ESEGESI ESISTENZIALE DEL LIBRO DI GIOBBE

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ESEGESI ESISTENZIALE DEL LIBRO DI GIOBBE
Giobbe
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ESEGESI ESISTENZIALE DEL LIBRO DI GIOBBE
III° INCONTRO –
PARROCCHIA REGINA PACIS – FORLI’
Dott. Enrico Righini Locatelli
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GIOBBE E IL DEFINITIVO SUPERAMENTO DELLA TEOLOGIA DELLA
GIUSTIZIA RETRIBUTIVA DI DIO
BREVE RIEPILOGO (delle puntate precedenti)
Nei primi due incontri abbiamo introdotto a grandi linee il Libro di Gb,
accennando alla sua collocazione all’interno della Bibbia, al periodo ed alla lingua
di redazione ed agli autori.
Abbiamo osservato la strutturazione complessiva del libro in 42 capitoli e notato
come, dal terzo capitolo in poi, tutta la trama del medesimo proceda in una serrata
concatenazione di dialoghi e monologhi e come “il parlare” costituisca l’asse
portante dell’opera.
Procedendo dal generale al particolare, ci siamo quindi concentrati sui primi due
capitoli per effettuare il nostro saggio di esegesi.

Metodologia utilizzata. Il criterio ermeneutico di cui ci siamo avvalsi si è
basato sull’applicazione al Libro di Gb del “modello a cinque fasi sulla
psicologia del morente” della dott.ssa Elisabeth Kübler-Ross (negazione,
rabbia, mercanteggiamento, depressione, accettazione). Questo particolare
approccio ci ha permesso di calarci nel vissuto emotivo di Gb, per
comprendere meglio l’evoluzione del suo percorso di elaborazione del lutto
ed il suo itinerario interiore di approfondimento della fede.
Abbiamo concentrato la nostra attenzione sui versetti riguardanti,
rispettivamente, le reazioni di Gb alla prima ed alla seconda prova (1,20-22;
2,8-10), confrontandoli tra di loro.

I risultati del nostro saggio di esegesi. Siamo pervenuti ad alcune
interessanti acquisizioni. In primis abbiamo svelato l’apparente ingenuità del
Libro di Gb, mettendone a nudo il carattere polisemico. Abbiamo potuto
constatare che l’aspetto anodino dei testi sapienziali cela, al loro interno, una
stratificazione di livelli di interpretazione: dal più immediato e superficiale, al
più profondo ed autentico. Inoltre, l’esegesi dei versetti che descrivono le
reazioni di Gb alla prima ed alla seconda prova (1,20-22; 2,8-10) ed il loro
reciproco confronto ci ha permesso di ridimensionare una diffusa, ma inesatta
interpretazione del Libro di Gb: quella relativa alla proverbiale pazienza del
protagonista. In realtà questa dote non è né una qualità precipua di Gb in
quanto uomo, né una virtù sulla quale il testo biblico intenda soffermarsi,
ancorché marginalmente. Giova ribadire che la percezione, largamente diffusa
nell’immaginario collettivo, di Gb quale paradigma dell’uomo paziente è
piuttosto il frutto di una comprensione superficiale del testo, capace di indurre
il lettore poco accorto a male interpretare gli atteggiamenti del protagonista,
2
fraintendendo lo sbigottimento ed il rifiuto, conseguenti alla mancata
elaborazione del lutto, con una fede salda e matura.

I contenuti esistenziali del Libro di Gb. La ricchezza del Libro di Gb è
sorprendente. Dovendo scegliere, abbiamo preferito evidenziare un paio di
tematiche particolarmente significative sotto il profilo esistenziale:
I.
Il linguaggio, o meglio: i diversi tipi di linguaggio all’interno del Libro di Gb.
II.
La radicale confutazione ed il definitivo superamento della teologia della
giustizia retributiva di Dio.
I.
Il primo tema è stato l’oggetto dello scorso incontro. Abbiamo osservato che
“il parlare” è al contempo il fulcro attorno al quale ruota tutta la trama del Libro di
Gb e l’asse portante dell’intera opera.
Come parlerà Gb di Dio nel momento della sofferenza? Lo maledirà
(dirà-male) apertamente, come sostiene il Satàn (1,11; 2,5)? A questo punto
del nostro viaggio all’interno del Libro di Gb siamo in grado di dire che il
nostro amico non solo non ha mai maledetto Dio, ma che, a differenza degli
altri interlocutori (i tre amici ed Eliù), ha anche parlato rettamente di Lui
(42,7-8).
In particolare, abbiamo osservato che, durante lo svolgimento del libro e
parallelamente al suo percorso di elaborazione del lutto, Gb adotta diversi
livelli di linguaggio, ognuno con una particolare connotazione ed un preciso
significato. Dal linguaggio della fede popolare, caratteristico della fase del
rifiuto/negazione (fase 1 di Kübler-Ross), attraverso il linguaggio del silenzio,
Gb passa al linguaggio del dubbio, sintomatico della transizione alla fase
della rabbia (fase 2 di Kübler-Ross).
Decantata la rabbia e recuperato il controllo sulle proprie emozioni, Gb
desidera comprendere il motivo delle proprie disgrazie ed adotta il linguaggio
della teologia (la fides quaerens intellectum: la fede che cerca di capire).
Non avendo raggiunto le risposte desiderate, Gb passa ad un ulteriore
linguaggio: quello della preghiera. Dal linguaggio in terza persona su Dio
(teologia), al linguaggio in seconda persona con Dio (preghiera). Abbiamo
notato che la preghiera di Gb non è ortodossa e non rientra nelle forme
convenzionali degli inni di lode o delle giaculatorie (1,21), ma è, piuttosto, il
lamento di un uomo ferito e disperato, il quale chiede, supplica, promette e
prova persino a ricattare Dio (7,7.9.21b) e a citarlo in giudizio perché
risponda delle sue azioni (10,2). E’ il linguaggio di chi ha capito che da solo
non ce la può fare e cerca il confronto con un interlocutore soprannaturale con
il quale perorare la propria causa. Gb è giunto alla fase del
mercanteggiamento (fase 3 di Kübler-Ross).
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Nonostante gli sforzi, il mercanteggiamento non ha sortito gli esiti
auspicati: gli amici, inizialmente premurosi e partecipi della sofferenza di Gb
(2,11-13; 4,2-5), si sono successivamente rivelati ostili e distanti (15,5; 11,6;
22,2-11), irremovibilmente arroccati nelle posizioni intransigenti della loro
“teologia dogmatica”; Dio, invece, è rimasto “contumace” (30,20). A questo
punto Gb cessa di parlare e si ritira in se stesso (31,40b). Il profeta Eliù,
intervenuto nel cap. 32, gli parla e lo invita ripetutamente a replicare, ma
inutilmente: Gb rimane arroccato nel suo silenzioso isolamento (33,5; 33,3233). Conclusa infruttuosamente la fase del mercanteggiamento, Gb è passato a
quella della depressione e dell’isolamento (fase 4 di Kübler-Ross).
Tuttavia Gb non ha mai rinunciato a proclamare la propria integrità (34,5b;
27,5-6; 10,7; 16,17; 23,10) e non ha mai smesso di rivolgersi a Dio (7,7-21;
9,25-31; 10,1-22; 13,20-28; 14,1-22; 17,3-4; 30,20-23). Ha parlato il
linguaggio della preghiera: il linguaggio in seconda persona con Dio ed ora,
nel silenzio finale di tutti gli interlocutori, riesce finalmente ad udire Dio che
parla al suo cuore (40,2). Gb ascolta e tace, ma il silenzio attuale è diverso dal
precedente: non è il silenzio della depressione e dell’isolamento disperato, ma
quello fiducioso del figlio che si abbandona alla voce del Padre. Dio parla a
Gb e la parola implica la relazione. Gb esce dall’isolamento, diviene sempre
più cosciente di sé ed il contatto che ha con Dio è dei più profondi: “Ti
conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto” (42,5). Gb è
passato ad un nuovo linguaggio: quello della mistica. E’ interessante
soffermarci sul significato etimologico del termine “mistica”, che deriva dal
greco μιέιν = chiudersi, tacere. Il mistico dialoga con il mistero (μυστήριον =
stessa etimologia di mistica) senza la necessità di parlare, ma nell’intimo
silenzio della contemplazione. Abbiamo più volte ribadito l’importanza di
ricordare che, da un punto di vista materiale, la situazione in cui versa Gb è
ancora tragica, ciononostante egli non è più annichilito su se stesso, chino in
mezzo alla cenere. Il suo sguardo si è elevato e gli ha consentito di aprirsi
“all’altro da sé” e di cogliere la complessità del reale che lo circonda. Ha
compreso che il mondo non ruota attorno a lui e questa consapevolezza gli ha
permesso di relativizzare la propria sofferenza. Gb ha realizzato che è piccolo
rispetto all’universo circostante. Ha sperimentato la trascendenza di Dio. Dio
non è una controparte contrattuale, ma il suo Creatore onnipotente. Gb è
ancora sofferente, ma il suo dolore non viene neanche nominato. E’ passato in
secondo piano. Ciò che conta ora è la relazione. Quando tutto il superfluo è
stato eliminato, quando attorno a lui si è fatto il deserto, ecco, è in quel
momento che a Gb rimane l’essenziale: la relazione con Dio. Gb è giunto alla
fase dell’accettazione (fase 5 di Kübler-Ross).
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Un piccolo schema sinottico aiuterà a comprendere con maggiore
chiarezza la successione dei diversi linguaggi pronunciati da Gb
parallelamente al suo percorso di elaborazione del lutto secondo il modello di
Kübler-Ross. Tuttavia è indispensabile precisare che tale schematizzazione è
esclusivamente funzionale ad una più immediata rappresentazione delle due
chiavi di interpretazione del Libro di Gb trattate negli incontri precedenti e
che, pertanto, la sua utilità è di carattere meramente esplicativo. In altri
termini, non vogliamo forzare l’esperienza di Gb nelle strette maglie di una
“tabellina”, perché, così facendo, commetteremmo lo stesso errore degli amici
di Gb, i quali pretendevano di costringere la realtà nelle anguste maglie dei
loro dogmi!
Schema sinottico di comparazione tra le fasi del modello di Kübler-Ross ed i vari
tipi di linguaggio pronunciati da Giobbe.
FASI di KUBLER-ROSS
LINGUAGGI
Linguaggio della fede popolare
(1,20-22; 2,8-10)
Nb. Come ampiamente osservato nei
precedenti incontri, la reazione di Gb
alla seconda prova (2,8-10), pur
collocandosi all’interno della prima
fase, è già sintomatica dell’inizio di
una evoluzione psicologica del
protagonista, il quale incomincia a
prendere le distanze da Dio.
Fase I) = Rifiuto/Negazione
Linguaggio del silenzio
(2,13)
Gb ha iniziato ad elaborare il lutto, i
suoi tre amici sono accorsi per stare
con lui: per condividere il suo dolore e
consolarlo (2,12). Nessuno di loro
parla: il dolore di Gb è troppo grande
e si sentono in soggezione (2,13).
Linguaggio del dubbio
(3,1; 3,3-4; 3,6.7; 3,8; 3,10; 3,11-12;
3,20.24)
Rotto il silenzio, Gb ritratta, punto per
Fase II) = Rabbia
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punto, quanto detto sin d’ora (1,20-22;
2,8-10), confutando ogni affermazione
precedente.
Linguaggio della teologia
Nb. il linguaggio della teologia non può
essere incasellato nella fase della rabbia e
non è ancora propriamente inserito nella
fase del mercanteggiamento. Potremmo
dire che si colloca in un momento di
transizione tra le due. Costringerlo a
forza nell’una o nell’altra equivarrebbe a
comportarsi in maniera pedante e
dogmatica…come gli amici di Giobbe!
E’ la teologia dinamica (dal basso) di
Gb, contrapposta alla teologia statica
o “dogmatica” (dall’alto) dei tre
amici.
Nb. I riferimenti testuali relativi alla
teologia di Gb sono numerosissimi, per
esigenze di spazio si rimanda alla
dispensa relativa al secondo incontro,
punto 4), pag. 11, “argomentazioni di
Gb”, dove i riferimenti testuali sono
stati, a suo tempo, puntualmente
indicati.
Linguaggio della preghiera
Fase III) = Mercanteggiamento
Come precedentemente evidenziato, la
preghiera di Gb non è ortodossa, ma
riflette il suo stato di profonda
disperazione ed assume i connotati ora
della supplica, ora della promessa, ora
del ricatto morale verso Dio.
Nb. Anche in questo caso, per i
riferimenti testuali, si rimanda alla
dispensa relativa al secondo incontro,
punto 5), pag. 12.
Linguaggio del silenzio
Attenzione! Si tratta di un silenzio
diverso da quello esaminato alla fine
del cap. 2, quando Gb ed i suoi amici
tacciono per sette giorni e sette notti
(2,13). Quel tipo di silenzio si colloca
nella fase del rifiuto/negazione ed è
prodromico alla successiva fase della
Fase IV) = Depressione/Isolamento
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rabbia, la quale inizia, appunto,
quando Gb non riesce più a contenere
le proprie emozioni e ricomincia a
parlare (utilizzando il linguaggio della
rabbia) all’inizio del cap.3.
Questo tipo di silenzio, invece,
coincide con la fase della depressione,
quando il malato (nel nostro caso Gb),
consapevole della infruttuosità del
mercanteggiamento,
si
isola
dall’ambiente
circostante,
concentrandosi
nella
propria
introspezione.
Linguaggio della mistica
Abbiamo accennato al significato
etimologico del termine “mistica” (dal
greco μιέιν = chiudersi, tacere). Il
mistico dialoga con il mistero
(μυστήριον = stessa etimologia di
mistica) senza la necessità di parlare,
ma nella silenziosa contemplazione. E’
anche
questa,
se
vogliamo,
un’ulteriore accezione di linguaggio
del silenzio: questa volta indicativo di
una tale intimità con l’interlocutore da
non necessitare di parole per
comunicare (40,4-5).
Fase V) = Accettazione
Il lettore accorto avrà notato che, all’interno dei vari livelli di linguaggio
parlati da Gb, ricorre più volte (tre per la precisione) il linguaggio del silenzio,
in corrispondenza di altrettante e distinte fasi di elaborazione del lutto
descritte dal modello di Kübler-Ross. Occorre precisare che si tratta di tre
diverse accezioni di “silenzio”, che vanno opportunamente distinte tra di loro.
Anche in questo caso, uno schema ci aiuterà a distinguere meglio i succitati
tre linguaggi del silenzio.
Schema relativo alle tre diverse accezioni del linguaggio del silenzio.
FASI di KUBLER-ROSS
LINGUAGGI del SILENZIO
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Fase I) =
Rifiuto/Negazione
Fase IV) =
Depressione/Isolamento
Fase V) = Accettazione
Siamo agli inizi del lungo percorso di elaborazione del
lutto: esaurite le pie formule stereotipe (1,21)
successive alla prima prova e pronunciata la breve ed
ambigua replica alla moglie (2,10), al termine della
seconda prova, Gb si ritira in un doloroso silenzio. A
questo punto entrano in scena i tre amici, accorsi per
consolare Gb e condividere il suo dolore (2,12).
Esperite alcune formule rituali collegate al lutto (2,12),
gli amici si siedono per terra accanto a Gb (2,13).
Nessuno di loro parla: il dolore di Gb è troppo grande
e si sentono in soggezione. Per sette giorni e sette notti
regna il silenzio (2,13). All’inizio del terzo capitolo Gb
rompe il silenzio ed inizia a parlare, maledicendo “il
suo giorno”, cioè la sua nascita, il suo essere al mondo
(3,1). Il lungo periodo di silenzio ha consentito a Gb di
comprendere l’effettiva gravità della sua situazione.
Alla luce di questa acquisita consapevolezza si compie
la transizione dalla fase del rifiuto/negazione a quella
della rabbia.
Sperimentata
l’infruttuosità
della
fase
del
mercanteggiamento, viene meno ogni interesse a
perorare ulteriormente la propria causa. A questo
punto, Gb tace di nuovo: “Fine delle parole di Giobbe”
(31,40b). Pur rimanendo coerente con se stesso e
continuando a professarsi innocente (34,5b; 27,5-6;
10,7; 16,17; 23,10), Gb rinuncia al confronto dialettico
con i tre amici e con il profeta Eliù, il quale,
inutilmente, lo invita più volte a replicare (33,5;
33,32.33). Gb si isola dall’ambiente circostante,
concentrandosi nella propria introspezione. E’ il
linguaggio del silenzio caratteristico della fase della
depressione/isolamento.
Abbiamo più volte ribadito l’importanza della fase
dell’isolamento, un periodo delicato ed indispensabile,
durante il quale il malato ha la possibilità di
ricomporre i propri conflitti interiori e di acquisire una
nuova consapevolezza di sé. Si tratta di una fase assai
complessa da gestire per coloro che assistono il
paziente: è necessario non farlo sentire abbandonato,
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rispettando, al contempo, la sua intimità. Nel silenzio
finale di tutti gli interlocutori, Gb riesce ad entrare in
sintonia con Dio che parla al suo cuore (40,2). Gb
ascolta e tace, ma il silenzio attuale è diverso dai
precedenti: non è il silenzio dell’incredulità e dello
shock (fase I), né quello della depressione e
dell’isolamento (fase II), ma quello fiducioso del figlio
che si abbandona alla voce del Padre. Dio parla a Gb e
la parola implica la relazione. Gb esce dall’isolamento,
diviene sempre più cosciente di sé ed il contatto che ha
con Dio è dei più profondi: “Ti conoscevo per sentito
dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto” (42,5). Gb è
passato ad un nuovo linguaggio, quello della mistica. Il
mistico dialoga con il mistero (μυστήριον, stessa
etimologia di mistica = μιέιν = chiudersi, tacere) senza
la necessità di parlare, ma nell’intimo silenzio della
contemplazione.
II.
Il secondo tema, quello relativo alla confutazione ed al superamento della
teologia della giustizia retributiva di Dio è l’oggetto di questo nostro terzo
incontro.
IL SUPERAMENTO DELLA TEOLOGIA DELLA GIUSTIZIA
RETRIBUTIVA DI DIO
La sofferenza rappresenta senza dubbio un tema centrale all’interno del Libro di
Gb, il cui protagonista è un uomo “integro e retto, timorato di Dio e lontano dal
male” (1,1.8; 2,3), che gode di un’ottima e meritata reputazione, non solo presso gli
uomini (4,3-6), ma anche presso Dio (1,8; 2,3). Gb viene definito come “il più
grande tra tutti i figli d’oriente” (1,2) e il fatto che sia stato benedetto con una vita
piena di doni (1,1-6) ne è la più chiara conferma. Come spiegare, allora, la sua
improvvisa disgrazia? Nei precedenti incontri abbiamo osservato che la malattia, la
sofferenza e la morte costituiscono aspetti misteriosi ed inquietanti dell’esistenza,
dinnanzi ai quali l’umana comprensione rivela tutti i suoi limiti. Quando poi tali
eventi irrompono nella vita di un innocente, quale è Gb, il mistero diventa scandalo
(σκάνδαλον = inciampo) ed esige, oltre ad una risposta, anche una giustificazione
(teologicamente parlando, una teodicea).
La teologia della giustizia retributiva di Dio, detta anche teologia della
retribuzione, rappresenta un tentativo di fornire una risposta a questo tipo di
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domande. Nel primo incontro abbiamo fatto accenno ad una prima, generica
interpretazione della teologia della retribuzione, riassumibile nella concezione
secondo la quale, nel mondo, esisterebbe un ordine ben preciso, tale per cui il
giusto viene benedetto da Dio ed il peccatore punito. In una prima approssimazione
questa sommaria definizione può anche bastare, ma, giunti a questo punto,
accontentarci di una descrizione così vaga significherebbe liquidare con colpevole
superficialità un tema ben più complesso. Sarà opportuno, allora, approfondire la
disamina della teologia della retribuzione, analizzandone le origini e confrontando
le sue diverse applicazioni, non solo nel Libro di Gb, ma anche in alcuni altri testi
sapienziali dell’A.T.
Prima di procedere in questa direzione, tuttavia, è necessario fornire
preliminarmente qualche riferimento cronologico relativo al periodo di redazione
dei testi sapienziali, al fine di comprenderne meglio il significato, alla luce dalla
loro collocazione all’interno della storia di Israele. Sappiamo, infatti, che tutta la
Bibbia è un testo sacro rivelato, cioè redatto da un autore umano, divinamente
ispirato, il quale scrive con le categorie culturali e con la sensibilità proprie del
tempo in cui vive. Pertanto un’esegesi corretta sotto il profilo metodologicoscientifico non può mai prescindere dal contesto storico nel quale l’opera letteraria,
sia essa sacra o profana, è stata concepita e composta. Proprio per questo motivo il
metodo storico critico, sviluppatosi agli inizi del Novecento a partire dagli studi del
biblista tedesco Hermann Gunkel, tiene in grande considerazione sia il contesto di
formazione del testo (Sitz-im-Leben), che lo specifico genere letterario di
appartenenza.
Procediamo quindi evidenziando gli eventi costitutivi della storia di Israele,
ricordando che essi corrispondono alle tappe attraverso le quali si sviluppa la
rivelazione ed Israele acquisisce e consolida la propria coscienza di popolo (‘am)
eletto, in virtù dell’alleanza (ebraico: ‫ = תירב‬berìth, greco: διαθήκη) con Dio e
matura, al contempo, una teologia monoteista.

(XIX sec. a.C.) L’alleanza abramitica fonda l’origine del popolo ebraico.
Dio irrompe nella storia e si rivela ad Abramo, infrangendo la ciclicità del
tempo, per instaurare una relazione, una partnership con il patriarca ed il suo
clan. Si tratta di una auto-comunicazione gratuita ed unilaterale di Dio, che
non presuppone alcuna controprestazione da parte di Abramo che non sia il
riconoscimento della propria creaturalità (Gn 15,5) e la fiducia incondizionata
nella promessa ricevuta. Il Dio di Abramo è un Dio che entra in relazione, che
chiama ad uscire da Carran e dalle proprie certezze (Gn 12,4), ma è anche un
Dio che si impegna per il futuro e che promette, che è scudo (Gn 15,1) e
roccia (Dt 32,3.18.31; 2Sam 22,2.32.47; 23,3; Sal 18,2) su cui fare
affidamento. L’oggetto della promessa è duplice e consiste nella terra e nella
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discendenza (Gn 12,1-3.7; 13,14-17; 15,5), mentre il segno dell’alleanza
stipulata è la circoncisione, mediante la quale si perfeziona l’appartenenza
definitiva al popolo eletto (Gn 17,10-14).
L’arrivo di Abramo a Canaan viene collocato intorno al 1850 a.C. In
questa fase l’esperienza di Dio riflette una teologia ancora distante dal
monoteismo successivo; è più corretto parlare di monolatria (dal greco μόνος,
"unico", e λατρεία, "culto"), ossia il culto privilegiato, ma non esclusivo, del
Dio del patriarca e del suo clan. E’ l’esperienza di un Dio “incontrato sulle
vie del nomadismo e del deserto”, che entra nella piccola storia del clan ed al
quale viene riconosciuta una preminenza “de facto” sugli altri dei che
compongono il panorama politeistico delle popolazioni nomadi. Questa
concezione si riflette sul nome attribuito a Dio: “El”, che indica la divinità, a
cui si aggiunge un aggettivo che lo specifica, differenziandolo dagli altri dei e
facendone risaltare la potenza: “El-Elyôn” (Dio Altissimo, Gn 14,19-22); “ElSadday (Dio Onnipotente, Gn 17,1); “El-Olam” (Dio Eterno, Gn 21,23);
“Elohim” (plurale di “El”, utilizzato per esaltare la grandezza del Dio di
Israele “come il Dio per eccellenza”).

(XIV-XII sec. a.C.) In questo periodo avviene un massiccio, ancorché
frammentario esodo dall’Egitto. I discendenti di Giacobbe si erano stabiliti
nella zona del delta del Nilo a causa di carestie o per l’avvicendamento dei
pascoli ed erano stati in seguito emarginati dagli egiziani ed adibiti ad
occupazioni servili, quali la fabbricazione di mattoni per la costruzione della
città di Pitom (ebraico ‫םתפ‬, greco Ἠοώων πόλις, il nome egiziano significa
"casa di Atum" (Pi-Atum), presso la zona dei Laghi Amari, nella parte
orientale del delta. La permanenza in Egitto viene stimata in quattrocento anni
(Gn 15,13-14).
L’alleanza mosaica si colloca intorno al 1250 a.C. Nella teofania del
Sinai (Es 3-4) Dio si presenta a Mosè come il Dio dei padri, di Abramo, di
Isacco e di Giacobbe (Es 3,6.15-16), un Dio vicino al suo popolo, che si fa
carico delle sue sofferenze (Es 2,23-25) e che interviene per liberarlo e per
condurlo alla terra promessa (Es 3,7-10). In questa seconda stipulazione
dell’alleanza emergono alcuni elementi di novità rispetto alla precedente:
Israele è chiamato ad una controprestazione in risposta all’intervento divino in
suo favore e Dio si rivela a Mosè con il nome “Jhwh”.
Quanto al primo aspetto, il “codice dell’alleanza” (Es 20,22-23,19)
sancisce una serie di obblighi ai quali Israele deve adempiere per onorare la
partnership con Dio, che lo ha liberato. “La legge viene ad occupare dunque
il cuore del patto tra Dio e il popolo, costituendone l’essenza”. Ogni
successiva alleanza presupporrà sempre la centralità della Legge, la quale, nel
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giudaismo, diverrà uno dei pilastri del popolo, assieme all’Elezione ed al
Tempio.
Quanto al secondo aspetto, la rivelazione del nome di Jhwh, letta
congiuntamente all’evento della liberazione dall’Egitto, riveste un’importanza
fondamentale nel processo di sviluppo del monoteismo ebraico. Il Dio che si
rivela a Mosè sull’Oreb, presentandosi come il “Dio dei padri” (Es 3,6), si
qualifica simultaneamente come “Jhwh” (Es 3,14-15). Abbiamo già accennato
all’interpretazione etimologica del nome Jhwh ed alla connotazione dinamica
che il verbo ebraico “hajah” conferisce all’espressione “ehjeh asher ehjeh”,
ora occorre evidenziarne le implicazioni sul piano propriamente teologico. Il
Dio dell’alleanza mosaica è il Dio del passato, “il Dio dei padri, di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe”, ma anche del presente e del futuro: “Io sono colui
che è e che sempre sarà con te, perché sempre e stabilmente Io sono”. E’ il
Dio che, tramite la mediazione di Mosè, si lega ad Israele assicurando una
partnership stabile e fedele, per sempre. Con l’esperienza dell’Esodo e del
Sinai, Jhwh diventa il Dio di Israele e quest’ultimo matura la sua
autocoscienza di ‘am Jhwh (popolo di Dio), distinto e differente dagli altri
popoli stranieri, i goijm (‫)םיוג‬. Di conseguenza anche la teologia di Israele si
sviluppa, passando dalla “monolatria” ad un “mono-jahwismo” che si
manifesta come “monoteismo monogamico” e che si riflette nel Decalogo (Es
20,1-11), dove la proibizione di rappresentare di Dio mediante immagini è
riconducibile sia alla trascendenza di Dio, che alla sua “gelosia”.
Per quanto riguarda la trascendenza, il Dio dell’alleanza mosaica si lega ad
Israele e rivela quel nome che non aveva comunicato a Giacobbe (Gn 32,2541) ma rimane, al contempo, misteriosamente trascendente. L’esperienza di
Mosè (Es 33,17-23) e la complessità stessa, sotto il profilo concettuale, del
nome “Jhwh” riflettono l’esperienza di un Dio che si concede all’uomo come
partner, pur rimanendo totalmente “altro”.
Quanto all’elaborazione teologica, il mono-jahwismo costituisce
l’anticipazione di quel monoteismo che vedrà la sua definitiva affermazione
teoretica nel periodo del post-esilio, quando Israele riconosce Jhwh come
unico Dio, Signore onnipotente del cielo e della terra.

Dopo la morte di Mosè, Giosuè riunisce le dodici tribù di Israele e le guida
alla conquista della terra di Canaan, portando a compimento la promessa fatta
da Dio ai padri (Gs 21,43).
Il capitolo 24 del Libro di Giosuè attesta un’ulteriore alleanza: quella
giosuaica, stipulata tra Dio ed il popolo attraverso la mediazione di Giosuè.
Fulcro di tale alleanza è il riconoscimento di Jhwh quale unico Dio, fedele da
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sempre alle promesse stipulate con i padri, al quale Israele promette un culto
esclusivo (Gs 24,14-28).

Intorno al 1200 a.C. si forma la Lega delle dodici tribù attorno al santuario di
Sichem. Si tratta di una sorta di anfizionia (cioè di una lega tra città vicine ad
un santuario) con scopi essenzialmente cultuali, ma all’occorrenza anche
militari, finalizzati alla difesa dalle ricorrenti invasioni da parte di popolazioni
limitrofe (Edomiti, Moabiti, Ammoniti, Madianiti e, soprattutto, i Filistei, gli
odierni palestinesi). Le figure istituzionale dei Giudici (‫ פ ים‬, Shof'tim) sono
riconducibili a questo periodo storico, che si connota per la mancanza di un
potere centrale capace di garantire la coesione delle tribù e di porre un argine
alla contaminazione del culto e delle tradizioni sacre. E’ un tempo di
disordine e “di assimilazione religiosa in cui ciascuno faceva quello che «era
giusto ai propri occhi» (Gdc. 21,25). Di questi accenti di sfacelo si avverte
l’eco sin dall’inizio, al v. 1: «Dopo la morte di Giosuè...»”.
Nel XI secolo la costante minaccia dei Filistei, dislocati nelle zone
pianeggianti limitrofe alla costa del Mediterraneo, contribuì all’unione delle
tribù di Israele sotto la guida di re Saul, nel 1030 a.C. Questo momento
coincide con l’instaurazione della monarchia, un periodo che copre le vicende
di tre re, lungo un arco temporale di un secolo (1030-930 a.C.)
Alla morte di Saul (1010 a.C.), diviene re Davide, il quale ha una
preminenza indiscussa tra i re di Israele, sia rispetto al predecessore, che
rispetto a Salomone che ne erediterà il trono. Davide è un condottiero Omero lo definirebbe un ἄναξ ἀνδρῶν, “duce di uomini”- che sconfigge i
Filistei e conquista Gerusalemme ai Gebusei, portandovi l’arca dell’alleanza e
costituendola capitale del regno. Davide progetta anche la costruzione del
tempio, che verrà realizzato successivamente dal figlio Salomone. Ma, prima
di tutto, in Davide si incarna il principio dinastico e l’alleanza davidica viene
interpretata come “‫ – תירב‬διαθήκη” (2 Sam 23,1-7) e posta in connessione ed
in continuità con i precedenti patti abramitico e mosaico (1 e 2 Cron).
Alla morte di Davide, nel 970 a.C., sale al trono suo figlio Salomone, il
quale inizia la costruzione del tempio nel 969 a.C., portandola a compimento
sette anni dopo, nel 962 a.C. Salomone è un abile governante che modernizza
l’esercito ed allestisce una flotta commerciale, intrattiene proficui rapporti
commerciali con l’Egitto e la Cilicia e tesse intense relazioni diplomatiche,
perfezionandole mediante la conclusione di matrimoni (si dice che avesse 700
mogli e 300 concubine). Salomone è ricordato soprattutto per la sua sapienza,
alla quale fa riferimento 1 Re 4, 29 ss., e non è un caso che, in ambito
sapienziale, l’incipit del libro dei Proverbi contenga l’“accreditamento”
dell’opera a Salomone stesso (Pr 1,1). Tuttavia Salomone non nutre una
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religiosità profonda come il padre ed il suo regno, nonostante tutto il suo
splendore, rivela anche molte zone d’ombra. La grandeur del suo governo e
lo sfarzo del tempio vengono realizzati anche attraverso una pesantissima
imposizione fiscale che grava enormemente sui sudditi. Inoltre le intense
relazioni estere, intessute mediante matrimoni diplomatici, comportano la
necessità di allestire luoghi di culto per le diverse divinità venerate dalle sue
numerose mogli. Gerusalemme divine così un luogo di sincretismo religioso e
di idolatria ed il tempio un pantheon.
Alla morte di Salomone, nel 931 a.C., succede al trono il figlio Roboamo,
ma l’unità di Israele si infrange e nascono due regni distinti: il Regno di
Israele, a nord, con capitale Samaria, sotto la guida di un re ribelle di nome
Geroboamo ed il Regno di Giuda, a sud, con capitale Gerusalemme, sotto
la guida di Roboamo, figlio di Salomone. L’unità del regno, durata appena un
secolo (1030 a.C. – 930 a.C.) sarà sempre rimpianta dagli ebrei che
attenderanno un messia davidico che ripristini l’unità perduta e ricostituisca il
regno.
Nel 722 a.C. gli assiri espugnano Samaria e conquistano Israele (Regno
del Nord). Tutta la classe dirigente viene deportata in Mesopotamia e
sostituita con coloni assiri, che portano con sé i propri culti. La popolazione
rimasta perde lentamente la propria identità religiosa ed il culto di Jhwh viene
unito a quello delle altre divinità assire, corrompendosi in una religiosità
sincretista. Il disprezzo nutrito dai giudei nei confronti dei samaritani,
ripetutamente evidenziato nei quattro Vangeli, trova le sue origini in questi
eventi.
Nel 587 a.C. anche Gerusalemme viene assediata e distrutta, questa
volta ad opera dei babilonesi, guidati dal re Nabuccodonosor. Il tempio
viene distrutto e la classe dirigente deportata a Babilonia, nel Regno di Giuda
(Regno del Sud) rimangono poche migliaia di persone, appartenenti alle
classi più umili. E’ l’inizio della diaspora, la dispersione degli ebrei al di
fuori della Palestina.
Durante la permanenza a Babilonia Israele riflette sulla propria condizione
di popolo esiliato e disperso. Sotto un certo aspetto, questa condizione
raminga viene avvertita come intimamente coessenziale alla natura di popolo
pellegrinante di Dio e ricollegata all’esperienza dell’esodo dall’Egitto ed alla
condizione nomade di Abramo. Israele in esilio “avverte la diaspora come la
condizione esistenziale fondamentale: quando il Salmo 39,13 canta «io sono
un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri», non coglie un sentimento
passeggero, ma la condizione costante dell’ebreo”. Se tutto ciò è vero, è
peraltro innegabile che questa situazione viene interpretata alla stregua di un
14
“bando”, sancito da Dio in conseguenza dell’inadempimento, da parte del
popolo, delle clausole dell’alleanza. Rimane comunque, ed è bene
sottolinearlo, la consapevolezza di Israele di essere sempre e comunque ‘am
Jhwh, “popolo di Dio”, costituito come tale in virtù della stipulazione del
patto del Sinai: “Io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo” (Lv 26,12; Es 6,7;
Os 2,25). Israele è ‘am Jhwh molto prima di diventare una nazione
politicamente, con l’instaurazione della monarchia, e tale rimane dopo aver
cessato di esistere come Stato ed aver perso la propria terra con l’esilio. Il
termine ebraico ‘am riflette la consapevolezza di “un rapporto del tutto
particolare con Dio”, in forza del quale “Israele è sua proprietà, gli
appartiene” ed i “fedeli della diaspora saranno raccolti alla fine dei tempi”
(Ez 11,17).
Durante l’esilio a Babilonia il popolo ebraico avverte l’esigenza di
raccogliersi e riunirsi per mantenersi coeso e conservare la propria coscienza
di ‘am Jhwh, ripristinando, al contempo, quel canale di comunicazione con
Dio che non può più essere il culto liturgico del tempio, ormai distrutto, ma la
lettura della Scrittura. E’ in questo contesto che nasce la Sinagoga, “luogo di
riunione dei dispersi e punto di cristallizzazione delle comunità locali”.
Sinagoga deriva dal greco συναγωγή, “assemblea” ed è il termine utilizzato da
LXX per tradurre l’ebraico ‘edah, che indica la comunità dei fedeli radunata.
’Eκκλησία, da cui deriva il termine Chiesa, viene invece utilizzato da LXX
per tradurre l’ebraico qahal, che indica il bando di raduno dei fedeli. Qohelet,
libro sapienziale noto anche come Ecclesiaste, deriva appunto da qahal e
significa “colui che convoca l’assemblea”.
Nel 539 a.C. il re dei Persiani Ciro II conquista Babilonia, proseguendo
nella sua inarrestabile espansione territoriale ad occidente e diventa il sovrano
di un vasto impero. Illuminato e magnanimo, il re persiano si dimostra
rispettoso dell’autonomia religiosa dei sudditi e, nel 538 a.C., promulga un
editto con il quale consente ai giudei di rientrare nel loro paese e di
ripristinarvi il culto di Jhwh. Alcuni degli esiliati ritornano in Palestina, ma
molti altri preferiscono restare a Babilonia, che le nuove generazioni reputano
ormai a tutti gli effetti la propria patria.
Coloro che fanno ritorno a casa trovano un paese depresso dalla povertà e
privo di identità etnica a causa dei matrimoni misti tra gli ebrei rimasti ed i
coloni che si erano stanziati in Palestina in seguito all’invasione. La
commistione delle culture aveva influenzato anche il culto, che era diventato
sincretista. Anche per questo motivo i nuovi arrivati faticano a reintegrarsi
con coloro che sono rimasti. Ciononostante, nel 537 a.C., inizia la
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ricostruzione del tempio, che sarà completata dal governatore Zorobabele
intorno al 515 a.C.
Il periodo del post-esilio si caratterizza per l’attribuzione di una sempre
maggiore importanza alla Torah (Pentateuco), proclamata come “legge del
Dio del cielo” (Esd 7,11-26), per la centralità delle Istituzioni, prima tra tutte
il Tempio di Gerusalemme, e per l’attesa Escatologico-apocalitticamessianica. E’ la nascita del Giudaismo, termine con il quale si identifica la
religione e la cultura del popolo ebraico, che si definisce a partire dal postesilio e che prosegue sino al Cristianesimo, fondandosi sui tre pilastri della
Legge, del Tempio e dell’Attesa messianica. La società si articola in una
strutturazione teocratica incentrata attorno al culto nel Tempio, all’osservanza
scrupolosa della Legge ed allo zelo per la purezza della razza. Acquisiscono
grande rilevanza i sacerdoti e gli scribi, esperti nell’interpretazione della
Torah.
Un’ulteriore alleanza è quella profetica, che assume connotazioni ed accenti
diversi a seconda della personalità del profeta e del periodo storico in cui si
colloca. A tale proposito, seguendo un criterio cronologico, è possibile
suddividere i profeti classici ripartendoli in tre categorie, all’interno di un arco
temporale che va dal VIII al III secolo a.C. e che ha come punto di riferimento
centrale l’esperienza dell’esilio a Babilonia. In tal senso, con la doverosa
precisazione che si tratta di periodizzazioni meramente indicative, avremo:
1. i profeti pre-esilici, dal 760 circa al 587 a.C.: Amos (760-750), Osea (750725), Isaia (740-701 circa), Michea (730-680 circa), Sofonia (660-630), Naum
(630-612), Abacuc (612-598) e Geremia (627-585);
2. i profeti esilici, dal 587 al 538 a.C.: Ezechiele (593-587), Deuteroisaia (555539), l’anonimo autore delle Lamentazioni (di poco posteriore al 587 a.C.);
3. i profeti post-esilici, dal 538 al III secolo a.C.: Aggeo (520-519), Zaccaria
(520-518), Abdia (510 circa), Gioele (tra il V-III secolo a.C.), Malachia (520400), Tritoisaia (Is 56-66, 538-510 circa), Giona (dal V-VI secolo a.C.), Baruc
(dal III al I secolo a.C).

Il profeta è sempre un “chiamato da Dio”, il quale suscita in lui la
“vocazione profetica” in virtù di un’iniziativa libera e gratuita, che prescinde
totalmente da particolari qualità soggettive o doti personali del “vocato” e che
avviene con modalità di volta in volta differenti ed originali. Questa dignità
viene espressa nell’AT con il termine ebraico nabi’ ( ‫ ) בי‬che significa
appunto “colui che è chiamato”. La versione dei LXX traduce nabi’ con la
parola greca προφήτης, “prophétes”, da cui l’italiano profeta. L’etimologia
del termine greco προφήτης ci consente di cogliere un’ulteriore, fondamentale
connotazione dell’identità del profeta, inteso come colui che parla (φημί,
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“femì”) al posto o per conto (προ, “pro”) di qualcun altro (προφήτης è
composto dal prefisso προ e dal verbo φημί). Il profeta dunque si caratterizza
per questa duplice connotazione, di chiamato e di portavoce. Per tentare una
reductio ad unum di questi due aspetti si potrebbe definirlo come un
mandatario, responsabile di un mandato ben preciso, il cui oggetto consiste
nel servizio della Parola (‫ובר‬, dabàr) di Dio. In tal senso, il profeta riveste un
ruolo di intermediazione tra Dio ed il popolo, tra il mandante ed il destinatario
dell’oggetto del mandato. La parola affidata al profeta va annunciata nella
realtà concreta e spesso problematica del contesto storico in cui egli vive. La
storia è l’ambito in cui il profeta esercita la sua vocazione, leggendo la
presenza e la volontà di Dio nei fatti della vita quotidiana, interpretandoli alla
luce del suo carisma, per poi trasmetterne il significato ai suoi contemporanei,
in relazione alle specifiche necessità: facendo appello alla conversione o
minacciando un castigo, offrendo consolazione nelle difficoltà o intercedendo
ed esortando. Il profeta è necessariamente un uomo di relazione, con Dio e
con i propri contemporanei, investito di uno scomodo ruolo di mediazione tra
due poli spesso in forte tensione tra di loro. La sua non è mai una posizione
facile, il mandato richiede una duplice fedeltà, al mandante ed ai destinatari,
rispetto ai quali, peraltro, il profeta stesso si colloca in una posizione del tutto
particolare: di terzietà, in quanto messaggero/interprete, e di solidarietà, in
quanto membro a tutti gli effetti dell’’am Jhwh e compartecipe del comune
destino. La coerenza al mandato è sempre problematica e può esigere un
prezzo molto alto: “nemo profeta in patria” (Lc 4,24; Mt 13,57; Mc 6,4; Gv
4,44). Il profeta spesso vive il dramma del rifiuto della Parola, che si riflette
inevitabilmente sul latore della medesima. In questi casi la fedeltà alla parola
può portare ed esiti estremi ed il profeta diventare un martire (μάρτυς) e la
profezia (προφητεία, prophetéia), martirio (μαρτυρία, marturìa).
Già da questi brevi accenni risulta evidente che il profeta è un personaggio
complesso, non semplicemente riconducibile alla figura del veggente, come
spesso è percepito nell’immaginario collettivo. La profezia può anche essere
premonizione, ma altrettanto spesso può tradursi in interpretazione storica o in
coscienza critica del presente. Certamente il profeta è un mediatore, anzi si
può dire che si inserisce in una catena di mediatori, assieme al re ed al
sacerdote. Il mediatore “per antonomasia” dell’AT è Mosè: egli è l’unico
testimone della teofania sull’Oreb (Es 3,1-15), riceve il compito di guidare
Israele fuori dall’Egitto, verso la Terra promessa (Es 3,7-4,17; 33,1-6);
celebra il sacrificio ed unge Aronne e i suoi figli (Es 29,1-46); annuncia al
popolo la Legge ricevuta da Dio sul Sinai (Es 19-24; 33,11-23). Dopo la
morte di Mosè i suoi munera vengono trasferiti ad altri mediatori: il compito
di guidare il popolo passa a Giosuè, quindi ai giudici ed in fine ai re; la
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celebrazione del culto viene affidata da Mosè ad Aronne ed ai suoi
discendenti, per espressa disposizione di Dio (Es 40,12-15), mentre
l’interpretazione e la trasmissione della Legge diviene competenza,
inizialmente, dei sacerdoti e successivamente, nel periodo dei due regni e
dell’esilio, dei profeti, “spesso in forma polemica verso il sacerdozio
ufficiale”.
La lunga serie di alleanze appena elencate percorre svariati secoli e riflette
diverse tappe del processo di maturazione della fede di Israele, ma rivela un
comune filo conduttore identificabile nell’“assoluta, libera e gratuita iniziativa di
Dio di salvare l’uomo”, istituendo con lui una partnership rispettosa della sua libera
adesione. “Non c’è un’idea unitaria di alleanza, perché essa non è un principio
astratto, ma piuttosto uno schema interpretativo dei rapporti vissuti tra Dio e il suo
popolo entro la storia (…). L’alleanza è grazia libera ed esigente di Dio che si
dona all’uomo”. La successione nel tempo delle diverse alleanze riflette la
persistente e tenace apertura di Dio all’uomo: nonostante la fedeltà di Jhwh venga
sistematicamente ripagata con l’incostanza del popolo, la sua apertura di credito
non si esaurisce mai ed Israele passa di alleanza in alleanza, sperimentando ogni
volta la propria inadeguatezza, ma rimanendo sempre e comunque l’’am Jhwh, il
partner scelto e mai rinnegato.
Questo lungo excursus storico ci ha permesso di evidenziare le tappe principali
della storia di Israele; il riferimento ad una in particolare di queste tappe ci aiuterà
anche ad approfondire meglio la teologia della retribuzione e a comprendere in
che misura gli eventi storici abbiano contribuito a metterla in discussione, creando i
presupposti per il suo superamento e per lo sviluppo di una ulteriore teologia:
quella della creazione. Il periodo storico che ci interessa è quello dell’esilio a
Babilonia, che inizia nel 587 a.C. con la caduta di Gerusalemme ad opera di
Nabuccodonosor e si conclude nel 538 a.C. con l’editto di Ciro II, che consente agli
esuli di fare ritorno in Palestina.
L’esperienza dell’esilio segna profondamente il popolo di Israele,
costringendolo ad interrogarsi sul proprio rapporto con Dio. Non è un caso che,
proprio a partire dal post-esilio, si incominci a delineare un gruppo di scritti che,
pur con i dovuti distinguo, possiamo raccogliere sotto la comune etichetta di
“corpus sapienziale”. Il libro dei Proverbi raggiunge la sua forma definitiva verso
la fine del IV secolo; Giobbe conosce una lunga gestazione, ma la sua
formulazione definitiva è riconducibile al III secolo; Qohelet risale alla metà del III
secolo; Siracide agli inizi del II secolo; Sapienza alla fine del I secolo.
I sapienziali, come rivela il nome, sono un gruppo di testi legati da un tema
comune: quello della sapienza, la hokmah (‫)המכח‬. La concezione ebraica di
sapienza merita, a questo punto, qualche approfondimento dal momento che si
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presenta come un’entità poliedrica e piuttosto complessa, non riconducibile ad
un’unica dimensione, ma connotata da molteplici sfaccettature.
La nostra concezione di sapienza è tributaria della matrice culturale greca, alla
base del pensiero occidentale, ed appare caratterizzata da una dimensione
prettamente intellettualistica. Da Socrate a Platone, fino ad Aristotele la dimensione
teoretica della σοφία (sophia, sapienza) si sviluppa in maniera preponderante
rispetto alla componente pratica e la sapienza viene sempre più ad identificarsi con
la razionalità, qualificandosi con il quid proprio dell’uomo, il quale si differenzia
dagli altri animali in quanto ζῷον λόγον ἔχον, animale razionale (letterariamente,
“animale avente la ragione”. Aristotele, La Politica, Τὰ πολιτικὰ).
Per i saggi di Israele la sapienza non è riconducibile esclusivamente alla
dimensione intellettuale, che pure indiscutibilmente le appartiene, ma si caratterizza
per un’ulteriore connotazione: la hokmah è la “capacità di intendersi bene di
qualcosa”, sia sul piano tecnico, che su quello pratico. In tal senso l’hakàm (il
saggio) è colui che, nel suo campo, “ci sa fare”, sia esso un abile artigiano ovvero
un accorto governante. Sotto questo profilo la hokmah ebraica è concettualmente
affine alla perizia, quella particolare capacità tecnica che assume uno specifico
rilievo anche nel nostro Codice Civile, in riferimento alla disciplina giuridica delle
obbligazioni.
Da un punto di vista più ampio, la sapienza ha anche una connotazione
progettuale, riassumibile nella capacità di iniziare un’impresa e di portarla a
compimento con successo.
Un’ulteriore, importantissima dimensione della hokmah è quella che potremmo
definire esistenziale, intesa come la “capacità di modellare rettamente la propria
vita” e di sapersi comportare correttamente nelle varie e mutevoli circostanze
dell’esistenza. In tal senso, nel precedente incontro abbiamo già avuto modo di
familiarizzare con una concreta attuazione pratica della hokmah: quella legata al
discernimento, al saper “leggere” le situazioni, regolandosi di conseguenza,
riconoscendo quando è opportuno parlare e quando, invece, tacere, dominando il
proprio linguaggio, nella consapevolezza dei suoi potenziali effetti.
La letteratura sapienziale riflette questa incredibile poliedricità di significati ed
il termine hokmah appare spesso abbinato ad altre “parole chiave” quali da’at (‫תעד‬,
conoscenza), bînah (‫ה יב‬, intelligenza), mûsar (‫מ ר‬, educazione, formazione). La
terminologia sapienziale contrappone spesso, nel medesimo contesto, la figura
dell’hakàm, il saggio, a quelle del kᵉsîl ( ‫ ) י‬e dello sakal, rispettivamente lo
“sciocco” e lo “stupido”.
La hokmah sapienziale ha una forte connotazione pedagogica ed è
teleologicamente orientata all’educazione della nuova classe dirigente ebraica. Lo
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scopo dei saggi d’Israele è quello di istruire i propri giovani petaim (inesperti),
affinché, ricevendo un’adeguata musar (formazione), diventino a loro volta degli
hakamìm (saggi). Il contesto vitale (Sitz im Leben) della letteratura sapienziale,
inizialmente riconducibile alla casa, diviene, successivamente, quello della scuola e
della corte. La sapienza più antica, preesistente all’esilio babilonese, era infatti
incentrata sulla trasmissione ai giovani dei valori familiari e s’inseriva nell’alveo
della trasmissione orale, di generazione in generazione, dei princìpi etico morali
legati al clan. Nel periodo monarchico l’educazione dei giovani si specifica e
specializza, diventando formazione dei funzionari regi, al servizio del re e del
governo. I contenuti del musar mantengono la connotazione etica originaria, ma
questa viene proiettata in un ambito diverso, non più familiare, ma istituzionale,
non più legato al ristretto ambiente del clan, ma a quello politico delle relazioni
internazionali. La hokmah diviene sempre di più “arte del buon governo”,
appannaggio di una classe sociale elitaria e privilegiata, quella degli scribi. Il libro
dei Proverbi, nella sua formulazione scritta, nasce come espressione di una sapienza
non più familiare, ma scribale e non è certo un caso che la sua paternità venga
artatamente attribuita alla figura del saggio governante per antonomasia: re
Salomone (Pr 1,1). In seguito alla fine della monarchia ed al termine dell’esilio
babilonese, le competenze della classe scribale vengono indirizzate al servizio del
Tempio ed all’interpretazione della Torah. Anche in questo nuovo contesto la
sapienza post-esilica mantiene comunque intatta la sua dimensione politica, come si
evince dai frequenti riferimenti all’onestà, al discernimento in quanto arte del saper
rettamente consigliare, alla capacità di interpretare correttamente la realtà ed al
saper mantenere un rapporto equilibrato con la ricchezza (Pr 1,1-7).
E’ con l’ausilio di questa complessa e multiforme hokmah che i saggi di Israele
del post esilio tentano di rileggere il loro rapporto con Dio, partendo proprio da
quelle domande che si manifestano, allora come oggi, come le più pressanti e di
difficile comprensione: quelle relative allo scandalo della sofferenza ed al mistero
della morte. I testi sapienziali sottopongono al vaglio della propria indagine la
teologia della retribuzione, cercando di verificarne la fondatezza. Le risposte
saranno diverse e in certi casi discordanti, ma mai banali.
La teologia della retribuzione si fonda sulla convinzione che Dio premia i giusti
(Pr 14,26-27; Gb 22,19-30) e punisce i malvagi (Pr 5,21-23; Gb 15,17-35; 18,5-21;
20,4.29; 22,15-18.20). Questa concezione è strettamente legata alla mancanza, nella
religiosità d’Israele, di un’autentica prospettiva escatologica, almeno fino al III
secolo a.C. L’assenza di una speranza oltremondana al di là di quella riconducibile
alla semplice permanenza nello she’ôl, luogo tenebroso ed oscuro, caratterizzato
essenzialmente dall’impossibilità di comunicare, postula necessariamente che ogni
retribuzione conseguente all’agire umano si collochi nell’orizzonte temporale della
vita terrena. Coerentemente a questa immanentizzazione dell’ἔσχατος, Israele
20
sviluppa una teologia che individua un nesso eziologico tra ogni azione umana ed i
suoi esiti, positivi o negativi. Tutto ciò non si traduce tanto nella convinzione che vi
sia un’automatica retribuzione, deliberata da “una sorta di tribunale celeste che
distribuisce premi e punizioni applicando un codice rigoroso”, quanto piuttosto nel
convincimento che l’agire umano determini delle precise conseguenze sul piano
pratico, di modo che “il bene chiama altro bene su chi lo compie”, creando un
circolo virtuoso, mentre il male genera immancabilmente altro male, il quale spesso
si riflette sul suo medesimo autore.
Sotto questo profilo la teologia della retribuzione si rivela più complessa e meno
ingenua di come potrebbe apparire a prima vista. D’altronde, la sapienza d’Israele è
caratterizzata da una fortissima connotazione pratica, legata alla concreta
esperienza quotidiana ed alla sua interpretazione critica. Proprio per questo motivo
l’esperienza traumatizzante dell’esilio a Babilonia mette in discussione questa
Weltanschauung, inducendo i saggi di Israele a verificarne la correttezza. In questo
senso, come anticipato poc’anzi, le risposte sono diverse ed originali.
Proverbi conserva un atteggiamento di grande fiducia nelle possibilità umane di
comprendere la realtà, nonostante questa si riveli intrinsecamente complessa. Si
tratta di un ottimismo epistemologico che deriva dalla consapevolezza che vi è un
preciso ordine nel mondo, posto direttamente da Jhwh, Dio provvidente e creatore.
In tal senso, il compito del saggio consiste nell’impegnarsi a comprendere la realtà
per come essa è, piuttosto che nel tentare di cambiarla. L’atteggiamento di fiducia
dei saggi che conduce all’accettazione della teologia della retribuzione non riflette
né un arrogante sopravvalutazione delle capacità umane, né un indifferentismo
morale nei confronti di chi soffre, quanto piuttosto l’umiltà del saggio dinnanzi alla
complessità del reale ed il conseguente affidamento in una ratio immanente alla
creazione, posta direttamente da Dio. In Proverbi la teologia della creazione non si
pone in conflitto con la teologia della retribuzione. In questo senso è emblematica
la figura della Sapienza personificata (Pr 8,22-31), preesistente alla creazione del
mondo e testimone privilegiata della medesima, posta in intima relazione con Dio
creatore e mediatrice benevola tra lui e l’uomo. Al riguardo appare
interessantissimo il confronto della terza parte del discorso di donna sapienza (Pr
8,22-31), con il prologo del Vangelo di Giovanni (Gv. 1,1-14).
Siracide si colloca in un periodo storico posteriore rispetto a Proverbi: siamo
agli inizi del II secolo e Israele si trova a misurarsi con le suggestioni del mondo
greco ellenistico. Tuttavia, il dialogo con queste nuove realtà non avviene in
maniera integralista, ma all’insegna di un confronto aperto e sereno, che si fonda
sulla consapevolezza della propria identità culturale e sull’autorevolezza della
tradizione. Anche Siracide ricorre all’espediente letterario del discorso di donna
sapienza (Sir 24,1-22) ed anche in questo caso, come in Proverbi (Pr 8,22-31), sono
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interessantissimi i riferimenti alla Genesi (Gn 1,1) e al quarto vangelo (Gv. 1,1-14).
Al riguardo si noti la preesistenza della Sapienza rispetto alla creazione (Sir 24,9)
ed al porre la tenda (Sir 24,8 e Gv 1,14).
Il libro della Sapienza si colloca alla fine del I secolo ed anche questo, come il
Siracide, si confronta con le suggestioni della cultura ellenistica. I suoi destinatari
sono i giovani giudei di Alessandria d’Egitto, il luogo in cui, non ha caso, è stata
realizzata la cd traduzione dei LXX. La sua finalità consiste nel preparare i futuri
funzionari alle responsabilità che li attendono in seno alla comunità e nel
consolidare in loro il legame di appartenenza alla tradizione dei Padri, evitando le
seduzioni della cultura ellenistica. Anche il libro della Sapienza è caratterizzato da
una Weltanschauung positiva, che radica il suo ottimismo nella provvidenza di Dio,
creatore onnipotente che ha predisposto tutte le cose εἰς τó εἶναι, per l’essere,
perché esistano (Sap 1,12-15). Per la prima volta la giustizia di Dio viene definita
ἀθάνατος, immortale (Sap 1,15), mentre la morte (θάνατος) fisica, di contro, viene
spogliata di ogni accezione punitiva e considerata come una circostanza naturale,
caratteristica della natura creaturale dell’uomo. La teologia di Israele si è aperta alla
dimensione escatologica e la teologia della retribuzione ha perso il presupposto
logico che la sosteneva e che si identificava con la necessità di una consequenzialità
diretta tra l’agire dell’uomo e la sua ricompensa, la quale doveva essere
necessariamente immanentizzata nella vita terrena. Per il sapiente la vera felicità
non va ricercata nei valori tradizionali della vita lunga, serena, colma di successo
(Gb 1,1-5), ma nell’ἀθανασία (immortalità), intesa non come caratteristica
intrinseca dell’anima umana, ma come dono libero e gratuito da parte di Dio e
come partecipazione dell’uomo alla sua stessa natura, cioè come relazione, vita
presso di lui (Sap 3,1-9). Sapienza dialoga con l’ellenismo recependone il
linguaggio ed i concetti, per poi applicarli magistralmente alla teologia ed al
pensiero ebraico, in un confronto aperto e prolifico.
Il libro di Giobbe ed il Qohelet sono i testi sapienziali che, più di tutti gli altri,
mettono in discussione la teologia della retribuzione. Entrambi rifiutano di
ingabbiare Dio all’interno di una logica sinallagmatica. Per Giobbe non è
concepibile accettare un Dio il cui operato è totalmente imperscrutabile. Prima di
essere l’uomo retto, ingiustamente sofferente, Giobbe è l’uomo in ricerca della
verità, l’uomo che non si accontenta dell’approccio fideistico della teologia
dogmatica dei suoi tre amici, né dell’interpretazione profetica di Eliù (Gb 32-37), il
quale intende proporgli un’accezione pedagogica della sofferenza, indipendente
dalla logica della retribuzione e più in linea con la concezione greca del πάθει
μάθος. Per Giobbe il momento della verità coincide con quello della relazione con
Dio “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto” (Gb 42,5).
Sia in Giobbe che in Qohelet, la sofferenza e la morte sono un mistero ed uno
scandalo, ma in entrambi la reazione non è né un nichilistico abbandono della fede,
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né l’illusoria proiezione delle proprie attese in un aldilà che, soprattutto per
Qohelet, non esiste (Qo 3,18-21). Come precedentemente accennato, in questa fase
Israele non ha ancora sviluppato una teologia escatologica e i problemi della
sofferenza e della morte trovano una soluzione esclusivamente nella riscoperta di
una nuova relazione con Dio, un Dio misterioso ed assolutamente trascendente, che
non si lascia rinchiudere nell’angusta logica del sinallagma, ma che si rivela come
l’onnipotente artefice della creazione (Gb 39-41). Un Dio trascendente eppure
immanente nella creazione, con il quale reimpostare ex novo una relazione.
Per concludere, i testi sapienziali, Giobbe e Qohelet in primis, rivelano
l’impossibilità di comprimere il rapporto tra Dio e l’uomo all’interno di una logica
contrattuale e, segnatamente, di un rapporto sinallagmatico.
Nella dottrina civilistica il sinallagma è l’intima ratio del contratto consensuale a
prestazioni corrispettive. Con il termine sinallagma non si intende il motivo
soggettivo che induce la parte a contrarre (tale aspetto resta di per sé circoscritto
alla sfera privata, in quanto tale giuridicamente irrilevante, salvo i casi di illiceità
del motivo, ex art. 1418 c. 2 c.c., o di errore, ex art. 1427 c.c.) quanto piuttosto
l’intima ed essenziale struttura logica intrinseca al contratto. Il sinallagma (dal gr.
συνάλλαγμα, comp. di σύν “con” e ἀλλάσσω “prendere o dare in cambio”) indica il
rapporto di reciproca corrispettività ed interdipendenza tra le prestazioni delle
controparti e si sostanzia nelle formule “do ut des”, “do ut facias”, “facio ut
facias”, facio ut des” etc.
I sapienziali evidenziano l’inapplicabilità del sinallagma contrattuale al
rapporto tra Dio e l’uomo e la sua completa inadeguatezza a descriverne la
relazione.
Se nella dottrina civilistica del contratto il sinallagma illustra icasticamente le
dinamiche di reciproca obbligazione ed interdipendenza tra contraenti, esso rivela
tutta la sua inefficacia ove si pretenda di sussumere in tale schema il rapporto tra
Dio e l’uomo.
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