piccole della coppia. Giuliana conoscerà la terribile esperienza del campo di sterminio: internata a Birkenau vede davanti a sé ogni giorno gli immensi edifici di messa a morte, collocati nelle vicinanze del campo femminile. Questa sua prima memoria porta un titolo estremamente indicativo, Questo povero corpo, in cui si riflette la specificità della esperienza femminile nei Lager nazisti: Giuliana Fiorentino Tedeschi sente che i nazisti si propongono di annientare le donne ebree in maniera ancora più radicale; tutto, nel lager, le sembra un attentato nei confronti dell’identità femminile. Il testo non si sofferma sulla vita dell’autrice prima della deporta- 18 zione, ma entra immediatamente in medias res con l’arrivo a Birkenau e la narrazione si snoda attraverso 12 capitoli in cui la Tedeschi ci presenta il Lager in tutto il suo orrore, in uno stile che risente della sua buona educazione letteraria (era insegnante di materie letterarie). Gli episodi che si susseguono non seguono un andamento cronologico, ma piuttosto tematico. Come osserva, nella sua introduzione, Lucio Monaco, curatore dell’edizione del 2002, questo primo libro di Giuliana Tedeschi appare come «il prodotto dell’urgenza di una testimonianza, ma di una testimonianza privata, rivolta ad un assente [il marito], un colloquio reso più straziante dalla vicinanza cronologica» (p. XV). Pietro Chiodi, Banditi, ANPI, Alba 1946, poi Einaudi, Torino 1961 In realtà il testo di Pietro Chiodi è assai più legato alla memoria resistenziale che alla deportazione, tuttavia va ricordato perché è stato uno dei primi lavori in cui veniva, sebbene in modo timido, tematizzata la deportazione. È interessante la descrizione del campo di Bolzano. Primo Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Torino 1947 La prima edizione del capolavoro dello scrittore ebreo torinese deportato ad Auschwitz nel febbraio del 1944 insieme a Luciana Nissim, Vanda Maestro e Franco Sacerdoti. È stato scritto subito dopo il rientro in Italia, ma non fu facile per Levi trovare un editore: è nota la vicenda del rifiuto della casa editrice Einaudi. Non sempre seguendo un andamento strettamente cronologico, Levi, con uno stile 19 semplice, ma mai banale, rivelando fin da questo primo scritto le sue indubbie doti di scrittore, ripercorre le tappe della propria esperienza nel KL di Auschwitz III, Monowitz. Non mancano squarci potentemente lirici come quello sul canto di Dante ripetuto a un amico francese (vale la pena di ricordare che la memoria di Jean Samuel è stata pubblicata da Frassinelli con il titolo Mi chiamava Pikolo, nel 2008 e contiene le lettere che Primo Levi e Jean si scambiarono dopo il lager). Non mancano riflessioni anche di carattere filosofico sul sistema concentrazionario. A partire dal 1958, quando verrà ripubblicato da Einaudi, con vistose modifiche, diventerà uno dei testi più letti sulla deportazione. Teresa Noce, … Ma domani farà giorno, Cultura nuova editrice, Milano 1952 Teresa Noce, di origine piemontese, appartiene al numero di dirigenti comunisti che dopo l’avvento del fascismo ripararono in Francia e in seguito presero parte alla Resistenza francese. Arrestata in Francia, la Noce fu poi deportata a Ravensbrück e da qui trasferita a Holleischen, dove lavorò in una fabbrica di munizioni. La sua memoria è interessante almeno per due motivi: sicuramente perché l’autrice pone al centro della propria narrazione la dimensione squisitamente femminile della deportazione e in secondo luogo perché si colgono gli accenti della militante comunista. In particolare questo aspetto, che rimanda al problema non indifferente della costruzione di una precisa percezione di 20 sé, non estranea alle narrazioni sulla deportazione, emerge almeno in due momenti: in quello della punizione sopportata da una prigioniera, naturalmente francese e politica, senza emettere un suono e nella scena in cui Teresa Noce ci presenta le prigioniere che, nel sottocampo di Holleischen, si rifiutano di accettare dal comandante del campo la remunerazione che poteva essere utilizzata per comprare alcuni beni nello spaccio del lager (tali compensi erano stati previsti a partire dal 1944 dai nazisti per spingere la forza lavoro concentrazionaria a produrre di più). Entrambi questi episodi sono emblematici e risentono dell’immagine della militante comunista, capace di sopportare ogni sofferenza per una causa giusta. Non mancano poi nella Noce i riferimenti alle compagne di prigionia, in una narrazione che assume spesso i toni della coralità, nonché i richiami alla solidarietà fra prigioniere in campo: anche in questo caso è difficile stabilire quanto si trattasse di vera solidarietà e quanto di un cliché. ANED, L’oblio è la colpa, a cura dell’ANED sezione di Milano, Milano 1954 Si tratta della prima raccolta di scritti sulla deportazione, pubblicata in occasione di un viaggio-pellegrinaggio nel campo di Mauthausen. Ci sono scritti di Don Paolo Liggeri, Eridano Bazzarelli, Giovanni Melodia. L’importanza di questa antologia sta nel fatto che è una delle primissime su questo tema e spezza così il silenzio sul tema della deportazione. 21 Piero Caleffi, Si fa presto a dire fame, Edizioni Avanti! Milano-Roma 1955, poi Edizioni del Gallo, Milano 1965 È sicuramente un classico della letteratura concentrazionaria, un contributo importante per molti motivi quello di Piero Caleffi, perché grazie a questo volume si interruppe la spirale di silenzio che, dopo i primi scritti usciti a ridosso della liberazione, era calato sul tema della deportazione. Si tratta di un libro ancora oggi godibilissimo, perché scritto in un linguaggio semplice ed efficace, con uno stile capace di rendere il clima di ideali e di grandi speranze in cui si muoveva il mondo resistenziale. Infatti Piero Caleffi, che in seguito divenne senatore e presidente dell’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti, fu arrestato e quindi deportato a Bolzano e poi a Mauthausen alla fine del 1944, dopo una rilevante partecipazione alla resistenza. L’esperienza concentrazionaria è dunque raccontata soprattutto negli ultimi capitoli, in cui l’autore riesce a rendere perfettamente il processo di disumanizzazione e di spersonalizzazione cui erano sottoposti i prigionieri. È anche interessante notare come l’autore si sforzi di dare corpo ad una rappresentazione corale; intorno a lui si muovono e agiscono i compagni di prigionia che non appaiono sfocati, ma come individui con una propria personalità e individualità ben marcata: da Ada Buffulini a Giuliano Pajetta. Enea Fergnani, Un uomo e tre numeri, Edizioni Avanti!, Anche in questo caso ci si trova di fronte ad uno dei testi più precoci sulla deportazione. Enea Fergnani, avvocato milanese, fa parte della Resistenza e per questo mo- 22 Milano-Roma 1955 tivo viene arrestato nel 1944. Dopo una permanenza nel carcere di San Vittore viene trasferito a Fossoli, dove viene a conoscenza della strage del 12 luglio 1944, quando per motivi ancora non chiariti, furono uccise 67 persone internate per motivi politici al poligono di tiro di Cibeno. Successivamente Fergnani è a Bolzano-Gries e da qui partirà per Mauthausen. La descrizione della sua prigionia al campo di Mauthausen, uno dei più terribili dell’universo concentrazionario nazista, occupa circa la metà del volume, mentre nella prima parte l’autore ci offre uno spaccato sulla Resistenza milanese e sulle scelte di fondo che spinsero molti giovani intellettuali ad appoggiarla. Sull’esperienza in campo le pagine di Fergnani ci presentano un autore lucido e disincantato, capace di decifrare rapidamente la terribile situazione in cui erano costretti a vivere i deportati. Non mancano ritratti vividi degli uomini che vivono insieme a lui questa esperienza: Alfredo Violante, Aldo Ravelli, Mino Steiner. Il racconto della vita nel campo, nell’infermeria, nei campi di lavoro in cui verrà trasferito è corale, come se l’autore volesse dar voce anche a coloro che non hanno fatto ritorno, tra questi sicuramente l’amico Otto. Le ultime pagine sono una realistica descrizione della dissoluzione del sistema dei lager di fronte all’arrivo degli alleati e del terrore provato dai detenuti negli ultimi giorni di lager di essere tutti eliminati in un ultimo bagno di sangue. 23 Bruno Piazza, Perché gli altri non dimentichino, Feltrinelli, Milano 1956 Bruno Piazza, avvocato triestino, di origine ebraica, fu arrestato dai tedeschi e deportato ad Auschwitz. Sopravvissuto, scrisse immediatamente la sua testimonianza e morì subito dopo, nel 1946. Il suo racconto fu pubblicato nel 1956 ed è tuttora ristampato da Feltrinelli. Si tratta di una testimonianza particolarmente cruda, da cui emerge l’estrema violenza del campo; Piazza oltre alle sue memorie cerca di dare conto del sistema raffinato di distruzione dell’essere umano posto in essere dai nazisti e l’umiliazione costante a cui erano sottoposti soprattutto gli intellettuali. In particolare, si segnala la pagina in cui Piazza racconta di essere arrivato fin dentro le camere a gas e di essersi salvato per un inspiegabile motivo: del resto, come sottolinea anche Primo Levi, ad Auschwitz non sempre c’era un perché. Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958 A partire da questa edizione, che risente di un intenso lavoro sul testo rispetto all’edizione del 1947, Levi diventa une delle voci più alte della letteratura concentrazionaria e da qui prende le mosse la sua attività di scrittore, dapprima vissuta a margine della attività principale, quella di chimico. Se questo è uomo ha conosciuto numerosissime ristampe, edizioni commentate per la scuola ed è stato tradotto in tutte le lingue. L’opera di Primo Levi è conosciuta a livello internazionale, anche se la sua opera è stata oggetto di studio soprattutto dopo la sua tragica fine. 24 GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA Nel 1961 si celebra in Israele il processo ad Adolf Eichmann, l’ufficiale nazista che aveva coordinato le deportazioni degli ebrei da tutta Europa. Eichmann non fu, come si credette, erroneamente, l’inventore della cosiddetta soluzione finale, ossia l’annientamento fisico degli ebrei, ma fu certamente colui che pianificò e rese possibile, da un punto di vista logistico ed organizzativo, il trasporto degli ebrei dai loro luoghi di residenza ai campi di sterminio. Il processo Eichmann ebbe una vasta eco, fu seguito da moltissimi giornalisti stranieri e fornì lo spunto alla filosofa tedesca Hannah Arendt per la sua riflessione sulla «banalità del male». A partire da questo momento lo sterminio degli ebrei cominciò ad acquisire una sua specificità anche da un punto di vista storiografico (risale sempre al 1961 la straordinaria opera di Raoul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, che ancora oggi è un testo chiave su questa tematica). In questo contesto, favorevole all’ascolto dei testimoni, iniziò a farsi sentire la voce di coloro che erano stati testimoni diretti dello sterminio, non solo ebrei, ma anche oppositori politici. Così, a partire soprattutto dagli anni Settanta, presero avvio le prime ricerche dedicate alla deportazione, come quella promossa dall’ANED i cui esiti furono pubblicati nel 1971 e le prime raccolte di testimonianze tematiche, come l’antologia dedicata alle deportate politiche, curata da Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, uscita nel 1978. In questo stesso periodo sono state pubblicate le opere forse più significative sull’esperienza concentrazionaria: i volumi di Primo Levi, di Vincenzo Pappalettera e di Giovanni Melodia, questi ultimi deportati politici rispettivamente a Mauthausen e a Dachau. 25 Edith Bruck, Chi ti ama così, Lerici, Milano 1959, poi ripubblicato, Marsilio, Venezia 1974 La toccante testimonianza di Edith Bruck, di origine ungherese, trasferitasi a Roma nel 1954, si colloca a metà strada tra la memorialistica e il romanzo. Infatti la rievocazione della sua terribile esperienza ad Auschwitz Birkenau, a soli quindici anni, e la perdita della madre, finita immediatamente nella camera a gas ha la coloritura e l’espressività proprie del romanzo. Il testo si apre con la descrizione dell’infanzia dell’autrice che era di famiglia poverissima, trascorsa in un piccolo villaggio ungherese che sarà poi rievocata nella raccolta di racconti Andremo in città, pubblicata nel 1966 e ristampata nel 2007 presso L’ancora del mediterraneo. Il racconto prosegue poi con la deportazione dapprima nel ghetto, poi ad Auschwitz, dove Edith, separata brutalmente dalla madre, si attacca alla sorella con la quale riuscirà a sopravvivere. Con grande franchezza la Bruck non si esime nemmeno dal toccare gli aspetti più terribili dell’esperienza in lager: accenna, infatti, a più riprese alle molestie sessuali subite da parte delle SS durante la disinfestazione. Non meno toccante è la seconda parte del racconto della Bruck: il ritorno, la freddezza della sorella Leila, il matrimonio, l’emigrazione in Israele alla ricerca di un ubi consistam difficile da trovare, e infine la partenza verso l’ignoto, alla ricerca di una serenità difficile da conquistare. Altrettanto toccante è il romanzo Lettera alla madre, scritto nel 1988, pubblicato da Garzanti. In questa immaginaria, toccante 26 lettera alla madre, morta immediatamente all’arrivo ad Auschwitz, l’ombra del lager è onnipresente e fa da sfondo all’incessante monologo che l’autrice intesse con la madre. Sono molti i temi toccati, quello dominante appare il complesso rapporto madre-figlia: Edith non si è mai sentita capita né amata, ma nello stesso tempo si sente in colpa, non solo per essere sopravvissuta, ma anche per aver abbandonato la fede della madre, per aver sposato un non ebreo. Vale la pena di ricordare che ci sono, nel corso della narrazione, molti impliciti ma chiarissimi riferimenti a Primo Levi, amico della Bruck e suicidatosi da poco. Anche sulle motivazioni, apparentemente inspiegabili di questo suicidio, l’autrice si interroga con grande lucidità e sensibilità profonda. Giorgina Bellak, Giovanni Melodia, Donne e bambini nei Lager nazisti, ANED, Milano 1960 Si tratta di un’antologia in cui la Bellak e Melodia, anch’essi ex-deportati, danno voce alle testimonianze delle donne e dei bambini, sottolineando per la prima volta la specificità della deportazione femminile. Alcuni testi sono particolarmente incisivi, come quelli di Maria Montuoro su Ravensbrück. Piero Caleffi, Albe Steiner (a cura di), Pensaci uomo!, Feltrinelli, Milano 1960 In questo testo la realtà del lager viene presentata attraverso le immagini. Si tratta di un testo importante perché sono presentate numerose fotografie che documentano la veridicità dei racconti dei testimoni e che aiutano a comprendere la realtà dei campi di concentramento nazisti. 27 Primo Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1963 L’odissea del ritorno di Primo Levi, che liberato dai russi nel gennaio 1945, farà ritorno a Torino soltanto nell’ottobre dello stesso anno. Prova sicuramente più letteraria e più matura rispetto a Se questo è un uomo, ci offre un quadro ironico e vivo dell’Europa ancora devastata dalla guerra. A più di quaranta anni di distanza ne è stato liberamente tratto un documentario dal significativo titolo La strada di Levi, in cui il regista Davide Ferrario ripercorre l’itinerario percorso da Levi, un pretesto per mostrarci l’Europa dell’Est di oggi. Reska Weiss, Viaggi attraverso l’inferno, Longanesi, Milano 1963 Si tratta di una memoria femminile, scritta nel 1961, probabilmente sulla scorta della emozione suscitata dalla cattura e dal processo a cui venne sottoposto Adolf Eichmann, in Israele. L’interesse di questo scritto risiede nel fatto che l’autrice, dopo essere stata deportata ad Auschwitz, viene immediatamente trasferita in una serie di campi di lavoro per soli ebrei di cui ancora oggi si sa pochissimo, perché in genere gli ebrei che vi erano internati, dopo essere stati sfruttati fino all’ultimo come forza lavoro, venivano eliminati nei campi di messa a morte. Gran parte del racconto è ambientata in tali campi: dapprima a Riga, poi a Ponovez, Stuthof e infine Neumark. L’autrice, insieme ad alcune compagne, riesce a fuggire durante una marcia della morte, si nasconde, e successivamente viene liberata dai soldati dell’Armata Rossa. 28 Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino. Vita e morte a Mauthausen, Mursia, Milano 1965 Si tratta forse di uno dei volumi più famosi sulla deportazione politica, uscito nella fase in cui cominciava faticosamente ad emergere la specificità della deportazione nell’ambito della storia complessiva della seconda guerra mondiale. Pappalettera, di origine pugliese, fu attivo nella Resistenza nel milanese. Arrestato, fu deportato dapprima a Bolzano e da qui a Mauthausen. Sopravvissuto, dedicò la sua vita a cercare di comprendere il fenomeno dei lager. Il suo primo libro, Tu passerai per il camino vinse il premio Bancarella nel 1966 e godette di un enorme successo di critica e di pubblico. Il racconto sul campo di Mauthausen non appare molto dissimile da altri libri sulla stessa tematica, ma è bellissimo il capitolo con cui si apre il racconto di Pappalettera: l’arrivo degli americani nel lager e la liberazione. Lo squarcio che si apre di fronte ai nostri occhi è di rara potenza: i sopravvissuti, abbruttiti dalle sofferenze patite in campo si lanciano all’assalto dei magazzini di cibo e la fame tremenda li spinge a comportamenti di estrema violenza, anche nei confronti dei loro stessi compagni. Dopo questo lungo flashback la narrazione segue un andamento cronologico, ma il filo rosso che pervade il libro è il tentativo di capire il lager, le sue regole, la sua mostruosità. Inoltre Pappalettera si sofferma molto su un tema che gli era evidentemente caro, perché gli dedicherà un libro: il ritorno alla vita, con le enormi difficoltà per i sopravvissuti per riadattarsi ad una esistenza 29 normale. Infine, nelle appendici, troviamo una parte strettamente documentaria e storica: è il testimone che si fa storico nel tentativo di offrire delle risposte a se stesso e agli altri. Olga Lengyel, I forni di Hitler, Carroccio, Bologna 1966 Si tratta della memoria scritta e pubblicata nel 1947 negli Stati Uniti da una dottoressa ungherese, unica sopravvissuta della sua famiglia, deportata ad Auschwitz nel 1944. La prima versione di questa memoria reca il titolo Five Chimneys ed è stata riedita in USA nel 1997. L’interesse di questa memoria risiede nel fatto che la protagonista, come Luciana Nissim Momigliano e Sima Vaisman, era un medico ed una donna; ed in effetti la sua narrazione, piuttosto scarna dal punto di vista letterario, ruota intorno a questi due temi: la difficoltà di mantenere una propria coscienza medica all’interno del lager e la situazione delle donne prigioniere. In particolare la Lengyel si sofferma sul tema della maternità in campo e sulla terribile decisione da parte delle dottoresse ebree di eliminare i bambini per salvare le madri: «E così i tedeschi riuscirono a far commettere assassini anche a noi: ancora oggi l’immagine di quei bambini mi tormenta […]. L’unica consolazione è che quegli assassinii ci permisero di salvare le madri, che senza il nostro intervento, sarebbero state buttate nei forni crematori ancora vive» (p. 168). 30 Ruggero Zangrandi, La tradotta del Brennero, Mursia, Milano 1968 Adottando la formula del romanzo Zangrandi narra la storia di alcuni ragazzi romani che sono deportati in Germania come lavoratori coatti dopo essere stati prelevati dal carcere di Roma. Le pagine più intense sono quelle in cui l’autore descrive la resa di Berlino, la Germania distrutta del dopoguerra in cui si muovono milioni di persone che cercano di tornare in patria o di emigrare: «Nella primavera del 1945 e, poi nell’estate e per tutto l’autunno, torme di sbandati percorsero la Germania. Era un popolo di profughi, seppure appartenente a tante nazionalità, che faceva pensare a antiche, bibliche migrazioni. Erano prigionieri, deportati, superstiti dei campi di sterminio, gente affiorata, come d’incanto, dopo la liberazione dal chiuso dei lager, dal fondo delle miniere, dalle officine, dalle macerie delle città dove aveva diviso con la popolazione tedesca le privazioni, le ansie, gli orrori degli ultimi anni di guerra» (p. 183). Ho deciso di segnalare questo volume anche per un motivo affettivo: è il primo che ho letto sulla deportazione durante la scuola media e mi ero chiesta come fosse possibile che gli uomini arrivassero a tanto. La stessa domanda che mi perseguita oggi, dopo più di trent’anni. Charlotte Delbo, Auschwitz et après: Aucun de nous reviendra (t. 1), Si tratta di una trilogia in cui Charlotte Delbo, una delle voci più alte della letteratura concentrazionaria francese ripercorre e riflette sulla sua esperienza a Auschwitz e a Ravensbrück. Non sempre l’autrice se- 31 Une connaissence inutile (t. 2), Mesure de nos jours (t. 3), Editions de Minuit, Paris 1970 gue un andamento cronologico e in molti casi il lettore si trova di fronte ad immagini e a visioni del campo. Sono notevoli le pagine dedicate al tema dell’ amicizia e della sopravvivenza in Lager: «Ci proteggiamo l’una con l’altra. Ciascuna vuole stare vicina ad una amica. Una donna sta di fronte a quella più debole per ricevere il colpo diretto a lei, un’altra sta dietro a una donna che non può più correre per raccoglierla se cade». E ancora: «Sono disperata. La presenza delle altre, le loro parole rendono il ritorno possibile. Se ne sono andate e io ho paura. Non credo nella possibilità del ritorno quando sono sola. Con loro, dal momento che ci credono così fermamente, ci credo anche io. Non appena mi lasciano, ho paura. Nessuno crede nel ritorno quando è sola». Nel tomo 2, Une connaissence inutile la Delbo tratta in particolare l’esperienza del ritorno e la estraneità della vita quotidiana per delle donne che riemergevano con difficoltà dopo una esperienza così assoluta. Nonostante il fatto che praticamente non esista una traduzione italiana si è deciso di segnalare quest’opera per la sua straordinaria significatività. Un mondo fuori dal mondo. Indagine Doxa fra i reduci dai campi nazisti, La Nuova Italia, Firenze 1971 In questo volume vengono presentati i risultati dell’indagine promossa dall’ANED attraverso l’analisi di 317 interviste a exdeportati. Alcune risposte sono piuttosto lunghe e articolate e ci aiutano a capire le prospettive, le ragioni, le delusioni di coloro che avevano conosciuto la deportazione. 32 Vincenzo Pappalettera (a cura di), Nei lager c’ero anch’io, Mursia, Milano 1973 Sulla scorta del successo di Tu passerai per il camino Pappalettera raccoglie una notevole quantità di testimonianze sui Lager, organizzate per tematica: Verso l’ignoto, L’arrivo al Lager e così via. Si tratta di testimonianze non solo di ex deportati italiani, ma anche di altri paesi, e non manca neppure la voce degli ex-carnefici; talvolta si tratta di memorie già pubblicate e qui riproposte. Quello che emerge dalle pagine di Pappalettera è dunque un racconto corale, in cui il curatore scompare per lasciare la parola a tutti coloro che conobbero i lager nazisti: non solo deportati politici, ma anche razziali e ex internati militari. Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1975 Ciascun capitolo prende il nome dalla tavola degli elementi chimici e in ciascun quadro Primo Levi presenta i momenti chiave della sua esistenza: la ricostruzione delle radici familiari, un ritratto vivissimo dell’ebraismo piemontese, l’esperienza vissuta nel laboratorio chimico a Monowitz. Particolarmente interessante è il capitolo intitolato Vanadio in cui Levi racconta della sua corrispondenza con il chimico tedesco responsabile del laboratorio ad Auschwitz. Qui per la prima volta Levi tocca un tema che riprenderà anche nel suo ultimo lavoro I sommersi e i salvati: che cosa sapevano i tedeschi durante la shoah? Questo tema in questi ultimi anni è stato ripreso e notevolmente ampliato grazie alle ricerche di storia “dal basso” condotte in Germania: è del 2006, ad esempio, la ricerca condotta da Peter Longerich, da 33 poco tradotta in francese con il titolo Nous ne savions pas, pubblicata nel 2008 per le edizioni Héloïse d’Ourisson. Viktor E. Frankl Uno psicologo nei lager, edizioni Ares, Milano 1975 Viktor Frankl, psicologo, conobbe per esperienza diretta numerosi KL. Sopravvissuto, in questo scritto cercò di analizzare attraverso la cifra della psicologia, la sua drammatica esperienza personale. Il volume quindi oscilla tra la riflessione e la memoria. Le riflessioni di Frankl ci aiutano a capire non solo la realtà del lager, indagata attraverso uno sguardo specifico, come quello che è proprio di uno psicologo, ma fanno riflettere su alcune delle malattie psichiche che hanno afflitto i sopravvissuti. Giovanni Melodia, La quarantena: gli italiani nel Lager di Dachau, Mursia, Milano 1971 L’autore, dotato anche di una certa capacità letteraria, ricostruisce la storia degli italiani giunti a Dachau e in particolare del primo trasporto partito da Peschiera del Garda. Il volume è costituito da una serie di episodi sulla vita nel lager, incentrati sul periodo della quarantena, quello in cui i deportati dovevano impadronirsi delle regole base del campo. Era un periodo durissimo: chi non riusciva ad adattarsi alle regole del lager, era condannato a soccombere in beve tempo. L’autore sottolinea le difficoltà che incontrarono gli italiani, che erano spesso malvisti da tutti e che avevano, nella stragrande maggioranza dei casi, pochissima dimestichezza con la lingua tedesca. 34 Giovanni Melodia, Sotto il segno della svastica: gli italiani nel Lager di Dachau, Mursia, Milano 1979 Prosegue la storia degli italiani internati a Dachau. La scrittura è più simile a quella di un romanzo che alla memorialistica in senso stretto. Notevoli anche le analisi psicologiche. I due volumi di Melodia sono poi stati ripubblicati un unico volume dal titolo Di là da quel cancello: i vivi e morti nel lager di Dachau, Mursia, Milano 1988. Vicenzo Pappalettera, Ritorno alla vita. I sopravvissuti dei Lager nel dopoguerra italiano, Mursia, Milano 1976 Questo volume di Pappalettera, che testimonia l’impegno di una vita teso a cercare di comprendere i lager, è assolutamente, quanto a tematica, innovativo: infatti in genere la narrazione sui campi nazisti si concludeva all’arrivo a casa del sopravvissuto e nulla si raccontava del suo inserimento nella vita civile. Qui invece Pappalettera ricostruisce questa difficile fase; in una forma narrativa che oscilla tra il resoconto storico e il romanzo, l’autore ci fa comprendere quanto fosse complicato far comprendere a chi non l’aveva conosciuta per esperienza personale la fame che ancora ossessionava i sopravvissuti, la voglia di vivere e di riappropriarsi di una vita normale, in cui però spesso facevano irruzione gli incubi. E infine l’incapacità per gli altri di capire: da qui il vuoto profondo provato dagli ex-deportati, a cui dopo la fase di euforia della Liberazione, si guarda con sospetto. Le elezioni politiche del 1948 impressero una sferzata verso destra e segnarono l’avvio di una sorta di restaurazione: «Nessuna industria nel 1949, né privata né irizzata, assumeva un sindacalista rosso, ex partigiano ed ex deportato, per giunta. Ce n’erano molti di disoccupati 35 tra costoro». Così per gli ex-deportati inizia un periodo di disillusione: tutti sognavano nella notte del lager un mondo perfetto, ben lontano dalla realtà quotidiana in cui si trovavano a vivere nell’Italia della fine degli anni Quaranta. Liana Millu, Il ponte di Schwerin, Lalli, Poggibonsi 1978, ristampato da Le Mani, Genova 1994 Utilizzando la forma del romanzo autobiografico la Millu ci narra la vicenda di una ex-deportata, che dopo la terribile esperienza di Birkenau, vaga in un’Europa ancora devastata dalla guerra per raggiungere il ponte di Schwerin, che segnava il punto di passaggio dalla zona di occupazione sovietica a quella americana. Rientra nel genere delle odissee del ritorno, in cui i deportati con difficoltà immense cercano di riappropriarsi della propria esistenza. Il ponte, come suggerisce nella prefazione Laura Lilli, è insieme reale e metaforico: è la meta che desidera raggiungere la protagonista, ma è anche il punto d’arrivo di un percorso psicologico per cercare di ricostruirsi una vita dopo il lager. Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiana, Einaudi, Torino 1978 Questo è senza dubbio uno dei libri che ha maggiormente contribuito a far conoscere nel nostro paese la deportazione femminile. Infatti per molti anni del campo di Ravensbrück e della deportazione politica femminile non si è saputo praticamente nulla: le donne che erano ritornate avevano scelto nella stragrande maggioranza di chiudersi in un pudico silenzio. In una congiuntura storica in cui le memorie della deportazione cominciano ad affiorare con 36 maggiore incidenza, Lidia Beccaria Rolfi insieme ad Anna Maria Bruzzone, raccoglie e introduce con la sua testimonianza, che è anche una storia del campo femminile di Ravensbrück, la storia di quattro altre donne deportate. È una lettura estremamente coinvolgente, in cui si dipinge la deportazione politica nelle sue diverse sfaccettature: accanto alle intellettuali come Bianca Paganini Mori c’erano le sorelle Baroncini, di famiglia antifascista, che perderanno in Lager, caso rarissimo nella storia della deportazione politica, tutta la famiglia e in particolare a Ravensbrück, la madre e una sorella. Il quadro che ne esce è di grande umanità e la raccolta di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone segna senza dubbio un prima e un dopo rispetto alla tematica della deportazione al femminile: molte testimoni, intervistate dopo la pubblicazione di questo testo vi faranno esplicito riferimento, come se le donne incluse nel volume della Beccaria Rolfi e della Bruzzone rappresentassero tutte le deportate. Maria Massariello Arata, Il ponte dei corvi. Diario di una deportata a Ravensbrück, Mursia, Milano 1979 Si tratta di una delle memorie più conosciute ed interessanti sul lager femminile di Ravensbrück, pubblicata postuma. Maria Arata era un’insegnante di scienze presso il Liceo “Carducci” di Milano ed era attiva nella Resistenza. Venne arrestata nel 1944 e fu successivamente deportata in Germania, dopo una permanenza nel campo di Bolzano, nell’ottobre del 1944. Il racconto segue un andamento cronologico e l’autrice nel raccontare la propria esperien- 37 za riporta in modo implicito anche quella delle compagne che non hanno scritto o non sono ritornate. La Arata sottolinea, a più riprese, la specificità della deportazione femminile, soprattutto nei passi in cui descrive le umilianti procedure di ingresso nel lager e le visite mediche. Arata sente profondamente la solitudine in cui sono immerse le prigioniere: è difficile, se non impossibile, comunicare con le polacche e le russe, le italiane sono spesso mal viste, il lavoro nel sottocampo di Neubrandeburg sfinente. Verso marzo Maria Arata ritorna a Ravensbrück, ma a causa delle sue precarie condizioni di salute viene selezionata per lo Jugendlager, un campo a pochi chilometri dal campo principale dove erano ammassate le prigioniere destinate a morte. Grazie ad una delle imprevedibili scelte delle SS, viene trasportata di nuovo al campo principale dove infine è liberata dai russi. Di fronte alla disumanizzazione del campo la Arata sembra trovare consolazione nella propria fede religiosa e nel contatto con la natura: «L’aria della pineta fuori del Lager, il quadro della natura che si sta risvegliando, cespugli di spirea in fiore, il bel panorama con il lago dove si rispecchia il campanile gotico della cattedrale di Fürstenberg, la pineta […] mi rianimano, mi sento ancora in grado di godere della bellezza, sento di nuovo in me qualcosa che vibra intensamente, che mi permette di elevarmi al di sopra di tante brutture. Attraverso la natura arrivo a Dio» (pp. 105-106). 38 GLI ANNI OTTANTA E NOVANTA Gli anni Ottanta vedono il definirsi di importanti ricerche sulla deportazione, come quella dell’Archivio della deportazione piemontese che porta alla raccolta di più di duecento testimonianze, ora depositate presso l’Archivio dell’Istituto della Resistenza di Torino e antologizzate nel bel volume curato da Anna Bravo e Daniele Jalla, La vita offesa, pubblicato da Franco Angeli nel 1986. In questi stessi anni prosegue l’attività di ricerca e di divulgazione dell’ANED che promuove una serie di seminari e di convegni internazionali i cui esiti saranno sempre pubblicati in una apposita collana presso la casa editrice Franco Angeli. Gli anni Novanta si aprono con la prima edizione del Libro della memoria di Liliana Picciotto, edito da Mursia: dopo una ricerca durata più di quaranta anni, la Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea è riuscita a dare un nome alle vittime ebree, circa 8000 persone morte nei campi di sterminio. In questi decenni prosegue la pubblicazione di memorie di vario genere, con risultati che non sono sempre felici da un punto di vista strettamente letterario, ma che testimoniano la volontà sempre più viva da parte degli ex deportati di lasciare memoria della loro esperienza. Vale la pena di ricordare che, in questi anni, incomincia, da una parte, ad incrinarsi il paradigma dell’antifascismo e dall’altra diventano più numerose ed insistenti le pubblicazioni di coloro che negano l’esistenza delle camere a gas. Diventa così quasi reale l’incubo dei sopravvissuti, cui gli aguzzini in Lager dicevano «se anche uscirete di qui nessuno vi crederà». Ed è anche contro questa terribile deriva che si è fatta sentire la voce di Primo Levi con il suo scritto più filosofico, I sommersi e i salvati: l’ultima definitiva rifles- 39 sione sul buco nero di Auschwitz, Levi infatti si suicida a Torino nel 1987. Negli scritti e nelle memorie di questi decenni si nota una notevole produzione femminile: a partire soprattutto dagli anni Novanta, in seguito anche ad un fortunato convegno voluto dall’ANED e in particolare da Lidia Beccaria Rolfi (cfr. Lucio Monaco, a cura di, La deportazione femminile nei Lager nazisti, Consiglio Regionale del Piemonte-ANED-Franco Angeli, Milano 1996), la voce femminile acquista autorevolezza e si incomincia a ragionare anche in termini storiografici sulla specificità della deportazione femminile. Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980 Una delle testimonianze più toccanti sulla deportazione e sullo sterminio degli ebrei ungheresi: la piccola comunità di Sighet si rifiuta di credere alle voci che parlano di campi di eliminazione in Polonia e continua la sua tranquilla vita quotidiana fino al momento tragico della deportazione. L’autore, all’epoca, era un ragazzino di quindici anni, dedito agli studi religiosi. Insieme al padre riusce a sopravvivere alla prima selezione a Birkenau. Viene poi trasferito a Monowitz e da qui, dopo una terribile marcia della morte fino al campo di Buchenwald, dove il padre muore di tifo e di stenti, a causa anche delle sofferenze patite durante la marcia verso la Germania. Questo titolo segna gli esordi di una piccola, ma raffinata casa editrice, La Giuntina di Firenze, che si specializza in titoli dedicati all’ebraismo, alla deportazione e alla shoah. 40 Primo Levi, Lilít e altri racconti, Einaudi, Torino 1981 Si tratta di una raccolta di racconti composti in un arco temporale abbastanza lungo: dal 1975 al 1981. Soltanto la prima sezione, intitolata Passato prossimo, riguarda la esperienza concentrazionaria. Qui Levi inserisce una serie di episodi che non avevano trovato posto in Se questo è un uomo e che contribuiscono a farci meglio comprendere la realtà del lager indagata da Levi sempre con grande finezza, anche letteraria. Bruno Bettelheim, Sopravvivere, Feltrinelli, Milano 1981 Bettelheim fu rinchiuso a Dachau nel 1938, ma riuscì a emigrare in America nel 1939, prima che il dispositivo dello sterminio rendesse impossibile qualsiasi fuga dalla Germania nazista. Più che ricostruire la sua vicenda personale, Bettelheim, che era un insigne psicologo, si interroga sulle strategie di sopravvivenza che i prigionieri costretti a vivere in situazioni estreme possono mettere in atto. In particolare, Bettelheim riflette sul trauma che investe i deportati al loro arrivo al campo e sui suoi effetti. Per la raffinata analisi psicologica, per la profondità delle riflessioni, questo volume è considerato uno degli scritti più pregnanti sulla esperienza concentrazionaria e raccoglie diversi saggi, scritti dall’autore nell’arco di diversi anni. Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985 Personalità complessa e tormentata, quella di Etty Hillesum. Intellettuale olandese, si innamora di Julius Spier, un ebreo emigrato in Olanda da Berlino, fondatore degli studi sulle linee della mano, un uomo do- 41 tato di una forte, magica personalità. Grazie a lui Etty inizia un percorso umano che la conduce alla ricerca di Dio: in effetti nella sua opera la dimensione spirituale è una cifra essenziale, nel Diario si rivolge spesso a Dio, che diventa un interlocutore, il testimone del suo travaglio spirituale; non si tratta del Dio ebraico né di quello cristiano, ma piuttosto di una entità spirituale. Dopo un anno trascorso a Westerbork, il campo di transito olandese, Etty insieme alla sua famiglia viene inviata ad Auschwitz, dove morirà il 30 novembre 1943. Il suo Diario come le Lettere, vengono pubblicati solo negli anni Ottanta. Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa, Franco Angeli, Milano 1986 Ancora oggi costituisce uno dei testi chiave per chiunque voglia avvicinarsi al tema della deportazione: sono raccolti, in questo testo, stralci provenienti dalle oltre 200 testimonianze raccolte in Piemonte nell’ambito di una ricerca coordinata dalla Università di Torino. Esse sono assemblate per tematica: la prima parte si concentra sulla vita prima della deportazione e sull’arresto fino al viaggio. La seconda tratta della vita nei lager, nella terza viene affrontato il tema del ritorno e dell’accoglienza ricevuta a casa. Si tratta di un’opera di una ricchezza indiscutibile unica nel suo genere in Italia, a testimonianza di un impegno notevole profuso anche dall’accademia, in generale poco propensa ad affrontare tematiche di questo tipo. 42 Margarete Buber-Neumann, Milena l’amica di Kafka, Adelphi, Milano 1986 È un libro di rara intensità. A Ravensbrück, Margarete Buber-Neumann incontra Milena, originaria di Praga. Diventano amiche, in un luogo come Ravensbrück, dove non è facile coltivare sentimenti di amicizia. Milena aveva un carattere non facile era stata una attivista comunista, sentimentalmente legata a Kafka, a cui aveva indirizzato splendide lettere d’amore. Arrestata fin dal 1939, non sopravvisse ai rigori di Ravensbrück. Con questo libro Margarete volle dar voce all’amica scomparsa e adempiere alla promessa che si erano scambiate in lager di scrivere su Ravensbrück. Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986 Si tratta dell’ultima e forse della più alta opera di Primo Levi, che dopo anni dedicati a scrivere racconti e romanzi in cui narrava anche di esperienze altre rispetto al lager, ritorna a riflettere sui meccanismi della memoria, sulle possibilità reali di sopravvivenza in campo, sul senso di colpa dei sopravvissuti. È un testo che oscilla tra la memoria e la riflessione storica e filosofica e può, a ragione, considerarsi quasi il testamento di Primo Levi, che si è suicidato nel 1987. Uno dei temi più indagati è quello della incomunicabilità in lager: «Questo “non essere parlati a” aveva effetti rapidi e devastanti. A chi non ti parla, o ti si indirizza con urli che ti sembrano inarticolati, non osi rivolgere la parola. Se hai la fortuna di trovare accanto a te qualcuno con cui hai una lingua in comune, buon per te, potrai scambiare le tue im- 43 pressioni, consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno, la lingua ti si secca in pochi giorni, e con la lingua il pensiero» (p. 72). Roberto Camerani, Il viaggio, ANED, 1987 Questo breve volume è ripartito in otto capitoli in cui Roberto Camerani ripercorre la propria storia. Qualche accenno alla famiglia, alla vicenda resistenziale, mentre la parte più consistente del volume è dedicata alla deportazione a Mauthausen, dove Camerani approda a soli 19 anni. Nel campo centrale resta poco, viene poi spostato a Ebensee, dove i tedeschi costruirono immense gallerie per occultare la produzione bellica: i deportati erano costretti a lavorare fino allo sfinimento, ma come acutamente osserva Camerani: «Il rendimento dei prigionieri era indubbiamente scarsissimo dato il nostro stato di sfinimento, ma questa carenza veniva sopperita da una quantità sempre più imponente di uomini» (p. 93). Come è stato sottolineato da altri deportati nelle loro memorie, anche l’autore cercava di rifugiarsi in sogni e pensieri che potessero aiutarlo ad evadere dalla terribile situazione del lager. Il volume si chiude con la descrizione della liberazione ed il pianto liberatore a cui il protagonista si lascia andare. Lo stile è molto semplice e piano: questo volume fa parte di quella imponente serie di volumi scritti soprattutto come monito per le future generazioni. 44 Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987 Ebreo per caso, Améry, pseudonimo di Hans Mayer, dalla nativa Austria, a seguito delle leggi razziali, emigrò in Belgio e qui prese parte alla Resistenza. Arrestato nel 1943 fu inviato a Auschwitz III-Monowitz, lo stesso campo di Primo Levi. Sopravvissuto, quando ci fu il processo di Francoforte contro gli aguzzini di Auschwitz, nel 1966, scrisse questo saggio, più volte ripubblicato. Come Levi, morì suicida nel 1978. Il testo di Améry è di natura filosofica, quello che preme all’autore è soprattutto una riflessione sulla condizione dell’intellettuale ad Auschwitz. Secondo Améry l’intellettuale illuminista e ateo aveva pochissime possibilità di sfuggire alla terribile realtà del campo: nulla nella vita precedente lo aveva preparato alla perenne lotta per la sopravvivenza che invece era la regola in lager; l’intellettuale era condannato ad uno scacco continuo, mentre i criminali professionisti avevano maggiori possibilità di adattarsi, così come coloro che erano sorretti da una fede, fosse essa religiosa o politica, perché in qualche modo, riuscivano a proiettarsi nel futuro. Risulta estremamente interessante anche il saggio con cui il volume si chiude, in cui l’autore si interroga sul problema della conoscenza della shoah da parte dei tedeschi comuni. Primo Levi, Opere, 3 voll., Einaudi, Torino 1987-1990 Raccolta completa delle opere di Primo Levi, corredata da un profilo biografico e da alcuni saggi in cui l’attenzione si concentra sugli aspetti letterari dell’opera di Levi. 45 Giuliana Fiorentino Tedeschi, C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau, Giuntina, Firenze 1988 e successive edizioni A differenza di Questo povero corpo questo secondo libro di Giuliana Tedeschi ha conosciuto un immediato successo ed è stato più volte ristampato e tradotto in numerose lingue. Sicuramente tale successo di pubblico è in parte anche dovuto al fatto che è stato pubblicato in un momento storico in cui l’interesse nei confronti della shoah e della deportazione era in aumento: in effetti proprio a partire dalla fine degli anni Ottanta si registra una fioritura di testimonianze sulla shoah, legata anche ad una stagione storiografica che ha rinnovato gli studi sulla deportazione degli ebrei italiani. C’è un punto della terra era stato in realtà scritto anch’esso alla fine degli anni Quaranta, ma era rimasto in un cassetto fino al 1988 e vi si trovano alcune parti tratte, senza essere state sostanzialmente modificate, dal primo scritto della Tedeschi, Questo povero corpo. Tuttavia questo secondo libro non può assolutamente essere considerato come un seguito del primo, ma si configura come un testo nuovo, che si presenta suddiviso in una serie di capitoli autonomi in cui l’autrice registra la quotidianità femminile nel Lager di Birkenau. Dalle pagine di Giuliana Tedeschi è possibile cogliere la singolare percezione femminile del lager, che traspare da molte pagine: quelle dedicate alle amiche, non solo le italiane, ma anche le francesi, la presenza costante delle quali rende possibile la sopravvivenza, la terribile esperienza di un parto a Birkenau, con l’inevitabile 46 morte del bambino per cercare di salvare la madre dalla camera a gas: questo episodio rinvia alle numerose testimonianze di donne-medico nell’inferno di Birkenau su questa tematica. L’odissea di Giuliana Tedeschi si conclude con il trasferimento a Ravensbrück e da qui a Malchow, la liberazione avviene per opera dei sovietici, nulla viene raccontato sul difficile rientro a casa. Alberto Berti, Viaggio nel pianeta nazista: TriesteBuchenwaldLangstein, Franco Angeli, Milano 1989 Berti partigiano nelle formazioni Giustizia e Libertà da Trieste fu inviato a Buchenwald e il 10 febbraio 1945 a Langestein. Il volume prende forma a molti anni di distanza, ma l’autore si rifà a appunti presi in lager. L’interesse di questa memoria sta nel tentativo di decifrare la propria esperienza anche utilizzando conoscenze apprese in seguito e facendo ricorso a documenti storici. In particolare è interessante l’analisi dello sfruttamento dei prigionieri dei KL per l’industria bellica tedesca. Ferruccio Maruffi, Codice Sirio (I racconti dal Lager) prima edizione fuori commercio a cura dell’autore, 1992 poi Piemme, Casale Monferrato, 1996 L’autore parlando di sé in terza persona ricostruisce, attraverso brevi racconti, che assomigliano ad altrettanti bozzetti, la sua esperienza nel campo di Mauthausen e in quello di Gusen. Interessanti alcune notazioni sulla fase del ritorno e sulla nascita dell’ANED (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti). 47 Felice Malgaroli, Domani chissà. Storia autobiografica 1931-1952, prefazione di Norberto Bobbio, introduzione di Brunello Mantelli, L’Arciere, Cuneo 1993 Anche questa memoria è stata scritta tardi, tuttavia come giustamente segnala Brunello Mantelli «è strutturata come un vero e proprio romanzo di formazione»: infatti il racconto non è concentrato sulla sola esperienza in lager, ma ci sono pagine felici sull’infanzia in campagna, sui ricordi di scolaro nella scuola fascista, sulla progressiva riflessione politica che diventerà rifiuto dopo le vicende del settembre 1943. A Mauthausen e da qui a Gusen II, Malgaroli arriva tardi, nel 1944, quando i lager vivono la fase di maggiore disorganizzazione, anche se mantengono tutta la loro capacità distruttiva. Scrive Malgaroli: «Resistere e non morire è la nostra lotta, senza mezzi, senza esperienza, imparando ogni momento il pericolo, poiché una scarica di gummi può arrivarti sulla pelle ad ogni istante e per motivi che apprenderai solo se sopravvivi». E da queste parole affiora un’altra questione importante: la sopravvivenza ad ogni costo è stata davvero la vendetta di molti finiti nelle maglie del potere nazista. La parte finale del piccolo libro di Malgaroli ci presenta le difficoltà del dopoguerra, le incomprensioni, il tentativo di migliorare la propria condizione conquistando un diploma di operaio specializzato, e infine la decisione di emigrare in Sud America, alla ricerca di un’esistenza migliore. Ida Fink, Il viaggio, Guanda, Parma 1993, Questo straordinario racconto di Ida Fink è basato su una vicenda reale: Ida nasce in Polonia e fin dal 1942 è rinchiusa in un ghetto, da cui però riesce ad evadere ed 48 poi Giuntina, Firenze 2001 inizia così, con documenti falsi, insieme alla sorella, una lunga peregrinazione per sfuggire alla inesorabile persecuzione nazista. Con incredibile coraggio e grazie anche alla capacità di percepire il pericolo e di sfruttare ogni occasione per salvarsi, le due sorelle percorrono le strade di un Reich ormai prossimo al collasso e riescono a vedere il giorno della liberazione. Il volume, che è assai più vicino ad un romanzo piuttosto che ad uno scritto di memoria, è affascinante per più di un motivo: innanzi tutto ci permette di cogliere la realtà del ghetto, poco nota in Italia, illumina poi alcune delle caratteristiche proprie della narrativa femminile sulla shoah, ossia la grande versatilità di atteggiamenti e di risorse che le donne seppero mettere in campo per sfuggire ai nazisti. E, in effetti, furono proprio le donne quelle che ebbero le maggiori possibilità di evadere dai ghetti: spesso parlavano il polacco meglio degli uomini e soprattutto in molti casi l’aspetto ariano permetteva loro di nascondersi in mezzo alla popolazione polacca e tedesca. Queste donne tuttavia per sfuggire alla morte diedero prova di un grande coraggio: nascondersi significava impadronirsi di un’altra identità, significava avere una grande capacità di mentire, mantenendo il sangue freddo. Anche da un punto di vista letterario il romanzo di Ida Fink dimostra una capacità non indifferente di cogliere la shoah attraverso la mediazione del romanzo. 49 Aldo Carpi, Diario di Gusen, Einaudi, Torino 1993 È davvero intensa, questa memoria del pittore Aldo Carpi. Professore a Brera, di ispirazione cattolica, viene arrestato per attività antifascista e deportato a Mauthausen e da lì a Gusen. Riesce a conquistarsi una posizione in certo qual modo privilegiata nel campo dipingendo per le SS. A Gusen scrive alla amatissima moglie Maria: si tratta di una corrispondenza naturalmente fittizia, nella quale Carpi, oltre a raccontare a Maria la realtà del campo, rievoca la felice vita famigliare, i sei figli, quattro dei quali impegnati nella Resistenza, (di questi Paolo non tornerà dal KL di Flossenbürg). La parte che precede la deportazione è raccontata dallo stesso Carpi al figlio Pinin, curatore del volume: in questo modo si ha la ricostruzione della intera vicenda resistenziale e poi concentrazionaria di Carpi. Il volume è corredato da una serie di disegni che Carpi realizzerà al suo rientro in Italia, basandosi sui suoi ricordi. Ada Buffulini, Bruno Vasari, Il Revier di Mauthausen. Conversazioni con Giuseppe Calore, edizioni dell’Orso, Alessandria 1993 Il volume si compone di diverse parti: la parte centrale è costituita dalle conversazioni registrate e poi trascritte da Daniele Jalla tra Giuseppe Calore, che svolse la sua professione di medico nell’ospedale di Mauthausen, Bruno Vasari, ex-deportato di Mauthausen, che ebbe modo di conoscere il Revier e, Ada Buffulini, internata a Bolzano, medico anch’essa. Una seconda parte è costituita dalla trascrizione dei pochissimi documenti che Calore riuscì a portare con sé dal campo: per lo più si tratta di notizie sugli italiani. Infine il volume si chiu- 50 de con alcuni brani tratti dalla storia del campo di Mauthausen di Hans Marsalek e dalla testimonianza di Bruno Vasari, Mauthausen bivacco della morte. L’interesse del volume sta nelle lunghe conversazioni in cui Calore cerca di ricostruire, anche grazie al dialogo con Vasari e Buffulini, la situazione dell’infermeria del campo. Mimma Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz, Mursia, Milano 1994 In questo denso volume Mimma Paulesu Quercioli raccoglie e rielabora, con sensibilità e pudore, le testimonianze di quattro donne che conobbero l’orrore di Auschwitz; le testimonianze erano state raccolte dall’ANED di Milano. Si tratta di storie completamente diverse: Arianna Szörény aveva solo 11 anni quando insieme alla mamma e alle sorelle venne deportata perché ebrea. Fu l’unica a salvarsi, prima nel blocco con la mamma e le sorelle e poi da sola nel Kinderblock di Birkenau. Dopo una lunga peregrinazione di campo in campo vedrà la liberazione, ma il ritorno a casa sarà funestato dalla scomparsa della sua famiglia. Loredana era invece un’operaia che lavorava alla Caproni e venne arrestata in seguito agli scioperi del 1944; dopo una breve sosta a Mauthausen finì anch’ella a Birkenau, dove lavorò soprattutto all’aperto. Verso la fine di ottobre del 1944 fu trasferita a Flossenbürg e qui fu liberata dagli americani. Anche il suo ritorno fu contrassegnato dalla tristezza: i famigliari non capirono la sua tragedia e lasciarono intendere che se si era salvata era perché aveva venduto il proprio corpo. 51 Teresa, invece, grazie ai contatti della sorella Gina entrò in contatto con la Resistenza e per questo venne arrestata. Trasferita dapprima a Verona venne poi internata ad Auschwitz e da qui in un sottocampo dipendente da Auschwitz. Liberata dai sovietici il suo viaggio di ritorno fu simile a quello narrato da Primo Levi ne La tregua. Dopo il rimpatrio lavorò a Milano, in Comune, dove conobbe quello che divenne poi suo marito. Infine il volume si chiude con la storia di Zita, anch’essa ebrea, di origine ungherese, nata a Milano, dove i suoi genitori si erano trasferiti, finita anch’essa con la famiglia nell’inferno di Birkenau. L’antologia della Quercioli ci presenta quattro vicende emblematiche e al femminile delle deportazioni dall’Italia, si tratta di storie diverse che hanno in comune soltanto il fatto di aver conosciuto la tremenda realtà del Lager. Il libro è particolarmente adatto anche per chi si accosta a questi temi per la prima volta a causa della sua grande leggibilità. Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, il Mulino, Bologna 1994 Margarete Buber-Neumann ha vissuto una vita ricca di avvenimenti e di tragedie personali. Attivista comunista finisce però nelle prigioni di Stalin e a partire dal 1940 in seguito al patto Molotov-Ribbentrop viene consegnata ai tedeschi ed internata a Ravensbrück. In questo volume, pubblicato nel 1948, ripercorre le tappe della sua doppia prigionia. Non mancano dunque nella sua memoria osservazioni sulla comparazione fra le due dittature più terribili 52 del Novecento. L’analisi su Ravensbrück è raffinata, d’altro canto la Buber-Neumann ricopre la carica di capo-baracca ed è in contatto con il gruppo delle francesi assai politicizzato. Si tratta di una lettura molto interessante per comprendere i meccanismi del processo di disumanizzazione posto in essere nei lager nazisti e nei gulag sovietici. Angelo Signorelli, A Gusen il mio nome è diventato un numero, ANED, Sesto San Giovanni, 1995 Si tratta di una breve memoria in cui l’autore, arrestato per aver partecipato agli scioperi del marzo 1944, ripercorre la sua esperienza, prima a Mauthausen e poi a Gusen. L’interesse di questo volumetto sta nel fatto che esso rappresenta una delle non molte memorie legate agli scioperi del 1944. Gaetano Cantaluppi, Flossenbürg. Ricordi di un generale deportato, Mursia, Milano 1995 Cantaluppi iniziò la carriera militare nel 1911 come volontario nella guerra di Libia. Dopo aver partecipato col grado di capitano alla Grande Guerra, fu allievo (192528) e poi insegnante alla Scuola di Guerra, dirigendo inoltre nel 1941-42 l’Accademia Militare di Modena. Combatté nella Seconda guerra mondiale in Africa settentrionale con la divisione Ariete, meritando la promozione a generale di divisione per il comportamento tenuto nella battaglia di El Alamein e nella successiva ritirata. Dopo l’8 settembre 1943 entrò a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale di Verona. Arrestato dalle SS nel novembre 1944, fu deportato col figlio Gianantonio prima nel campo di Bolzano e poi in quello di Flossenbürg, in Baviera. 53 All’interno del campo Cantaluppi riuscì a lavorare negli uffici, precisamente all’ufficio matricola, in questo modo ebbe modo di prendere visione di molti documenti e riuscì a copiare una lista degli italiani che erano deceduti. La sua memoria è interessante, in particolare per la descrizione della terribile marcia della morte durante la quale Cantaluppi teme per la vita del figlio. Ruth Kügler, Vivere ancora, Einaudi, Torino 1995 Una scrittura densa, appassionata e appassionante quella di Ruth Kügler, che per certi aspetti ricorda quella di Edith Bruck. Non si tratta di una memoria e neppure di un romanzo, ma piuttosto di un’ampia riflessione sulla shoah, sul suo significato, sull’essere donna nei lager, sul tormentato rapporto con la madre. In questo contesto in un continuo procedere tra passato e presente, la Kügler rievoca l’infanzia a Vienna, la scomparsa dalla sua vita del padre, che emigra in Francia per morire poi ad Auschwitz, il fantasma del fratellastro morto a Riga in un massacro perpetrato dalle SS. Infine i luoghi della deportazione: Theresienstadt, Auschwitz-Birkenau e Christianstadt, un sottocampo di Gross-Rosen, e infine la fuga e l’emigrazione in America nel 1947. Ruth aveva solo dodici anni quando arriva ad Auschwitz e si salva solo perché la madre la costringe a mentire sulla sua età, questa madre dotata di un carattere forte, che spesso è in contrasto con la figlia, ma che è capace di atti di grande generosità, come quando a Birkenau adotta una ragazzina che era sola: «Ditha si ritrovò a Birkenau, 54 sconvolta come noi tutti, e senza legami. Allora mia madre disse: "vieni con noi", e da allora fummo in tre» (p. 150). GUISCO (Gruppo Ufficiali Internati nello Staflager di Colonia), Dopo il Lager. La memoria della prigionia e dell’internament o nei reduci e negli "altri", a cura di Claudio Sommaruga, prefazione di Vittorio E. Giuntella, GUISCO, Torino 1995 Antologia di scritti e di testimonianze sugli IMI, la cui storia e la cui memoria ancora oggi fatica ad emergere. Dopo l’8 settembre 1943, 600.000 soldati ed ufficiali italiani vennero arrestati e deportati in Germania. Non furono, salvo alcuni casi, inseriti nel circuito dei KL, ma rinchiusi in campi posti sotto la sorveglianza della Wehrmacht. Tuttavia furono sottoposti ad un trattamento durissimo e la maggior parte di loro, pur potendo salvarsi aderendo alla Repubblica Sociale Italiana, preferì restare in Lager. Su questo stesso tema si segnala Paolo Desana, La via del Lager. Scelta di scritti inediti sull’internamento e la deportazione a cura e con annotazioni di Claudio Sommaruga, Ugo Boccassi Editore, Alessandria 1994. A più di sessanta anni dalla fine dei lager, è doveroso raccogliere ed ascoltare anche la loro storia. Isabella Leitner, Frammenti di Isabella. Memoria di Auschwitz, Mursia, Milano 1996 In questo caso ci troviamo di fronte ad una memoria tardiva, scritta a molti anni di distanza dagli avvenimenti e si tratta di una memoria che si colloca a metà strada tra la rievocazione fedele e il racconto romanzato. A parlare è Isabella, di origine ungherese poi trasferitasi negli Stati Uniti, ed è in questa lingua che compone la sua opera. La comunità ungherese fu l’ultima ad essere sterminata, nella primavera e nell’estate del 1944, quando praticamente 55 la guerra per i nazisti era già perduta. Isabella venne separata violentemente dalla madre, che sembrava aver intuito fin nel vagone piombato che la sua fine sarebbe stata prossima, e restò con le quattro sorelle; un’altra sorellina, Potyo fu uccisa immediatamente. La narrazione non segue uno svolgimento cronologico, ma è piuttosto fatta da brevi capitoli in cui l’autrice, come in una serie di flash-back rievoca persone o situazioni vissute durante la sua permanenza a Birkenau: il neonato destinato alla morte, le selezioni, il ritratto di Irma Grese e la punizione a cui sottopone una delle sorelle di Isabella, fino alle terribili marce di evacuazione e alla fuga da una colonna durante la marcia. Una delle sorelle, Cipi, non riuscirà a seguirle e morirà subito dopo la liberazione a BergenBelsen. La narrazione si chiude con la partenza della famiglia superstite verso gli Stati Uniti, dove non senza difficoltà, Isabella ritorna alla vita. Lidia Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria. Ravensbrück 1945: un drammatico ritorno alla libertà, Einaudi, Torino 1996 Si tratta sicuramente di uno dei volumi più belli scritti sulla deportazione, scritto a molti anni di distanza dai fatti che vi sono narrati. Lidia Beccaria Rolfi, con mano felice, in un momento in cui si sente libera dalle pastoie dell’ideologia, ripercorre le vicende degli ultimi giorni vissuti a Ravensbrück: la disorganizzazione progressiva degli ultimi giorni del Lager, la paura delle prigioniere di essere eliminate a causa dell’avvicinarsi delle truppe sovietiche, la marcia della morte e infine la liberazione. 56 Le pagine forse più belle ed emotivamente toccanti sono quelle in cui Lidia si trova sola, unica donna, fra ex IMI: da un lato si sente il disagio e dall’altro si coglie la felicità nel riappropriarsi della propria femminilità, la gioia nel compiere atti dimenticati in campo: lavarsi, specchiarsi, poter lavare la propria biancheria. E per Lidia vissuta in campagna, la libertà significa anche immergersi nella natura, cogliere i frutti dagli alberi e lasciare che la vita scorra intorno a lei: «Lasciato il sentiero, mi distesi sull’erba soffice, profumata. Aveva lo stesso profumo dell’erba di casa mia, mi ricordai che i fili d’erba si possono sfilare e che il fondo è dolce, buono. Incominciai a succhiare i fili dicendo a me stessa che erano vitamine, buone per l’avitaminosi delle gambe. Tornai dai miei compagni solo quando il sole era sceso» (p. 33). Poi il peregrinare in una Europa sconvolta dalla guerra riprende e Lidia vive momenti di paura quando si trova sola, insieme a Ida e Stellina, due ragazzine ebree scampate da Auschwitz, che le vengono affidate da un ufficiale americano, in mezzo a soli uomini: Lidia non vuole turbare le due ragazzine, che hanno vissuto un orrore persino più terribile del suo, ma nella sua pagina percepiamo l’eco dello sgomento che prova quando pensa di trovarsi in una situazione difficile. Il ritorno in Italia è estremamente doloroso, tutti apparentemente la festeggiano, ma negli occhi di chi la circonda si coglie un sospetto: come ha fatto a salvarsi, lei 57 che è donna? E come mai è così grassa se nei campi, come si racconta, si moriva di fame? Lidia sceglie il silenzio, ma di fronte a queste insinuazioni prova una rabbia indicibile, che si scioglierà solo cinquanta anni dopo. La sua amarezza di fronte alle difficoltà nel reinserirsi nella vita quotidiana rinviano alla testimonianza resa, anche questa a più di sessanta anni, di Liliana Segre. Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Notte, nebbia. Racconto di Gusen, Guanda, Parma 1996 I racconti dedicati dal famoso architetto Belgiojoso al campo di Mauthausen e Gusen appartengono di certo al campo della letteratura concentrazionaria e non solo alla memorialistica. La scrittura scarna, ma elegante, e soprattutto la capacità dell’autore di analizzare se stesso, i compagni e la realtà circostante, rendono questo piccolo libro un piccolo capolavoro. Si nota innanzi tutto l’occhio dell’architetto, che sa descrivere con sicurezza e precisione quello che si presenta ai suoi occhi: attraverso la sua scrittura possiamo farci un’idea precisa di come era il lager di Mauthausen, di come erano le baracche di Gusen; e i venti disegni di Belgiojoso aumentano questa lettura anche “visiva”. Non mancano poi annotazioni psicologiche di grande finezza: dapprima il giovane Lodo si rende conto di dover combattere una lotta impari contro il perverso sistema posto in essere dalla SS; alla fine, poco prima della liberazione percepisce di aver quasi perso quella battaglia, soprattutto quando perde il carissimo amico Giangio. Tra l’altro annota: 58 «La vita nel campo di concentramento non rappresentava nulla di nuovo nella lotta per la sopravvivenza, in tutti i tempi in tutti i luoghi. Il campo era soltanto il concentrato, in uno spazio piccolissimo, di quanto avveniva fuori: una specie di mostruoso esperimento in vitro, dove i rapporti umani venivano esasperati dal paradossale raccorciamento delle distanze tra uomini e dall’estrema penuria di ogni bene» (p. 59). Settimia Spizzichino, Gli anni rubati: le memorie di Settimia Spizzichino, reduce dai Lager di Auschwitz e Bergen-Belsen, Cava de’ Tirreni 1996, ristampato nel 2001 La vicenda di Settimia è estremamente interessante perché fu l’unica donna a tornare della retata avvenuta il 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma. Con parole semplici, Settimia che ha dedicato tutta la vita a testimoniare l’orrore del lager, ripercorre le tappe della sua esperienza: la razzia del ghetto, la deportazione a Birkenau, gli esperimenti, il trasferimento nel lager di Bergen-Belsen fino alla liberazione. Elisa Springer, Il silenzio dei vivi, Marsilio, Venezia 1997 In questo breve, ma intenso volumetto, Elisa Springer, di origine viennese, ripercorre la sua infanzia e adolescenza fino all’arresto e alla deportazione. La Springer apparteneva ad una agiata famiglia di origine ungherese trasferitasi a Vienna, dove Elisa visse un’infanzia e una giovinezza serena. Naturalmente la situazione precipita dopo l’annessione dell’Austria al Reich e in seguito al pogrom della notte dei cristalli nel novembre del 1938. Elisa decide allora 59 di sposarsi con un ebreo italiano per acquisire così la nazionalità italiana, mentre il padre muore a Buchenwald e la madre cercherà aiuto presso i parenti in Ungheria. Elisa, dopo un soggiorno in Ungheria, a causa degli eventi bellici, è costretta a trasferirsi in Italia, che diventa così il suo rifugio precario. Vive a Milano in piccole pensioni facendo traduzioni dal tedesco, ma purtroppo viene tradita. Quindi partirà alla volta di Auschwitz dall’Italia. Dopo tre mesi di permanenza a Birkenau è trasferita a Bergen-Belsen, dove ben presto le condizioni di vita, inizialmente migliori, si deteriorano. Elisa riesce a sopravvivere soprattutto grazie al fatto che la conoscenza delle lingue straniere le permette di ottenere il posto di vice Blochowa. Tuttavia si rende conto dell’estrema precarietà della sua esistenza così come di quella di tutti gli altri e si domanda «Ce l’avrei mai fatta a rimanere viva tra i vivi?» (p. 91). Il racconto si chiude con il rientro; dapprima a Vienna a cui segue il definitivo trasferimento in Italia. Marco Coslovich, Racconti dal Lager. Testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento tedeschi, Mursia, Milano 1997 Raccolta di testimonianze di uomini e donne deportate dal Friuli Venezia Giulia: ebrei, resistenti, ma anche rastrellati. Il volume è nato come strumento eminentemente didattico ed è corredato da note e percorsi di lettura. 60 Marta Ascoli, Auschwitz è di tutti, Lint, Trieste 1998 Marta Ascoli, ebrea triestina, già intervistata da Marco Coslovich durante la sua ricerca sulle deportazioni dall’Adriatische Kusteenland, confluita poi nel volume I percorsi della sopravvivenza, si è accinta a mettere per iscritto la sua esperienza in un anno significativo: quello in cui si celebrava il sessantesimo dell’emanazione delle leggi razziali in Italia. Le iniziative tese a ricordare quel tragico evento furono numerosissime e questo spinse molti exdeportati che fino ad allora erano rimasti in silenzio a dar voce alla propria esperienza. La testimonianza di Marta Ascoli si legge d’un fiato. Anche in questo caso la narrazione inizia dal momento dell’arresto: la vita di Marta, all’epoca solo diciassettenne, precedente all’arresto, è condensata in poche righe. Dopo una breve permanenza alla Risiera di San Sabba, che fungeva da campo di transito per gli ebrei e i politici destinati alla deportazione e da campo di concentramento per i partigiani, soprattutto sloveni, che vi trovarono spesso la morte, Marta fu deportata a Birkenau insieme al padre, mentre la madre, che era cattolica, rimase in Risiera. Il racconto di Marta Ascoli procede su due binari: accanto alla narrazione della propria vicenda personale ci sono pagine in cui l’autrice fornisce informazioni sul campo di Auschwitz e sul suo funzionamento. La descrizione della vita quotidiana a Birkenau è scarna, resa in un linguaggio semplice e piano, ma è possibile cogliere l’orrore che dovette provare questa ragazza di soli di- 61 ciassette anni, quando si trovò sola in quell’ambiente ostile e totalmente estraneo. Come nella maggior parte delle narrazioni femminili lo shock dell’entrata in campo è reso ancor più terribile dalla situazione di promiscuità totale in cui venivano a trovarsi le prigioniere. Marta passa da un Kommando di lavoro ad un altro, viene utilizzata per compiere lavori di sterro, è isolata e sola perché ha perso di vista le italiane partite con lei da Trieste. Finalmente il 31 dicembre 1944 viene evacuata verso Bergen-Belsen, un campo che si trovava sulla strada che da Celle porta ad Amburgo. Qui confluirono moltissimi prigionieri evacuati dai campi situati nell’Est e questo provocò una situazione di intollerabile sovraffollamento che si tradusse in terribili epidemie di tifo. La liberazione avvenne il 15 aprile ad opera dell’esercito inglese. Dopo una breve permanenza in ospedale Marta, come molte altre donne che si trovarono nella sua stessa condizione, in un’Europa totalmente distrutta e piena di profughi che vagavano da un luogo ad un altro, trovò alcuni connazionali, lavoratori liberi poi trasformati in prigionieri dopo l’8 settembre ed ex-IMI, con i quali fece ritorno in Italia. Rientrò a Trieste nel luglio 1945. Il volumetto di ricordi della Ascoli si chiude con la descrizione del pellegrinaggio effettuato ad Auschwitz nell’ottobre del 1986: «Capii ad un tratto perché avevo voluto tornare, quella era la mia rivincita: camminavo da libera sul posto dove ero stata derisa, calpestata, 62 umiliata. Forse avevo vissuto per questo» (p. 70). Carlo Saletti (a cura di), La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, Marsilio, Venezia 1999 Si tratta di una serie di testimonianze straordinarie per la loro pregnanza: furono scritte dai membri del Sonderkommando di Birkenau e seppellite nei pressi dei crematori, nella speranza che qualcuno potesse rinvenirle e dar conto delle atrocità commesse dai nazisti ad Auschwitz. Un’ulteriore raccolta di testimonianze appartenenti ai membri del Sonderkommando è Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945) edito nel 2004 presso la casa editrice Ombre Corte di Verona. Si tratta in genere di scritti brevi, che in alcuni casi presentano anche parti lacunose, tuttavia sono documenti di indubbio valore perché raccontano tutto l’orrore dello sterminio mentre esso stava avvenendo. Alberto Todros, Memorie, prefazione di Bruno Vasari, Trauben Edizioni, Torino 1999 Si tratta di un piccolo volume scritto soprattutto per i figli e i nipoti, pubblicato postumo. È interessante il taglio perché l’autore sceglie saggiamente di ricostruire anche le memorie di un’infanzia complessa e di proseguire il proprio racconto narrando anche episodi relativi al dopoguerra. Sicuramente la vicenda resistenziale e il lager appaiono come un momento forte, una cesura che taglia l’esistenza tra un prima e un dopo e le scelte politiche del dopoguerra sono certamente segnate dall’esperienza concentrazionaria. Gli undici 63 mesi di permanenza a Mauthausen sono descritti con animo pacato, emerge il legame fortissimo con il fratello Carlo e l’amico Raimondo, che l’autore grazie alla protezione del kapò Karl riuscirà a salvare in più di una occasione. Questi episodi costringono ancora una volta a riflettere sul tema dei legami nel lager, ma sempre di più mi sembra di poter affermare che quelle che oggi storici e psicologi definiscono le famiglie del campo costituivano effettivamente un antidoto efficace alla disumanizzazione del lager. 64 DOPO IL DUEMILA In questi ultimissimi anni la pubblicazione di memorie legate al mondo dei Lager è aumentata in modo quasi impressionante: non passa mese in cui non venga edita, magari da un Comune o da una piccola casa editrice, una memoria legata alla deportazione politica o più spesso alla shoah. Le motivazioni di questa prolificazione sono riconducibili da un lato al passare inesorabile del tempo e al desiderio, quindi, da parte dei sopravvissuti di lasciare una testimonianza tangibile della loro terribile esperienza, e dall’altra dalla attenzione mediatica, non sempre positiva, che si è accesa intorno a questo tema, in realtà così delicato. In questo ultimo decennio si è assistito ad un progressivo interessamento nei confronti della memoria ebraica, mentre quella legata alla deportazione politica risulta sempre più emarginata. Questo slittamento di prospettiva non è soltanto dovuto alla specificità della deportazione ebraica, ma dalla sempre maggiore perdita di senso del paradigma dell’antifascismo che, indebolitosi a partire dagli anni Novanta, sembra oggi essersi smarrito di fronte ad un sentire che tende a identificare nel male assoluto soltanto la persecuzione contro gli ebrei, tralasciando o mettendo sempre più in ombra le responsabilità che la Repubblica Sociale Italiana ebbe sia nella persecuzione e nella deportazione degli ebrei sia nell’arresto spesso seguito da torture e infine dalla deportazione nel Reich degli oppositori politici. 65 Ida e Stellina Marcheria, Aldo Pavia, Antonella Tiburzi, Kanada Kommando, Fondazione memoria della deportazione, Comune di Roma, Roma 2000 Aldo Pavia e Antonella Tiburzi hanno costruito intorno alla testimonianza di Ida e Stellina Marcheria, due sorelline ebree di Trieste deportate ad Auschwitz, un interessante quaderno, pensato per insegnanti e studenti, che dà conto non solo di una storia individuale, quella appunto delle due sorelle che lavoravano al Kanada, la zona del campo di Birknenau dove venivano smistati e preparati i pacchi di indumenti, che dopo essere stati razziati agli ebrei condannati a morte, venivano inviati in Germania, ma ricostruiscono con l’ausilio della letteratura su Auschwitz, una breve storia del campo. È particolarmente toccante la descrizione dell’incontro tra Lidia Beccaria Rolfi, ex-deportata politica liberata da Ravensbrück e le due sorelline Ida e Stellina, in un’Europa ormai libera, ma devastata dalle macerie della guerra e il loro difficile rientro in Italia; tale incontro è ricordato anche da Lidia Beccaria Rolfi in L’esile filo della memoria. La testimonianza di Ida Marcheria, arricchita da note storiche, è stata poi ripresa dagli stessi curatori, Aldo Pavia e Antonella Tiburii, nel volume Non perdonerò mai, uscito nel 2006 presso la casa editrice Nuova dimensione. Teo Ducci, Un tallèt ad Auschwitz 10.2.19445.5.1945, Giuntina, Teo Ducci, dirigente d’industria, attivissimo nell’ambito dell’ANED, ha deciso di affidare alla scrittura molto tardi i suoi ricordi. Deportato ad Auschwitz e liberato a Mauthausen, fu il solo della sua famiglia a ritornare. La sua testimonianza è interes- 66 Firenze 2000 sante perché è singolare: Ducci, grazie alla ottima conoscenza del tedesco, trascorre la sua prigionia nel campo principale di Auschwitz, in cui le condizioni erano oggettivamente migliori rispetto a Birkenau e a Monowitz, in un Kommando di lavoro privilegiato; qui tra l’altro incontrerà Schulim Vogelmann, l’unico italiano che faceva parte della famosa lista di Schindler, padre del fondatore della casa editrice Giuntina, Daniel. Nonostante la sua posizione in un certo senso privilegiata Ducci percepisce fino in fondo la violenza e l’orrore in cui è immerso il campo di Auschwitz, soprattutto quando si rende conto che i suoi genitori sono certamente scomparsi nelle camere a gas. Lo sorregge la speranza che la sorella Eva, di dieci anni più giovane, possa aver superato la selezione. Terribili sono gli ultimi mesi a Mauthausen, quando il progressivo crollo del sistema e l’avvicinarsi delle truppe liberatrici fa temere il peggio. Il ritorno è condensato in poche, ma dense pagine, in cui l’autore riesce a darci una precisa idea dello sconforto e delle oggettive difficoltà che dovevano affrontare i sopravvissuti una volta tornati a casa. Questo era tanto più vero per gli ebrei che, nella maggior parte dei casi, non trovavano ad attenderli né una casa né una famiglia. Il volume si chiude con la notizia della morte di Eva e allora Teo ricorda con dolore quello che gli aveva profeticamente detto una dottoressa americana: «The worst is coming». 67 Marco Coslovich, Storia di Savina. Testimonianza di una madre deportata, Mursia, Milano 2000 Marco Coslovich, autore di numerosi volumi dedicati alla ricostruzione della storia della deportazione in Friuli-Venezia Giulia, riprendendo le numerose interviste fatte a Savina Rupel, deportata a Ravensbrück, dove ha dato alla luce un bambino che sopravvive solo quattordici giorni, ricostruisce la terribile vicenda di questa donna semplice segnata da un trauma enorme. Si tratta di una lettura per certi aspetti straziante, tenendo conto che le testimonianze che riguardano le donne che partorirono in campo sono davvero pochissime. Di Savina e della sua terribile esperienza Coslovich riesce a darci un quadro per nulla patetico, ma umano e sincero. Dora Klein, Vivere e sopravvivere. Diario 1936-1945, Mursia, Milano 2001 Di origine polacca, ebrea, nata a Lodz, Dora Klein fu deportata dall’Italia, dove ritornò a vivere a guerra finita. Medico, sposata con un italiano conosciuto a Fiume, passerà per Fossoli e Auschwitz, ma riuscirà a salvare dalla deportazione la sua bambina. Il suo Diario, inviato all’Archivio di Pieve Santo Stefano, e vincitore in un concorso indetto per autobiografie, diari ed epistolari inediti, viene poi pubblicato. È particolarmente interessante la testimonianza che riguarda la sua permanenza nel sottocampo di Budy, nei dintorni di Auschwitz, perché su di esso in italiano ci sono pochissime memorie: si trattava di un Kommando agricolo dove erano impiegate in gran parte delle donne. 68 Ida Fink, Frammenti di tempo, Giuntina, Firenze 2002 Si tratta di brevissimi racconti, appunto dei frammenti, che ci illuminano sulla vita degli ebrei polacchi durante l’occupazione nazista. La Polonia aveva una comunità ebraica considerevole, estremamente variegata: c’erano piccoli commercianti poverissimi e grandi intellettuali perfettamente assimilati; in generale gli ebrei polacchi parlavano lo yiddish, la lingua che è scomparsa con loro. Pochissimi sono sopravvissuti, Ida Fink appartiene all’esiguo numero di coloro che sono scampati a questo massacro di proporzioni terribili. In questi brevissimi racconti la scrittrice ci presenta la vita quotidiana degli ebrei polacchi ormai sull’orlo dell’abisso e, di racconto in racconto, si percepisce la paura, l’angoscia di uomini, donne e bambini che vivono ormai a contatto con la morte. Particolarmente commovente è, ad esempio, il racconto Alba di primavera: un uomo, sua moglie e la sua bambina sono presi durante un’Aktion. Il padre porta in braccio la bambina, ma ad un certo punto la invita a staccarsi dalla fila degli ebrei e a rifugiarsi nella chiesa, nella folle speranza di salvare almeno lei dalla morte certa. Ma le SS vedono la bambina correre e l’abbattono: «Sul bordo del marciapiede giaceva uno straccetto insanguinato. Camminava molto adagio, quel paio di passi gli sembrarono una strada interminabile. Si chinò, sollevò la bambina e carezzò una ciocca di capelli chiari. “Deins?” Tenendo abbracciata la morta, rispose a voce alta e chiara “Ja meins”. E poi piano, rivolto a lei “Per- 69 donami….”[…]. Il corteo si mise in marcia come un fiume grigio e tetro che scorre verso la sua foce» (p. 73-74). Delfina Borgato, Non si poteva dire di no, a cura di Manuela Tommasi, Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Caselle di Sommacampagna 2002 Delfina Borgato, insieme alla zia Maria faceva parte del gruppo di donne, in prevalenza cattoliche, che furono attive a Padova e che nascosero e portarono in salvo verso la Svizzera soldati renitenti ed ebrei. Arrestata insieme alla zia, Delfina verrà ben presto divisa da quest’ultima e deportata a Mauthausen per essere subito però inviata in un campo di lavoro, probabilmente identificabile con Linz III. Qui Delfina riesce a tenere una sorta di diario, che è quello che viene pubblicato. Ciò che colpisce è che si tratta di una testimonianza molto semplice, ma diretta, da cui emerge quell’aiuto spontaneo, più volte segnalato dagli storici, da parte delle donne durante i mesi tumultuosi che seguirono alla resa dell’8 settembre. Leone Fiorentino, La marcia della morte, da Auschwitz a Dachau 1943-1945, Mursia, Milano 2002 Questa memoria, scritta a molti anni di distanza dagli eventi, è notevole perché l’autore ci presenta un interessante spaccato sulla comunità ebraica romana, una delle più antiche d’Italia e certamente la più consistente da un punto di vista numerico. Il quadro che ci presenta Leone Fiorentino consente di sfatare uno dei pregiudizi più ricorrenti sugli ebrei, ossia che essi appartenessero tutti alla borghesia. In realtà dalle parole di Fiorentino appare evidente come la comunità romana fosse molto articolata e accanto ad ebrei bor- 70 ghesi e benestanti ci fosse un numero consistente di persone che mantenevano se stesse e le loro famiglie esercitando il commercio minuto come venditori ambulanti. Le parti del volume che riguardano Auschwitz e Dachau non aggiungono molto alla conoscenza dei lager nazisti che si può trarre da altre memorie analoghe. Leone Fiorentino entra in campo nel 1944 quando la fame di manodopera spinge i nazisti a sfruttare da un punto di vista lavorativo anche gli ebrei: Leone passa da un Kommando di lavoro ad un altro, fino alle estenuanti marce della morte che lo portano, da Auschwitz, nel cuore della Germania, fino a Dachau dove sarà liberato. L’autore si sofferma molto sulla realtà disumanizzante del campo e afferma «È la legge del lager, la legge della foresta! La guerra di tutti contro tutti, non c’è spazio per l’aiuto reciproco. Si rimane disperatamente soli, nel momento in cui si avrebbe bisogno di essere aiutati». In realtà come emerge dalle pagine che seguono l’importanza di poter contare almeno su un amico o un conoscente di cui fidarsi è essenziale per la sopravvivenza. Amalia Navarro, Siamo ancora vive!, Edizioni Messaggero, Padova 2002 Questo breve testo appartiene alla fase in cui si è assistito ad una prolificazione delle memorie sui lager e sulla shoah in particolare, come se nell’approssimarsi della loro scomparsa i sopravvissuti volessero lasciare alle giovani generazioni un lascito preciso. Anche in questo caso però ci troviamo di fronte ad una sorta di diario scritto 71 nel 1945 e reso pubblico solo nel 2003. Amalia Navarro, di famiglia ebraica veneziana, viene arrestata e deportata con tutta la famiglia nel maggio 1944. La narrazione inizia con il 1943, quando l’Italia si trova divisa in due ed occupata dai nazisti: è il momento in cui si passa dalla persecuzione dei diritti a quella delle vite. Così tutta la famiglia Navarro, dopo aver tentato di trovare un rifugio, viene arrestata ed inizia la solita trafila verso Auschwitz: dapprima il carcere, poi il campo di transito di Fossoli e da qui il trasporto verso il campo slesiano. La vita a Birkenau viene descritta secondo i consueti stilemi: umiliazioni, sofferenza, lavori estenuanti all’aperto. Come spesso nelle memorie femminili appare rilevante il rapporto con la sorella, che come Amalia, si salva dalla selezione iniziale. Non mancano annotazioni sulla struttura del lager e il suo funzionamento. All’avvicinarsi del fronte, Amalia fu trasferita verso l’interno della Germania e conobbe altri campi. Interessante è la descrizione del sottocampo di Raghun, dipendente da Buchenwald (che alle prigioniere appare come un paradiso!) Qui la protagonista, sempre insieme alla sorella, lavora per una fabbrica di aeroplani; il miglioramento delle condizioni di vita dipendeva proprio da questo: per poter lavorare i prigionieri dovevano essere almeno sfamati e vestiti decentemente. Ma l’andamento della guerra spinse i nazisti ad evacuare Amalia e le sue compagne anche da questo campo e vennero così trasferite a Theresiensdtat, 72 dove Amalia contrasse il tifo e fu separata dalla sorella. Dopo la liberazione, un lungo peregrinare per arrivare in Italia, di nuovo con la sorella fortunosamente ritrovata. Marina Jarre, Ritorno in Lettonia, Einaudi, Torino 2003 Intenso romanzo sospeso tra storia e memoria: Marina Jarre nasce a Riga da padre lettone ed ebreo e da una donna italiana. Nel 1935 la madre divorzia e porta con sé Marina e la sua sorellina: vivranno a Torre Pellice, nei pressi di Pinerolo. Il padre resta in Lettonia e sarà ucciso insieme ad una altra figlia, Irene, in uno dei terribili massacri perpetrati dai nazisti nei paesi baltici, quella shoah che ancora oggi resta quasi sconosciuta. Dopo sessanta anni Marina ritorna nel paese dove è nata e cerca di fare i conti con i propri ricordi, la propria storia e il proprio passato. Calogero Saracino, Diario di prigionia. Un siciliano nel lager, a cura di Dario Venegoni, Edizione Fondazione memoria della deportazione, Milano 2003 Calogero Saracino è arrestato come militare, ma poi invece di essere inviato in uno dei campi gestiti dall’esercito tedesco per prigionieri di guerra viene mandato a Nordhausen, dove era situato il campo di Dora: nelle gallerie sotterranee i tedeschi facevano costruire a spese dei deportati e dei lavoratori coatti i missili V1 e V2. Come giustamente osserva Vittorio E. Giuntella nella sua Prefazione: «Come tutti gli altri internati militari avrebbe potuto sottrarsi alla mala sorte sottoscrivendo l’impegno a combattere nelle file dei mercenari stranieri delle SS o dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. Fu cioè un non politico che scelse consapevolmente una pre- 73 cisa collocazione politica» (p. 3). La scrittura è estremamente semplice, resa vivace dall’uso continuo del dialogo. Nedo Fiano, A 5405. Il coraggio di vivere, Monti, Saronno 2003 Dopo anni trascorsi a raccontare nelle scuole la sua terribile esperienza di deportato ad Auschwitz, Nedo Fiano ha deciso di mettere per iscritto la sua testimonianza,in modo da raggiungere un pubblico ancora più vasto. Il racconto di Nedo segue un andamento cronologico, che però è interrotto da quelli che vengono definiti Frammenti ed in effetti lo sono: si tratta di ricordi che come dei veri e propri flashback interrompono la narrazione e riemergono dal buio della coscienza. Una delle parti più significative di questo libro è la parte in cui l’autore ci racconta della vita a Firenze, prima dell’emanazione delle leggi razziali. Segue poi la storia della cattura e della deportazione. Dopo alcuni mesi a Birkenau, Nedo viene trasferito in un altro campo,vicino a Danzica. Ancora violenze, freddo, lavoro estenuante a 28 gradi sotto zero. Poi un ulteriore trasferimento in un campo gestito per un po’di tempo dalla Luftwaffe, dove dopo tanto tempo i prigionieri, furono trattati con un minimo di umanità. Ma il sogno durò poco: i prigionieri ritornarono ben presto sotto la tutela delle SS. Gli ultimi mesi di deportazione furono terribili, segnati dalla fatica, e dal dolore fisico per l’amputazione di un alluce e la rimozione di un flemmone alla gamba destra. Dopo un’ennesima evacuazione, Nedo viene liberato a Buchenwald l’11 a- 74 prile 1945. Dopo la liberazione comincia il travaglio del ritorno in Italia, il dover convivere, ora che la guerra era finita, con il fantasma della figura della madre profondamente amata, il cui continuo ricordo diventa il leitmotiv dei molti flashback del volume. Giuseppe Calore, Il partigiano disarmato, a cura di Demetrio Paolin, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003 A dieci anni dalle Conversazioni, Calore, soprattutto su richiesta del figlio, accetta di raccontare la sua storia: vengono così registrate alcune cassette che saranno poi trascritte dal curatore Demetrio Paolin. Il volume si compone di quattro capitoli, due riguardano la scelta partigiana, vissuta soprattutto in Friuli e a Padova, e due l’esperienza concentrazionaria. Come acutamente osserva il curatore nelle belle pagine che chiudono il volume «Abbiamo di fronte una testimonianza che insiste sulla “doppia identità, partigiano e deportato”, dove non è ravvisabile una maggiore importanza del primo termine sul secondo, ma una parità di importanza e di scelta. Le vicende del deportato Giuseppe Calore non possono essere lette senza conoscere le peripezie del partigiano Bepi, attivo nel Friuli come guastatore in un gruppo di Giustizia e Libertà» (p. 94). Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager, presentazione Anche il volume di Pio Bigo appartiene all’ultima fase della memorialistica, quella scritta dopo la fine del secolo scorso. Pio Bigo ripercorre le tappe principali della sua vita: l’infanzia e l’adolescenza, segnate dalla morte della madre, poi la guerra e la 75 di Bruno Vasari. Introduzione di Anna Bravo. Postfazione e glossario di Lucio Monaco. Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003² scelta resistenziale, maturata anche grazie al rapporto con il padre da sempre avverso al fascismo. Come spesso accade nei racconti maschili, sono numerose le pagine dedicate al racconto delle imprese partigiane, alla cattura. Poi la deportazione e qui la storia di Pio Bigo assume connotati per certi aspetti davvero atipici: è sicuramente uno dei pochi deportati ad aver conosciuto ben sette lager, uno dei pochissimi politici ad aver conosciuto il campo di Auschwitz-Birkenau. Molto probabilmente questo anomalo trasferimento, avvenuto nel dicembre 1944, quando il campo di Auschwitz era in fase di smobilitazione, fu dettato dalle esigenze di manodopera specializzata: tutti coloro infatti che fecero parte di questo trasporto erano operai specializzati, come Bigo che era saldatore. L’avventura concentrazionaria dell’autore si conclude infine a Buchenwald, dopo aver partecipato alla terribile marcia di evacuazione da Auschwitz. Infine il volume si chiude con poche pagine che riguardano la fase del rimpatrio. Si tratta di una memoria che si legge piacevolmente, il cui pregio è anche legato al fatto che l’autore ci permette di gettare uno sguardo sul mondo del lavoro nei lager: infatti Bigo si sofferma su questi aspetti con dovizia di particolari, sembra inoltre essere centrale per il narratore il rapporto di amicizia stretto con i propri compagni, fatto questo che di solito risulta più rilevante nelle memorie femminili. Sono interessanti anche le note introduttive di Anna Bravo e soprattutto 76 l’accurata postfazione di Lucio Monaco, che getta una luce sulla genesi di questo scritto. Ada Michelstaedter Marchesini, Con l’animo sospeso. Lettere dal campo di Fossoli (27 aprile31 luglio 1944) a cura di Dino Renato Nardelli, EGA, Torino 2003 Ada Marchesini avrebbe dovuto essere protetta dal suo matrimonio ariano, ma non fu così. Arrestata dopo alcuni mesi trascorsi a Fossoli partì con l’ultimo convoglio e morì ad Auschwitz. Di lei restano quarantadue lettere scritte al marito, pubblicate grazie all’interessamento di una nipote. Si tratta di lettere private, in cui Ada cerca di rincuorare il marito, ma soprattutto nell’ultima, datata 31 luglio 1944 traspare il terrore dell’ignoto: «31 luglio. Beppi mio carissimo, ieri ti scrissi una lunghissima e bruttissima lettera, oggi vorrei poter rimediare la cattiva impressione che ne avrai riportata ma non so se ci riuscirò. La situazione è purtroppo sempre invariata e potrà variare soltanto a Verona, dove sarà la nostra prima sosta per proseguire poi chissà in che direzione. Beppi mio non pensiamoci; la guerra non durerà in eterno e da qualunque parte mi portino spero farò ritorno perché farò tutto il mio possibile per resistere pensando a voi miei cari ed al grande amore che vi porto [...]» (p. 118). Martin Doerry, Lilly Jahn il mio cuore ferito. Lettere di una madre dall’olocausto, Non si tratta di una memoria in senso stretto, ma piuttosto di una storia terribile ricostruita attraverso un cospicuo numero di lettere autentiche. Lilli era medico, apparteneva ad un famiglia tedesca assimilata di origine ebraica. Si sposa con un me- 77 Rizzoli, Milano 2003 dico, Ernst Jahn e ha sei figli. Ma le restrizioni che seguono alle leggi antiebraiche obbligano Lilli ad una vita sempre più triste ed isolata. Nel 1942 il marito, divorziando da lei, la lascia alla mercè della Gestapo: non più protetta dal matrimonio misto, Lilli viene incarcerata dapprima nel campo di rieducazione di Breitenau e infine nel 1944 viene deportata ad Auschwitz, dove muore nel giugno del 1944. Durante i mesi trascorsi a Breitenau Lilli riesce ad avviare una fitta corrispondenza con i suoi figli, che hanno conservato sia le lettere della madre sia quelle che loro stessi avevano indirizzato a lei. Così, a più di cinquanta anni, uno dei nipoti di Lilli, con l’accordo di tutti i suoi figli ancora in vita, pubblica questa straordinaria corrispondenza, che ci illumina sui sentimenti, sulle speranze, sulla tragedia vissuta da una madre separata dai suoi figli e che fino all’ultimo, pur con il cuore ferito, spera di tornare. Si tratta di un libro commovente, scritto con grande sensibilità. Piera Sonnino, Questo è stato. Una famiglia italiana nei Lager, il Saggiatore, Milano 2004 Scritto nel 1960 il manoscritto di Piera Sonnino, unica sopravvissuta di una intera famiglia, viene inviato alla rivista Diario dalla figlia, e pubblicato nel 2002 sul numero monografico della rivista dedicato alla Giornata della memoria; in seguito viene edito presso il Saggiatore. Si tratta dunque di una memoria privata, in cui Piera Sonnino ripercorre brevemente la storia della propria famiglia, la vita modesta a Genova, gli impieghi per sopravvive- 78 re dopo le leggi razziali, le fughe dopo l’8 settembre. Poi l’arresto e la deportazione ad Auschwitz-Birkenau, dove la madre e il padre muoiono immediatamente nelle camere a gas, mentre i fratelli resistono pochi mesi. Piera e le due sorelle, Maria Luisa e Bice superano la selezione e insieme a Elena Recanati vengono immediatamente inviate a Bergen-Belsen e da qui a Bendorf an Mein. Le due sorelle non resistono e vede il giorno della liberazione la sola Piera che, tornata in Italia, dovrà restare in ospedale per cinque anni per riprendersi. La scrittura è semplice, lineare, senza nessuna velleità letteraria, l’intento è quello di testimoniare la distruzione della propria famiglia. Chiude il volume un interessante saggio di Giacomo Papi che ripercorre la storia del ritrovamento del manoscritto e le tappe principali della vita di Piera dopo il ritorno: il matrimonio con Antonio Gaetano Parodi, la militanza nel PCI, non facile negli anni Cinquanta, quando agli ebrei si guardava con un certo sospetto. Sima Vaisman, L’inferno sulla terra. La testimonianza di una dottoressa deportata ad Auschwitz, Giuntina, Firenze 2004 Questo breve testo è stato scritto nel 1945, ma è rimasto inedito fino al 1990 quando venne pubblicato sulla rivista Le monde juif con le note di Serge Klarsfeld e JeanClaude Pressac. L’autrice era nata in Bessarabia e successivamente si era trasferita in Francia. Arrestata nel 1943, dopo aver conosciuto altri campi, fu inviata ad Auschwitz-Birkenau nel gennaio del 1944, e qui lavorò come medico nell’infermeria del 79 campo. Il suo testo può essere avvicinato a quello di Olga Lengyel e di Luciana Nissim Momigliano, anche loro dottoresse. In effetti tra la testimonianza della Vaisman e quella della Nissim, forse perché entrambe furono scritte a caldo, si possono notare riferimenti ad episodi analoghi, come quando tutte e due descrivono le donne francesi destinate alla camera a gas che vengono caricate sui camion cantando l’inno ebraico e la Marsigliese: «Tra le grida un canto si eleva. È l’inno ebraico, in greco, spesso anche la Marsigliese» (p. 34). La narrazione è scarna, l’intento dell’autrice è quello di testimoniare quello che è accaduto, non ci sono velleità narrative, in questo senso la testimonianza della Vaisman è estremamente simile a quella della Nissim, mentre il testo della Langyel sembra più vicino alle modalità espressive del romanzo. Michal Glowiński, Tempi bui. Un’infanzia braccata, Giuntina, Firenze 2004 Questo bel volume si discosta dai soliti volumi di testimonianze sulla shoah perché l’autore procede nella narrazione attraverso improvvisi flash che illuminano certi aspetti della sua tremenda vicenda, ma che ne lasciano nell’ombra tanti altri. Infatti l’autore, nel periodo tragico della soluzione finale che colpisce gli ebrei europei nella seconda guerra mondiale, aveva solo otto anni. Insieme alla sua famiglia ha vissuto prima l’esperienza tragica del ghetto, poi è riuscito a passare nella parte ariana di Varsavia ed infine è stato nascosto, da solo e lontano dalla sua famiglia, dalle suore, a Turkowice, fino alla liberazione. 80 Ma ciò che rende il volume estremamente interessante è che i fatti sono raccontati dal punto di vista di un bambino. Particolarmente incisiva è la descrizione del ghetto di Varsavia che il bambino Michal rivede nella memoria come se fosse un luogo privo di colore: a dominare era il grigio, anche quando c’era il sole. Oppure la scoperta della morte: un fatto naturale all’interno del ghetto anche per un bambino di appena otto anni. Colpisce anche la parte in cui il bambino ricorda la vita all’interno del convento di Turkowice: delle suore ricorda la gentilezza, mentre i ricordi su certi compagni, che lo terrorizzavano dicendogli che lo avrebbero denunciato ai tedeschi, ci permettono di capire cosa doveva significare per un bambino vivere con l’ansia di poter essere sempre scoperto e ucciso, perché Michal aveva la consapevolezza che cadere nelle mani dei tedeschi significava morte certa. Anna Cherchi, La parola Libertà. Ricordando Ravensbrück, a cura di Lucio Monaco, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2004 Il racconto scarno ed efficace di Anna Cherchi è preceduto da una bellissima introduzione al testo del curatore Lucio Monaco. Infatti questo testo viene ricavato da un manoscritto redatto su un taccuino steso dalla Cherchi nel 1978, ma Monaco non si limita a chiarire i problemi filologici, ma cerca anche di ricostruire, in un quadro sintetico, eppure preciso, la storia della deportazione femminile dall’Italia. La narrazione inizia con l’esperienza partigiana, Anna è una delle poche donne che hanno davvero partecipato alla Resistenza in sen- 81 so stretto: ha vissuto in banda in montagna ed ha imparato a maneggiare le armi. Grazie al suo coraggio una parte dei suoi compagni si salva, ma lei viene arrestata e deportata a Ravensbrück. La vita nel campo è durissima, come è stato testimoniato da molti altri scritti, ma la Cherchi subisce una violenza nella violenza: le vengono strappati sette denti sani senza nessun apparente motivo. Nonostante questa estrema violenza subita, la Cherchi, forte anche della sua convinta militanza comunista, sa che deve subire e sopravvivere, non si lamenta neppure quando riceve 25 frustate per aver cercato di prendere un po’ di cibo dai bidoni della spazzatura. La narrazione spesso viene sospesa e la Cherchi si sofferma a fare alcune riflessioni sui lager e il loro funzionamento e soprattutto si rivolge ai giovani, perché traggano un ammonimento dalle esperienze terribili di chi ha conosciuto il lager. Il volume si chiude con poche pagine, scritte da Anna nel 2001, sul ritorno, ancora una volta segnato dall’indifferenza dei più. Infine il volume si chiude dando conto della instancabile attività della Cherchi come testimone: dalla partecipazione ai convegni promossi dall’ANED, alle visite ai campi di sterminio insieme agli studenti. Il libro è corredato da un CD, che testimonia la capacità di Anna Cherchi di entrare in sintonia con i giovani. 82 Masha Rolnikaite, Devo raccontare, Adelphi, Milano 2005 Un diario struggente e bellissimo, scritto e poi perduto e poi ricostruito grazie ad un incredibile sforzo di memoria da una ragazzina di Vilnius, che assiste alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei della sua città e di gran parte della sua stessa famiglia. Dopo il ghetto conoscerà i campi di sterminio, sfuggirà alla morte solo grazie all’arrivo dei soldati sovietici. È un documento straordinario perché proviene dall’Est, da quel mondo yiddish che è completamente scomparso nella shoah. Resta scolpita nel cuore e nella mente la domanda del fratellino di Masha, Rayele, poco prima di salire sul camion che condurrà lui, la sorellina e la madre di Masha alla fucilazione: «E quando ti fucilano fa male?». Sulla shoah nei Paesi baltici e nei territori dell’Unione Sovietica sono stati scritti in anni molto recenti alcuni straordinari romanzi: quello di Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, pubblicato in Italia da Guanda nel 2004, da cui è stato tratto anche un bellissimo film nel 2005. La vicenda è autobiografica: il protagonista, un giovane nato e cresciuto in America, si reca in Ucraina alla ricerca della donna che avrebbe salvato suo nonno dai massacri nazisti. Da qui ha inizio una quête in cui attraverso numerosi colpi di scena, si disvela tutto l’orrore delle fucilazioni di massa poste in essere dai nazisti, spesso coadiuvati dagli ucraini: degli abitanti dello shetl di Techimbrod non resta che un baule pieno di fotografie conservato dall’ultima sopravvissuta al massacro. 83 Altrettanto pregnante, denso e poetico è il romanzo di Daniel Mendelsohn, Gli scomparsi, Neri Pozza, Milano 2007. Anche in questo caso il nipote di un sopravvissuto parte con il fratello alla ricerca della storia della sua famiglia di origine: alla fine dopo cinque anni di ricerche non rimarranno che storie di fantasmi vissuti in Polonia e tutti scomparsi nella shoah. Silvana Presa (a cura di), Ida Désandré, testimone della deportazione nei Lager nazisti, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta, Le Château Edizioni, Aosta 2005 È un piccolo volume in cui Silvana Presa, con occhio attento anche alle esigenze didattiche, ricostruisce l’itinerario di Ida Désandré, di famiglia operaia, che entra in contatto con la Resistenza e successivamente viene deportata a Ravensbrück. Nei primi due capitoli Silvana Presa ricostruisce per sommi capi la biografia della testimone, poi lascia spazio alla sua parola e viene riportato il testo integrale della bellissima testimonianza rilasciata dalla Desandré nel 1983 a Brunello Mantelli e Federico Cereja, durante le fasi della ricerca piemontese sulla deportazione. Infine, nei capitoli conclusivi, Silvana Presa si interroga sulle trasformazioni della memoria, sul ruolo del testimone nella vita pubblica e nella scuola. Tuttavia il cuore del volume è sicuramente rappresentato dalla vicenda di Ida, dalle parole scarne con le quali ripercorre la propria vicenda esistenziale: un’infanzia segnata dalla povertà cui segue una vita fatta di lavoro e di stenti, l’incontro con la Resistenza e infine la deportazione. Della sua esperienza nei Lager nazisti emerge l’importanza che progressiva- 84 mente acquista il lavoro: da mero strumento punitivo il lavoro schiavistico dei deportati diventa un elemento importante all’interno dell’economia di guerra del Reich. Per la Desandré abituata al duro lavoro la fabbrica assume i contorni di un mondo conosciuto, un ambiente che la riporta al mondo di prima. Anche nel suo caso il ritorno è segnato da amarezze e dal silenzio. Daniela Padoan, Come una rana d’inverno. Testimonianza di tre donne sopravvissute ad Auschwit, Bompiani, Milano 2005 Si tratta di lunghe conversazioni con Goti Bauer, Liliana Segre, Giuliana Tedeschi, tutte deportate nel campo di AuschwitzBirkenau, in cui Daniela Padoan, con intelligenza e finezza, cerca di indagare il mondo del lager visto al femminile. Dopo aver dato la parola alle testimoni Daniela Padoan, nella sua intensa Postafazione si interroga sui meccanismi della memoria, sul ruolo dei testimoni e sulla specificità della deportazione femminile. Emanuela Zuccalà, Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz, Edizioni Paoline, Milano 2005 La testimonianza toccante e struggente di Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a tredici anni, raccolta ed elaborata dalla giornalista Emanuela Zuccalà. La particolarità di questo testo, che tocca il tema così poco studiato della shoah dei bambini (si veda a questo proposito il contributo di Bruno Maida e Lidia Rolfi, Il futuro spezzato, Giuntina, Firenze 1994 e Sara Valentina Di Palma, La shoah e i bambini, Unicopli, Milano 2005) è l’ampio risalto che viene dato al tema del ritorno dal lager (anche esso un tema negletto, si veda Il ritorno dai lager a cura di Alberto 85 Cavaglion, ANED-Consiglio Regionale del Piemonte-Franco Angeli 1994). Infatti a parere di chi scrive le pagine più riuscite sono quelle in cui Liliana Segre ripercorre le tappe dolorose del suo ritorno a Milano, dove però non troverà più né la sua casa né la sua famiglia e solo grazie al marito e alla maternità riuscirà a riprendere in mano le fila della sua vita. Gilberto Salmoni, Una storia nella storia. Ricordi e riflessioni di un testimone di Fossoli e Buchenwald, a cura di Anna Maria Ori, EGA, Torino 2005 Ancora una volta si tratta di una memoria tardiva. La famiglia Salmoni risiedeva a Genova, con le leggi razziali iniziano le prime difficoltà, poi il tentativo di fuga in Svizzera, finito con l’arresto e l’invio a Fossoli, dove la famiglia è inserita nella baracca dei misti. Durante il bombardamento che colpisce Fossoli la sorella di Gilberto, Dora, che era incinta, viene ferita. Il 1° agosto anche gli ebrei misti partono, Gilberto e il fratello Renato saranno deportati a Buchenwald e faranno ritorno, mentre i genitori e Dora moriranno nelle camere a gas di Auschwitz. Gilberto, che aveva solo sedici anni, sopravvive anche grazie al fratello che, come medico, riesce a crearsi dei legami a Buchenwald. Il volume è costituito dalla ricostruzione che Salmoni fa della propria esperienza: dalla fuga in Svizzera fino al ritorno in Italia, non mancano interessanti riflessioni sugli effetti della deportazione. Liliana Martini, Catena di salvezza, Tra le molte storie della Resistenza poco note al grande pubblico spicca quella della famiglia Martini e in particolare delle tre 86 Messaggero Sant’Antonio, Padova 2005 sorelle Teresa, Liliana e Lidia. In casa passavano tanti giovani, poiché la famiglia era numerosa, così le tre sorelle vengono avvicinate da un membro della resistenza cattolica di Padova, mettendosi volentieri a disposizione di chi ha bisogno. Così le sorelle Martini, insieme ad altre amiche, tutte cattoliche, appartenenti a diverse classi sociali, ossia Milena Zambon, Maria Borgato e sua nipote Delfina, iniziano a compiere viaggi pericolosi, pur di portare in salvo, a Milano ebrei, renitenti e soldati inglesi. Fino al 14 marzo 1944 le Martini sisters, come vengono definite nel volume di Roger Abalon, portano in salvo tra le duecento e le trecento persone. Il 14 marzo 1944 Teresa, Liliana, Maria, Delfina e Milena vengono tutte arrestate. Divise le une dalle altre, restano in prigione a Venezia per diversi mesi, poi vengono tutte quante trasferite a Bolzano e da qui le sorelle Martini insieme a Delfina Borgato partiranno per Mauthausen ai primi di agosto del 1944, mentre Maria Borgato, insieme a Milena Zambon, verrà deportata a Ravensbrück, ai primi di settembre del 1944. Titti Marrone, Meglio non sapere, Laterza, Roma-Bari 2006 In questo volume Titti Marrone, giornalista, ricostruisce l’incredibile storia di Andra e Tatiana Bucci e del loro cuginetto Sergio. Andra, Tatiana, Sergio e le loro mamme vengono arrestate a Trieste, dove si erano rifugiate presso la famiglia della nonna materna. Mira e Gisella Bucci con i loro figli vengono denunciate come ebree, passano dalla Risiera di San Sabba e da 87 qui ad Auschwitz-Birkenau, dove riescono a passare la selezione. Mentre le due sorelle Mira e Gisella lavorano, i tre bambini vengono inseriti in un Kinder-block. Per un po’ di tempo le mamme riescono a andare a trovare i bambini, ma sono poi trasferite. Mentre Andra e Tatiana sono protette dalla Blockova, Sergio finisce per diventare una cavia degli esperimenti medici compiuti su venti bambini ebrei e per questo motivo viene trasferito nel campo di Neuengamme e successivamente ucciso il 20 aprile 1945. Le due sorelline Bucci sopravvivono e dopo la fine della guerra sono inviate a Londra, e infine restituite alla madre. Titti Marrone ricostruisce questa singolare vicenda alternando alla ricostruzione storica l’intervista con le due sorelle, che hanno conservato ricordi abbastanza nitidi della loro esperienza ad Auschwitz, nonostante la loro giovanissima età. Liana Millu, Tagebuch, Giuntina, Firenze 2006 Breve e intenso scritto pubblicato postumo a cura di Piero Stefani, a cui era stato affidato dalla Millu stessa. Dopo la liberazione avvenuta a Malchow Liana Millu trova in una fattoria un diario e una matita e inizia così a scrivere le sue impressioni, mentre, come tutti, vaga da un campo di raccolta ad un altro, in attesa del ritorno in Italia. Fausta Finzi, A riveder le stelle. La lunga marcia di un gruppo di donne dal lager Il volume ripercorre le vicende di Fausta Finzi, ebrea solo per parte di padre, arrestata con lui e incarcerata prima a San Vittore, quindi a Fossoli. La Finzi parte per Ravensbrück con l’ultimo convoglio in 88 di Ravensbrück a Lubecca, a cura di Federico Bario e Marilinda Rocca, prefazione di Frediano Sessi, Gaspari editore, Udine 2006 partenza da Fossoli, quello del 2 agosto. A Verona viene divisa dal padre che sarà inviato ad Auschwitz e che non farà ritorno. Fausta come mischling (figlia di matrimonio misto) viene invece deportata a Ravensbrück. L’interesse del libro sta nel diario scritto da Fausta nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, avvenuta a Lubecca, e tenuto segreto fino agli anni duemila. Giorno per giorno l’autrice annota su un vecchio quaderno, trovato per caso, le vicende della lunga marcia che fece insieme ad alcune compagne, Livia, Olga, Maura. Oltre a mettere a fuoco una delle vicende della deportazione meno conosciute, ossia quella delle marce della morte, la Finzi racconta anche, sebbene con toni sommessi, il terribile oltraggio subito dalle sue compagne violentate dai soldati russi. Episodi di tal fatta non sono purtroppo isolati: altre donne durante la fase di evacuazione da Ravensbrück hanno raccontato, solo recentemente, episodi di questo tipo, che ancora una volta rinviano alla terribile fragilità dell’esser donna in un mondo in cui è soverchiante la violenza, come è quello della guerra. Accanto a queste tematiche, è interessante notare come la Finzi sottolinei la sua identità ebraica; dal forte legame con il padre nasce il desiderio di ricordare la persecuzione subita non come politica, anche se ad un certo punto l’apparato del campo le muta il triangolo, ma come ebrea: si tratta anche di un omaggio al padre, svanito nelle ceneri di Auschwitz. 89 Hanna Kugler Weiss, Racconta! Fiume-BirkenauIsraele, Giuntina, Firenze 2006 Anche in questo caso ci si trova di fronte ad una memoria tardiva, scritta quasi più per rispondere ad un imperativo familiare: rispondere agli interrogativi non tanto dei figli, quanto dei nipoti. Hanna Kugler Weiss, originaria di Fiume, conosce l’orrore di Birkenau a 16 anni. Ha la fortuna di restare insieme alla sorella Ghisi, mentre la mamma e la sorellina scompariranno a Birkenau. Liberata dai russi, torna in Italia, si diploma come infermiera e nel 1948 decide di emigrare in Israele. A partire dal 1968 inizia a svolgere una intensa attività di testimone, che la condurrà anche a visitare nel 1990 il complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau insieme a un centinaio di studenti israeliani. La scrittura è semplice e il racconto è praticamente concentrato sulla tragica esperienza a Birkenau: la vita precedente come il ritorno sono condensate in pochi capitoletti, anche se l’incontro con il padre, che era scampato alla deportazione, ci permette di comprendere quanto anche per i familiari più vicini fosse impossibile comprendere la realtà del campo di sterminio. Interessanti le parti in cui la narrazione si ferma e l’autrice annota i suoi sentimenti e le reazioni provate quando si è ritrovata a tanti anni di distanza in Polonia e nel campo di Birkenau, divenuto la tomba di gran parte della sua famiglia. Shlomo Venezia, Sonderkommando, Rizzoli, Milano 2007 È una memoria di straordinaria importanza perché proviene da uno dei pochissimi membri del Sonderkommando di AuschwitzBirkenau. Di origine greca, Shlomo rievoca 90 con pacata gravità la storia della deportazione sua e della sua famiglia, il terribile lavoro che è costretto a fare a Birkenau, dove vede inghiottire nelle camere a gas migliaia di persone, la eroica rivolta del Sonderkommando scoppiata il 7 ottobre 1944 e infine la liberazione e il ritorno a casa. Il libro è arricchito da una bella postfazione di Marcello Pezzetti, che delinea in poche, ma dense pagine, la storia del campo di Auschwitz e il ruolo che questo campo ebbe all’interno della soluzione finale. Leopoldo Gasparotto, Diario di Fossoli, a cura di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2007 Dal momento dell’arresto fino alla vigilia della sua morte avvenuta a Fossoli, nel giugno del 1944, Leopoldo Gasparotto, una delle figure più interessanti della Resistenza, riuscì a tenere un Diario che giunse poi nelle mani dei suoi familiari. Il testo è rimasto inedito ed è stato pubblicato nel 2007 con un ricco apparato di note ed un saggio su Gasparotto a cura di Mimmo Franzinelli, noto storico, autore di numerosi contributi sulla Resistenza ed il fascismo. È uno dei pochissimi testi in cui si dà conto del campo di Fossoli e del suo funzionamento. Anna Di Gianantonio, È bello vivere liberi: Ondina Peteani, Istituto per la storia del movimento Anna Di Gianatonio, ricercatrice presso l’Istituto per la storia del movimento di liberazione in Friuli-Venezia Giulia ricostruisce la biografia di Ondina Peteani, definita “la prima staffetta partigiana d’Italia”. Arrestata e deportata ad Auschwitz, continuerà l’impegno politico nel dopoguerra nelle file del Partito comunista prima e del 91 di liberazione in Friuli-Venezia, Trieste 2007 PDS dopo. Il libro è stato fortemente voluto dal figlio Gianni, e si basa sulle numerose interviste rilasciate all’Istituto storico da Ondina. Marcello Martini, Un adolescente in lager, a cura di Elisabetta Massera, prefazione di Alberto Cavaglion, Giuntina, Firenze 2007 Si tratta della memoria di Marcello Martini, che dopo essere stato catturato nel giugno 1944, per la sua attività antifascista, venne rinchiuso dapprima a Fossoli e da qui deportato a Mauthausen, dove venne liberato il 5 maggio 1945. Visse l’esperienza del lager quando era un adolescente e per questo motivo la sua testimonianza è significativa, perché anche a distanza di più di sessant’anni, l’autore nel rievocare la propria esperienza, ci restituisce la percezione di un giovane che si è trovato a vivere in un tempo straordinario e terribile. Boris Pahor, Necropoli, Fazi editore, Roma 2008 È rapidamente diventato un caso letterario non appena è stato pubblicato nel 2008 in Italia: l’edizione slovena risale infatti al 1967. In una prosa raffinata e splendida, Pahor ripercorre la sua storia di ex-deportato a Natzweiler, un lager nazista situato nei Vosgi partendo dall’oggi: l’autore ritorna a visitare il campo dove era stato prigioniero. È una calda giornata estiva ed egli si sofferma ad ascoltare quello che una guida narra ad un gruppo di visitatori curiosi e attenti: ma tutto al suo orecchio, come al suo occhio di testimone, sembra estraneo. Osserva stupito le baracche, così diverse da quelle impresse nella sua memoria, guarda con stupore due ragazzi che si scambiano effusioni (essi rappresentano la vita 92 per lui invece quel luogo rimandava solo alla morte) e percepisce un disagio profondo. Mentre si confonde con gli altri turisti, incapace di entrare in sintonia con loro, Pahor rivive la sua tragica esperienza nelle città della morte create dai nazisti. L’esperienza letteraria e umana di Pahor, che fu deportato per la sua affiliazione con la resistenza slovena dopo l’8 settembre 1943, ci permette di comprendere fino in fondo che non è una operazione facile entrare in sintonia con i luoghi della memoria, perché è necessario cercare di ricostruire quel luogo nella propria mente, come era allora. Milena Zambon, Memorie, Edizioni Messaggero, Padova 2008 Milena Zambon apparteneva allo stesso gruppo, attivo a Padova, di giovani donne cattoliche impegnate nel soccorso di soldati britannici ebrei e renitenti. Come le sue amiche, le sorelle Martini, fu arrestata nel 1944 e fu deportata a Ravensbrück. Riuscì, benché debilitata nel fisico, a tornare in Italia e dopo alcuni anni trascorsi in sanatorio, nel 1948 entrò in un convento di clausura. Scrisse queste Memorie per obbedienza: si tratta di un testo semplice nella struttura, che ci dice poco sul prima e sul dopo, ma si concentra piuttosto sull’esperienza legata alla lotta intrapresa per salvare delle vite umane. È facile immaginare che per una ragazza riservata e religiosa come Milena, la prova del Lager, con la sua promiscuità e la sua violenza dovette essere tremenda «Incolonnate fummo condotte in una grande baracca 93 che funzionava, diciamo così, da foresteria. Era un grande stanzone dove alcuni militari tedeschi ci attendevano per una visita medica (non mi è possibile descriverne i sistemi brutali) […]. Ci tagliarono anche i capelli – quasi rasati – e al braccio ci posero il numero di matricola. È immaginabile la nostra umiliazione e l’impeto di ribellione provato nell’essere trattate in quel modo, ma nessuna osò manifestare esternamente quel che provava. Capivamo che era troppo pericoloso» (pp. 50-51). Giuseppe Valota, Streikertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945, Guerini, Milano 2008 Giuseppe Valota ha dedicato moltissimi anni ad una ricerca complessiva capace di far luce sulla deportazione politica dell’area industriale milanese. In questo volume in cui si mescola la storia alla memoria, viene ricostruita la biografia di tutti gli operai sestesi, uomini in prevalenza, ma anche donne, che a causa della loro partecipazione agli imponenti scioperi del marzo 1944 furono deportati in KL. Di notevole rilevanza le testimonianze riportate. Massimiliano Tenconi, Alberto Magnani, Il quaderno di Carla. I ricordi di Carla Morani deportata ad Auschwitz, La memoria del mondo, Magenta 2008 Carla Morani non era ebrea, era operaia alla Snia di Magenta e aveva ventitré anni quando fu deportata per aver aderito agli scioperi del marzo 1944. Riesce a sopravvivere ai rigori del campo slesiano e tornata a casa nel settembre del 1945 decide di scrivere i suoi ricordi. Il percorso della deportazione di Carla è tortuoso: dopo l’arrivo a Mauthausen viene fatta partire per Auschwitz. Di Auschwitz descrive il fango, la sporcizia, le umilianti procedure di inizia- 94 zione. Poi un nuovo trasferimento a Chemnitz e infine la liberazione. Si tratta di uno scritto breve, probabilmente quello che a Carla Morani interessava era fissare nella memoria i suoi ricordi, senza alcuna pretesa letteraria. Oggi a più di sessanta anni sono ricordi preziosi. Il volume è arricchito da un corredo di note esplicative e da un saggio sulla deportazione politica dal milanese. Carla Cohn, Le mie nove vite. Attraverso il retrospettoscopio, prefazione di Bruno Maida, Città Aperta, Enna 2008 Più che una memoria si tratta di un’autobiografia in cui Carla Cohn con una notevole dose di ironia ripercorre le tappe di una vita più che movimentata: berlinese di origine, nel 1942 viene deportata prima a Theresiensdat e poi ad Auschwitz-Birkenau e da qui a Mauthausen. Le sue peregrinazioni non si chiudono con la guerra: inizia poi un vagabondare alla ricerca di un stabilità emotiva, che fatica a trovare: campi profughi, Palestina, Stati Uniti e infine l’Italia dove risiede. Come osserva Bruno Maida nella prefazione: «È il racconto di uno straordinario intreccio di incontri, abbandoni, luoghi rivisitati con nuovi occhi, lotte per affermare la centralità dell’infanzia e del suo punto di vista anche nel complesso processo attraverso il quale Carla diventa psicoterapeuta infantile, sforzi continui e dolorosi per saldare le varie vite vissute [..]» (p. 10). Bruno Maida, «Non si è mai ex deportati». Una biografia Bruno Maida, che di Lidia Beccaria Rolfi è stato amico e confidente, ripercorre le tappe della sua intensa vita: maestra, partigiana e deportata. Alla centrale esperienza 95 di Lidia Beccaria Rolfi, Utet, Torino 2008 della deportazione a Ravensbrück fa seguito un difficile inserimento nella vita civile, poi il matrimonio e la maternità alla ricerca di una “normalità”. Maida giustamente dà ampio spazio non solo al tema del ritorno, ma anche a quello dell’intenso impegno civile e letterario di Lidia Beccaria Rolfi, divenuto tanto più intenso con il passare degli anni. In questa biografia, scritta con il cuore, è riportato un testo della Rolfi sul lager rimasto fino ad oggi inedito: si tratta di appunti presi mentre ancora la Rolfi si trovava in lager e per questo tanto più significativi. Wanda Półtawska, E ho paura dei miei sogni, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2008 Wanda era una giovane studentessa polacca e finisce nel campo di Ravensbrück per la sua appartenenza alla resistenza polacca. Qui fa parte del gruppo di giovani donne che divennero cavie umane per gli esperimenti nazisti: era una delle “conigliette”: così venivano chiamate nel gergo del campo, e alla fine della guerra i nazisti avrebbero voluto eliminarle, ma queste donne furono difese e nascoste dalla resistenza interna del campo. Questo volume ha quindi un grande valore dal punto di vista storico: è una voce serena e pacata contro ogni forma di revisionismo. Scritto nell’immediato dopoguerra, come cura per liberarsi dalla angoscia e dagli incubi, fu pubblicato solo nel 1961. Il volume è corredato da un glossario a cura di Lucio Monaco. 96 Marcello Pezzetti, Il libro della shoah italiana Einaudi, Torino 2009 Dopo aver dedicato anni della sua vita a intervistare i sopravvissuti di Auschwitz, in questo corposo volume, Pezzetti dà voce alle mille storie che hanno segnato la deportazione degli ebrei italiani. Il volume è suddiviso per temi: dalle leggi razziali al ritorno. Di notevole interesse per capire le sfaccettature del poliedrico mondo ebraico italiano, le ripercussioni delle leggi razziali, fino al buio di Auschwitz.