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IL FOGLIO CLANDESTINO DI POETI E NARRATORI APERIODICO AD APPARIZIONE ALEATORIA A NNO XVI – N UMERO S ESSANTAC INQUE – II/2008 – NUOVA SER IE SOMMARIO AFILDIPENNA: TRADUZIONE: TRA GLI SCAFFALI: INTERVENTI: SFULINGO: LETTERE: POESIA Fernando Pessoa: Angelo M. Ripellino: Alberto Rizzi: Matteo Pazzi: Piccola antologia: Della libertà… condizionata Libertà di Raymond Queneau Dmitrij Anatol’evič Grigor’ev (1960) traduzione di Paolo Galvagni Heberto Padilla (1932-2000) traduzione di Gordiano Lupi Alexandre Romanès (1951) Da Un peuple de promeneurs di Felice Bonalumi Heberto Padilla un poeta contro il regime di Gordiano Lupi Sguardo sulla lirica femminile… (II) a cura di Antonella Zambelloni Nel segno di Visnu e di Siva di Guglielmo Aprile E. M. Cioran, ‘divorare il silenzio’ (I) scelta e traduzione a cura di Massimo Barbaro Varlam Šalamov, Parole salvate dalle fiamme Il fiore che sei voglio… trad. di Leonardo Eriu Lazzaro si nascose in una tomba Da La luce, lo specchio Tre poesie inedite S. Aldeni, A. Cecchetti, A. Pardi, M. Fantuzzi, M. Fregni, V. Guaraglia, P. Lezziero, E. P. Taormina NARRATIVA Silvana Mosca: Coming out Ambrose Bierce: L’allucinazione di Staley Fleming Centocinquantarighe: Il viaggio della sirena di Annalisa Rossi L’artista: Claudio Parentela NOTIZIE 2 4 6 18 26 29 33 36 44 52 54 60 62 63 66 69 77 81 85 87 88 Afildipenna DELLA LIBERTÀ… CONDIZIONATA Chi legge queste e altre righe, sparse in editoriali, a volte anche saggi o autorevoli, certo non si interessa delle difficoltà relative alla creazione di una pubblicazione letteraria o culturale: lo sappiamo bene. Ci permettiamo però questa nota, lasciando poi spazio alla lettura. Talvolta si sente citare il quinto emendamento della Costituzione americana, che protegge la libertà individuale, mentre nella nostra Costituzione si legge, all’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Eppure… La nostra pubblicazione ha scelto di essere aperiodica, per diversi motivi, in pratica però non “deve” esistere, dato che non è possibile registrarla come tale presso il tribunale (per i periodici occorre un direttore responsabile, naturalmente un giornalista o pubblicista, seppure la categoria non brilli spesso per indipendenza e cultura letteraria); non è possibile usare il codice ISBN che è per i libri, né quello ISSN che è per i periodici… La strada della pubblicazione fuori commercio, senza scopo di lucro non è percorribile, pare, perché una casa editrice è pur sempre un’impresa commerciale destinata a creare utili (so che gli amici editori sorridono già amaramente)… e via di questo passo, verso il silenzio. E lo stesso problema condiziona i molti blog, notiziari e pubblicazioni on line, non periodicamente aggiornati e che non hanno impostazioni prettamente giornalistiche. Occupandoci di poesia (ne abbiamo la pretesa), tutti questi ostacoli ci fanno rabbia e, meno spesso, destano sorrisi. Vorremmo davvero che la poesia fosse il gratuito, il dono alto da condividere tra molti (anche se, come scriveva Paul Celan, questi sono “doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino”), ma sembra che la questione sia fumosa e controversa. Sappiamo che qualche rivista appone tranquillamente l’ISBN... Un’altra strada sarebbe quella di optare per numeri monografici o tematici, ma 2 Afildipenna questo lo riteniamo sempre un limite alla nostra libertà e non solo di stampa. Da qualche tempo ci siamo attivati per trovare almeno uno sponsor lungimirante (spero che anche questo “messaggio in bottiglia” possa aiutare), che ci liberi dall’obbligo di apporre un prezzo, gestire vendite e abbonamenti. I tempi, in ogni caso, non paiono essere i più propizi e del resto la parola cultura è ormai talmente atrofizzata o enfatizzata che è complesso anche spiegare un impegno così aleatorio come è quello di “volersi” occupare di letteratura e poesia. Già sentiamo aleggiare la domanda: sì editore d’accordo, letteratura: passi pure, ma, in realtà, che lavoro fai? Si vedrà. Per il momento abbiamo scelto: oltre a comporre e diffondere, malvagiamente, un nuovo numero dell’aperiodico, inseriamo in avvio il testo del Queneau surrealista. Decidiamo quindi, follemente senza dubbio, di brandire al vento e con tenacia, ancora una volta, la spada di legno dell’ironia. Sognando che quel legno possa germogliare, sempre e in ogni luogo, anche dentro di voi. Buona lettura. gg 3 Afildipenna LIBERTÀ di Raymond Queneau Libertà! Libertà! Centocinquanta anni fa (lo scritto è del 1924 n. d. c.), sei riuscita a gettare la Francia su tutta l’Europa; è vero che ad animare le armate rivoluzionarie erano a quel tempo soprattutto l’uguaglianza e la ragione. Ma ora, Libertà, ti vogliamo intera. Il potere conferito alle parole da quando gli uomini parlano cercando invano di aprire gli animi ai loro simili, è in te, Libertà, che mi pare più magnifico. Alle spaventose condizioni di vita che ci sono accordate, alle miserie quotidiane cui siamo condannati, all’ignominia di un mondo che dovrebbe essere mirabile, tale parola oppone le ultime energie della nostra disperazione. Quanto disprezzo i sociologi che hanno reso la libertà un simulacro infamante. L’hanno trasformata in un fantoccio per riunioni politiche, in una nuova oppressione, in una formula incisa nelle scuole, le caserme e le prigioni. Che dire degli inventori della «libertà attraverso l’autorità»! Che farmene di una simile libertà? È buona soltanto per i gabinetti dove la raggiungeranno l’uguaglianza e la fraternità fittizie di una Terza (?) Repubblica. Farfugliano all’infinito sulla libertà di coscienza, ma della libertà di esprimere il proprio pensiero non se ne parla mai, se non per limitarla e distruggerla (leggi contro gli scritti pornografici, le macchinazioni anarchiche ecc.). Non siamo liberi di agire, non siamo liberi di sentire: di carezzare certe donne, di vedere certi oggetti, di sentire certi profumi, di gustare certi cibi, di sentire certe parole. Leggete i cartelli: “Sala riservata” – “Museo segreto” – “Caccia controllata” – “Vietato al pubblico” – “Divieto di toccare, di entrare, di fumare” ecc. Guardate che resta della vostra libertà! C’è un pericolo ancora più grande: i legami sociali che limitano la nostra libertà all’esterno hanno il loro equivalente per la nostra libertà interiore. L’influenza dell’“ambiente sociale” sul 4 Queneau nostro pensiero è un luogo comune che i sociologi sviluppano con compiacenza (e per che inconfessabili scopi!). Costume, abitudine, linguaggio: oppressioni che non bisogna stancarsi di denunciare. Parliamo dunque della libertà dello spirito e della sua liberazione. Da ‘Textes surréalistes, 1924-1928’. Tratto da La donna, la libertà, l’amore. Un’antologia del surrealismo (a cura di P. Dècina Lombardi), Mondadori, Milano 2008. 5 Traduzione DMITRIJ ANATOL’EVIČ GRIGOR’EV (1960) БЕРЕМЕННЫЕ ГУЛЯЮТ ПО САДУ Беременные гуляют по саду, большими животами-аквариумами раскачивают, где человеческими рыбами шевелится растет их бессмертие, а я прохожу насквозь этот осыпающийся словами садик, пока не упало небо в пустые ладони деревьев, пока еще бледный всадник незаметен среди разноцветных детей на фоне белого снега. 6 Grigor’ev DMITRIJ ANATOL’EVIČ GRIGOR’EV traduzione di Paolo Galvagni Donne incinte camminano nel giardino Donne incinte camminano nel giardino, fanno dondolare i grossi ventri – acquari, dove come pesci umani si muove, cresce la loro immortalità, e io attraverso da parte a parte questo giardinetto che è cosparso di parole, finché il cielo non è caduto sulle mani vuote degli alberi, finché un cavaliere ancora pallido è impercettibile in mezzo ai bimbi variopinti sullo sfondo della neve bianca. 7 Traduzione ЖИЗНЬ В красной беседке – прекрасные женщины, в зеленой траве – кузнечики, в цветах – пчелы, а я – на куче песка, в моей руке птица – тоска, а в другой руке – вечности горсть, и пока это все мною схвачено словно мед течет время дачное, и проходит мимо ворот та, что косит и жнет. КАЛИНИНГРАД: ЛЕТО День становится тихим и вялым, гладит рукой невзрачный цветок, укрывается облаком-одеялом, и на губах оставляет песок. Пляжники, поеживаясь от холода, надевают юбки, надевают штаны, лишь собиратели янтаря голые бродят вдоль самого края волны, а над ними висит паутина чаек полетов в небе белёсом, а под ними в зелёной тине солнца погасшего желтые слёзы. 8 Grigor’ev LA VITA Nel chiosco rosso ci sono donne stupende, sull’erba verde – i grilli, sui fiori le api, e io me ne sto su un mucchio di sabbia, in una mano ho l’uccello-uggia, nell’altra – una manciata di eternità, e mentre tutto questo è afferrato da me, come miele fluisce il tempo alla dacia, e passa accanto alla porta colei che falcia e miete. KALININGRAD: ESTATE* La giornata diventa quieta e fiacca, accarezza con la mano un misero fiore, è nascosta da una nube-plaid, e sulle labbra lascia la sabbia. I bagnanti, rannicchiandosi per il freddo, indossano le gonne, indossano i pantaloni, solo i raccoglitori di ambra vagano nudi lungo il margine di un’onda, sopra di essi è sospesa la ragnatela dei voli dei gabbiani nel cielo biancastro, sotto di essi tra le alghe verdi campeggiano le lacrime gialle del sole scolorito. * Enclave russa sul Mar Baltico, tra Polonia e Lettonia. 9 Traduzione ТАНЦУЙ, САЛОМЕЯ, ЧЬЮ ГОЛОВУ ТЫ... Танцуй, Саломея, чью голову ты попросишь, кому в серебре на красном лежать снегу, белый ягнёнок давно принесен в жертву, и под землёй нарастает гул, ты стала другой, сквозь лёд пробивается пламя, и люди вокруг застыли камнями, даже птицы висят неподвижно когда ты взмахиваешь руками, танцуй между нами — мы еще можем кричать: Танцуй, пока время играет широким подолом юбки твоей разноцветной, огнём твоего костра! Но даже сбросив одежду и потеряв голову снять невозможно всё прошлое: эту родинку, этот шрам… 10 Grigor’ev Danza, Salomè, di chi chiederai la testa Danza, Salomè, di chi chiederai la testa, chi giacerà sull’argento nella neve rossa, un agnellino bianco da tempo è stato sacrificato, e sotto terra cresce il fragore, sei divenuta un’altra, dal ghiaccio spunta la fiamma, e attorno le persone sono irrigidite come pietre, perfino gli uccelli se ne stanno immobili quando tu agiti le mani, danza in mezzo a noi – possiamo ancora urlare: Danza, finché il tempo gioca con l’ampio lembo della tua gonna variopinta, col fuoco del tuo falò! Ma anche gettando gli abiti e perdendo la testa, è impossibile cancellare tutto il passato: quel neo, quella cicatrice… 11 Traduzione КОГДА ПОЮ, МНЕ ЛЕГЧЕ ДЫШАТЬ Когда пою, мне легче дышать, когда пою, поднимаясь наверх, песней я отпугиваю смерть – она не умеет петь. Она стоит в проеме окна и ждет, когда я замолчу, чтобы начать самой жить, а меня на стол положить, положить, словно праздничный торт, на котором и свечи, и крест, но который никто не ест, оставляя все на потом. Но пою – и легче дышать, поднимаюсь наверх не спеша, и странная тень в окне шелестит, подпевая мне. 12 Grigor’ev Quando canto, respiro più lievemente Quando canto, respiro più lievemente, quando canto, sollevandomi in alto, spavento la morte con le canzoni – essa non sa cantare. Se ne sta nel vano della finestra e attende che io taccia, per cominciare a vivere, e depormi sul tavolo,* depormi come la torta di una festa, sulla quale ci sono le candele e una croce, ma che nessuno mangia, lasciando tutto per dopo. Ma canto – ed è più lieve respirare, mi sollevo in alto senza fretta, e una strana ombra alla finestra fruscia, accompagnandomi nel canto. * Riferimento all’usanza russa di sistemare il defunto sulla tavola da pranzo. 13 Traduzione ЗАБОЛЕЛО ВРЕМЯ Заболело время, странные микробы в нем поселились: мельтешат, хвостиками машут – порой возвращается день вчерашний, а порой завтра приходит на день раньше, где микробов еще больше, потому и происходят недоразумения, стоит работа в недоумении, не случаются встречи, время уже никого не лечит, лишь напрасно людьми убивается и само в лечении нуждается. ХРАМЫ СТОЯТ ВДОЛЬ СТАРЫХ ДОРОГ храмы стоят вдоль старых дорог дьявол приходит на перекрестки А в стороне – совсем никого одни перелески да отголоски лисица по ветру держит нос ветер пахнет бензином и рыбой на доски гнилые, на мертвый погост небо бросает серые глыбы ржавое пламя мелькает по траве улитками смотрят чужие могилы кому ты продашь своих червей мой мертвый бог, мой милый? 14 Grigor’ev Si è ammalato il tempo Si è ammalato il tempo, strani microbi vi si sono stabiliti: balenano, dimenano le piccole code – talvolta ritorna la giornata di ieri, e talvolta il domani arriva un giorno prima, dove i microbi sono ancor di più, pertanto si verificano gli equivoci, il lavoro se ne sta imbarazzato, non avvengono gli incontri, il tempo non cura più nessuno, viene solo ucciso invano dalla gente, esso stesso ha bisogno di cure. i templi stanno lungo vecchie strade i templi stanno lungo vecchie strade il diavolo arriva agli incroci e di lato – non c’è proprio nessuno solo i boschetti e gli echi una volpe al vento regge il naso il vento sa di benzina e di pesce il cielo lancia massi grigi sulle assi marce, sull’esanime camposanto una fiamma color ruggine balena sull’erba come chiocciole paiono le tombe altrui a chi venderai i tuoi vermi mio dio morto, mio caro? 15 Traduzione МЫСЛИ Мысли пустые легкие будто пластиковые стаканчики в каплях красного вина улетают по ветру из летнего кафе: не все еще выпито, не все еще сказано, и девушка за стойкой танцует в ожидании гостей. 16 Grigor’ev I pensieri I pensieri vuoti leggeri come bicchierini di plastica coperti da gocce di vino rosso se ne volano sul vento da una caffetteria estiva: non tutto ancora è stato bevuto, non tutto ancora è stato detto, e la ragazza dietro il bancone danza in attesa degli ospiti. Dmitrij Anatol’evič Grigor’ev nasce nel 1960 a Leningrado/Pietroburgo, dove vive tuttora. Studia chimica nella sua città. È poeta e prosatore. Ha svolto i lavori più vari: cementista, carpentiere, decoratore, redattore, fuochista. Grande viaggiatore, ha esplorato molte montagne (dal Caucaso all’Himalaya). Sino al 1989 i suoi versi circolavano negli ambienti samizdat. Dal 1990 i suoi versi sono apparsi sulle riviste «Černovik», «Arion», «Neva», «Indeks», «Futurum Art», «Rodnik», «Mnogotočie», «Zerkalo», «Zvezda», «NLO», «Kreščatik», «Družba narodov» e nei volumi collettivi: Vremja Č [L’ora X] (2001), Russkij verlibr [Il verso libero russo] (2002), Legko byt’ iskrennym [È facile essere sinceri] (2002), Stichi v Peterburge [Versi a Pietroburgo] (2005). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Stichi raznych let [Versi di vari anni] (1992), Perekrëstki [Incroci] (1995), Zapiski na obočine [Appunti sul ciglio della strada] (2000) e i romanzi Poslednij vrag [L’ultimo nemico] (1994), Storož noči [Il custode della notte] (1996), Gospodin veter [Il signore vento] (2002). Al 2005 risale il volume Ognennyj dvornik [Il netturbino infuocato], che raccoglie racconti e versi. Cura il sito http://www.geocities.com/vrpdg. 17 Traduzione HEBERTO PADILLA (1932 – 2000) EL ÚNICO POEMA Entre la realidad y el imposible se bambolea el único poema. Retenlo con las manos, o con las uñas, o con los ojos (si es que puedes) o la respiración ansiosa. Dótalo, con paciencia, de tu amor (que él vive sólo entre las cosas). Dale rechazos que vencer y otra exigencia mucho mayor que un límite, que un goce. Que te descubra diestro, porque es ágil; con los oídos alertas, porque es sordo; con los ojos muy abiertos, porque es ciego. 18 Padilla HEBERTO PADILLA traduzione di Gordiano Lupi L’UNICO POEMA Tra la realtà e l’impossibile oscilla l’unico poema. Trattienilo con le mani, o con le unghie, o con gli occhi (se puoi farlo) o la respirazione ansiosa. Dotalo, con pazienza, del tuo amore (che lui vive solo tra le cose). Dagli rifiuti da vincere e altre esigenze molto più grandi di un limite, che un piacere. Che ti scopra abile, perché è agile: con le orecchie aperte, perché è sordo; con gli occhi molto aperti, perché è cieco. 19 Traduzione POÉTICA Di la verdad. Di, al menos, tu verdad. Y después deja que cualquier cosa ocurra: que te rompan la página querida, que te tumben a pedradas la puerta, que la gente se amontone delante de tu cuerpo como si fueras un prodigio o un muerto PARA ESCRIBIR EN EL ÁLBUM DE UN TIRANO Protégete de los vacilantes, porque un día sabrán lo que no quieren. Protégete de los balbucientes, de Juan-el-gago, Pedro-el-mudo, porque descubrirán un día su voz fuerte. Protégete de los tímidos y los apabullados, porque un día dejarán de ponerse de pie cuando entres. 20 Padilla POETICA Dì la verità Dì, almeno, la tua verità. E poi lascia che succeda qualsiasi cosa: che ti strappino la pagina preferita, che ti abbattano la porta a colpi di pietra, che la gente si accalchi davanti al tuo corpo come se tu fossi un prodigio o un morto DA SCRIVERE NELL’ALBUM DI UN TIRANNO Guardati dai titubanti, perché un giorno sapranno quello che non vogliono. Guardati dai balbuzienti, da Juan tartaglia, Pedro il muto, perché un giorno scopriranno la loro voce forte. Guardati dai timidi e dagli umili, perché un giorno smetteranno di alzarsi in piedi quando entri. 21 Traduzione BAJORRELIEVE PARA LOS CONDENADOS El puñetazo en plena cara y el empujón a medianoche son la flor de los condenados. El vamos, coño, y acaba de decirlo todo de una vez, es el crisantemo de los condenados. No hay luna más radiante que esa lápida enorme que cae de noche entre los condenados. No hay armazón que pueda apuntalar huesos de condenados. La peste y la luz encaramadas como una gata rodeando la [mazmorra; todo lo que lanzó la propaganda como quien dona un patíbulo; el Haga el amor no haga la guerra (esos lemitas importados de Europa) son patadas en los testículos de los condenados. Los transeúntes que compran los periódicos del mediodía por pura curiosidad, son los verdugos de los condenados. 22 Padilla BASSORILIEVO PER I CONDANNATI Il pugno in piena faccia e lo spintone a mezzanotte sono il fiore dei condannati. Il andiamo, cazzo, e smetti di dirlo tutto in una volta, è il crisantemo dei condannati. Non c’è luna più splendente di questa lapide enorme che cade di notte tra i condannati. Non c’è struttura che possa sostenere le ossa del condannato. Il puzzo e la luce arrampicata come una gatta che vaga per la [prigione; tutto quello che lanciò la propaganda come chi regala un patibolo; il Fate l’amore non fate la guerra (questi motti importati dall’Europa) Sono pedate nei testicoli dei condannati. I passanti che comprano i periodici del mezzogiorno per pura curiosità, sono i boia dei condannati. 23 Traduzione CADA VEZ QUE REGRESO DE ALGÚN VIAJE Cada vez que regreso de algún viaje me advierten mis amigos que a mi lado se oye un gran estruendo. Y no es porque declare con aire soñador lo hermoso que es el mundo o gesticule como si anduviera aún bajo el acueducto romano de Segovia. Puede ocurrir que llegue sin agujero en los zapatos, que mi corbata tenga otro color, que mi pelo encanezca, que todas las muchachas recostadas en mi hombro dejen en mi pecho su temblor, que esté pegando gritos o se hayan vuelto definitivamente sordos mis amigos. 24 Padilla OGNI VOLTA CHE TORNO DA QUALCHE VIAGGIO Ogni volta che torno da qualche viaggio mi avvertono i miei amici che accanto a me si ode un grande [strepito. E non è perché dichiari con aria sognatrice quanto è splendido il mondo o gesticoli come se camminassi ancora sotto l’acquedotto romano di Segovia. Può capitare che arrivi senza fori alle scarpe, che la mia cravatta abbia un altro colore, che i miei capelli incanutiscano, che tutte le ragazze appoggiate alle mie spalle lascino sul mio petto il loro tremito, che mi rimangano addosso le grida o siano diventati definitivamente sordi i miei amici. I testi in lingua originale sono tratti da: Fuera del juego – Edición Conmemorativa 1968/1998 – Ediciones Universal, Miami, Florida, 1998. Traduzione di Gordiano Lupi. 25 Tra gli scaffali ALEXANDRE ROMANÈS di Felice Bonalumi Gli elementi per fare di Alexandre Romanès un’icona romantica non mancano. Nato nel 1951 in una grande famiglia circense trasferitasi in Francia dall’Italia, quella di Firmin Bouglione, la lascia a 25 anni, perché il circo è diventato un’azienda, ha perso la sua magia. Una rottura, una ribellione: così deve essere interpretato, nella cultura tzigana, questo atto. Non solo: il gesto permette di interpretare da questo momento la vita di Alexandre Romanès come un impegno a recuperare la “vera” anima tzigana. Vive in una roulotte in un campo tzigano suonando musica barocca e del Rinascimento, impagliando sedie ed esibendosi in numeri di equilibrismo per strada. Nel grande campo nomadi di Nanterre, oggi smantellato, incontra Delia, gitana rumeno-ungherese: lei ha già tre figlie e un marito che se ne è andato, insieme di figlie ne avranno altre due. Un giorno del 1976, mentre sta facendo un numero in equilibrio sulla scala libera a Saint-Germain-des-Prés, lo avvicina Jean Genet: i due rimangono amici fino alla morte dello scrittore, nel 1986, e progettano insieme uno spettacolo circense di ben 4 ore, mai realizzato. Il richiamo del circo è nel sangue e nel 1994 Alexandre e Delia innalzano un tendone dietro Place Clichy a Parigi su un terreno che hanno gratis fino alla morte della ricca aristocratica e benefattrice, madame Carmignani. Un piccolo circo, il Cirque Romanès, che inizia tuttavia ad essere un punto di incontro di artisti. Ma soprattutto, il primo circo tzigano, con veri musicisti, acrobati e giocolieri tzigani. Nel frattempo l’imponderabile è successo: Alexandre, grazie a Delia, ha imparato a leggere e a scrivere. Non solo, comincia a riportare su un quaderno le storie che Delia gli racconta e suoi pensieri. Quando Christian Bobin, il grande scrittore, viene a sapere dell’esistenza di questo quaderno, gli propone la pubblicazione: è 26 Bonalumi il 2000 e appare Un peuple de promeneurs (éditions Le temps qu’il fait). Non è finita: nel 2003 Alexandre Romanès invia a Gallimard un suo quaderno scritto a mano. Questa volta ci sono poesie e nel 2004 esce Paroles perdues con la prefazione di Jean Grosjean, altro poeta e amico. A completare il quadro si possono aggiungere alcune dichiarazioni dello stesso Alexandre Romanès tra le quali quella per cui non riuscirebbe a leggere romanzi, mentre la Bibbia è il testo su cui torna ripetutamente. Ma è evidente che altro è il problema ed è lo stesso autore a porlo nella prima pagina di Paroles perdues: «Perché ho scritto? La scrittura non è una tradizione gitana. La poesia mi sembrava troppo elevata per me, inaccessibile, e poi io la vita volevo viverla, non scriverla. Io me ne sono fatto una ragione, ma il cielo no. Lentamente, al ritmo delle stagioni che passano, ho riempito un quaderno di scuola. Quello che so è che ci sono poeti che ammiro. Forse non ho sopportato di vederli passare. Ho voluto essere uno di loro.» La scrittura come strappo: credo sia questo il senso delle parole di Alexandre Romanès. Strappo rispetto a una tradizione orale anche se questo, per quanto importante, penso sia l’aspetto meno significativo. Si può al più dire che anche per i tzigani è arrivato il momento del passaggio alla scrittura, come per tante etnie nel passato. Strappo rispetto a una cultura scritta che ha nella poesia il momento più elevato. La cultura degli “altri”, di quegli “altri” che circondano i tzigani, è considerata non solo diversa, ma superiore, addirittura “inaccessibile”. Tuttavia scardinare quella porta è stato possibile, con uno “strascico” quasi teologico: il soggetto, Alexandre Romanès, se ne è fatto una ragione, “il cielo no.” Questo comincia ad essere un vero strappo: scrivere è essere individui, è porsi in una posizione diversa rispetto agli altri membri del proprio popolo. Certo, per quest’ultimo si scrive, ma l’interpretazione della vita e della realtà è irrimediabilmente personale. L’individualismo, centro della cultura degli altri, ha fatto capolino nel cielo dei tzigani e per questo, forse, il perdono non è possibile. Se poi si accetta la giustificazione che il poeta dà, questa appare 27 Tra gli scaffali paradossalmente quanto mai vera: ha voluto essere come uno dei poeti ammirati ed effettivamente la sua vita è costellata da molti poeti e scrittori che l’hanno conosciuto e frequentato. Vera perché in quel “non ho sopportato di vederli passare” c’è tutto il rapporto tra vita e morte che è importante nella cultura tzigana: dunque, la riconciliazione sperata se non raggiunta avviene recuperando uno dei centri della propria cultura. Eppure ho solo sfiorato il problema che è nel rapporto parola-vita: “e poi io la vita volevo viverla, non scriverla.” Questa affermazione ci dà la chiave di interpretazione sia delle poesie sia dei pensieri di cui qui presento una breve scelta. Il rapporto tra parola e vita è portatore di menzogna, sempre, e Alexandre Romanès non ha dubbi in proposito, al più tale rapporto si può mitigare, cercare di renderlo meno doloroso. Come? Quando la parola indica una sola cosa, nel senso di oggetto e/o di azione, quando la poesia e i pensieri/aforismi parlano di cose e non di idee, quando si accetta il silenzio davanti al cielo e non si cercano parole che sarebbero inutili. Ecco, allora il rapporto parola-vita non è più vero, ma certamente è più diretto. La “semplicità” delle poesie di Alexandre Romanès non è raggiunta per sottrazione, ma per addizione di parole alla vita e questa, per sua natura, vuole essere vissuta, non scritta. La sinteticità fulminante di tanti pensieri di Un peuple de promeneurs non è ricerca del colpo di scena o del bello: è la vita senza ornamenti, allo stato puro. Per lo meno quello stato puro che la parola, in questo caso scritta, concede. 28 Romanès ALEXANDRE ROMANÈS (1951) 1. La nonna alla nipote che sta per partire: «Ragazza mia, che Dio ti accompagni e che tu possa rubare molto oro!» 2. Delia: «La televisione è bizzarra: ci parla sempre del Papa, e mai di Cristo.» 3. Il mio bisnonno aveva tre donne e un orso. «Il noioso, diceva, è l’orso.» 4. Nella mia comunità, tutti gli uomini e tutte le donne più grandi di noi, li chiamiamo mio zio e mia zia, anche se li vediamo per la prima volta. 5. Delia: «Quell’imbecille di Alberto, ne ha combinate tante che Dorina l’ha lasciato. Non ha smesso di rimpiangerla. Lei aveva tutte le qualità: pulita, coraggiosa, fedele… e che ladra!» 6. Nella mia infanzia sono stato qualche mese a scuola, ma non hanno potuto tenermi: non si è mai riusciti a farmi sedere. 7. Accanto al circo c’è il cimitero di Clichy. Il solo posto tranquillo del quartiere. Ci vado spesso a passeggio con le mie figlie. Leggo su una tomba: Signor X, capoufficio. Che miseria… 8. Mio padre: «Non c’è vergogna ad essere battuto. La vergogna, è non battersi quando si deve.» 29 Tra gli scaffali 9. Doina, undici figli: «“Quello là, ieri, gli ho dato una bella scarica di botte, poi mi sono accorta, ma era troppo tardi, che avevo sbagliato bambino.» 10. A Tamara, undici anni: «Ti piacerebbe avere una casa?» «Per farne cosa?» 11. A ogni fermata, due legionari che ci seguivano, urtavano leggermente il dietro della nostra auto. Senza dire niente mio padre li seguiva con lo sguardo nel retrovisore. Dopo cinque o sei fermate, vedendo che mio padre non reagiva, sono scesi dall’auto, hanno aperto la nostra portiera e hanno detto a mio padre di uscire. Ero molto giovane, ma ho pensato: «E’ come voler far uscire una tigre dalla sua gabbia.» Quando si sono trovati per terra a supplicare mio padre di smettere di picchiarli, lui li ha messi sulla loro auto dicendo loro: «Se voi foste rimasti tranquilli al vostro posto, avreste l’aria intelligente come tutti.» 12. Marius: «Se la polizia ti arresta e ti trova addosso un coltello sei condannato. È quantomeno incredibile.» 13. Un violinista frequenta la figlia di un giudice. È invitato a cena per essere presentato ai genitori. L’atmosfera è fredda. Alla fine del pasto, il giudice dice al ragazzo: «Giovanotto, so perché siete lì, volete sposare mia figlia. Ma ciò non è possibile, perché ho saputo una brutta notizia: sembra che voi siate ungherese.» Il ragazzo: «State per avere un’altra brutta notizia: sono ungherese e tzigano.» 14. Un grande fast-food a Parigi. Tutte le sere dopo la chiusura, il padrone getta ciò che non è stato venduto e affinché il cibo gettato non possa essere recuperato dai clochard lo cosparge di vetri rotti. 30 Romanès 15. Un contadino offre il suo campo ai Gitani per passare l’inverno. Entro qualche giorno il campo è pieno di roulotte. Il villaggio passa da trecento a seicento abitanti. I commercianti sono contenti. Droghiere, panettiere, macellaio si fregano le mani. Tutti, tranne il libraio. 16. In Spagna le tigri di mio cugino Roland erano scappate. Sono state trovate tutte, meno una. Dopo una quindicina di giorni di ricerche viene trovata in una fattoria fuori mano, tenuta da una vecchia. Quando le hanno chiesto se non aveva avuto paura delle tigre, lei non ha capito niente. Lei trovava che mangiava molte galline e che era bella grossa, ma voleva tenerla. Mai, diceva, aveva visto un gatto così bello. 17. Una giovane donna era seduta davanti a una chiesa, con un cartello ai suoi piedi. Il testo cambiava tutti i giorni. Non capivo quello che scriveva, ma ciò non mi sembrava privo di interesse. Un giorno due portinai si fermano davanti a lei. Uno dice all’altro: «Non cercare di capire, è matta.» A voler essere troppo acuti, si passa per stupidi. 18. Mio cugino Sampion è furibondo: mi ha sentito dire alla radio che la nostra famiglia è gitana. Gli prometto di dire d’ora in poi che tutta la nostra famiglia è gitana, salvo mio cugino Sampion. 19. I Giuliani erano così poveri che non avevano niente per scaldarsi. La sera si picchiavano fra di loro per avere il cane nel letto. 20. A forza di entrare e uscire dal campo di Nanterre sorvegliato dai poliziotti della CRS, ho finito per simpatizzare con alcuni di loro. È così che un giorno un giovane CRS mi ha chiesto se potevo presentargli una giovane Gitana della quale si era innamorato. Era 31 Tra gli scaffali pronto a sposarla se le fosse andato bene. Passava le sue giornate seduto in alto su un mucchio di immondizie nella speranza di scorgerla. 21. A quindici anni mio cugino Roland ruba l’auto americana nuova di zecca di suo padre. Arriva a cento all’ora ad un incrocio. Frena, ma alla fine della corsa, investe un camion. Tutto il muso è sfondato. Scende dall’auto, scende anche il conducente del camion: è suo padre. 22. Entro in un ristorante self-service con mia figlia Azra, di due anni. Si passa davanti a decine di persone. Improvvisamente lascia la mia mano, corre in direzione di un clochard in fondo alla sala, si getta su di lui e lo abbraccia. Come è bello, non c’è niente da dire. 23. A quella vecchia signora che dormiva per strada, Lina chiede: «Allora voi non avete figli?» – «Sì, ne ho dieci.» – «E siete un mezzo a una strada?» – «Sì, avrei dovuto farne undici.» 24. Bisognerebbe avere due vite: una per imparare e l’altra per vivere. Da Un peuple de promeneurs, éditions Le temps qu’il fait, Cognac 2000. Traduzione di Felice Bonalumi. Un grazie all’amico Luciano Mutti che ha avuto la pazienza di leggere la traduzione di Un peuple de promeneurs Un grazie per i preziosi suggerimenti. F. B. 32 Lupi HEBERTO PADILLA, UN POETA CONTRO IL REGIME a cura di Gordiano Lupi Heberto Padilla nasce a Puerta del Golpe, Pinar del Río, Cuba, nel 1932. Trascorre la giovinezza nella sua provincia natale e si laurea in giornalismo all’Avana, insegna poi lingue in alcune università straniere. Scrive e parla francese, inglese, tedesco, russo, italiano e greco. Lavora come professore di inglese e commentatore radiofonico a Miami (1956-1959) per trasferirsi poi a New York, dove lavora come traduttore delle Escuelas Berlitz. Ritorna a Cuba ed è corrispondente di «Prensa Latina» a Londra e della «Pravda» di Mosca. Collabora alla rivista «Unión» e dirige “Cubartimpex”, organismo incaricato di selezionare i libri stranieri. All’interno della Rivoluzione Cubana occupa importanti incarichi direttivi, soprattutto nell’area delle relazioni diplomatiche, intrattenendo contatti con numerosi intellettuali stranieri. A partire dal 1966 comincia a commentare i problemi politici su «Juventud Rebelde», il giornale ufficiale della gioventù comunista. Nel 1967 si trova al centro di una polemica ideologica a causa del suo libro Fuera del juego. Nonostante tutto, nel 1968, quel volume ottiene il Premio Nacional de Poesía de la Unión de Escritores y Artistas de Cuba. La premiazione segna l’inizio delle difficoltà di Padilla, perché il comitato direttivo della UNEAC* considera il libro assai critico e polemico, “controrivoluzionario” e ne condanna il “contenuto ideologico”. Fuera del juego viene pubblicato preceduto da due dichiarazioni: quella di Padilla che si proclama fedele alla linea rivoluzionaria e quella dell’UNEAC che lo critica. La successiva lettura del nuovo libro di poesie, Provocaciones, davanti alla UNEAC, il 20 marzo del 1971, produce una ridicola autocritica imposta e la successiva detenzione dello scrittore. Nella primavera del 1971 il mondo conosce il “Caso Padilla”, una grande farsa montata dalle autorità culturali cubane e che ricorda i processi sovietici. Heberto Padilla e sua moglie Belkis Cuza Malé, 33 Interventi entrambi scrittori di riconosciuta grandezza, con opere premiate e un vasto curriculum nel mondo delle lettere, sono obbligati a ripetere un copione preventivamente concordato e orchestrato dalla Sicurezza di Stato. Nella cosiddetta autocritica Padilla si dichiara colpevole di essere un controrivoluzionario e di aver commesso una serie di crimini politici. Nella confessione coinvolge – come concordato – sua moglie: entrambi vengono incarcerati. Molti uomini di cultura del mondo, soprattutto di sinistra, reagiscono inviando lettere a Fidel Castro, facendo pressione al fine di ottenere la loro liberazione. A protestare non sono “intellettuali da salotto preoccupati solo di brillare e distinguersi in una società decadente”, come li definisce Castro, ma al contrario nomi importanti della cultura internazionale come Jean-Paul Sartre, Carlos Fuentes e Mario Vargas Llosa. Il Caso Padilla è la prima ferita aperta della Rivoluzione Cubana e la prima vera crisi attraversata dal “paradiso comunista”. Castro dice, riferendosi al libro Fuera del juego: «Per motivi di principio ci sono alcuni libri dei quali non va pubblicato né un esemplare, né un capitolo, né una pagina». Questa dichiarazione evidenzia a chiare lettere – se mai ce ne fosse bisogno – il carattere del suo regime e ancora oggi produce scandalo tra gli intellettuali democratici. Nello stesso congresso vengono dettate ridicole norme su come devono vestirsi i giovani cubani, prediligendo l’uso della guayabera* come “capo di abbigliamento tipico della identità nazionale”, ma persino la musica che deve essere ascoltata alla radio. Viene proibita in maniera ufficiale e radicale tutta la musica che può essere considerata deviazionismo ideologico, soprattutto il rock. Viene fustigata l’omosessualità in quanto delittuosa e si afferma che: «un omosessuale sarà portato davanti alle autorità e processato legalmente soltanto per la pubblica ostentazione della sua condizione». Heberto Padilla viene demolito dai membri dell’UNEAC (Nicolas Guillén in testa) che seguono alla lettera le indicazioni di Castro. Non tutti gli uomini di cultura cubani si schierano dalla parte di Castro, alcuni giovani intellettuali della zona di Santiago, dichiaratamente ribelli e controcorrente, difendono l’opera di Padilla. Le opinioni internazionali sul “Caso Padilla” si dividono. Da un lato c’è la maggioranza che considera l’autocritica come 34 Lupi una vera e propria farsa; dall’altro lato ci sono gli intellettuali allineati e disciplinati che definiscono l’autocritica genuina, considerano i due autori alla stregua di agenti della Cia che consegnano le armi al nemico e contribuiscono al deviazionismo ideologico. Padilla chiede a Castro il permesso di lasciare il paese, ma gli viene negato. Soltanto nel 1980 Padilla viene liberato e autorizzato a lasciare il paese. In questo stesso anno conclude il romanzo En mi jardín pastan los heroes, che viene tradotto in sette lingue (Nel mio giardino pascolano gli eroi, Mondadori – purtroppo fuori catalogo). Nel settembre del 2000, Padilla muore negli Stati Uniti, in una stanza d’albergo in Alabama, per un infarto. * UNEAC: Unión de Escritores y Artistas de Cuba. * Guayabera: modello tradizionale di camicia maschile. Il suo più importante libro di poesia è Fuera del Juego (premio «Julián del Casal», concorso UNEAC, 1968), ma vanno citati anche i precedenti: Las rosas audaces (1949) e El justo tiempo humano (1962) e i successivi: Provocaciones (1973), El hombre junto al mar (1981), Un puente, una casa de piedra (1998). Padilla scrive anche due romanzi come El buscavidas (1963) e En mi jardín pastan los héroes, (1986) e un saggio autobiografico come La mala memoria (1989). Di Heberto Padilla nulla risulta edito in italiano, a parte l’esaurita edizione suddetta. Che peccato! www.infol.it/lupi per contatti: [email protected] 35 Lirica femminile SGUARDO SULLA LIRICA FEMMINILE DEL CINQUECENTO (II) L’amore tormentato e la passione perduta: un petrarchismo sensuale a cura di Antonella Zambelloni Prosegue il nostro viaggio sulle figure femminili che si sono imposte a livello letterario per alcune composizioni poetiche peculiari. Se Veronica Gambara e Vittoria Colonna hanno elaborato, come osservato nello scorso numero, una lirica raffinata e ricca di molteplici spunti intimistici, ma che risentiva maggiormente dell’influsso petrarchesco, sia per la forma sia per le suggestioni tematiche, Gaspara Stampa e Veronica Franco si impongono invece per un petrarchismo estremamente sensuale, caratterizzato da una forte passione amorosa e da un’attenzione particolare per il corpo, i sensi e quindi l’attrazione fisica. È bene tener presente, infatti, che tradizionalmente il petrarchismo, sulla scia di ciò che aveva già fatto Petrarca, non ha mai connotati fisici, reali: di solito delinea la figura di una donna eterea, assente, immaginata solo dalla mente del poeta, che non sa come sia il tocco della sua mano, che non conosce il profumo della sua pelle, ma che la osserva da lontano, come un gioiello che è difficile da possedere. La distanza fisica e l’impedimento concreto al possesso della donna amata, creano nell’animo del poeta un sentimento di sofferenza, d’inadeguatezza, di struggimento estremo, ma è chiaro che questi sentimenti sono legati alla mente, alle idee, ai sogni. Spostare quindi l’attenzione su elementi reali, su sensazioni e sentimento che sono realmente provati, parlare di intimità e di amore concreto è chiaramente un’operazione ardua, estrema, non convenzionale per l’epoca e per tutta una tradizione letteraria che vedeva in Petrarca l’exemplum letterario da seguire e da conoscere. Se a questo salto tematico si aggiunge anche il fatto che sono due donne a trattare di sensazioni fisiche e di piacere amoroso, appare quindi evidente la portata di tale fenomeno. Non bisogna però ritenere che questa attenzione alla fisicità e alla corporeità sia una sorta di anticipazione al movimento letterario 36 Zambelloni che storicamente ha portato alla ribalta i sentimenti e le passioni, ovvero il Romanticismo ottocentesco. Ogni fenomeno letterario va inserito nel suo specifico contesto di origine e non possono quindi essere accomunati o paragonati due movimenti letterari così distanti: il peso della passione romantica è ben più forte e pregnante di questa letteratura, che in ogni caso rimane legata al clima lirico petrarchista. È certamente vero però che questa ricerca di descrizione e di delineazione di elementi corporei, concreti e reali dell’amore sarà un filone che si svilupperà con maggiore forza solo successivamente e che qui ha un valido precursore. È indubbiamente vero inoltre che questa mise en rélief della passione riprende, seppur in toni e modi diversi, la poesia elegiaca latina e greca che già aveva messo in evidenza il tormento amoroso legandolo a figure femminili o maschili reali, realmente vissute dal poeta. Tibullo, Properzio, Ovidio e Catullo, i maggiori poeti latini di età augustea, parlano nelle loro opere di donne passionali ma crudeli, che respingono il poeta dopo un breve momento di felicità vissuto insieme. Narrano di un amore che toglie le forze e il respiro, che fa soffrire perché non corrisposto, e che getta nello sconforto. Ma forse la referente più prossima alle nostre poetesse è la grande lirica Saffo che offre un’immagine semplice ma appassionata dei propri sentimenti, equilibrata ma coinvolgente, dove l’amore ha un ruolo da protagonista. Più di ogni altro poeta prima di lei, Saffo indaga sulle emozioni provate da una persona innamorata: si veda per esempio Amore la mia anima squassa come vento che sul monte tra le querce si abbatte. Ecco che Amore di nuovo mi dà tormento; Amore che scioglie le membra, Amore dolce e amaro fiera sottile e invincibile dove emerge il dissidio forte fra la felicità che l’amore provoca a livello di elevazione e la sofferenza determinata dalla sua perdita. Considerando questi elementi di principali si può ora effettuare una caratterizzazione più specifica di queste due figure ancora poco note nel panorama letterario. 37 Lirica femminile Gaspara Stampa fu una donna colta e raffinata, che ebbe una notevole educazione umanistica: conosceva bene la musica e l’arte ed era un’appassionata lettrice di poesia. La sua vita è incentrata sulla relazione con Collaltino di Collalto, signore della Marca trevigiana. La storia tormentata non si è conclusa felicemente: l’uomo non ricambiava in toto lo slancio affettivo della donna e per questo, dopo alterne vicende, decise di lasciarla definitivamente. I sonetti che compongono la raccolta della Stampa, oltre 300 liriche, si sono prestati ad essere considerati come la confessione di una donna legata alla travolgente passione amorosa per un uomo restio a ricambiarla. Ma non sarebbe corretto parlare di semplice diarismo: la donna è chiaramente interessata a lasciare una precisa immagine di sé, cioè di una eroina che rimane fedele all’amore, tanto da descriversi come subalterna e schiava al “disleal signore”: Io direi che pregaste prima Amore che facesse cangiar voglia e pensiero al nostro crudo e disleal signore; ma so che saria invan, perché sì fiero, così indurato ed ostinato core non ebbe mai illustre cavaliero. Oppure Or ti chiama fedele, or disleale; or fa pace con teco, ed or s’adira; ora ti si dà in preda, or si ritira; or nel ben teme, ed or spera nel male; or s’alza al cielo, or cade ne l’inferno; or è lunge dal lido, or giunge in porto; or trema a mezza state, or suda il verno. Ma la poetessa è bene attenta anche a descrivere quanto sia penosa e dolorosa la perdita, quanto sia tormentoso amare senza essere ricambiati, quanto costi continuare a sperare che la persona oggetto della passione si accorga finalmente di quanto le si possa offrire, e lo fa con una delicatezza e un’attenzione che sono del tutto femminili, con uno slancio che è intriso di dolore e angoscia, di quell’angoscia determinata dall’impossibilità, e dell’aspra denuncia alle pene che l’amato le procura: 38 Zambelloni Una inaudita e nova crudeltate, un esser al fuggir pronto e leggiero, un andar troppo di sue doti altero, un torre ad altri la sua libertate, un vedermi penar senza pietate, un aver sempre a’ miei danni il pensiero, un rider di mia morte quando pèro, un aver voglie ognor fredde e gelate La Stampa, attraverso questa enfatizzazione della negazione dell’amore e dell’impossibilità di essere amata, tende a rappresentare la sua naturale elevazione spirituale a sopportare tali sofferenze amorose, che un animo non così puro mai potrebbe tollerare. Il tutto attraverso un linguaggio agile e lineare, con un’attenzione alla musicalità, in netta ripresa del modello petrarchesco: basti leggere il sonetto di apertura per rendersene conto Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, in questi mesti, in questi oscuri accenti il suon degli amorosi miei lamenti e de le pene mie tra l’altre prime, ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, poi che la lor cagione è sì sublime. Diversa è invece la contemporanea Veronica Franco, per un’impronta più realistico-sensuale e quasi erotica dei suoi testi, che ha rinnovato il petrarchismo e il canone bembiano. Era infatti una cortigiana, come la madre, e nelle sue liriche, con acuto realismo e immediatezza, pone l’accento sulle prerogative del mestiere esercitato, esaltando le proprie qualità di amante. Ella si distacca tuttavia dalla letteratura oscena coeva, che fornisce però all’autrice il terreno per distaccarsi dai canoni elegiaci e da alcuni topoi tipici della letteratura amorosa (che la Stampa seguiva invece con maggiore attenzione), per un gusto invece discorsivo e colloquiale, garantito anche dall’utilizzo della forma lunga del capitolo in terza rima. Questo metro è quello più vicino alla lettera in versi, che la Franco utilizza, chiaramente come volontà di 39 Lirica femminile raccontare verità, quotidianità ed esperienze che devono parere, o essere, reali, non filtrate dalla letteratura. Le lagrime, ch’io verso, in parte il foco spengono; e vivo sol de la speranza di tosto rivedervi al dolce loco. Subito giunta a la bramata stanza, m’inchinerò con le ginocchia in terra al mio Apollo in scienzia ed in sembianza; e da lui vinta in amorosa guerra, seguiròl di timor con alma cassa per la via del valor ond’ei non erra. Quest’è l’amante mio, ch’ogni altro passa in sopportar gli affanni, e in fedeltate ogni altro più fedel dietro si lassa. Ben vi ristorerò de le passate noie, signor, per quanto è ’l poter mio, giungendo a voi piacer, a me bontate, troncando a me ’l martír, a voi ’l desio. Lontana dall’amante, nella prima parte del capitolo, la Franco soffre, piange e sospira, ricalcando i topoi elegiaci del rimpianto per l’amore in absentia. Ma nei versi qui presentati, ambientati a Venezia, dove la poetessa si ricongiunge con l’amato, parla del “dolce ristoro” che ella darà all’amato e che ella stessa prenderà, in “amorosa lotta” per ridere insieme delle sofferenze passate. E non esita addirittura a prendersi gioco della stessa poesia per celebrare le sue qualità amorose, come dice chiaramente nel capitolo che apre la sua raccolta: Cosí dolce e gustevole divento, quando mi trovo con persona in letto, da cui amata e gradita mi sento, che quel mio piacer vince ogni diletto, sí che quel, che strettissimo parea, nodo de l’altrui amor divien piú stretto. Febo, che serve a l’amorosa dea, e in dolce guiderdon da lei ottiene quel che via piú che l’esser dio il bea, a rivelar nel mio pensier ne viene 40 Zambelloni quei modi che con lui Venere adopra, mentre in soavi abbracciamenti il tiene; ond’io instrutta a questi so dar opra sí ben nel letto, che d’Apollo a l’arte questa ne va d’assai spazio di sopra, e ’l mio cantar e ’l mio scriver in carte s’oblía da chi mi prova in quella guisa, ch’a’ suoi seguaci Venere comparte. S’avete del mio amor l’alma conquisa, procurate d’avermi in dolce modo, via piú che la mia penna non divisa. E non esita anche a rivendicare la propria posizione sociale, di donna cortigiana, con forza e orgoglio degne di una vera dama: E se ben “meretrice” mi chiamate, o volete inferir ch’io non vi sono, o che ve n’en tra tali di lodate. Quanto le meretrici hanno di buono quanto di grazioso e di gentile, esprime in me del parlar vostro il suono. (XVI) I Capitoli migliori sono proprio quelli in cui la nostra poetessa si abbandona a questa sua vena spontanea, come quando, lamentando la lontananza dall’amato, scrive con disarmante onestà: Or mi si para il mio letto davante, ove in grembo t’accolsi, e ch’ancor l’orme serba di corpi in sen l’un l’altro stante. (XIII) Ancora una volta l’essere “sacerdotessa d’amore” influenza direttamente la scrittura della Franco: ella infatti, si rivolge ad Eros apertamente, senza essere costretta dalle convenienze a sublimare i suoi desideri umanissimi in casti languori. Un petrarchismo estremizzato, una poetessa elegiaca ma ormai attenta nel descrivere i veri moti del cuore e una che delinea la realtà con onesta partecipazione. Un tipo di lirica forte e sincera, fatta di sospiri e di sofferenze, di passione e di sensualità, come solo delle poetesse avrebbero potuto concepire. 41 Lirica femminile Gaspara Stampa nasce a Padova circa nel 1523, da una modesta famiglia milanese di commercianti gioiellieri. Nel 1531, la madre Cecilia, dopo la morte del marito Bartolomeo, si trasferisce a Venezia con i figli, ai quali impartisce un’educazione letteraria e artistica. La casa Stampa diviene presto un salotto tra i più frequentati dai maggiori musicisti, pittori e letterati di Venezia. Nel 1544, l’improvvisa morte del fratello Baldassarre (anch’egli rimatore di buona fama presso i contemporanei, anche se le sue rime furono pubblicate solo nel 1738) turba Gaspara a tal punto da farla allontanare dalla mondanità e meditare una vita monacale. Passata la crisi religiosa, torna alla vita del passato e alla spensieratezza amorosa. Vive un’esistenza libera, si suppone sia stata anche una cortigiana, stringendo relazioni con letterati e gentiluomini. Tra le numerose relazioni, probabilmente la più sentita è quella con il conte Collaltino di Collalto, al quale dedica gran parte dei 311 componimenti delle sue Rime. L’uomo, tuttavia, ricambia solo a tratti la passione di Gaspara, allontanandosi spesso da Venezia per lunghi periodi. Nel 1551, la loro relazione si interrompe definitivamente, ma Gaspara intreccia presto nuovi amori, il più durevole dei quali fu con il veneziano Bartolomeo Zen. Nel 1554 Gaspara muore dopo quindici giorni di febbri intestinali: è stato avanzato il sospetto, mai comprovato, di avvelenamento e sulla base di questo sospetto è stata avanzata l’ipotesi della morte per suicidio. Ma le notizie attendibili della vita di Gaspara Stampa restano poche e frammentarie. Il suo canzoniere, in cui si alternano gioie e angosce, è una delle testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile dell’epoca. I suoi scritti e la morte prematura fecero della Stampa una delle figure più caratteristiche del suo tempo. Tutte le opere, le Rime sopra citate, i sonetti, le canzoni e le sestine, furono pubblicate postume dalla sorella Cassandra, poco dopo la morte di Gaspara, e dedicate a Giovanni della Casa. 42 Zambelloni Veronica Franco (1545-1591) nasce a Venezia. È probabilmente l’esempio più celebre di cortigiana, ma possiede anche una cultura raffinata in ambito letterario e artistico. Figlia di una cortigiana onesta, Veronica in giovane età è iniziata a quest’arte dalla madre e usa le proprie doti naturali per contrarre un matrimonio finanziariamente favorevole. Si sposa giovanissima con un ricco medico ma il matrimonio finisce presto. Per mantenersi diventa una cortigiana d’alto rango. Grazie alle sue amicizie con uomini facoltosi ed esponenti di spicco dell’epoca, diviene ben presto molto conosciuta. Ha persino una breve liaison con il re Enrico III di Francia. Veronica Franco scrive due volumi di poesia: Terze rime nel 1575 e Lettere familiari a diversi nel 1580. Pubblica raccolte di lettere e un’antologia con le opere di scrittori famosi. Dopo il successo di questi lavori fonda un’istituzione caritatevole a favore delle cortigiane e dei loro figli. Nel 1575, durante l’epidemia di peste che sconvolse la città, Veronica Franco è costretta a lasciare Venezia e in seguito al saccheggio della sua casa e dei suoi possedimenti perde gran parte delle sue ricchezze. Al suo ritorno, nel 1577, si difende brillantemente durante il processo dell’Inquisizione che la vede accusata di stregoneria, ma è lei a vincere. Da quel momento però la sua vita è segnata da gravi difficoltà finanziare, che la costrinsero ad una esistenza in povertà. 43 Visnu e Siva NEL SEGNO DI VISNU E DI SIVA È possibile una convergenza tra poesia occidentale e Induismo? di Guglielmo Aprile L’esistenza del male e della violenza, delle calamità e delle malattie può contraddire la fede nel Dharma, il presunto ordine cosmico, che Eschilo riconosceva a sua volta negli Dei. Al di là dei rilievi formali che si potrebbero muovere alla mia scrittura, è questa la sua tara profonda. Nell’antico culto mazdaico, in Persia, il Sole (Mitra) era il dio che faceva da garante al piano provvidenziale inerente al Creato, difendendolo da tutti i demoni e irradiando la fede nell’animo degli uomini. La nostra visione del mondo, ‘nostra’ intendo da uomini bianchi della moderna era scientista, è storicamente viziata dall’attitudine al dubbio metodico e dalla riduzione dell’esistente alla sua sola dimensione materiale – sono questi i ‘demoni’ che già William Blake voleva combattere per una Rinascita spirituale dell’Occidente. Noi bianchi crediamo che la natura esista oggettivamente e che essa sia misurabile e calcolabile razionalmente; in Oriente, invece, la jnana, o ‘gnosi’, il raggiungimento dell’essenza, è possibile solo passando per una via interiore, tramite lo yoga, l’ascesi, disciplina praticata dai seguaci del dio Siva che abbandonavano la vita sociale e si ritiravano in solitudine nelle foreste; in Occidente abbiamo qualcosa di simile solo risalendo alla Grecia dei Misteri orfico-pitagorici. La meta dell’ascesi è detta dagli Induisti ananda, la beatitudine: non riconoscersi più come individui, ma come fasi del divenire universale; non avere più nulla a che fare con la ‘propria’ vita individuale, perché quella vita non fosse più la ‘propria’; sentirsi liberati dall’identificazione ad un essere finito, per farsi assimilare, inglobare nel respiro di Brahman, lo Spirito Cosmico, e quindi infinitizzarsi nell’impulso che fa esistere istante dopo istante il mondo e l’intera gamma delle sue forme particolari. Lo stesso Brahman riporta in sanscrito il sinonimo ham-sah, che significa anche “respiro”, a suggerire che le due sillabe che compongono 44 Aprile questo termine racchiudono il gesto della respirazione, quella del singolo individuo e quella del cosmo, l’alternarsi di sistole e diastole che soggiace a tutto ciò che si sviluppa su due poli ritmicamente speculari. Questo scioglimento dell’ego nell’unità del mondo e nell’universalità del vivente è l’apice della spiritualità induista, la ‘coscienza suprema’ a cui aspira il credente. Ma sono momenti molto rari, quelli in cui siamo illuminati da una tale consapevolezza. I maestri indù impiegano una vita a rendere permanente la condizione beatifica, per strapparla alla tirannia di una fortuita congiuntura propizia. Ci riescono tramite il sacrificio, la rinuncia agli egoismi, la soppressione dei poveri bisogni e delle pretese dell’io. Concentrarsi a tal punto su di sé, da ignorare le richieste del corpo. La Liberazione dall’essere fisico e dalle catene costituite da appetiti e desideri fa sì che resti solo l’io, il purusa, nella sua assolutezza, e si libri verso la comunione e l’identificazione con l’Io dell’universo. Anche l’universo, per l’Induismo, ha una sua coscienza, al pari degli altri esseri coscienti, gli uomini: anche l’universo è una Persona, o lo fu nella forma di Praja-pati, l’Essere Primordiale, prima dello smembramento di cui narrano i Veda, da cui ebbe origine il mondo. Noi non siamo semplicemente noi stessi: siamo, al contempo, anche l’universo. Per nostro limite, però, siamo coscienti solo di essere noi stessi, ci riconosciamo solo nel nostro esclusivo ego, e non siamo coscienti di essere anche tutto l’universo, oltre a noi stessi. Ci accorgiamo dell’esistenza di un Io Cosmico e di farne parte quando, ad esempio, udiamo il vento tra le canne o il mormorio del fiume che scorre, e tutto intorno è silenzio. In quel momento, il Cosmo sta pronunciando il proprio Io sono, ovvero sta sapendo di esistere. Il passo successivo è: diventare noi consapevoli, ascoltando il vento o il fiume, ma anche davanti alle onde del mare, che il Cosmo (d’ora in avanti lo nomineremo senza spavento con la maiuscola) sa di esistere, mentre il vento o il fiume scorrono: è allora che diventi cosciente di qualcosa di cui è cosciente tutto il Cosmo, e il tuo io si specchia e si scopre tutt’uno con l’Io del Cosmo, non più diviso o differenziabile da Esso, ma parti entrambi di una stessa realtà. Il tuo piccolo ‘io’ si salda all’Io immenso delle onde e delle galassie, 45 Visnu e Siva si annulla come soggetto individuale: e l’io in cui ti riconoscevi si fa lo stesso Io nel quale si riconoscono onde e galassie. Il tuo io sono diventa una funzione dell’Io Sono dell’Universo. Il tuo io dice io sono, e anche l’Io Cosmico dice Io Sono – e tu ti scopri una cosa sola con l’Io che dice Io sono in tutte le cose. Per cogliere un simile grado di osmosi con gli elementi da sentirli vivi, occorre spogliarsi della propria maschera sociale, per essere allo stesso modo di come è il vento, o una roccia, o una farfalla tra l’erba. Non vivere più per soddisfare le aspettative di felicità del tuo ego o per obbedire ai comandi del desiderio; abbandonare l’ego come non fosse più il tuo, staccarti da esso, rompendo il principio di identità che ti vincolava ad esso, per unire il tuo essere profondo a un’energia imprendibile e onnipervadente come il vento. La causa del fatto che noi soffriamo è nell’illusione di aver ancora a che fare con il finora nostro ego, nel non essercene ancora scrollati se non con la morte, almeno con una morte-invita; la Liberazione (mukty) avverrà quando avremo la forza di non riconoscerci più in esso, perché riconoscersi in esso vuol dire seppellirsi in esso. A quel punto, il tuo ego non esiste più di per sé: è solo una derivazione dell’Io di tutto il Cosmo. Così, tu non esisti come ente singolo, ma come raggio del sole universale (e noi esseri particolari siamo rispetto al Tutto nello stesso rapporto dei raggi rispetto al sole). La pienezza è diventare coscienti che l’io umano, alla sua essenza, si riduce all’Io Cosmico. Il dio non è un’entità staccata dall’io: è esso stesso l’energia che presiede all’attività spirituale di tale io, la permea, la sostanzia. Finché l’io resta spento, il dio resta altro dall’io; quando l’io si attiva, ovvero realizza la piena espansione delle proprie facoltà spirituali, si scopre esso stesso il dio. Per l’Induismo di ogni setta e orientamento non si può trovare dio se prima non si diventa dio. Lo scopo della ricerca interiore è scoprire che il nostro essere, nel suo stato più profondo, è già dio, e che il dio passa, evocato attraverso la meditazione, da uno stato potenziale a uno stato attuale; tale scavalcamento del sé individuale corrisponde alla apoteosi neoplatonica. Sgombrare il campo mentale da tutto ciò che intralcia in quanto è contingente, per ritrovare le fonti del proprio essere, dove attende, come in letargo, il divino. La parte di te che dice io sono, quella è già dio; così, è dio anche la parte di te 46 Aprile che ascolta la precedente dire io sono, e via all’infinito. Il dio che governa l’anelito dell’io verso l’autosuperamento mistico è Siva, il ‘dio delle altezze’, che ha dominio sulle grandi montagne e su tutte le forze spirituali votate a trascendere un limite. E forse l’universo tutto è stato concepito dalla coscienza di un dio: è una idea che abita la mente di Siva. E lo stesso Siva, secondo un mistico dell’VIII secolo, si riflette nell’intelletto umano (e in quello cosmico) al modo che il sole riverbera sulle acque, inafferrabile. L’essere, la prakrti passiva del mondo, è una emanazione di Dio; Dio si irradia in alberi e conchiglie, nei nostri pensieri. Se Dio è la luce in sé, il mondo è quella luce nel suo irradiarsi, essendo l’irradiarsi un modo di essere, una funzione di tale luce. La luce irradiata è quindi il mondo, ma essa è contemporaneamente Dio. Brahman sorvola le distese oceaniche e le vette, i deserti e le foreste, come una musica che risuona in ogni istante e in tutti i luoghi, anche se siamo a volte troppo distratti per non esserle sordi. Secondo un poema visunista in lingua tamil, i “Quattromila Canti”, Brahman è dentro l’universo e al contempo è altro da esso: è con l’universo nello stesso rapporto in cui sta uno specchio con l’immagine dell’oggetto da esso riflessa. Ricordo che rimasi folgorato da tale similitudine, che sarebbe divenuta poi il punto di partenza filosofico del mio libro. Come in ogni politeismo, anche per gli Induisti il dio è il principio che sta dietro il fenomeno naturale, e il fenomeno in sé, quale risvolto sensibile del principio; il cielo è una metafora di Varuna, e insieme Varuna è il cielo stesso. Per riconoscere l’Onnipresenza divina e annullarsi in Essa, bisogna inoltre ripulirsi gli occhi dal cinismo culturalmente ereditato dal cartesianesimo, lavare la nostra capacità di visione con un’acqua così pura che nessuna sorgente la sgorga da millenni, almeno in Europa. Una tale limpidezza di sguardo appartiene ormai solo ai bambini o ai pazzi, proviene dall’innocenza che consentì ai progenitori mitici di cadere nel meraviglioso equivoco del politeismo, quando scambiavano il suono del vento in una grotta per il lamento di un dio, o identificavano carri, navi o draghi unendo le stelle vicine con un filo invisibile. Capire che è artificiosa ogni divisione tra noi e l’esistente, ogni cesura tra l’essere cosciente dell’uomo e il 47 Visnu e Siva volo delle nuvole; non ha più senso pensare a noi e a un monte, a noi e a una stella marina come entità separate, diverse. Tale stato è per l’Induismo il samadhi, l’estasi, l’annullamento delle barriere ontologiche tra mente e cosmo, delle cortine che separano io e non-io, spirito e materia, infinito e umano, cielo e terra, divino e naturale. L’io del fedele, lo atman, e l’io Cosmico, variamente personificato in Visnu o Siva, si sono finalmente fusi; alberi, fiumi e stelle sono una espansione dell’io, li ritroviamo già o li accogliamo dentro la nostra mente, sono una proiezione di noi stessi, ma allo stesso tempo quello che chiamiamo il nostro io deriva dalla stessa fonte che trasmette la qualità dell’esistenza ad alberi, fiumi, stelle. Smettere di concepire il mondo come un grande carcere frantumato in tante cellette stagne: qualcosa che oltrepassa le distinzioni particolari pervade la totalità e la definisce, come fa l’acqua spandendosi per un canale o le radici di un albero in ogni intercapedine aperta nel terreno. Espandere l’io sono oltre i confini della personalità individuale, fino a inglobare le distanze dei cieli e i continenti: quanto, a quel punto, ci sembrerà povero, ristretto, l’orizzonte degli interessi e dei legami con la vecchia vita di uomini! Il senso della vastità in cui si estende il palpito divino dà le vertigini ubriaca, stordisce, ma anche esalta, perché noi stessi ne siamo parte. A paragone con la complessità dottrinale del visnuismo, lo stesso Schopenhauer, il pensatore europeo che più si avvicina alle caratteristiche dei sistemi filosofici orientali, appare addirittura scolastico. C’è, in Oriente, una varietà di sfumature per definire i gradi della consapevolezza, della comunione tra io e dio, da umiliare il nostro borioso cogito ad artificio miserevole e primitivo: l’equipollente induista del ‘cogito’ si sfaccetta in ‘psiche’, ‘mente’, ‘io’, e quindi la ‘coscienza’, nelle sue molte specificazioni culminanti nel purusa, in cui tale stato spirituale trascende se stesso e sfocia nel divino. Ad ogni stato interiore corrisponde un dio e perfino i concetti sono personificati in divinità; il mondo sensibile è schermo posato sul palpitare di una potenza trascendente dotata di sakti, la capacità di manifestarsi nelle apparenze e nel loro caleidoscopio cangiante; la natura è una continua teofania, un palesarsi del numen, ossia del divino inteso come energia piuttosto come ‘persona’, a differenza che nella 48 Aprile speculazione religiosa occidentale; il piano terrestre e quello celeste non sono contrapposti da una antitesi gerarchica, come da noi è stato a partire da Platone, ma si compenetrano. L’incarnazione del nume, il suo vestirsi di parvenze terrene, è evento quasi ordinario, se si pensa che ogni oggetto o fenomeno della natura rende accessibile ai sensi una divinità, come nei dieci e più avatar di Visnu; nel Cristianesimo, invece, è fatto unico e straordinario. Si parla tanto di educare le nuove generazioni a partire dalle scuole; ma perché nessuno parla di impartire loro i miti connessi agli dei indù (ma anche a quelli mesopotamici, o aztechi, o scandinavi…)? Se vogliamo tornare a essere uomini, nel senso di ‘figli della terra’, dobbiamo ritrovare la memoria del patrimonio mitico addormentato nella memoria dell’umanità, non in chiave di rivendicazione nazionalistica, come fraintesero i fascismi, ma di convergenza di quei miti sul terreno comune dell’immaginazione umana. Riscoprire la sacralità del mondo, pensare nuovamente l’essere quale emanazione della divinità: se è questo lo scopo che diamo alla poesia, dovremmo farne il punto d’arrivo di una nuova evangelizzazione. Preparare il campo a uno sconvolgente avvento spirituale: i giornali pubblicherebbero distici tratti dai Veda, invece che intercettazioni telefoniche tra politici e banchieri; la tv racconterebbe le imprese di Indra piuttosto che aggiornarci sui passatempi boccacceschi di manager e fotomodelle. Penso che sapere del dio Visnu che prende aspetto di Cinghiale e solleva con le zanne il pianeta per salvarlo dal diluvio primordiale sia più importante di conoscere le ultime dichiarazioni di un ministro. Come per gli Aborigeni, per i quali ricordare i ‘Canti’ che descrivono il viaggio di un Antenato per l’Australia è di primaria importanza: ne va della preservazione della sacralità del Creato. Per essi la parola è ancora soffio che crea; alberi, paludi e sassi esistono perché qualcuno, in tempi anteriori all’inizio del tempo fisico, pronunciò i loro nomi e ancora oggi li ripete nel vuoto del cosmo. Lo stesso per gli Induisti, che credono l’origine del mondo una eco del Para vak, la Parola Cosmica, il Suono fondativo dell’esistenza, che come il Verbum biblico è creatore e insieme immanente alla realtà. Dobbiamo però fare i conti con l’incapacità di credere in nulla che 49 Visnu e Siva non sia dimostrabile, di ammettere un vaglio della verità alternativo al nostro limitato empirismo. Insegnare ai bambini i nomi dei fiori e degli animali e cosa raffigurano le costellazioni, piuttosto che a usare i computer, o a conoscere il numero dei parlamentari. Risvegliare il senso del meraviglioso, oggi quasi del tutto spento. Altrimenti diverremo dei ‘laici’ – parola così ingiustificatamente celebrata oggi – privi di quella ingenuità indispensabile per salutare la bellezza. Dar retta a tutte le chimere, lasciarsi tentare dalla lusinga dell’inverosimile: qui è il canto delle Muse, la strada perché gli Dei tornino tra noi. Se è offuscata in noi la para samvid, la coscienza dell’unità divina e sovraindividuale degli esseri, è come se non vivessimo autenticamente: è come se dormissimo. Noi non vediamo davvero alberi, uccelli e acque, perché in essi vediamo solamente alberi, uccelli e acque. Ci illudiamo di essere svegli e invece siamo preda di una condizione analoga al sonno. Occorre allora svegliarsi dalla veglia apparente, perché c’è differenza tra essere svegli ed essere risvegliati. La poesia è una attesa paziente, ci chiama a una seconda nascita. Convertirsi vuol dire accordare una preferenza a un culto rispetto a un altro. E in fondo io non me la sento di scegliere: per me sono valide e vere le credenze dei Celti, quanto quelle fiorite sulle rive del Gange, o sugli altopiani dello Utah; ma c’è un fondo comune, sul quale tutte le fedi si incontrano, e che solo il materialismo moderno ha sconfessato. E poi, la riflessione morale di un po’ tutte le filosofie orientali esige che l’uomo abdichi alla componente istintuale della propria natura. Le pulsioni distruttive però sono segno di vitalità. Per gli Orientali, cattiveria e rancore appesantiscono l’ego. Ma l’incapacità di provare rabbia rammollisce: se ne guadagna in serenità, certo, ma si diventa placidi, acquosi, indifferenti. Eppure una certa dose di aggressività indica che il sangue scorre. Schopenhauer intende il nirvana come soppressione della volontà di vivere foriera di sofferenze – ma la volontà è un fondamento metafisico, è il soffio che alimenta l’inesorabile ruota di creazione e distruzione, il fuoco vitale che pulsa nei rami, nelle galassie e nelle nostre vene, è l’abbraccio (in India Dio si concepisce come abbraccio, oltre che come respiro) che riconduce le manifestazioni più semplici ed umili della natura quanto le più solenni e 50 Aprile grandiose sotto lo stesso emblema di perfezione. Perciò posso approvare Schopenhauer solo se egli intenda la ‘Liberazione’ rivolta alle catene delle contingenze individuali; altrimenti mi pare che faccia un’operazione analoga a quella rinfacciata da Nietzsche a tutte le confessioni codificate: diffamare, vituperare, scomunicare l’istinto della vita. Invece, un’arte che si voglia finalmente ‘dionisiaca’ dovrebbe farsi lode, ringraziamento del soffio che porta la primavera, e l’artista essere chi furiosamente si immedesima con esso, spogliandosi di sé, del proprio atman. Forse una religione vitale e gioiosa dovrebbe edificarsi su una celebrazione del respiro panico del mondo e non sulla sua mortificazione; forse l’estasi consiste in un assecondare quel ritmo, staccandosi dalla volontà individuale fino a sentirsi una cosa sola con ciò che finora era stato altro da sé. Tornando al punto da cui era partito il nostro ragionamento: come si fa a credere in una natura retta da una volontà superiore, quando la natura stessa è ingranaggio inesorabile, che stritola l’uomo e ogni creatura nella necessità che incatena le generazioni e macina continuamente vita e morte? La poesia ha il potere alchemico di redimere l’annientamento delle apparenze e l’estinzione dei singoli esseri in esultanza di fronte alla continuità della vita cosmica; il lutto si rovescia in giubilo, la distruzione e la fine sono giustificati, perché funzionali all’imperativo del ritorno, all’avvicendarsi inesorabile delle onde, e di giorno e di notte: a quel piacere del fanciullo eracliteo che gioca a innalzare e a buttare giù forme di sabbia sulla riva del mare, forme che somigliano ai nostri gesti e pensieri, agli archetipi invariabili della nostra mente. D’altronde, nel linguaggio della mistica induista ‘Distruzione’ si dice anche ‘Riassorbimento’: è una delle cinque funzioni di Siva, corrispondenti ad altrettante modulazioni dell’Io sono. La poesia non occulta, non nega il rovescio crudele e doloroso del divenire, ma lo riconduce nell’alveo di quell’unica volontà vitale che, anche nel travaglio e nell’agonia, nella pena con cui la singola creatura obbedisce alla legge del circolo, riverbera la propria potenza creatrice, l’affermazione sofferta e gioiosa della sovrabbondanza di forze di una natura perpetuamente giovane e generante, feconda di sempre nuovi solstizi. 51 Sfulingo E. M. CIORAN, “divorare il silenzio” (I) scelta e traduzione a cura di Massimo Barbaro Dite che l’universo non ha senso, e non farete arrabbiare nessuno – ma affermate la stessa cosa di qualcuno, e non mancherà di protestare, e finirà per prendere delle misure contro di voi. Siamo tutti così: quando si tratta di un principio generale, ci chiamiamo fuori e non abbiamo alcun imbarazzo nell’erigerci a eccezione. Se l’universo non ha senso, c’è qualcuno che sfugge alla maledizione di questa frase? Tutto il segreto della vita si riduce a questo: non ha alcun senso, ciascuno di noi, tuttavia, glielo trova.1 *** Quando tutto si fa minerale, la nostalgia stessa diventa geometria, le rocce sembrano fluide davanti alla pietrificazione del vago dell’anima, e le sfumature sono più ripide delle montagne. Non si ha più bisogno allora che dello sguardo tremante dei cani schiacciati, o dell’orologio rotto di un altro secolo – cuscino per la fronte di un folle.2 *** Su qualsiasi cosa – e innanzitutto sulla solitudine – si è obbligati a pensare al tempo stesso negativamente e positivamente.3 *** Un uomo che pratica per tutta la sua vita la lucidità diventa un classico della disperazione.4 52 Cioran *** Ogni volta che penso alla morte, mi sembra di stare per morire un po’ meno, che non posso spegnermi, né sparire, sapendo che sto per sparire e spegnermi… E sparisco, mi spengo e muoio da sempre.5 *** Anche la tristezza è un mestiere. Poiché non si prende facilmente l’abitudine di essere soli, e ogni giorno bisogna sforzarsi nella derelizione, sottomettendo le onde di amarezza a un lavoro interiore. Il bisogno di stile nell’infelicità e di ordine nelle tristezze sembra mancare ai poeti. Poiché cosa significa essere poeti? non avere distanza nei confronti delle proprie tristezze, essere identici alla propria infelicità. La preoccupazione dell’educazione personale tradisce, persino in quelle cose, un residuo di filosofia in un’anima toccata dalla poesia. La superstizione teorica organizza tutto, anche la tristezza. La morte di un filosofo somiglia al crollo di una geometria, mentre il poeta, che porta la sua tomba da vivo, è morto prima di morire. Il nodo della poesia è una fine anticipata, e la lira non ha voce che nei pressi di un cuore ferito. Niente fa scivolare più in fretta nella tomba del ritmo e delle rime, poiché tutto ciò che i versi hanno saputo fare è erigere pietre tombali agli assetati della notte.6 1 E. M. Cioran, Le Crépuscule des pensées, Paris, L’Herne, 1991, p. 7. P. 17. 3 P. 25. 4 P. 30. 5 P. 37. 6 P. 56-57. 2 53 Lettere PAROLE SALVATE DALLE FIAMME Una lettera a Pasternak di Varlam Šalamov Kjubjuma, 24 dicembre 1952 Caro Boris Leonidovic, Soltanto una settimana fa ho avuto tra le mani la Sua meravigliosa lettera di quest’estate. Per andare a prenderla ho percorso millecinquecento chilometri nel gelo di meno 50° e sono ritornato a casa solo ieri l’altro.1 Grazie per la Sua cordialità, per la Sua bontà, per la delicatezza – insomma per tutto ciò che spira dalla Sua lettera, per me tanto più cara in quanto ero pronto ad accontentarmi di sapere che Lei aveva preso conoscenza dei miei lavori, e in questo vedevo quasi la giustificazione di tutta la mia vita vissuta in maniera così goffa e dolorosa. Avevo tanta paura che rispondesse con vuoti elogi di cui non ho bisogno, e questo per me sarebbe stato il colpo più duro. Io volevo un giudizio severo, senza nessuna concessione di nessun genere su nulla. Anche adesso non so ancora se ci siano delle concessioni oppure no. E neppure mi aspettavo una risposta. Le ho mandato le poesie, perché nella vita c’è sempre una promessa non mantenuta, un’azione non compiuta, un’intenzione non realizzata e la paura di pentirsi di non aver portato a compimento quella promessa, azione, intenzione. Sentivo un dovere verso la mia coscienza, un’inquietudine interiore per non essere in grado, in nessun altro modo che con una semplice lettera che avrebbe potuto sembrare strana, di ringraziarLa per tutto quello che di buono, puro e retto c’era nei Suoi versi e che mi ha illuminato la strada nel corso di molti anni. Io l’ho vista una sola volta in vita mia. Nel 1933 o 1932 a Mosca, al circolo dell’Università, Lei recitava Seconda nascita,2 e-io, rimpiattato in un angolo, seduto nell’oscurità della sala, pensavo che la felicità era proprio lì, in quel momento: poter vedere un 54 Šalamov vero poeta e un vero uomo – così come me l’ero immaginato da quando avevo fatto conoscenza con la poesia. Solo alcuni anni prima mi avevano sbalordito e sopraffatto i versi «Febbraio. Prender l’inchiostro e piangere. / Scrivere di febbraio a singhiozzi» ecc. Ero agitato e non capivo quale forza e quali occhi si dovessero avere per scrivere simili versi. E da quel tempo ogni Suo verso pubblicato mi ha affascinato e turbato. Scrivo versi da molto tempo, da quando ero bambino, ma mi pare di non aver mai tentato di mostrarli a qualcuno e per la prima volta li ho mostrati a Lei. Tutto quello che ho scritto prima è irrimediabilmente perduto, ma neppure rimpiango quei versi. Rimpiango quelli degli ultimi anni – ne sono andati persi molti e la parte che Le ho mostrato è forse solo un decimo. Più tardi, quando incontrai i versi di Annenskij,3 che per me furono la successiva rivelazione – mi fu chiaro che le idee poetiche di Annenskij erano vicine alle Sue. Lei parla di influenze. In un certo modo ho sempre diffidato di questo concetto. Mi sembrava che in alcuni casi (e anche nel mio) non si trattasse di influenza, ma della professione di una stessa fede. L’influenza è asservimento, mentre la professione della stessa fede è libertà. Sono di tutto cuore d’accordo con Lei che lo scrivere versi fine a se stesso è una stupidaggine. Eppure come è nato, così va avanti: un gioco nel quale percepisci una forza, la voce di antichi maestri che, quando la ascolti, ti toglie il fiato, un martellamento di versi nel cervello – così persistente che ti senti meglio soltanto quando li scrivi, un mondo che di anno in anno sempre più docilmente si è adagiato sulla carta. E poi – fin da quando si è giovani, si pensa a come poter servire gli uomini, essere di qualche utilità, non vivere invano la propria esistenza, fare qualcosa per rendere migliori gli uomini, per rendere la vita più calda e più umana. E se senti dentro di te la forza di fare questo con i versi, nell’arte – allora tutte le altre strade si perdono nella nebbia e tutto diventa insignificante, talvolta anche la vita stessa. Così tante cose sono state smarrite, sprecate, uccise, non raggiunte e soltanto ciò che mi era più caro si è conservato per tutta la vita: l’amore per mia moglie e i versi. Per di più io credo da tempo nella spaventosa forza dell’arte, una forza che non si può misurare con alcun metro e tuttavia una forza 55 Lettere possente, non paragonabile a nessun’altra. L’eternità di queste Gioconde e Infante, nelle quali ognuno trova ciò che confusamente, inconsapevolmente lo turba; e l’artista, morto molti secoli fa, con la forza della sua arte educa gli uomini ancora oggi – che cosa ci può essere di più invidiabile di una tale forza e quale felicità deve provare colui che ha collocato la propria pietra in questo edificio eterno. Io non faccio nessun paragone tra gli artisti, elimino la nozione delle dimensioni. E per quanto grandiosa sia la forza di un altro poeta – essa non mi costringerà al silenzio. Anche se ciò che ho visto viene espresso in maniera mille volte più debole – comunque viene detto per la prima volta. Io sono felice di comprendere, di percepire come è stato dipinto questo quadro, comprendo il turbamento dell’artista e lo invidio, comprendo la sua anima, comprendo come egli ha parlato con la vita, e come la vita ha parlato con lui. E inoltre: sono profondamente convinto che l’arte sia l’immortalità della vita. Che ciò che l’arte non ha sfiorato – presto o tardi morirà. Forse La fanno ridere queste frasi ingenue. Io non capisco nulla dell’aspetto teorico della faccenda. Le sto semplicemente spiegando – perché scrivo versi. E poi non riesco più a farcela con me stesso – ciò che mi costringe a prendere carta e matita è più forte di me. E oso sperare che tutto quanto ho scritto sia tutto meno che letteratura. Scrivo e non vedo una fine a tutto quello che ho voglia di dirLe e raccontarLe. Vedo in me migliaia di difetti oltre a quelli da Lei indicati, tuttavia quello che ho scritto sono versi, e il mio rapporto con la vita su questa strada – è legittimato. Lei dice molte cose giuste, ma su alcune non posso essere d’accordo con Lei. E prima di tutto – il fatto di cancellare il passato, i Suoi lavori passati. Le Sue ultime raccolte traboccano di questo motivo e, quindi, lo conoscevo anche prima della Sua lettera. Non è eccessivamente crudele questa abiura? Capisco che un maestro rigoroso cresca e viva negando e distruggendo se stesso, ma io ricordo, so anche un’altra cosa. Conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano – proprio quelli che adesso sono destinati alle fiamme. Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto 56 Šalamov perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere? Qui non si tratta di «discepoli» che sono stati abbandonati. I versi continuano a vivere anche senza di Lei. E poi quelli non sono neanche discepoli. Ma in quei versi c’erano una vita e una forza che, lo ripeto, hanno mantenuto umani degli esseri umani. […] Grazie a Sua moglie per il cordiale giudizio sui miei scritti. Ella tuttavia si sbaglia, giacché io non cerco approvazione. So per primo di trovarmi sulla soglia della poesia e per quanto questo passo decisivo sia difficile – lo farò. […] alla metà degli anni venti, che nella biblioteca Rumjancev ho incontrato per la prima volta i Suoi versi. Non starò qui a scriverLe perché i modi di dire da Lei condannati in quanto gioco di parole mi sono sembrati necessari. Lei li ha sentiti, nella maggioranza dei casi, come una forzatura, una nota falsa. Per quanto a me potessero sembrare giustificati e addirittura indispensabili, se ciò pare soltanto a me, vuol già dire che non vanno bene e devono essere eliminati. Sono comunque profondamente commosso e orgoglioso del fatto che Lei abbia trovato il tempo e la pazienza di leggere attentamente quei due libri – certo, non sono dei libri, ma dei brogliacci. Perché diventino libri, bisogna lavorare ancora molto su ogni verso. Ho ricopiato per Lei le poesie una dopo l’altra e solo poi ho rimpianto di non averne incluse molte altre invece di quelle che ho mandato. Io non posso, non sono abituato a scrivere in presenza di qualcuno, ma nel gelo, d’inverno, non si sa dove andare a nascondersi. Grazie per le cinque meravigliose poesie inviatemi. Si potrebbe parlare molto di ciascuna di esse, più esattamente, a ciascuna di esse, perché – forse che si deve parlare di una poesia? […] Ancora una volta La ringrazio calorosamente per la lettera. Lei mi pone di fronte grandi e alti compiti. Dio sa se saprò vincere questa battaglia, ma ho l’impressione di aver compreso la verità e l’anima della poesia, e la coscienza di questa forza mi costringerà a restare attaccato alla carta e all’inchiostro. […] V. Šalamov 57 Lettere Note 1 Šalamov raccontò questo episodio nel racconto ‘La lettera’ in Kolyma. Trenta racconti dai lager staliniani, Roma 1976, pag. 226. 2 Raccolta di versi di Pasternak pubblicata nel 1932. 3 I. F. Annenskij (1856-1909) poeta, traduttore e critico letterario russo, influenzò l’acmeismo e il futurismo. Da Varlam Šalamov – Boris Pasternak, Parole salvate dalle fiamme, Archinto, Milano 1993. Dell’autore sono disponibili in commercio i volumi: I racconti di Kolyma, (Einaudi e Adelphi), La quarta Vologda (Adelphi) e Destino di poeta (La Casa di Matriona). Varlam Šalamov (Vologda, 1 luglio 1907 – Mosca, 17 gennaio 1982) è stato uno scrittore, poeta e giornalista sovietico. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza dei gulag. Figlio di un prete ortodosso e di un’insegnante; si diploma al ginnasio e viene ammesso, nel 1926, all’Università di Mosca, nel dipartimento di Diritto Sovietico, dove si unisce ad un gruppo trockista. Viene arrestato il 19 febbraio 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Vyšera, sugli Urali settentrionali; l’accusa è quella di aver diffuso le “Lettere al Congresso del Partito”, note come Testamento di Lenin, in cui vengono sollevate critiche all’operato di Stalin. Rilasciato nel 1931, lavora nella città di Berezniki fino all’anno seguente, quando rientra a Mosca e riprende a dedicarsi alla scrittura. Nel 1936 vede la luce il suo primo racconto Le tre morti del Dottor Austino. 58 Šalamov Il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, è nuovamente arrestato per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, tristemente nota come “la terra della morte bianca”. Nel 1943 gli viene comminata una seconda pena, stavolta per dieci anni, tra le accuse l’aver definito Ivan Bunin “un classico scrittore russo”. Lavora dapprima nelle miniere d’oro, quindi in quelle di carbone. Le condizioni di vita dei forzati sono rese ancora più penose dal clima della regione. Nel 1946 è ridotto allo stremo, la sua vita viene salvata dal medico-prigioniero A. I. Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riesce a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo. Questa nuova sistemazione gli consente di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Rilasciato nel 1951, continua a lavorare e a scrivere nello stesso ospedale. Nel 1952 spedisce alcune sue poesie a Boris Pasternak, che le apprezza pubblicamente. Al termine della prigionia la sua famiglia non esiste più: la figlia, ormai adulta, rifiuta di riconoscerlo. A Šalamov viene permesso di lasciare Magadan nel novembre 1953 – otto mesi dopo la morte di Stalin – e si trasferisce nel villaggio di Turkmen, nella provincia di Kalinin, non lontano da Mosca. Inizia a lavorare alla raccolta di racconti ispirati alla vita di forzato, I racconti di Kolyma, che completerà nel 1973. Nel 1956 anche Šalamov ottiene la riabilitazione ufficiale e, nel 1957, può tornare nella capitale sovietica, dove trova un impiego come corrispondente della rivista letteraria «Moskva». Le sue condizioni di salute sono peggiorate tanto che, ormai invalido, gli viene assegnata una pensione. In questo periodo conosce importanti scrittori quali Aleksandr Solženicyn, Boris Pasternak e Nadežda Mandel’štam, scrive saggi, poesie e racconti. Numerosi suoi scritti riescono ad espatriare in modo clandestino e si diffondono con il samizdat. Nel 1978 viene stampata a Londra la prima edizione integrale in russo dei racconti. Šalamov trascorre gli ultimi tre anni della sua vita in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili a Tušino, tornato a Mosca, muore nel 1982. Nel 1987, quando ormai era vicino il crollo dell’Unione Sovietica, l’opera vede la luce anche nella sua patria. I racconti di Kolyma è considerata una delle più importanti raccolte di racconti della letteratura russa del XX secolo. 59 Pessoa A flor que és, não a que dás, eu quero A flor que és, não a que dás, eu quero. Porque me negas o que te não peço? Tempo há para negares Depois de teres dado. Flor, sê-me flor! Se te colher avaro A mão da infausta esfinge, tu perene Sombra errarás absurda, Buscando o que não deste. 60 Pessoa Il fiore che sei voglio, non quello che dai Il fiore che sei voglio, non quello che dai. Perché mi neghi quello che non ti chiedo? C’è tempo per opporsi dopo l’aver dato. Fiore, siimi fiore! Se avaro ti coglierà la sventurata mano della sfinge, tu perenne ombra vagherai assurda, cercando quel che non concedesti. Traduzione di Leonardo Eriu 61 Ripellino Lazzaro si nascose in una tomba Lazzaro si nascose in una tomba, Lazzaro non morí. Conobbe i grandi occhi di gufo del buio, la tromba dell’alba, il gelido chicchirichí. Vi piacerebbe risuscitare? Vi piacerebbe attraversare ancora queste strade? Bere la luce di questo cielo violaceo, lasciarvi accarezzare? E che qualcuno vi lodasse, come uno zingaro loda il suo ronzino rabberciato? E invitare gli amici? E ascoltare Janáček, evaso dal filo spinato di una casa di morti? E col senno di poi rivangare le cause, non esser malati ma forti, e splendere come un oggetto di rame, e abbarbicarvi di nuovo alla vita, e giocare ancora una volta a clinàmen, e perdere ancora una volta la vana partita? Da ‘Notizie dal diluvio (1968-69)’, in Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, Einaudi, Torino 2007. 62 Rizzi ALBERTO RIZZI (1956) *** Dell’uomo che osserva fisso il gioco d’un bambino nulla so dire se estraneo padre parente Si china con cura indifeso come un ramo o come me ne son certo in un attimo d’un futuro a venire ancor’ignoto ad avverbi di tempo e spazio che non chiude però non so su chi 63 Rizzi *** Non c’è quest’oggi speranza nel sole nella strada che serpeggia priva di qualsivoglia meta né pietà Così anch’io sono soltanto fusto d’erba nuova e spina getto dentro l’aria agra 64 Rizzi *** Strada e stanze ampie uomini con sguardi straniti dal lavoro basso del tempo questo presente è porta che si chiude che chiede venia al passato pesanti entrambi come pietre di fornace Anch’io tengo il fiato di qualche amico annodato stretto alla gola ma ripido come solo un ricordo sa essere per questo gli occhi miei tengo rivolti altrove dalle facce loro Da La luce, lo specchio, autoproduzione, Ceregnano 2005. Alberto Rizzi (Arco di Trento, 1956), poeta e artista multimediale. Si avvicina alla poesia durante i primi anni Ottanta, quando rileva l'ostilità con cui vengono accolti i suoi lavori pittorici negli ambienti locali. Dal 1991 inizia una sua presenza continuativa su fanzine, riviste e in reading, anche radiofonici. Significativa l'edizione di una fanzine di poesia, curata con Alessandro Ceccotto dal 1989 al 1993 «The Mouth». Ha pubblicato le raccolte poetiche: Opera prima. Non voglio morire a Rovigo (1994), Poesie (1998), L'armadio cromatico (2000), Piccola trilogia nera (2000) alle quali si affiancano numerose raccolte autoprodotte poetico-visive tra cui: Intuizioni aliene (1996), In ombra (1997), Il filo continuo (1998). È presente in diverse antologie. 65 Pazzi MATTEO PAZZI (1977) *** Età: dodici anni come una manciata di sale gettato negli occhi; frequentavo una scuola media dalle otto del mattino alle sei del pomeriggio, una scuola gestita da preti violenti – letamaio dove si ingoiava merda giorno dopo giorno – imparai sin troppo presto che l’inferno è un buco del culo nel quale tutto e tutti non possono far altro che attendere d’essere cagati – non mi picchiarono mai ma vidi quei preti picchiare e umiliare molte volte molti bambini – c’era la mensa scolastica ma mi bastarono un paio di mesi di quella galera per smettere di mangiare, divenni molto magro molto magro magro desideravo essere una statua di pietra per non provare più niente, desideravo essere invisibile per non essere visto e non vedere, poi cessai di desiderare e quando una persona smette di sognare o desiderare allora persino il cielo diventa 66 Pazzi un patetico soprammobile ricoperto di polvere... poi più niente, non so dove sia finito quel me bambino di dodici anni, forse è scomparso forse è ancora in quella scuola o forse è libero ovviamente come solo un respiro può esserlo. *** come un libro adagiato sopra un comodino che nessuno, a quanto pare, ha intenzione di leggere – è come se avessi dimenticato o perso qualcosa – brivido di calzino bucato e lei che ovviamente chiede: “perché non ci togliamo le scarpe?” – sei lontana, gli scogli – denti neri lucidati dalle onde – tracciano nell’aria un sentiero fatto di portafogli d’acqua senza più un quattrino di mare da spendere, ormai non mi interessa, il finale è una carezza data di sfuggita e assegno a vuoto il cielo che è sguardo solo se lo guardi. 67 Pazzi *** Si procede, come un respiro immaginato, è un raggio di luce sopra il filo di un muro che è un messaggio o un foglio d’onde dinnanzi al quale lo sguardo disegna una bugia innocente come un biscotto mangiato di nascosto. Da Lupanare dei tredici anni & altri animali. Inedite. Matteo Pazzi, trent’anni, è nato ad Este e risiede a Voghiera. È laureato in Scienze Politiche e sta conseguendo il secondo Master universitario. Ha pubblicato due sillogi poetiche (Ventiquattro poesie, Montedit, 2000, e Il Pasto, Este Edition, 2002) e un breve romanzo intitolato Chiuso per Lotta, Prospettiva editrice, 2004. Molti suoi lavori sono apparsi su riviste letterarie («Poesia», «Ellin Selae», «Il vascello di carta», «Il Segnale». Ha ottenuto inoltre segnalazioni in premi letterari. 68 Piccola antologia IL CIMITERO AL MARE Era Manet o Monet quand’eravamo insieme su quel divano di casa, con la tv addosso, a parlare delle zanzare sul soffitto? Sono passati, poi, tutti gli autobus che potevano, sotto i balconi di cani dei palazzi, e noi siamo rimasti a portare le foto dei parenti nel portafogli o nella tasca interna, accanto alle penne aziendali o rubacchiate. Abbiamo iniziato a guardare gli alberi per fare qualcosa di quei frutti di città diversi, con poca stagione appresso. Poi tu hai pensato di girarti e mi hai visto gli occhi, lì, ma già portati al mare che volevo e non hai saputo dire, come non sentivo più, vedremo o va bene. Stare a partire per un ricordo che chiuda la giornata, come, a pochi anni, l’uomo che pareva portare via la spiaggia chiudendo tutti gli ombrelloni, con la famiglia che sbagliava bene a restare e le mani della nonna normali anche mentre moriva. Stefano Aldeni, Sesto San Giovanni 69 Piccola antologia NON GUARDARE INDIETRO La lavatrice suonava Il frigorifero ripeteva Il mio stomaco aspettava il momento di farsi sentire La plastica stava alla finestra Tu da qualche parte nella tua mente Io davanti a uno spettro Avrei fumato volentieri Mentre cercavo di comprendere Se quella strada di breccia e rami rotti Potesse diventare una strada da percorrere fino alla fine O Se amato allo spuntare del sole Con l’upupa sul ramo della quercia Con le cornacchie grigie nel campo sbiadito Con la tosse dell’automobile che non vuole partire Avrei sempre potuto infilare una scusa dopo l’altra E smettere di farmi vedere in giro Invece Desideravo incontrare uno spaventapasseri sceso dal bastone Con una mano nella tasca della giacca a quadretti E l’altra su un sacchetto pieno di soldi Quello mi avrebbe fatto cenno con la testa in direzione di un’altra [via Un altro passaggio tra questo tempo e il prossimo Oppure Potevo restare seduto nel campo con una sigaretta accesa La musica dalla nostra finestra e qualcosa nel forno Avrei visto spuntare Roberto da dietro la stalla Con sotto il braccio le notizie della sera Mentre il tramonto violaceo sarebbe avanzato senza [preoccuparsene Mentre le mani screpolate non se ne sarebbero accorte In ogni modo 70 Piccola antologia Sarebbe successo che avrei smesso di stare nel mezzo Con le scuse ipocrite Lanciando le lenzuola in aria Scalpitando come un cavallo azzoppato Con gli occhi irrequieti. Arjuna Cecchetti, Terni Da che parte ritorna questa luna Da che parte ritorna questa luna che sbraita e sussurra al vento innescato dal neon? Sul lamierato attraverso la cruna di due gomiti appoggiati i ricordi fanno fatica a passare, non è nemmeno memoria se non ti vengono i nomi, le facce, solo un momento di bambina alla finestra che impara senza capirlo un battito qualsiasi puntando all’evaporazione sia con i polsi che con il naso. Lento decomporsi delle cose, l’aumento della frequenza, il silenzio riduce le distanze attutisce ogni caduta, anche il precipitarsi delle foglie. Alessio Pardi, Viareggio 71 Piccola antologia Eppure non ne parla mai nessuno nei telegiornali Eppure non ne parla mai nessuno nei telegiornali, e a me viene spontaneo sempre domandarmi se in India o nel Centrafrica si crepi poi realmente per gli stenti o solo per un raffreddore e che non stiano quelli invece bene, come sulla costa romagnola o nei locali sardi, come la bella gente con i sandali griffati o con gli yacht da ottanta metri, perché altrimenti se qualcuno stesse male lo direbbero senz’altro non parlerebbero del tempo o delle mode Dell’estate, cosa si beve o cosa fare verso sera. Perché se no non lo farebbero: e se un metalmeccanico italiano non arrivasse a fine mese, fosse costretto a far la fila in Caritas per far mangiare la famiglia tutti i giorni in tv ne parlerebbero, perché anche questi avranno certo una coscienza, un senso d’oppressione che li annienta giunti a casa, chiusi nella propria stanza. Matteo Fantuzzi, Castel San Pietro Terme Da Kobarid, Raffaelli Editore, Rimini 2008. 72 Piccola antologia *** Chiaroscuri sul tuo volto, ora. Luci assorte. C’è un’aria calma nell’assenza di respiro, nell’assenza di risposta. L’immobilità dell’aria asseconda ogni tua quiete. Una mosca instancabile sostiene il ronzio della vita *** Di te restano arie sottili, suoni di conchiglie alla porta. Meno ancora. Voci di madri ai cortili, gesti riflessi sull’acqua, vento che non risale al tuo nome. E ti allontani da questa terra, ti allontani con occhi abbassati a unica, divina luce. *** Quante conchiglie abbiamo contato per unire acqua e terra? La ricerca serale, infinita per i miei quattro anni, sulla battigia di sabbie e d’ali bagnate. Ne rimane ancora una, superstite di quei giorni, a riprova che siamo esistiti. Marco Fregni, Carpi Da Dialoghi con il padre, Edizioni del Laboratorio, Modena 2007. 73 Piccola antologia io vorrei io vorrei vorrei credere nella risurrezione dei corpi e nel ritorno di quelle tue grandi mani mani che aprivano distese arate a un sole alto sul confine Vanda Guaraglia, Stazzano Da Le mani del poeta, LietoColle, Faloppio 2008. 74 Piccola antologia Ma nessuno dei due Ma nessuno dei due in quel momento ricordava. Erano presenza nello stesso luogo col solito treno già pronto per andare. E la corsa di lui e lo sguardo di lei. Uguali. Paolo Lezziero, Sesto San Giovanni Da I ritorni, con 7 opere di José Lazcarro Toquero, Signum edizioni d’arte, Bollate 2008. 75 Piccola antologia SEDUTO SUL CONFINE Seduto sul confine di ieri sono il sangue di mia madre la voce di mio padre il moto circolare dove scorre il tempo sono la foglia assetata nel sole che già conosce la frescura dell’acqua della luna sono la canzone triste delle cisterne il rumore della moneta nella tasca del vagabondo la neve ferma alla banchina sono quello che non sono un vento che strappa il giallo dei girasoli e semina alfabeti nelle gole delle sorgenti Emilio Paolo Taormina, Palermo Da Luoghi. 76 Mosca COMING OUT Ho accettato una supplenza in un liceo. Lo faccio senza nessun interesse, così per noia, in attesa che accada qualcosa. La mattina vado a scuola per fare test ben poco scolastici: sulla presa di una copertina sulla psicologia di una certa fascia d’età. Faccio così: porto per una settimana due o tre testi che lascio distrattamente sulla cattedra. I ragazzi passano per chiedere il permesso di uscire, si fermano, guardano distrattamente, guardano attentamente, chiedono, prendono in mano il libro, sfogliano il libro, oppure non si fermano, o non guardano, né distrattamente né attentamente, o non chiedono, o non aprono il libro. Intanto io registro ognuna di queste azioni (gli studenti pensano che io stia registrando osservazioni sistematiche). La copertina migliore è quella che ha fatto fermare più persone, le quali hanno chiesto, hanno aperto e sfogliato il libro. Alla fine della supplenza ho scritto: COLORE: ROSSO CARTA: LUCIDA IMMAGINE: FOTO DI DONNA Che fa un professore quando si annoia a morte? Di tutto. Una volta chiesi ai ragazzi di andare in bagno e mi ci chiusi per mezz’ora, a riposare. Un’altra volta dissi che avevo un lavoro da completare entro la fine dell’ora, poi presi un foglio e cominciai a riempirlo con frasi senza senso. Faccio finta di avere un grosso lavoro di carte, da sbrigare, un lavoro impegnativo. Quindi entro in una delle mie classi e invece di controllare la versione di greco dico di ripetere gli ultimi argomenti, poi comincio a scrivere, scrivere, un grosso lavoro di scrittura. I ragazzi stanno abbastanza in silenzio, sono molto comprensivi, con chi ha del lavoro e li alleggerisce del loro. Cosa scrivo? Scrivo velocemente qualsiasi cosa senza pensare, e senza che abbia un senso, si può andare avanti per ore, per chilometri di scrittura. Qualche serio psicologo lo consiglia, ma non credo mentre si è sul lavoro. Più tardi, a casa rileggo quello che viene 77 Narrativa fuori dalla mia scrittura-sismografo: Solita incertezza. Solita noia. Meglio girare. I ragazzi sono abulici- non c’è da chiedere, da esigere, da pretendere. Sento il segnalino vibrato di un sms. Prendo il telefono e leggo il messaggio tenendo il cellulare nascosto contro la ribaltina della borsa di pelle. È Andrea: «Ciao bellezza, puoi chiamarmi? Ho una bella proposta da farti. Un bacio.» Riprendo in mano la penna e la valanga di parole torna a scorrere davanti ai miei occhi. Sembra che solo la mia mano sappia cosa sto scrivendo, è la mano l’organo intelligente qui, perché io non ne ho nessuna idea: Cosa mi può proporre? Un viaggio. Un incontro shock. Una scrittura a quattro mani (magari!). Roma. Milano. Oppure? Matera. Oppure? Le isole (magari). Io andrei. E poi? Ernesto svanisce. Questo è il termine. Svanisce. Svanisce per mancanza di contorni, per mancanza di pregnanza, per grigiore, per incertezza, fobie, altalenante evanescente, svanisce. Poi torna. Ma svanisce. E io ti lascio svanire. Così va bene. Ma solo se sono io a deciderlo. Troppo tempo. Troppo a lungo. Chi dice che deve essere eccezionale (?). Siamo diversi. Almeno con Roberto è chiaro, è così senza pretese. Nessuna pretesa. Perché dovrebbe durare tanto? La fobia dell’abbandono produce la mania dell’amore eterno. L’amore non è eterno. L’amore è. Ed eterno è in quel momento in cui è vivo. Suona il campanello e l’ora di greco è finita. Fuori dall’aula chiamo Andrea. – Ciao bellezza mia, come stai? – Ciao Andrea, sono a scuola, ho poco tempo. Bene, e tu come stai? – Io bene, ma sono così triste, sono in treno, capisci, da solo capisci, mi assale l’angoscia, e ti penso, lo sai che ti penso, quando sono in treno? – Dove stai andando? – Sto andando a ritirare un premio a Genova, capisci, sai queste cose noiose, ma mi pagano, e sono triste capisci, perché non mi raggiungi? – A Genova? – Sì, ti trovo una camera, anzi ti invio un messaggio con il nome 78 Mosca dell’albergo così prenoti su internet. Dai… non sai quanto mi faresti felice, guarderò solo te durante la premiazione, non sai quanto mi farebbe felice vederti nel pubblico. – Da qui per arrivare a Genova ci metto un giorno. Quando sono là il premio è finito e io devo ripartire. – Ma dormiremmo insieme, lo sai, dormire in questi alberghi mi mette un’angoscia, da solo… – Lo so, guarda Andrea non sai quanto farebbe piacere a me quello che dici, ma così non riesco a organizzarmi con i tempi, te l’ho detto anche altre volte, dovresti avvisarmi con qualche giorno d’anticipo, avrei preso due giorni di permesso, così proprio non posso, credimi è impossibile. – Mannaggia, hai ragione, ma non è colpa mia, mi hanno comunicato l’albergo solo tre giorni fa(!). – Senti, e perché non mi raggiungi a Castelfiorentino? – Quando? – Domani sera sono in giuria al premio letterario. E’ una bella cosa, ti piacerebbe, e io guarderei solo te. Vieni, ti prego, se non vieni non so come faccio a reggere anche la serata di domani sera. – Ci penso, l’idea mi piace, lo sai, in tutti i sensi, anche l’idea di dormire con te, e soprattutto di partecipare al premio. C’è un diretto da qui? – Sì, sì che c’è il diretto bellezza, tu ti metti sul treno e quando arrivi ti vengo a prendere, poi stai con me al premio, io guarderò solo te, lo sai, poi andiamo a cena insieme, e poi a letto insieme, bellezza, non ci posso pensare, dai… – Ma quante ore più o meno di viaggio? – Solo quattro, non di più, solo quattro. Cade la linea. C’è una classe tutta fuori dall’aula a giocare con una palla di carta. Le bidelle sul piano mi guardano. Io guardo l’orologio, ho perso più o meno mezz’ora al telefono, e la classe di calciatori sta aspettando me. Cinque minuti dopo ho ripreso il mio lavoro: Non mi stupisce. Mi delude. Andiamo avanti. Avanti. Avanti c’è un’altra donna? Da consumare in poco tempo perché è più superficiale e scaltra? Avanti c’è il mio successo? Successo e solitudine? Successo e un uomo eccezionale? Io vado. Non posso fare altro. Altro che sorridere mestamente. Strano modo di 79 Narrativa amarmi. Strano modo di vendicarsi. Tu fai questo. Io faccio lo stesso. Quanto siamo diversi. Cosa stimo in te alla fine dei conti? Quello che tu hai vissuto e io no. Il maschiaccio che vorrei essere. Ma per il resto, ti vedo dietro. Sei dietro. Non so più nemmeno se mi capisci realmente. Sei più piccolo. Poi sei traditore. Debole e pauroso. Quindi traditore. Ma perché mi piaci? Perché sei dolce? Perché sei amabile? Poco, poco, poco. Questo è il quantum. Tutto questo tempo. Ma poi così poco in fondo. Nel fondo, così poco. Il resto dello scritto è una ricetta per il pranzo. E stranamente ha un senso. Tutta questa montagna di periodi insensati ha un senso. Poi c’è un’altra cosa che mi capita di fare, nel periodo che passo a scuola. Salgo in ascensore per pigrizia, anche per via dei tacchi, per orgoglio non mi va di mostrare un’andatura insicura. Le mie classi sono al secondo piano. In ascensore con me di solito ci sono tre o quattro colleghi. Si parla, si scherza, poi si arriva sul piano, e qualcuno scende. L’ascensore riparte e gli altri si mettono a ridergli dietro. Poi l’ascensore si ferma ancora, secondo piano, e qualcun altro scende. Appena le porte si richiudono di nuovo, si ride di quello che è appena sceso. Beh, io salgo fino al quarto, mi diverte assistere a questo cabaret improvvisato, non mi va di offrirmi come soggetto allo sberleffo, ma soprattutto perdo un poco di tempo. Quando arrivo al quarto piano faccio scendere tutti e me ne torno giù, al secondo. Con questo giochino riesco a perdere anche dieci minuti. In altri momenti chiedo alla classe di fare esercizi mentre vado in bagno. Entro, mi chiudo e mi siedo sulla tazza, nel silenzio. Le mani tra i capelli pensando alla differenza tra la tranquillità somatica di quando si è soli e l’architettura finta delle ossa del volto e del corpo quando si è rispettabili attori sociali. Sono riuscita a farla durare anche venti minuti. Rileggo le righe buttate giù in classe. “Dai raggiungimi, amore” dice Andrea. Quando capirai che non si tratta di amore ma di chimica, che non si tratta nemmeno di chimica ma di meccanica. Scrivo in cima il titolo: “Meccanica dei corpi”. Silvana Mosca, Campobasso 80 Bierce L’ALLUCINAZIONE DI STALEY FLEMING Dei due uomini che stavano chiacchierando, uno era medico. – L’ho mandata a chiamare dottore, – disse l’altro, – ma non credo che mi possa aiutare. Forse mi può consigliare uno specialista in psicopatia. Penso di essere un po’ suonato. – Ma ha un aspetto sano, – rispose il medico. – Sarà lei a giudicare. Ho delle allucinazioni. Tutte le notti mi sveglio e vedo nella mia stanza un grande cane Terranova nero con una zampa anteriore bianca, che mi fissa intensamente. – Lei dice che si sveglia. Ne è sicuro? Qualche volta si pensa di avere delle “allucinazioni”, ma in realtà si sta solo sognando. – Oh sì, sono proprio certo di essere sveglio. Qualche volta rimango a lungo disteso e guardo il cane con la stessa serietà con cui lui guarda me; lascio sempre la luce accesa. Poi quando non resisto più mi siedo sul letto e... non vedo più niente! – Uhm... che espressione ha l’animale? – Mi sembra sinistra. Lo so che, se si esclude l’arte, gli animali se sono tranquilli hanno sempre la stessa espressione, ma quello non è un vero animale. I Terranova hanno sempre un’espressione mite, lo sanno tutti; perché questo no? – Beh, la mia diagnosi non avrebbe valore: non è il cane che devo curare. Il dottore rise per la sua stessa battuta, ma con la coda dell’occhio guardava il suo paziente. Dopo un po’ disse: – Fleming, l’animale che mi ha descritto corrisponde al cane del defunto Atwell Barton. Fleming fece per alzarsi, poi; si risedette sforzandosi di assumere un’espressione di malcelata indifferenza. – Mi ricordo di Barton, – disse; – credo che... avevano scritto che... , ma non c’era qualcosa di oscuro nella sua morte? Il medico guardò il suo paziente dritto negli occhi e disse: – Il corpo del suo vecchio nemico, Atwell Barton, fu trovato tre anni fa nel bosco che divide le vostre case. Era stato pugnalato a morte. Nessuno fu arrestato, perché non c’erano indizi. Alcuni di noi hanno fatto delle “supposizioni”, ed io stesso ho una mia teoria. E 81 Narrativa lei? – Io? Santo Cielo, cosa ne posso sapere io? Lei si ricorda, no, che partii per l’Europa quasi immediatamente dopo..., un bel po’ di tempo dopo. Non si aspetterà di certo che nelle poche settimane che sono passate da quando sono tornato, io abbia formulato una “teoria”. In realtà non ci ho pensato per niente. Che cosa mi stava dicendo di quel cane? – Fu lui a trovare il corpo. Morì d’inedia sulla sua tomba. Noi non conosciamo l’inesorabile legge che regola le coincidenze. Staley Fleming non la conosceva; altrimenti non sarebbe balzato in piedi, quando dalla finestra aperta giunse in lontananza, trasportato dal vento, il lungo e doloroso ululato di un cane. L’uomo per un po’ andò su e giù per la stanza, mentre il dottore continuava ad osservarlo con sguardo fermo; poi si voltò di scatto verso di lui e quasi gridando chiese: – Che cosa ha a che vedere questa storia con il mio problema dottor Halderman? Non si dimentichi del motivo per cui l’ho mandata a chiamare. Il dottore si alzò a sua volta, e posando la mano sul braccio del paziente disse gentilmente: – Mi scusi, ma non posso fare una diagnosi così su due piedi; forse potrò farla domani. La prego, vada a letto, ma non si chiuda a chiave. Io passerò la notte qui, in compagnia dei suoi libri. Può chiamarmi senza doversi alzare? – Sì, c’è un campanello elettrico. – Bene. Se qualcosa la disturbasse prema il bottone senza alzarsi. Buona notte. Il dottore fissava i carboni ardenti comodamente seduto su una poltrona; era immerso in profondi pensieri, ma non sembrava giungere ad alcun risultato, dal momento che si alzava spesso e, aprendo la porta che conduceva alla scala, si metteva attentamente in ascolto; e poi ritornava al suo posto. Poco dopo, tuttavia, si addormentò e quando si risvegliò era mezzanotte passata. Dopo aver ravvivato il fuoco, prese un libro dal tavolo e diede un’occhiata al titolo. Erano le Meditazioni, di Denneker. Aprì una pagina a caso e cominciò a leggere: «Come da Dio è stato comandato che a tutta la carne sia uno spirito ed allora anche poteri spirituali, così allo stesso modo allo spirito sono le proprietà della carne, senza escludere quello quando si sia separato da questa e prosegua la sua vita come essenza autonoma, così come 82 Bierce dai molti atti di violenza praticati da spettri e lemuri ci è dimostrato. Ed anche ce n’è di quelli che aggiungono che in ciò non è l’uomo solo, ma le fiere pur’esse sono parimenti sospinte da demoniaci pungoli, e che...». Improvvisamente fu interrotto dal rumore di un tonfo che fece tremare tutta la casa, come d’un oggetto molto pesante che cada a terra. Gettò via il libro e si precipitò alle scale che portavano nella stanza di Fleming. Cercò di aprire la porta, ma, contrariamente ai suoi ordini, questa era stata chiusa a chiave. Il dottore la prese a spallate con tanta forza che essa cedette. Sul pavimento, accanto al letto disfatto, c’era Fleming, in pigiama, ormai morente. Il medico gli sollevò la testa: aveva una ferita alla gola. – Avrei dovuto immaginarmelo, – disse, credendo che si fosse suicidato. Il corpo dell’uomo fu poi sottoposto ad autopsia, dalla quale risultò che la ferita era stata provocata dalle zampe di un animale, penetrate profondamente nella vena giugulare. Ma non fu trovato nessun animale. Ambrose G. Bierce Da Possono accadere queste cose?, Lucarini, Roma 1989. 83 Narrativa Ambrose G. Bierce (Horse Cave Creek, 24 giugno 1842 – Messico, 1914), scrittore e giornalista statunitense, tra i più caustici della San Francisco a cavallo tra il 1850 e i primi anni del ‘900. Nato da una numerosa famiglia (lui era il decimo figlio), Bierce conduce una vita spesso ai limiti, ma non per i vizi, bensì per il suo sarcasmo che col tempo gli vale il nomignolo di bitter, l’amaro. A quindici anni, stanco della povertà della famiglia, se ne va di casa cominciando a girare per gli Stati Uniti e vivendo di espedienti fino a quando uno zio, Lucius, fratello minore del padre, lo prende sotto la sua ala protettrice. Lucius Bierce aveva fatto fortuna divenendo un discreto avvocato e sindaco della cittadina di Akron. Lo zio gli fa frequentare il Kentucky Military Institute, dove impara, tra le altre cose, la cartografia, il che gli permette di arruolarsi nel 1861 come volontario nell’esercito con mansioni di topografico. Sono gli anni della guerra di secessione, che Bierce vive in prima persona e da cui nasce Tales of soldiers and civilians, ovvero “Racconti di soldati e civili”, un campionario degli orrori della guerra in cui la visione spietata e sprezzante degli uomini, nessuno escluso, dà il senso della misura di Bierce. Qui emerge un altro aspetto dell’opera di Bierce: la casualità degli eventi e l’esistenza del soprannaturale, del fantastico, che si cala nella realtà quotidiana. Da ciò nascono anche ottimi racconti macabri e dell’orrore, sempre permeati di cinismo. A 24 anni Bierce, stanco di quella vita, abbandona l’esercito e approda a San Francisco, dove inizia la carriera di giornalista e scrittore. Vive inizialmente di piccoli lavori, comincia a scrivere e ad essere quotato per i suoi attacchi a politici, uomini di malaffare, imprenditori, tanto che secondo le cronache di allora, usa portare una pistola con sé. Nel 1871 sposa una bella e ricca ragazza e, grazie al suocero, fa un lungo viaggio di nozze a Londra, dove cerca di pubblicare, con scarso successo, le sue opere. Nel 1904 divorzia dalla moglie che gli ha dato tre figli, due dei quali morti tragicamente. La morte dello scrittore è uno dei più grandi misteri della letteratura americana: nel 1913 (a 71 anni), parte per il Messico dilaniato dalla guerra civile di Pancho Villa e di Emiliano Zapata e scompare per sempre senza lasciare traccia. 84 Rossi IL VIAGGIO DELLA SIRENA Supina ho dormito fino a ieri l’altro nel canale della vita in mezzo a pesci- gatto miagolanti a una luna d’acqua ossigenata. Quasi per incanto mi risvegliò un pesce-palla rimbalzandomi con la sua nuova gomma-teflon sull’occhio del destino. S’aprì una branchia accanto alle alghe di capelli che avevano sussurrato per decenni il loro amore ai gamberetti. Le lucide scaglie della coda sobbalzarono di sdegno percependo tutti quei giovani muscoli che stavano lì attaccati da millenni. Fu una pasta dentifricia partorita dalla moglie del capitano Grant che m’aveva addormentato, cercando il suo spazzolino nel bagno dell’albergo dove lui mi lasciò senza risposte. Inarcando il petto per emettere un sospiro ingoiai la melma delle sue domande che m’avevano dipinto di nero queste iridi turchine. Nuotando fino al mare per rivedere il sole, trovai gocce di rubino impigliate nelle reti dei pescatori. Scartai la nuova Ansa che godeva di neonate Gilde di mercanti e finalmente vidi le lunghe onde e i cormorani. Smarrii la corrente dei ricordi e mi ritrovai sotto la stessa barca dove la Speranza remava con l’Amore in un’orgia di flutti garantita dai Tritoni. Balbettai un’angoscia incoerente nel vedere torpediniere e sottomarini terra d’ombra naturale solcare come immense rughe di vecchiaia la fronte del mare. Sul ponte di una nave riconobbi il capitano, dentro un sigaro d’acqua lo vidi guardiamarina. Ne afferrai le prore per leggerci le parole quelle che non pronunciò, rifacendomi Sirena. Cantai la nostalgia di tutti quei ritorni, abbandonati in lampi di silenzi. Cantai per lui che amavo, che mi raschiò via dal mondo in gesti e negligenze. Non spararono i siluri – non quella volta –. Si calmarono le acque. Si mossero le orche insieme a maghi e dei. 85 Centocinquantarighe Contemplarono il mio amore fischiato coralmente dai delfini, il mio amore nato per gemmazione, colpevole di fiducia. Il mio amore per un uomo di carne e sangue e guerra, il mio amore per un uomo con un cuore come garza di nebbia. Annalisa Rossi, Bra 86 L’artista L’autore delle illustrazioni di copertina, Claudio Parentela, nasce a Catanzaro nel 1962, dove vive e lavora. È un illustratore, pittore, fotografo, mail artista, collagista, cartoonist, giornalista free lance, attivo da molti anni nella scena underground internazionale. Ha collaborato e collabora con tantissime zines, magazines di arte contemporanea, letterarie e di comics in Italia e nel mondo, sia sulla carta, sia sul web, ad esempio: Komix.it, BrainTwisting, Lo Sciacallo Elettronico, Inguine, Stripburger, Lavirint, Komikaze, ConArt, The Lummox Journal, The Cherotic R(e)volutionary, Sick Puppy, Malefact, Gordo.it, johnmagazine, Abusemagazine, Zupi, Lamette, Chance, Lucid Moon, Que Suerte, Art Life. Nel 1999 è stato ospite del BREAK 21 FESTIVAL di Ljubliana (Slovenja), i suoi oscuri e pazzi lavori sono presenti ed esposti in tantissime gallerie nello sterminato e misterioso web… e poi ancora al “Girasole” (Villa Basilica), al “Tabula Rasa” (Barcellona), al Forte Prenestino (Roma), a Skorie Industriali (Roma), allo Spazio Aurora (Mi), alla Andenken Gallery (USA), alla Fira Magica de Santa Susanna (Spagna), alla Red Labels (Toronto-Canada), al “Sage Club” (Berlino) ed in moltissimi altri luoghi in Italia e nel mondo. Per informazioni e contatti: http://www.claudioparentela.net http://claudioparentela.altervista.org 87 Notizie NIENTEGUERRE Poesia contro ogni violenza VIII edizione – 2009 Le edizioni del Foglio Clandestino selezionano testi poetici per la realizzazione di una raccolta di poesie sul tema NIENTEGUERRE – Poesia contro ogni violenza. Il comitato di lettura selezionerà per la pubblicazione i testi migliori. L’adesione è libera; le partecipanti e i partecipanti possono inviare da 1 a 3 poesie in due copie, per un massimo di 30 versi ciascuna (per l’invio tramite e-mail è sufficiente inviare un’unica copia). A parte, o in calce ai testi inviati, si dovranno indicare: nome e cognome dell’autore, un recapito postale e l’e-mail. Non è richiesta alcuna quota di partecipazione o tassa di lettura. È gradito un contributo libero per la copertura delle spese di realizzazione e invio a tutti i partecipanti del volume che verrà stampato per l’occasione. Se il materiale non avrà qualità sufficiente per una pubblicazione autonoma, i testi più interessanti verranno inclusi in questo aperiodico. Per i contributi usare il conto bancoposta n. 37 47 62 07 con IBAN IT43 J076 0101 6000 0003 7476 207 intestato a Gilberto Gavioli. I testi devono pervenire entro il 31 luglio 2009 ed essere inviati, con rif. Nienteguerre, a: Casella Postale n. 67 – 20099 Sesto San Giovanni (Mi) oppure [email protected] 88 Notizie A partire dal prossimo numero del nostro aperiodico proponiamo spazi-finestre di comunicazione da inserire sulla quarta di copertina o all’interno della pubblicazione. La nostra ricerca è rivolta esclusivamente al settore culturale e letterario (ad es. libri, riviste, autori, blog, editori, aziende, siti, artisti). Naturalmente opereremo una selezione delle richieste ricevute, al fine di ottenere non soltanto un “respiro economico”, ma soprattutto per avviare nuove collaborazioni e immaginare futuri progetti comuni. per contatti e informazioni: [email protected] mobile 320/8695845 oppure 340/8296907 89 Notizie edizioni del Foglio Clandestino Potete acquistare i volumi pubblicati sul sito delle nostre edizioni. Inoltre, con il codice ISBN, potete richiederli nelle librerie della vostra zona oppure on line. Petr Halmay: L’impronta del tempo, € 8,00 Francesca Bonelli: Reiki. Un percorso verso il benessere, € 12,00 Massimo Baraldi: One for the road, € 12,00 Verrà effettuato uno sconto del 10% a chi sostiene l’impegno editoriale dell’aperiodico. Per informazioni e acquisti: edizionidelfoglioclandestino.it [email protected] mobile 340/82.96.907 90