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IL FOGLIO CLANDESTINO DI POETI E NARRATORI
APERIODICO AD APPARIZIONE ALEATORIA
A NNO XVI – N UMERO
S ESSANTAC INQUE
– II/2008 –
NUOVA SER IE
SOMMARIO
AFILDIPENNA:
TRADUZIONE:
TRA GLI SCAFFALI:
INTERVENTI:
SFULINGO:
LETTERE:
POESIA
Fernando Pessoa:
Angelo M. Ripellino:
Alberto Rizzi:
Matteo Pazzi:
Piccola antologia:
Della libertà… condizionata
Libertà di Raymond Queneau
Dmitrij Anatol’evič Grigor’ev (1960)
traduzione di Paolo Galvagni
Heberto Padilla (1932-2000)
traduzione di Gordiano Lupi
Alexandre Romanès (1951)
Da Un peuple de promeneurs di Felice Bonalumi
Heberto Padilla un poeta contro il regime
di Gordiano Lupi
Sguardo sulla lirica femminile… (II)
a cura di Antonella Zambelloni
Nel segno di Visnu e di Siva di Guglielmo Aprile
E. M. Cioran, ‘divorare il silenzio’ (I)
scelta e traduzione a cura di Massimo Barbaro
Varlam Šalamov, Parole salvate dalle fiamme
Il fiore che sei voglio… trad. di Leonardo Eriu
Lazzaro si nascose in una tomba
Da La luce, lo specchio
Tre poesie inedite
S. Aldeni, A. Cecchetti, A. Pardi, M. Fantuzzi,
M. Fregni, V. Guaraglia, P. Lezziero,
E. P. Taormina
NARRATIVA
Silvana Mosca:
Coming out
Ambrose Bierce:
L’allucinazione di Staley Fleming
Centocinquantarighe: Il viaggio della sirena di Annalisa Rossi
L’artista:
Claudio Parentela
NOTIZIE
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Afildipenna
DELLA LIBERTÀ… CONDIZIONATA
Chi legge queste e altre righe, sparse in editoriali, a volte anche
saggi o autorevoli, certo non si interessa delle difficoltà relative
alla creazione di una pubblicazione letteraria o culturale: lo
sappiamo bene.
Ci permettiamo però questa nota, lasciando poi spazio alla lettura.
Talvolta si sente citare il quinto emendamento della Costituzione
americana, che protegge la libertà individuale, mentre nella nostra
Costituzione si legge, all’articolo 21: «Tutti hanno diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto
e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere
soggetta ad autorizzazioni o censure». Eppure…
La nostra pubblicazione ha scelto di essere aperiodica, per diversi
motivi, in pratica però non “deve” esistere, dato che non è
possibile registrarla come tale presso il tribunale (per i periodici
occorre un direttore responsabile, naturalmente un giornalista o
pubblicista, seppure la categoria non brilli spesso per indipendenza
e cultura letteraria); non è possibile usare il codice ISBN che è per
i libri, né quello ISSN che è per i periodici… La strada della
pubblicazione fuori commercio, senza scopo di lucro non è
percorribile, pare, perché una casa editrice è pur sempre
un’impresa commerciale destinata a creare utili (so che gli amici
editori sorridono già amaramente)… e via di questo passo, verso il
silenzio. E lo stesso problema condiziona i molti blog, notiziari e
pubblicazioni on line, non periodicamente aggiornati e che non
hanno impostazioni prettamente giornalistiche.
Occupandoci di poesia (ne abbiamo la pretesa), tutti questi
ostacoli ci fanno rabbia e, meno spesso, destano sorrisi.
Vorremmo davvero che la poesia fosse il gratuito, il dono alto da
condividere tra molti (anche se, come scriveva Paul Celan, questi
sono “doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino”), ma
sembra che la questione sia fumosa e controversa. Sappiamo che
qualche rivista appone tranquillamente l’ISBN... Un’altra strada
sarebbe quella di optare per numeri monografici o tematici, ma
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Afildipenna
questo lo riteniamo sempre un limite alla nostra libertà e non solo
di stampa.
Da qualche tempo ci siamo attivati per trovare almeno uno
sponsor lungimirante (spero che anche questo “messaggio in
bottiglia” possa aiutare), che ci liberi dall’obbligo di apporre un
prezzo, gestire vendite e abbonamenti. I tempi, in ogni caso, non
paiono essere i più propizi e del resto la parola cultura è ormai
talmente atrofizzata o enfatizzata che è complesso anche spiegare
un impegno così aleatorio come è quello di “volersi” occupare di
letteratura e poesia. Già sentiamo aleggiare la domanda: sì editore
d’accordo, letteratura: passi pure, ma, in realtà, che lavoro fai?
Si vedrà. Per il momento abbiamo scelto: oltre a comporre e
diffondere, malvagiamente, un nuovo numero dell’aperiodico,
inseriamo in avvio il testo del Queneau surrealista. Decidiamo
quindi, follemente senza dubbio, di brandire al vento e con
tenacia, ancora una volta, la spada di legno dell’ironia. Sognando
che quel legno possa germogliare, sempre e in ogni luogo, anche
dentro di voi.
Buona lettura.
gg
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Afildipenna
LIBERTÀ
di Raymond Queneau
Libertà! Libertà! Centocinquanta anni fa (lo scritto è del 1924 n.
d. c.), sei riuscita a gettare la Francia su tutta l’Europa; è vero che
ad animare le armate rivoluzionarie erano a quel tempo soprattutto
l’uguaglianza e la ragione. Ma ora, Libertà, ti vogliamo intera. Il
potere conferito alle parole da quando gli uomini parlano cercando
invano di aprire gli animi ai loro simili, è in te, Libertà, che mi
pare più magnifico.
Alle spaventose condizioni di vita che ci sono accordate, alle
miserie quotidiane cui siamo condannati, all’ignominia di un
mondo che dovrebbe essere mirabile, tale parola oppone le ultime
energie della nostra disperazione.
Quanto disprezzo i sociologi che hanno reso la libertà un
simulacro infamante. L’hanno trasformata in un fantoccio per
riunioni politiche, in una nuova oppressione, in una formula incisa
nelle scuole, le caserme e le prigioni. Che dire degli inventori
della «libertà attraverso l’autorità»! Che farmene di una simile
libertà? È buona soltanto per i gabinetti dove la raggiungeranno
l’uguaglianza e la fraternità fittizie di una Terza (?) Repubblica.
Farfugliano all’infinito sulla libertà di coscienza, ma della
libertà di esprimere il proprio pensiero non se ne parla mai, se non
per limitarla e distruggerla (leggi contro gli scritti pornografici, le
macchinazioni anarchiche ecc.). Non siamo liberi di agire, non
siamo liberi di sentire: di carezzare certe donne, di vedere certi
oggetti, di sentire certi profumi, di gustare certi cibi, di sentire
certe parole. Leggete i cartelli: “Sala riservata” – “Museo segreto”
– “Caccia controllata” – “Vietato al pubblico” – “Divieto di
toccare, di entrare, di fumare” ecc. Guardate che resta della vostra
libertà!
C’è un pericolo ancora più grande: i legami sociali che
limitano la nostra libertà all’esterno hanno il loro equivalente per
la nostra libertà interiore. L’influenza dell’“ambiente sociale” sul
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Queneau
nostro pensiero è un luogo comune che i sociologi sviluppano con
compiacenza (e per che inconfessabili scopi!). Costume, abitudine,
linguaggio: oppressioni che non bisogna stancarsi di denunciare.
Parliamo dunque della libertà dello spirito e della sua liberazione.
Da ‘Textes surréalistes, 1924-1928’. Tratto da La donna, la
libertà, l’amore. Un’antologia del surrealismo (a cura di P.
Dècina Lombardi), Mondadori, Milano 2008.
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Traduzione
DMITRIJ ANATOL’EVIČ GRIGOR’EV
(1960)
БЕРЕМЕННЫЕ ГУЛЯЮТ ПО САДУ
Беременные гуляют по саду,
большими животами-аквариумами раскачивают,
где человеческими рыбами
шевелится растет их бессмертие,
а я прохожу насквозь
этот осыпающийся словами садик,
пока не упало небо в пустые ладони деревьев,
пока еще бледный всадник
незаметен среди разноцветных детей
на фоне белого снега.
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Grigor’ev
DMITRIJ ANATOL’EVIČ GRIGOR’EV
traduzione di Paolo Galvagni
Donne incinte camminano nel giardino
Donne incinte camminano nel giardino,
fanno dondolare i grossi ventri – acquari,
dove come pesci umani
si muove, cresce la loro immortalità,
e io attraverso da parte a parte
questo giardinetto che è cosparso di parole,
finché il cielo non è caduto sulle mani vuote degli alberi,
finché un cavaliere ancora pallido
è impercettibile in mezzo ai bimbi variopinti
sullo sfondo della neve bianca.
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Traduzione
ЖИЗНЬ
В красной беседке –
прекрасные женщины,
в зеленой траве – кузнечики,
в цветах – пчелы,
а я – на куче песка,
в моей руке птица – тоска,
а в другой руке – вечности горсть,
и пока это все мною схвачено
словно мед течет время дачное,
и проходит мимо ворот
та, что косит и жнет.
КАЛИНИНГРАД: ЛЕТО
День становится тихим и вялым,
гладит рукой невзрачный цветок,
укрывается облаком-одеялом,
и на губах оставляет песок.
Пляжники, поеживаясь от холода,
надевают юбки, надевают штаны,
лишь собиратели янтаря голые
бродят вдоль самого края волны,
а над ними висит паутина
чаек полетов в небе белёсом,
а под ними в зелёной тине
солнца погасшего желтые слёзы.
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Grigor’ev
LA VITA
Nel chiosco rosso
ci sono donne stupende,
sull’erba verde – i grilli,
sui fiori le api,
e io me ne sto su un mucchio di sabbia,
in una mano ho l’uccello-uggia,
nell’altra – una manciata di eternità,
e mentre tutto questo è afferrato da me,
come miele fluisce il tempo alla dacia,
e passa accanto alla porta
colei che falcia e miete.
KALININGRAD: ESTATE*
La giornata diventa quieta e fiacca,
accarezza con la mano un misero fiore,
è nascosta da una nube-plaid,
e sulle labbra lascia la sabbia.
I bagnanti, rannicchiandosi per il freddo,
indossano le gonne, indossano i pantaloni,
solo i raccoglitori di ambra vagano
nudi lungo il margine di un’onda,
sopra di essi è sospesa la ragnatela
dei voli dei gabbiani nel cielo biancastro,
sotto di essi tra le alghe verdi campeggiano
le lacrime gialle del sole scolorito.
*
Enclave russa sul Mar Baltico, tra Polonia e Lettonia.
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Traduzione
ТАНЦУЙ, САЛОМЕЯ, ЧЬЮ ГОЛОВУ ТЫ...
Танцуй, Саломея, чью голову ты попросишь,
кому в серебре на красном лежать снегу,
белый ягнёнок давно принесен в жертву,
и под землёй нарастает гул,
ты стала другой, сквозь лёд пробивается пламя,
и люди вокруг застыли камнями,
даже птицы висят неподвижно
когда ты взмахиваешь руками,
танцуй между нами — мы еще можем кричать:
Танцуй, пока время играет широким подолом
юбки твоей разноцветной, огнём твоего костра!
Но даже сбросив одежду и потеряв голову
снять невозможно всё прошлое:
эту родинку, этот шрам…
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Grigor’ev
Danza, Salomè, di chi chiederai la testa
Danza, Salomè, di chi chiederai la testa,
chi giacerà sull’argento nella neve rossa,
un agnellino bianco da tempo è stato sacrificato,
e sotto terra cresce il fragore,
sei divenuta un’altra, dal ghiaccio spunta la fiamma,
e attorno le persone sono irrigidite come pietre,
perfino gli uccelli se ne stanno immobili
quando tu agiti le mani,
danza in mezzo a noi – possiamo ancora urlare:
Danza, finché il tempo gioca con l’ampio lembo
della tua gonna variopinta, col fuoco del tuo falò!
Ma anche gettando gli abiti e perdendo la testa,
è impossibile cancellare tutto il passato:
quel neo, quella cicatrice…
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Traduzione
КОГДА ПОЮ, МНЕ ЛЕГЧЕ ДЫШАТЬ
Когда пою, мне легче дышать,
когда пою, поднимаясь наверх,
песней я отпугиваю смерть –
она не умеет петь.
Она стоит в проеме окна
и ждет, когда я замолчу,
чтобы начать самой жить,
а меня на стол положить,
положить, словно праздничный торт,
на котором и свечи, и крест,
но который никто не ест,
оставляя все на потом.
Но пою – и легче дышать,
поднимаюсь наверх не спеша,
и странная тень в окне
шелестит, подпевая мне.
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Grigor’ev
Quando canto, respiro più lievemente
Quando canto, respiro più lievemente,
quando canto, sollevandomi in alto,
spavento la morte con le canzoni –
essa non sa cantare.
Se ne sta nel vano della finestra
e attende che io taccia,
per cominciare a vivere,
e depormi sul tavolo,*
depormi come la torta di una festa,
sulla quale ci sono le candele e una croce,
ma che nessuno mangia,
lasciando tutto per dopo.
Ma canto – ed è più lieve respirare,
mi sollevo in alto senza fretta,
e una strana ombra alla finestra
fruscia, accompagnandomi nel canto.
* Riferimento all’usanza russa di sistemare il defunto sulla tavola
da pranzo.
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Traduzione
ЗАБОЛЕЛО ВРЕМЯ
Заболело время,
странные микробы в нем поселились:
мельтешат, хвостиками машут –
порой возвращается день вчерашний,
а порой завтра приходит на день раньше,
где микробов еще больше,
потому и происходят недоразумения,
стоит работа в недоумении,
не случаются встречи,
время уже никого не лечит,
лишь напрасно людьми убивается
и само в лечении нуждается.
ХРАМЫ СТОЯТ ВДОЛЬ СТАРЫХ ДОРОГ
храмы стоят вдоль старых дорог
дьявол приходит на перекрестки
А в стороне – совсем никого
одни перелески да отголоски
лисица по ветру держит нос
ветер пахнет бензином и рыбой
на доски гнилые, на мертвый погост
небо бросает серые глыбы
ржавое пламя мелькает по траве
улитками смотрят чужие могилы
кому ты продашь своих червей
мой мертвый бог, мой милый?
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Grigor’ev
Si è ammalato il tempo
Si è ammalato il tempo,
strani microbi vi si sono stabiliti:
balenano, dimenano le piccole code –
talvolta ritorna la giornata di ieri,
e talvolta il domani arriva un giorno prima,
dove i microbi sono ancor di più,
pertanto si verificano gli equivoci,
il lavoro se ne sta imbarazzato,
non avvengono gli incontri,
il tempo non cura più nessuno,
viene solo ucciso invano dalla gente,
esso stesso ha bisogno di cure.
i templi stanno lungo vecchie strade
i templi stanno lungo vecchie strade
il diavolo arriva agli incroci
e di lato – non c’è proprio nessuno
solo i boschetti e gli echi
una volpe al vento regge il naso
il vento sa di benzina e di pesce
il cielo lancia massi grigi
sulle assi marce, sull’esanime camposanto
una fiamma color ruggine balena sull’erba
come chiocciole paiono le tombe altrui
a chi venderai i tuoi vermi
mio dio morto, mio caro?
15
Traduzione
МЫСЛИ
Мысли
пустые легкие
будто пластиковые стаканчики
в каплях красного вина
улетают по ветру
из летнего кафе:
не все еще выпито,
не все еще сказано,
и девушка за стойкой
танцует в ожидании гостей.
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Grigor’ev
I pensieri
I pensieri
vuoti leggeri
come bicchierini di plastica
coperti da gocce di vino rosso
se ne volano sul vento
da una caffetteria estiva:
non tutto ancora è stato bevuto,
non tutto ancora è stato detto,
e la ragazza dietro il bancone
danza in attesa degli ospiti.
Dmitrij Anatol’evič Grigor’ev nasce nel 1960 a Leningrado/Pietroburgo, dove vive tuttora. Studia chimica nella sua città. È
poeta e prosatore. Ha svolto i lavori più vari: cementista, carpentiere, decoratore, redattore, fuochista. Grande viaggiatore, ha
esplorato molte montagne (dal Caucaso all’Himalaya). Sino al
1989 i suoi versi circolavano negli ambienti samizdat. Dal 1990 i
suoi versi sono apparsi sulle riviste «Černovik», «Arion», «Neva»,
«Indeks», «Futurum Art», «Rodnik», «Mnogotočie», «Zerkalo»,
«Zvezda», «NLO», «Kreščatik», «Družba narodov» e nei volumi
collettivi: Vremja Č [L’ora X] (2001), Russkij verlibr [Il verso
libero russo] (2002), Legko byt’ iskrennym [È facile essere sinceri]
(2002), Stichi v Peterburge [Versi a Pietroburgo] (2005). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Stichi raznych let [Versi di vari anni]
(1992), Perekrëstki [Incroci] (1995), Zapiski na obočine [Appunti
sul ciglio della strada] (2000) e i romanzi Poslednij vrag [L’ultimo
nemico] (1994), Storož noči [Il custode della notte] (1996), Gospodin veter [Il signore vento] (2002). Al 2005 risale il volume
Ognennyj dvornik [Il netturbino infuocato], che raccoglie racconti
e versi. Cura il sito http://www.geocities.com/vrpdg.
17
Traduzione
HEBERTO PADILLA
(1932 – 2000)
EL ÚNICO POEMA
Entre la realidad y el imposible
se bambolea el único poema. Retenlo
con las manos, o con las uñas, o con los ojos
(si es que puedes) o la respiración ansiosa.
Dótalo, con paciencia, de tu amor
(que él vive sólo entre las cosas).
Dale rechazos que vencer
y otra exigencia
mucho mayor que un límite,
que un goce.
Que te descubra diestro, porque es ágil;
con los oídos alertas, porque es sordo;
con los ojos muy abiertos, porque es ciego.
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Padilla
HEBERTO PADILLA
traduzione di Gordiano Lupi
L’UNICO POEMA
Tra la realtà e l’impossibile
oscilla l’unico poema. Trattienilo
con le mani, o con le unghie, o con gli occhi
(se puoi farlo) o la respirazione ansiosa.
Dotalo, con pazienza, del tuo amore
(che lui vive solo tra le cose).
Dagli rifiuti da vincere
e altre esigenze
molto più grandi di un limite,
che un piacere.
Che ti scopra abile, perché è agile:
con le orecchie aperte, perché è sordo;
con gli occhi molto aperti, perché è cieco.
19
Traduzione
POÉTICA
Di la verdad.
Di, al menos, tu verdad.
Y después
deja que cualquier cosa ocurra:
que te rompan la página querida,
que te tumben a pedradas la puerta,
que la gente
se amontone delante de tu cuerpo
como si fueras
un prodigio o un muerto
PARA ESCRIBIR EN EL ÁLBUM DE UN TIRANO
Protégete de los vacilantes,
porque un día sabrán lo que no quieren.
Protégete de los balbucientes,
de Juan-el-gago, Pedro-el-mudo,
porque descubrirán un día su voz fuerte.
Protégete de los tímidos y los apabullados,
porque un día dejarán de ponerse de pie cuando entres.
20
Padilla
POETICA
Dì la verità
Dì, almeno, la tua verità.
E poi
lascia che succeda qualsiasi cosa:
che ti strappino la pagina preferita,
che ti abbattano la porta a colpi di pietra,
che la gente
si accalchi davanti al tuo corpo
come se tu fossi
un prodigio o un morto
DA SCRIVERE NELL’ALBUM DI UN TIRANNO
Guardati dai titubanti,
perché un giorno sapranno quello che non vogliono.
Guardati dai balbuzienti,
da Juan tartaglia, Pedro il muto,
perché un giorno scopriranno la loro voce forte.
Guardati dai timidi e dagli umili,
perché un giorno smetteranno di alzarsi in piedi quando entri.
21
Traduzione
BAJORRELIEVE PARA LOS CONDENADOS
El puñetazo en plena cara
y el empujón a medianoche son la flor de los condenados.
El vamos, coño, y acaba de decirlo todo de una vez,
es el crisantemo de los condenados.
No hay luna más radiante
que esa lápida enorme que cae de noche entre los condenados.
No hay armazón que pueda apuntalar huesos de condenados.
La peste y la luz encaramadas como una gata rodeando la
[mazmorra;
todo lo que lanzó la propaganda
como quien dona un patíbulo;
el Haga el amor no haga la guerra
(esos lemitas importados de Europa)
son patadas en los testículos de los condenados.
Los transeúntes que compran los periódicos del mediodía
por pura curiosidad, son los verdugos de los condenados.
22
Padilla
BASSORILIEVO PER I CONDANNATI
Il pugno in piena faccia
e lo spintone a mezzanotte sono il fiore dei condannati.
Il andiamo, cazzo, e smetti di dirlo tutto in una volta,
è il crisantemo dei condannati.
Non c’è luna più splendente
di questa lapide enorme che cade di notte tra i condannati.
Non c’è struttura che possa sostenere le ossa del condannato.
Il puzzo e la luce arrampicata come una gatta che vaga per la
[prigione;
tutto quello che lanciò la propaganda
come chi regala un patibolo;
il Fate l’amore non fate la guerra
(questi motti importati dall’Europa)
Sono pedate nei testicoli dei condannati.
I passanti che comprano i periodici del mezzogiorno
per pura curiosità, sono i boia dei condannati.
23
Traduzione
CADA VEZ QUE REGRESO DE ALGÚN VIAJE
Cada vez que regreso de algún viaje
me advierten mis amigos que a mi lado se oye un gran estruendo.
Y no es porque declare con aire soñador
lo hermoso que es el mundo
o gesticule como si anduviera
aún bajo el acueducto romano de Segovia.
Puede ocurrir que llegue
sin agujero en los zapatos,
que mi corbata tenga otro color,
que mi pelo encanezca,
que todas las muchachas recostadas en mi hombro
dejen en mi pecho su temblor,
que esté pegando gritos
o se hayan vuelto
definitivamente sordos mis amigos.
24
Padilla
OGNI VOLTA CHE TORNO DA QUALCHE VIAGGIO
Ogni volta che torno da qualche viaggio
mi avvertono i miei amici che accanto a me si ode un grande
[strepito.
E non è perché dichiari con aria sognatrice
quanto è splendido il mondo
o gesticoli come se camminassi
ancora sotto l’acquedotto romano di Segovia.
Può capitare che arrivi
senza fori alle scarpe,
che la mia cravatta abbia un altro colore,
che i miei capelli incanutiscano,
che tutte le ragazze appoggiate alle mie spalle
lascino sul mio petto il loro tremito,
che mi rimangano addosso le grida
o siano diventati
definitivamente sordi i miei amici.
I testi in lingua originale sono tratti da: Fuera del juego – Edición
Conmemorativa 1968/1998 – Ediciones Universal, Miami,
Florida, 1998. Traduzione di Gordiano Lupi.
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Tra gli scaffali
ALEXANDRE ROMANÈS
di Felice Bonalumi
Gli elementi per fare di Alexandre Romanès un’icona romantica
non mancano. Nato nel 1951 in una grande famiglia circense
trasferitasi in Francia dall’Italia, quella di Firmin Bouglione, la
lascia a 25 anni, perché il circo è diventato un’azienda, ha perso la
sua magia. Una rottura, una ribellione: così deve essere
interpretato, nella cultura tzigana, questo atto.
Non solo: il gesto permette di interpretare da questo momento la
vita di Alexandre Romanès come un impegno a recuperare la
“vera” anima tzigana. Vive in una roulotte in un campo tzigano
suonando musica barocca e del Rinascimento, impagliando sedie
ed esibendosi in numeri di equilibrismo per strada. Nel grande
campo nomadi di Nanterre, oggi smantellato, incontra Delia,
gitana rumeno-ungherese: lei ha già tre figlie e un marito che se ne
è andato, insieme di figlie ne avranno altre due.
Un giorno del 1976, mentre sta facendo un numero in equilibrio
sulla scala libera a Saint-Germain-des-Prés, lo avvicina Jean
Genet: i due rimangono amici fino alla morte dello scrittore, nel
1986, e progettano insieme uno spettacolo circense di ben 4 ore,
mai realizzato.
Il richiamo del circo è nel sangue e nel 1994 Alexandre e Delia
innalzano un tendone dietro Place Clichy a Parigi su un terreno
che hanno gratis fino alla morte della ricca aristocratica e
benefattrice, madame Carmignani. Un piccolo circo, il Cirque
Romanès, che inizia tuttavia ad essere un punto di incontro di
artisti. Ma soprattutto, il primo circo tzigano, con veri musicisti,
acrobati e giocolieri tzigani.
Nel frattempo l’imponderabile è successo: Alexandre, grazie a
Delia, ha imparato a leggere e a scrivere. Non solo, comincia a
riportare su un quaderno le storie che Delia gli racconta e suoi
pensieri.
Quando Christian Bobin, il grande scrittore, viene a sapere
dell’esistenza di questo quaderno, gli propone la pubblicazione: è
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Bonalumi
il 2000 e appare Un peuple de promeneurs (éditions Le temps
qu’il fait). Non è finita: nel 2003 Alexandre Romanès invia a
Gallimard un suo quaderno scritto a mano. Questa volta ci sono
poesie e nel 2004 esce Paroles perdues con la prefazione di Jean
Grosjean, altro poeta e amico.
A completare il quadro si possono aggiungere alcune dichiarazioni
dello stesso Alexandre Romanès tra le quali quella per cui non
riuscirebbe a leggere romanzi, mentre la Bibbia è il testo su cui
torna ripetutamente.
Ma è evidente che altro è il problema ed è lo stesso autore a porlo
nella prima pagina di Paroles perdues:
«Perché ho scritto? La scrittura non è una tradizione gitana. La
poesia mi sembrava troppo elevata per me, inaccessibile, e poi io
la vita volevo viverla, non scriverla. Io me ne sono fatto una
ragione, ma il cielo no. Lentamente, al ritmo delle stagioni che
passano, ho riempito un quaderno di scuola. Quello che so è che ci
sono poeti che ammiro. Forse non ho sopportato di vederli
passare. Ho voluto essere uno di loro.»
La scrittura come strappo: credo sia questo il senso delle parole di
Alexandre Romanès. Strappo rispetto a una tradizione orale anche
se questo, per quanto importante, penso sia l’aspetto meno
significativo. Si può al più dire che anche per i tzigani è arrivato il
momento del passaggio alla scrittura, come per tante etnie nel
passato.
Strappo rispetto a una cultura scritta che ha nella poesia il
momento più elevato. La cultura degli “altri”, di quegli “altri” che
circondano i tzigani, è considerata non solo diversa, ma superiore,
addirittura “inaccessibile”. Tuttavia scardinare quella porta è stato
possibile, con uno “strascico” quasi teologico: il soggetto,
Alexandre Romanès, se ne è fatto una ragione, “il cielo no.”
Questo comincia ad essere un vero strappo: scrivere è essere
individui, è porsi in una posizione diversa rispetto agli altri
membri del proprio popolo. Certo, per quest’ultimo si scrive, ma
l’interpretazione della vita e della realtà è irrimediabilmente
personale. L’individualismo, centro della cultura degli altri, ha
fatto capolino nel cielo dei tzigani e per questo, forse, il perdono
non è possibile.
Se poi si accetta la giustificazione che il poeta dà, questa appare
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Tra gli scaffali
paradossalmente quanto mai vera: ha voluto essere come uno dei
poeti ammirati ed effettivamente la sua vita è costellata da molti
poeti e scrittori che l’hanno conosciuto e frequentato. Vera perché
in quel “non ho sopportato di vederli passare” c’è tutto il rapporto
tra vita e morte che è importante nella cultura tzigana: dunque, la
riconciliazione sperata se non raggiunta avviene recuperando uno
dei centri della propria cultura.
Eppure ho solo sfiorato il problema che è nel rapporto parola-vita:
“e poi io la vita volevo viverla, non scriverla.” Questa
affermazione ci dà la chiave di interpretazione sia delle poesie sia
dei pensieri di cui qui presento una breve scelta.
Il rapporto tra parola e vita è portatore di menzogna, sempre, e
Alexandre Romanès non ha dubbi in proposito, al più tale rapporto
si può mitigare, cercare di renderlo meno doloroso. Come?
Quando la parola indica una sola cosa, nel senso di oggetto e/o di
azione, quando la poesia e i pensieri/aforismi parlano di cose e
non di idee, quando si accetta il silenzio davanti al cielo e non si
cercano parole che sarebbero inutili. Ecco, allora il rapporto
parola-vita non è più vero, ma certamente è più diretto.
La “semplicità” delle poesie di Alexandre Romanès non è
raggiunta per sottrazione, ma per addizione di parole alla vita e
questa, per sua natura, vuole essere vissuta, non scritta. La
sinteticità fulminante di tanti pensieri di Un peuple de promeneurs
non è ricerca del colpo di scena o del bello: è la vita senza
ornamenti, allo stato puro. Per lo meno quello stato puro che la
parola, in questo caso scritta, concede.
28
Romanès
ALEXANDRE ROMANÈS (1951)
1.
La nonna alla nipote che sta per partire: «Ragazza mia, che Dio ti
accompagni e che tu possa rubare molto oro!»
2.
Delia: «La televisione è bizzarra: ci parla sempre del Papa, e mai
di Cristo.»
3.
Il mio bisnonno aveva tre donne e un orso. «Il noioso, diceva, è
l’orso.»
4.
Nella mia comunità, tutti gli uomini e tutte le donne più grandi di
noi, li chiamiamo mio zio e mia zia, anche se li vediamo per la
prima volta.
5.
Delia: «Quell’imbecille di Alberto, ne ha combinate tante che
Dorina l’ha lasciato. Non ha smesso di rimpiangerla. Lei aveva
tutte le qualità: pulita, coraggiosa, fedele… e che ladra!»
6.
Nella mia infanzia sono stato qualche mese a scuola, ma non
hanno potuto tenermi: non si è mai riusciti a farmi sedere.
7.
Accanto al circo c’è il cimitero di Clichy. Il solo posto tranquillo
del quartiere. Ci vado spesso a passeggio con le mie figlie. Leggo
su una tomba: Signor X, capoufficio. Che miseria…
8.
Mio padre: «Non c’è vergogna ad essere battuto. La vergogna, è
non battersi quando si deve.»
29
Tra gli scaffali
9.
Doina, undici figli: «“Quello là, ieri, gli ho dato una bella scarica
di botte, poi mi sono accorta, ma era troppo tardi, che avevo
sbagliato bambino.»
10.
A Tamara, undici anni: «Ti piacerebbe avere una casa?»
«Per farne cosa?»
11.
A ogni fermata, due legionari che ci seguivano, urtavano
leggermente il dietro della nostra auto. Senza dire niente mio
padre li seguiva con lo sguardo nel retrovisore. Dopo cinque o sei
fermate, vedendo che mio padre non reagiva, sono scesi dall’auto,
hanno aperto la nostra portiera e hanno detto a mio padre di uscire.
Ero molto giovane, ma ho pensato: «E’ come voler far uscire una
tigre dalla sua gabbia.»
Quando si sono trovati per terra a supplicare mio padre di smettere
di picchiarli, lui li ha messi sulla loro auto dicendo loro: «Se voi
foste rimasti tranquilli al vostro posto, avreste l’aria intelligente
come tutti.»
12.
Marius: «Se la polizia ti arresta e ti trova addosso un coltello sei
condannato. È quantomeno incredibile.»
13.
Un violinista frequenta la figlia di un giudice. È invitato a cena per
essere presentato ai genitori. L’atmosfera è fredda. Alla fine del
pasto, il giudice dice al ragazzo: «Giovanotto, so perché siete lì,
volete sposare mia figlia. Ma ciò non è possibile, perché ho saputo
una brutta notizia: sembra che voi siate ungherese.» Il ragazzo:
«State per avere un’altra brutta notizia: sono ungherese e tzigano.»
14.
Un grande fast-food a Parigi. Tutte le sere dopo la chiusura, il
padrone getta ciò che non è stato venduto e affinché il cibo gettato
non possa essere recuperato dai clochard lo cosparge di vetri rotti.
30
Romanès
15.
Un contadino offre il suo campo ai Gitani per passare l’inverno.
Entro qualche giorno il campo è pieno di roulotte. Il villaggio
passa da trecento a seicento abitanti. I commercianti sono contenti.
Droghiere, panettiere, macellaio si fregano le mani. Tutti, tranne il
libraio.
16.
In Spagna le tigri di mio cugino Roland erano scappate. Sono state
trovate tutte, meno una. Dopo una quindicina di giorni di ricerche
viene trovata in una fattoria fuori mano, tenuta da una vecchia.
Quando le hanno chiesto se non aveva avuto paura delle tigre, lei
non ha capito niente. Lei trovava che mangiava molte galline e che
era bella grossa, ma voleva tenerla. Mai, diceva, aveva visto un
gatto così bello.
17.
Una giovane donna era seduta davanti a una chiesa, con un
cartello ai suoi piedi. Il testo cambiava tutti i giorni. Non capivo
quello che scriveva, ma ciò non mi sembrava privo di interesse.
Un giorno due portinai si fermano davanti a lei. Uno dice all’altro:
«Non cercare di capire, è matta.»
A voler essere troppo acuti, si passa per stupidi.
18.
Mio cugino Sampion è furibondo: mi ha sentito dire alla radio che
la nostra famiglia è gitana. Gli prometto di dire d’ora in poi che
tutta la nostra famiglia è gitana, salvo mio cugino Sampion.
19.
I Giuliani erano così poveri che non avevano niente per scaldarsi.
La sera si picchiavano fra di loro per avere il cane nel letto.
20.
A forza di entrare e uscire dal campo di Nanterre sorvegliato dai
poliziotti della CRS, ho finito per simpatizzare con alcuni di loro.
È così che un giorno un giovane CRS mi ha chiesto se potevo
presentargli una giovane Gitana della quale si era innamorato. Era
31
Tra gli scaffali
pronto a sposarla se le fosse andato bene. Passava le sue giornate
seduto in alto su un mucchio di immondizie nella speranza di
scorgerla.
21.
A quindici anni mio cugino Roland ruba l’auto americana nuova
di zecca di suo padre. Arriva a cento all’ora ad un incrocio. Frena,
ma alla fine della corsa, investe un camion. Tutto il muso è
sfondato. Scende dall’auto, scende anche il conducente del
camion: è suo padre.
22.
Entro in un ristorante self-service con mia figlia Azra, di due anni.
Si passa davanti a decine di persone. Improvvisamente lascia la
mia mano, corre in direzione di un clochard in fondo alla sala, si
getta su di lui e lo abbraccia. Come è bello, non c’è niente da dire.
23.
A quella vecchia signora che dormiva per strada, Lina chiede:
«Allora voi non avete figli?» – «Sì, ne ho dieci.» – «E siete un
mezzo a una strada?» – «Sì, avrei dovuto farne undici.»
24.
Bisognerebbe avere due vite: una per imparare e l’altra per vivere.
Da Un peuple de promeneurs, éditions Le temps qu’il fait, Cognac
2000. Traduzione di Felice Bonalumi.
Un grazie all’amico Luciano Mutti che ha avuto la pazienza di leggere la
traduzione di Un peuple de promeneurs Un grazie per i preziosi
suggerimenti.
F. B.
32
Lupi
HEBERTO PADILLA,
UN POETA CONTRO IL REGIME
a cura di Gordiano Lupi
Heberto Padilla nasce a Puerta del Golpe, Pinar del Río, Cuba,
nel 1932. Trascorre la giovinezza nella sua provincia natale e si
laurea in giornalismo all’Avana, insegna poi lingue in alcune
università straniere. Scrive e parla francese, inglese, tedesco,
russo, italiano e greco. Lavora come professore di inglese e
commentatore radiofonico a Miami (1956-1959) per trasferirsi poi
a New York, dove lavora come traduttore delle Escuelas Berlitz.
Ritorna a Cuba ed è corrispondente di «Prensa Latina» a Londra e
della «Pravda» di Mosca. Collabora alla rivista «Unión» e dirige
“Cubartimpex”, organismo incaricato di selezionare i libri
stranieri. All’interno della Rivoluzione Cubana occupa importanti
incarichi direttivi, soprattutto nell’area delle relazioni
diplomatiche, intrattenendo contatti con numerosi intellettuali
stranieri. A partire dal 1966 comincia a commentare i problemi
politici su «Juventud Rebelde», il giornale ufficiale della gioventù
comunista. Nel 1967 si trova al centro di una polemica ideologica
a causa del suo libro Fuera del juego. Nonostante tutto, nel 1968,
quel volume ottiene il Premio Nacional de Poesía de la Unión de
Escritores y Artistas de Cuba. La premiazione segna l’inizio delle
difficoltà di Padilla, perché il comitato direttivo della UNEAC*
considera il libro assai critico e polemico, “controrivoluzionario” e
ne condanna il “contenuto ideologico”. Fuera del juego viene
pubblicato preceduto da due dichiarazioni: quella di Padilla che si
proclama fedele alla linea rivoluzionaria e quella dell’UNEAC che
lo critica. La successiva lettura del nuovo libro di poesie,
Provocaciones, davanti alla UNEAC, il 20 marzo del 1971,
produce una ridicola autocritica imposta e la successiva
detenzione dello scrittore.
Nella primavera del 1971 il mondo conosce il “Caso Padilla”, una
grande farsa montata dalle autorità culturali cubane e che ricorda i
processi sovietici. Heberto Padilla e sua moglie Belkis Cuza Malé,
33
Interventi
entrambi scrittori di riconosciuta grandezza, con opere premiate e
un vasto curriculum nel mondo delle lettere, sono obbligati a
ripetere un copione preventivamente concordato e orchestrato
dalla Sicurezza di Stato. Nella cosiddetta autocritica Padilla si
dichiara colpevole di essere un controrivoluzionario e di aver
commesso una serie di crimini politici. Nella confessione
coinvolge – come concordato – sua moglie: entrambi vengono
incarcerati. Molti uomini di cultura del mondo, soprattutto di
sinistra, reagiscono inviando lettere a Fidel Castro, facendo
pressione al fine di ottenere la loro liberazione. A protestare non
sono “intellettuali da salotto preoccupati solo di brillare e
distinguersi in una società decadente”, come li definisce Castro,
ma al contrario nomi importanti della cultura internazionale come
Jean-Paul Sartre, Carlos Fuentes e Mario Vargas Llosa. Il Caso
Padilla è la prima ferita aperta della Rivoluzione Cubana e la
prima vera crisi attraversata dal “paradiso comunista”.
Castro dice, riferendosi al libro Fuera del juego: «Per motivi di
principio ci sono alcuni libri dei quali non va pubblicato né un
esemplare, né un capitolo, né una pagina». Questa dichiarazione
evidenzia a chiare lettere – se mai ce ne fosse bisogno – il
carattere del suo regime e ancora oggi produce scandalo tra gli
intellettuali democratici. Nello stesso congresso vengono dettate
ridicole norme su come devono vestirsi i giovani cubani,
prediligendo l’uso della guayabera* come “capo di abbigliamento
tipico della identità nazionale”, ma persino la musica che deve
essere ascoltata alla radio. Viene proibita in maniera ufficiale e
radicale tutta la musica che può essere considerata deviazionismo
ideologico, soprattutto il rock. Viene fustigata l’omosessualità in
quanto delittuosa e si afferma che: «un omosessuale sarà portato
davanti alle autorità e processato legalmente soltanto per la
pubblica ostentazione della sua condizione».
Heberto Padilla viene demolito dai membri dell’UNEAC (Nicolas
Guillén in testa) che seguono alla lettera le indicazioni di Castro.
Non tutti gli uomini di cultura cubani si schierano dalla parte di
Castro, alcuni giovani intellettuali della zona di Santiago,
dichiaratamente ribelli e controcorrente, difendono l’opera di
Padilla. Le opinioni internazionali sul “Caso Padilla” si dividono.
Da un lato c’è la maggioranza che considera l’autocritica come
34
Lupi
una vera e propria farsa; dall’altro lato ci sono gli intellettuali
allineati e disciplinati che definiscono l’autocritica genuina,
considerano i due autori alla stregua di agenti della Cia che
consegnano le armi al nemico e contribuiscono al deviazionismo
ideologico.
Padilla chiede a Castro il permesso di lasciare il paese, ma gli
viene negato. Soltanto nel 1980 Padilla viene liberato e autorizzato
a lasciare il paese. In questo stesso anno conclude il romanzo En
mi jardín pastan los heroes, che viene tradotto in sette lingue (Nel
mio giardino pascolano gli eroi, Mondadori – purtroppo fuori
catalogo). Nel settembre del 2000, Padilla muore negli Stati Uniti,
in una stanza d’albergo in Alabama, per un infarto.
* UNEAC: Unión de Escritores y Artistas de Cuba.
* Guayabera: modello tradizionale di camicia maschile.
Il suo più importante libro di poesia è Fuera del Juego (premio
«Julián del Casal», concorso UNEAC, 1968), ma vanno citati
anche i precedenti: Las rosas audaces (1949) e El justo tiempo
humano (1962) e i successivi: Provocaciones (1973), El hombre
junto al mar (1981), Un puente, una casa de piedra (1998).
Padilla scrive anche due romanzi come El buscavidas (1963) e En
mi jardín pastan los héroes, (1986) e un saggio autobiografico
come La mala memoria (1989). Di Heberto Padilla nulla risulta
edito in italiano, a parte l’esaurita edizione suddetta. Che peccato!
www.infol.it/lupi
per contatti: [email protected]
35
Lirica femminile
SGUARDO SULLA LIRICA FEMMINILE DEL
CINQUECENTO (II)
L’amore tormentato e la passione perduta:
un petrarchismo sensuale
a cura di Antonella Zambelloni
Prosegue il nostro viaggio sulle figure femminili che si sono
imposte a livello letterario per alcune composizioni poetiche
peculiari. Se Veronica Gambara e Vittoria Colonna hanno
elaborato, come osservato nello scorso numero, una lirica raffinata
e ricca di molteplici spunti intimistici, ma che risentiva
maggiormente dell’influsso petrarchesco, sia per la forma sia per
le suggestioni tematiche, Gaspara Stampa e Veronica Franco si
impongono invece per un petrarchismo estremamente sensuale,
caratterizzato da una forte passione amorosa e da un’attenzione
particolare per il corpo, i sensi e quindi l’attrazione fisica.
È bene tener presente, infatti, che tradizionalmente il
petrarchismo, sulla scia di ciò che aveva già fatto Petrarca, non ha
mai connotati fisici, reali: di solito delinea la figura di una donna
eterea, assente, immaginata solo dalla mente del poeta, che non sa
come sia il tocco della sua mano, che non conosce il profumo della
sua pelle, ma che la osserva da lontano, come un gioiello che è
difficile da possedere. La distanza fisica e l’impedimento concreto
al possesso della donna amata, creano nell’animo del poeta un
sentimento di sofferenza, d’inadeguatezza, di struggimento
estremo, ma è chiaro che questi sentimenti sono legati alla mente,
alle idee, ai sogni. Spostare quindi l’attenzione su elementi reali,
su sensazioni e sentimento che sono realmente provati, parlare di
intimità e di amore concreto è chiaramente un’operazione ardua,
estrema, non convenzionale per l’epoca e per tutta una tradizione
letteraria che vedeva in Petrarca l’exemplum letterario da seguire e
da conoscere. Se a questo salto tematico si aggiunge anche il fatto
che sono due donne a trattare di sensazioni fisiche e di piacere
amoroso, appare quindi evidente la portata di tale fenomeno.
Non bisogna però ritenere che questa attenzione alla fisicità e alla
corporeità sia una sorta di anticipazione al movimento letterario
36
Zambelloni
che storicamente ha portato alla ribalta i sentimenti e le passioni,
ovvero il Romanticismo ottocentesco. Ogni fenomeno letterario va
inserito nel suo specifico contesto di origine e non possono quindi
essere accomunati o paragonati due movimenti letterari così
distanti: il peso della passione romantica è ben più forte e
pregnante di questa letteratura, che in ogni caso rimane legata al
clima lirico petrarchista. È certamente vero però che questa ricerca
di descrizione e di delineazione di elementi corporei, concreti e
reali dell’amore sarà un filone che si svilupperà con maggiore
forza solo successivamente e che qui ha un valido precursore. È
indubbiamente vero inoltre che questa mise en rélief della passione
riprende, seppur in toni e modi diversi, la poesia elegiaca latina e
greca che già aveva messo in evidenza il tormento amoroso
legandolo a figure femminili o maschili reali, realmente vissute
dal poeta. Tibullo, Properzio, Ovidio e Catullo, i maggiori poeti
latini di età augustea, parlano nelle loro opere di donne passionali
ma crudeli, che respingono il poeta dopo un breve momento di
felicità vissuto insieme. Narrano di un amore che toglie le forze e
il respiro, che fa soffrire perché non corrisposto, e che getta nello
sconforto. Ma forse la referente più prossima alle nostre poetesse è
la grande lirica Saffo che offre un’immagine semplice ma
appassionata dei propri sentimenti, equilibrata ma coinvolgente,
dove l’amore ha un ruolo da protagonista. Più di ogni altro poeta
prima di lei, Saffo indaga sulle emozioni provate da una persona
innamorata: si veda per esempio
Amore la mia anima squassa
come vento che sul monte tra le querce si abbatte.
Ecco che Amore di nuovo
mi dà tormento;
Amore che scioglie le membra,
Amore dolce e amaro
fiera sottile e invincibile
dove emerge il dissidio forte fra la felicità che l’amore provoca a
livello di elevazione e la sofferenza determinata dalla sua perdita.
Considerando questi elementi di principali si può ora effettuare
una caratterizzazione più specifica di queste due figure ancora
poco note nel panorama letterario.
37
Lirica femminile
Gaspara Stampa fu una donna colta e raffinata, che ebbe una
notevole educazione umanistica: conosceva bene la musica e l’arte
ed era un’appassionata lettrice di poesia. La sua vita è incentrata
sulla relazione con Collaltino di Collalto, signore della Marca
trevigiana. La storia tormentata non si è conclusa felicemente:
l’uomo non ricambiava in toto lo slancio affettivo della donna e
per questo, dopo alterne vicende, decise di lasciarla
definitivamente. I sonetti che compongono la raccolta della
Stampa, oltre 300 liriche, si sono prestati ad essere considerati
come la confessione di una donna legata alla travolgente passione
amorosa per un uomo restio a ricambiarla. Ma non sarebbe
corretto parlare di semplice diarismo: la donna è chiaramente
interessata a lasciare una precisa immagine di sé, cioè di una
eroina che rimane fedele all’amore, tanto da descriversi come
subalterna e schiava al “disleal signore”:
Io direi che pregaste prima Amore
che facesse cangiar voglia e pensiero
al nostro crudo e disleal signore;
ma so che saria invan, perché sì fiero,
così indurato ed ostinato core
non ebbe mai illustre cavaliero.
Oppure
Or ti chiama fedele, or disleale;
or fa pace con teco, ed or s’adira;
ora ti si dà in preda, or si ritira;
or nel ben teme, ed or spera nel male;
or s’alza al cielo, or cade ne l’inferno;
or è lunge dal lido, or giunge in porto;
or trema a mezza state, or suda il verno.
Ma la poetessa è bene attenta anche a descrivere quanto sia penosa
e dolorosa la perdita, quanto sia tormentoso amare senza essere
ricambiati, quanto costi continuare a sperare che la persona
oggetto della passione si accorga finalmente di quanto le si possa
offrire, e lo fa con una delicatezza e un’attenzione che sono del
tutto femminili, con uno slancio che è intriso di dolore e angoscia,
di quell’angoscia determinata dall’impossibilità, e dell’aspra
denuncia alle pene che l’amato le procura:
38
Zambelloni
Una inaudita e nova crudeltate,
un esser al fuggir pronto e leggiero,
un andar troppo di sue doti altero,
un torre ad altri la sua libertate,
un vedermi penar senza pietate,
un aver sempre a’ miei danni il pensiero,
un rider di mia morte quando pèro,
un aver voglie ognor fredde e gelate
La Stampa, attraverso questa enfatizzazione della negazione
dell’amore e dell’impossibilità di essere amata, tende a
rappresentare la sua naturale elevazione spirituale a sopportare tali
sofferenze amorose, che un animo non così puro mai potrebbe
tollerare. Il tutto attraverso un linguaggio agile e lineare, con
un’attenzione alla musicalità, in netta ripresa del modello
petrarchesco: basti leggere il sonetto di apertura per rendersene
conto
Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,
ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
Diversa è invece la contemporanea Veronica Franco, per
un’impronta più realistico-sensuale e quasi erotica dei suoi testi,
che ha rinnovato il petrarchismo e il canone bembiano. Era infatti
una cortigiana, come la madre, e nelle sue liriche, con acuto
realismo e immediatezza, pone l’accento sulle prerogative del
mestiere esercitato, esaltando le proprie qualità di amante. Ella si
distacca tuttavia dalla letteratura oscena coeva, che fornisce però
all’autrice il terreno per distaccarsi dai canoni elegiaci e da alcuni
topoi tipici della letteratura amorosa (che la Stampa seguiva
invece con maggiore attenzione), per un gusto invece discorsivo e
colloquiale, garantito anche dall’utilizzo della forma lunga del
capitolo in terza rima. Questo metro è quello più vicino alla lettera
in versi, che la Franco utilizza, chiaramente come volontà di
39
Lirica femminile
raccontare verità, quotidianità ed esperienze che devono parere, o
essere, reali, non filtrate dalla letteratura.
Le lagrime, ch’io verso, in parte il foco
spengono; e vivo sol de la speranza
di tosto rivedervi al dolce loco.
Subito giunta a la bramata stanza,
m’inchinerò con le ginocchia in terra
al mio Apollo in scienzia ed in sembianza;
e da lui vinta in amorosa guerra,
seguiròl di timor con alma cassa
per la via del valor ond’ei non erra.
Quest’è l’amante mio, ch’ogni altro passa
in sopportar gli affanni, e in fedeltate
ogni altro più fedel dietro si lassa.
Ben vi ristorerò de le passate
noie, signor, per quanto è ’l poter mio,
giungendo a voi piacer, a me bontate,
troncando a me ’l martír, a voi ’l desio.
Lontana dall’amante, nella prima parte del capitolo, la Franco
soffre, piange e sospira, ricalcando i topoi elegiaci del rimpianto
per l’amore in absentia. Ma nei versi qui presentati, ambientati a
Venezia, dove la poetessa si ricongiunge con l’amato, parla del
“dolce ristoro” che ella darà all’amato e che ella stessa prenderà,
in “amorosa lotta” per ridere insieme delle sofferenze passate. E
non esita addirittura a prendersi gioco della stessa poesia per
celebrare le sue qualità amorose, come dice chiaramente nel
capitolo che apre la sua raccolta:
Cosí dolce e gustevole divento,
quando mi trovo con persona in letto,
da cui amata e gradita mi sento,
che quel mio piacer vince ogni diletto,
sí che quel, che strettissimo parea,
nodo de l’altrui amor divien piú stretto.
Febo, che serve a l’amorosa dea,
e in dolce guiderdon da lei ottiene
quel che via piú che l’esser dio il bea,
a rivelar nel mio pensier ne viene
40
Zambelloni
quei modi che con lui Venere adopra,
mentre in soavi abbracciamenti il tiene;
ond’io instrutta a questi so dar opra
sí ben nel letto, che d’Apollo a l’arte
questa ne va d’assai spazio di sopra,
e ’l mio cantar e ’l mio scriver in carte
s’oblía da chi mi prova in quella guisa,
ch’a’ suoi seguaci Venere comparte.
S’avete del mio amor l’alma conquisa,
procurate d’avermi in dolce modo,
via piú che la mia penna non divisa.
E non esita anche a rivendicare la propria posizione sociale, di
donna cortigiana, con forza e orgoglio degne di una vera dama:
E se ben “meretrice” mi chiamate,
o volete inferir ch’io non vi sono,
o che ve n’en tra tali di lodate.
Quanto le meretrici hanno di buono
quanto di grazioso e di gentile,
esprime in me del parlar vostro il suono. (XVI)
I Capitoli migliori sono proprio quelli in cui la nostra poetessa si
abbandona a questa sua vena spontanea, come quando,
lamentando la lontananza dall’amato, scrive con disarmante
onestà:
Or mi si para il mio letto davante,
ove in grembo t’accolsi, e ch’ancor l’orme
serba di corpi in sen l’un l’altro stante. (XIII)
Ancora una volta l’essere “sacerdotessa d’amore” influenza
direttamente la scrittura della Franco: ella infatti, si rivolge ad
Eros apertamente, senza essere costretta dalle convenienze a
sublimare i suoi desideri umanissimi in casti languori.
Un petrarchismo estremizzato, una poetessa elegiaca ma ormai
attenta nel descrivere i veri moti del cuore e una che delinea la
realtà con onesta partecipazione. Un tipo di lirica forte e sincera,
fatta di sospiri e di sofferenze, di passione e di sensualità, come
solo delle poetesse avrebbero potuto concepire.
41
Lirica femminile
Gaspara Stampa nasce a Padova circa nel 1523, da una modesta
famiglia milanese di commercianti gioiellieri.
Nel 1531, la madre Cecilia, dopo la morte del marito Bartolomeo,
si trasferisce a Venezia con i figli, ai quali impartisce
un’educazione letteraria e artistica. La casa Stampa diviene presto
un salotto tra i più frequentati dai maggiori musicisti, pittori e
letterati di Venezia. Nel 1544, l’improvvisa morte del fratello
Baldassarre (anch’egli rimatore di buona fama presso i
contemporanei, anche se le sue rime furono pubblicate solo nel
1738) turba Gaspara a tal punto da farla allontanare dalla
mondanità e meditare una vita monacale.
Passata la crisi religiosa, torna alla vita del passato e alla
spensieratezza amorosa. Vive un’esistenza libera, si suppone sia
stata anche una cortigiana, stringendo relazioni con letterati e
gentiluomini. Tra le numerose relazioni, probabilmente la più
sentita è quella con il conte Collaltino di Collalto, al quale dedica
gran parte dei 311 componimenti delle sue Rime. L’uomo,
tuttavia, ricambia solo a tratti la passione di Gaspara,
allontanandosi spesso da Venezia per lunghi periodi. Nel 1551, la
loro relazione si interrompe definitivamente, ma Gaspara intreccia
presto nuovi amori, il più durevole dei quali fu con il veneziano
Bartolomeo Zen.
Nel 1554 Gaspara muore dopo quindici giorni di febbri intestinali:
è stato avanzato il sospetto, mai comprovato, di avvelenamento e
sulla base di questo sospetto è stata avanzata l’ipotesi della morte
per suicidio. Ma le notizie attendibili della vita di Gaspara Stampa
restano poche e frammentarie.
Il suo canzoniere, in cui si alternano gioie e angosce, è una delle
testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile
dell’epoca. I suoi scritti e la morte prematura fecero della Stampa
una delle figure più caratteristiche del suo tempo.
Tutte le opere, le Rime sopra citate, i sonetti, le canzoni e le
sestine, furono pubblicate postume dalla sorella Cassandra, poco
dopo la morte di Gaspara, e dedicate a Giovanni della Casa.
42
Zambelloni
Veronica Franco (1545-1591) nasce a Venezia. È probabilmente
l’esempio più celebre di cortigiana, ma possiede anche una cultura
raffinata in ambito letterario e artistico.
Figlia di una cortigiana onesta, Veronica in giovane età è iniziata a
quest’arte dalla madre e usa le proprie doti naturali per contrarre
un matrimonio finanziariamente favorevole. Si sposa giovanissima
con un ricco medico ma il matrimonio finisce presto. Per
mantenersi diventa una cortigiana d’alto rango.
Grazie alle sue amicizie con uomini facoltosi ed esponenti di
spicco dell’epoca, diviene ben presto molto conosciuta. Ha persino
una breve liaison con il re Enrico III di Francia.
Veronica Franco scrive due volumi di poesia: Terze rime nel 1575
e Lettere familiari a diversi nel 1580. Pubblica raccolte di lettere e
un’antologia con le opere di scrittori famosi. Dopo il successo di
questi lavori fonda un’istituzione caritatevole a favore delle
cortigiane e dei loro figli.
Nel 1575, durante l’epidemia di peste che sconvolse la città,
Veronica Franco è costretta a lasciare Venezia e in seguito al
saccheggio della sua casa e dei suoi possedimenti perde gran parte
delle sue ricchezze.
Al suo ritorno, nel 1577, si difende brillantemente durante il
processo dell’Inquisizione che la vede accusata di stregoneria, ma
è lei a vincere. Da quel momento però la sua vita è segnata da
gravi difficoltà finanziare, che la costrinsero ad una esistenza in
povertà.
43
Visnu e Siva
NEL SEGNO DI VISNU E DI SIVA
È possibile una convergenza tra poesia occidentale e Induismo?
di Guglielmo Aprile
L’esistenza del male e della violenza, delle calamità e delle
malattie può contraddire la fede nel Dharma, il presunto ordine
cosmico, che Eschilo riconosceva a sua volta negli Dei. Al di là
dei rilievi formali che si potrebbero muovere alla mia scrittura, è
questa la sua tara profonda.
Nell’antico culto mazdaico, in Persia, il Sole (Mitra) era il dio che
faceva da garante al piano provvidenziale inerente al Creato,
difendendolo da tutti i demoni e irradiando la fede nell’animo
degli uomini. La nostra visione del mondo, ‘nostra’ intendo da
uomini bianchi della moderna era scientista, è storicamente viziata
dall’attitudine al dubbio metodico e dalla riduzione dell’esistente
alla sua sola dimensione materiale – sono questi i ‘demoni’ che già
William Blake voleva combattere per una Rinascita spirituale
dell’Occidente. Noi bianchi crediamo che la natura esista
oggettivamente e che essa sia misurabile e calcolabile
razionalmente; in Oriente, invece, la jnana, o ‘gnosi’, il
raggiungimento dell’essenza, è possibile solo passando per una via
interiore, tramite lo yoga, l’ascesi, disciplina praticata dai seguaci
del dio Siva che abbandonavano la vita sociale e si ritiravano in
solitudine nelle foreste; in Occidente abbiamo qualcosa di simile
solo risalendo alla Grecia dei Misteri orfico-pitagorici. La meta
dell’ascesi è detta dagli Induisti ananda, la beatitudine: non
riconoscersi più come individui, ma come fasi del divenire
universale; non avere più nulla a che fare con la ‘propria’ vita
individuale, perché quella vita non fosse più la ‘propria’; sentirsi
liberati dall’identificazione ad un essere finito, per farsi assimilare,
inglobare nel respiro di Brahman, lo Spirito Cosmico, e quindi
infinitizzarsi nell’impulso che fa esistere istante dopo istante il
mondo e l’intera gamma delle sue forme particolari. Lo stesso
Brahman riporta in sanscrito il sinonimo ham-sah, che significa
anche “respiro”, a suggerire che le due sillabe che compongono
44
Aprile
questo termine racchiudono il gesto della respirazione, quella del
singolo individuo e quella del cosmo, l’alternarsi di sistole e
diastole che soggiace a tutto ciò che si sviluppa su due poli
ritmicamente speculari.
Questo scioglimento dell’ego nell’unità del mondo e
nell’universalità del vivente è l’apice della spiritualità induista, la
‘coscienza suprema’ a cui aspira il credente. Ma sono momenti
molto rari, quelli in cui siamo illuminati da una tale
consapevolezza. I maestri indù impiegano una vita a rendere
permanente la condizione beatifica, per strapparla alla tirannia di
una fortuita congiuntura propizia. Ci riescono tramite il sacrificio,
la rinuncia agli egoismi, la soppressione dei poveri bisogni e delle
pretese dell’io. Concentrarsi a tal punto su di sé, da ignorare le
richieste del corpo. La Liberazione dall’essere fisico e dalle catene
costituite da appetiti e desideri fa sì che resti solo l’io, il purusa,
nella sua assolutezza, e si libri verso la comunione e
l’identificazione con l’Io dell’universo. Anche l’universo, per
l’Induismo, ha una sua coscienza, al pari degli altri esseri
coscienti, gli uomini: anche l’universo è una Persona, o lo fu nella
forma di Praja-pati, l’Essere Primordiale, prima dello
smembramento di cui narrano i Veda, da cui ebbe origine il
mondo. Noi non siamo semplicemente noi stessi: siamo, al
contempo, anche l’universo. Per nostro limite, però, siamo
coscienti solo di essere noi stessi, ci riconosciamo solo nel nostro
esclusivo ego, e non siamo coscienti di essere anche tutto
l’universo, oltre a noi stessi. Ci accorgiamo dell’esistenza di un Io
Cosmico e di farne parte quando, ad esempio, udiamo il vento tra
le canne o il mormorio del fiume che scorre, e tutto intorno è
silenzio. In quel momento, il Cosmo sta pronunciando il proprio Io
sono, ovvero sta sapendo di esistere. Il passo successivo è:
diventare noi consapevoli, ascoltando il vento o il fiume, ma anche
davanti alle onde del mare, che il Cosmo (d’ora in avanti lo
nomineremo senza spavento con la maiuscola) sa di esistere,
mentre il vento o il fiume scorrono: è allora che diventi cosciente
di qualcosa di cui è cosciente tutto il Cosmo, e il tuo io si specchia
e si scopre tutt’uno con l’Io del Cosmo, non più diviso o
differenziabile da Esso, ma parti entrambi di una stessa realtà. Il
tuo piccolo ‘io’ si salda all’Io immenso delle onde e delle galassie,
45
Visnu e Siva
si annulla come soggetto individuale: e l’io in cui ti riconoscevi si
fa lo stesso Io nel quale si riconoscono onde e galassie. Il tuo io
sono diventa una funzione dell’Io Sono dell’Universo. Il tuo io
dice io sono, e anche l’Io Cosmico dice Io Sono – e tu ti scopri una
cosa sola con l’Io che dice Io sono in tutte le cose.
Per cogliere un simile grado di osmosi con gli elementi da sentirli
vivi, occorre spogliarsi della propria maschera sociale, per essere
allo stesso modo di come è il vento, o una roccia, o una farfalla tra
l’erba. Non vivere più per soddisfare le aspettative di felicità del
tuo ego o per obbedire ai comandi del desiderio; abbandonare
l’ego come non fosse più il tuo, staccarti da esso, rompendo il
principio di identità che ti vincolava ad esso, per unire il tuo essere
profondo a un’energia imprendibile e onnipervadente come il
vento. La causa del fatto che noi soffriamo è nell’illusione di aver
ancora a che fare con il finora nostro ego, nel non essercene
ancora scrollati se non con la morte, almeno con una morte-invita; la Liberazione (mukty) avverrà quando avremo la forza di
non riconoscerci più in esso, perché riconoscersi in esso vuol dire
seppellirsi in esso. A quel punto, il tuo ego non esiste più di per sé:
è solo una derivazione dell’Io di tutto il Cosmo. Così, tu non esisti
come ente singolo, ma come raggio del sole universale (e noi
esseri particolari siamo rispetto al Tutto nello stesso rapporto dei
raggi rispetto al sole). La pienezza è diventare coscienti che l’io
umano, alla sua essenza, si riduce all’Io Cosmico. Il dio non è
un’entità staccata dall’io: è esso stesso l’energia che presiede
all’attività spirituale di tale io, la permea, la sostanzia. Finché l’io
resta spento, il dio resta altro dall’io; quando l’io si attiva, ovvero
realizza la piena espansione delle proprie facoltà spirituali, si
scopre esso stesso il dio. Per l’Induismo di ogni setta e
orientamento non si può trovare dio se prima non si diventa dio.
Lo scopo della ricerca interiore è scoprire che il nostro essere, nel
suo stato più profondo, è già dio, e che il dio passa, evocato
attraverso la meditazione, da uno stato potenziale a uno stato
attuale; tale scavalcamento del sé individuale corrisponde alla
apoteosi neoplatonica. Sgombrare il campo mentale da tutto ciò
che intralcia in quanto è contingente, per ritrovare le fonti del
proprio essere, dove attende, come in letargo, il divino. La parte di
te che dice io sono, quella è già dio; così, è dio anche la parte di te
46
Aprile
che ascolta la precedente dire io sono, e via all’infinito.
Il dio che governa l’anelito dell’io verso l’autosuperamento
mistico è Siva, il ‘dio delle altezze’, che ha dominio sulle grandi
montagne e su tutte le forze spirituali votate a trascendere un
limite. E forse l’universo tutto è stato concepito dalla coscienza di
un dio: è una idea che abita la mente di Siva. E lo stesso Siva,
secondo un mistico dell’VIII secolo, si riflette nell’intelletto
umano (e in quello cosmico) al modo che il sole riverbera sulle
acque, inafferrabile. L’essere, la prakrti passiva del mondo, è una
emanazione di Dio; Dio si irradia in alberi e conchiglie, nei nostri
pensieri. Se Dio è la luce in sé, il mondo è quella luce nel suo
irradiarsi, essendo l’irradiarsi un modo di essere, una funzione di
tale luce. La luce irradiata è quindi il mondo, ma essa è
contemporaneamente Dio. Brahman sorvola le distese oceaniche e
le vette, i deserti e le foreste, come una musica che risuona in ogni
istante e in tutti i luoghi, anche se siamo a volte troppo distratti per
non esserle sordi.
Secondo un poema visunista in lingua tamil, i “Quattromila
Canti”, Brahman è dentro l’universo e al contempo è altro da esso:
è con l’universo nello stesso rapporto in cui sta uno specchio con
l’immagine dell’oggetto da esso riflessa. Ricordo che rimasi
folgorato da tale similitudine, che sarebbe divenuta poi il punto di
partenza filosofico del mio libro.
Come in ogni politeismo, anche per gli Induisti il dio è il principio
che sta dietro il fenomeno naturale, e il fenomeno in sé, quale
risvolto sensibile del principio; il cielo è una metafora di Varuna, e
insieme Varuna è il cielo stesso. Per riconoscere l’Onnipresenza
divina e annullarsi in Essa, bisogna inoltre ripulirsi gli occhi dal
cinismo culturalmente ereditato dal cartesianesimo, lavare la
nostra capacità di visione con un’acqua così pura che nessuna
sorgente la sgorga da millenni, almeno in Europa. Una tale
limpidezza di sguardo appartiene ormai solo ai bambini o ai pazzi,
proviene dall’innocenza che consentì ai progenitori mitici di
cadere nel meraviglioso equivoco del politeismo, quando
scambiavano il suono del vento in una grotta per il lamento di un
dio, o identificavano carri, navi o draghi unendo le stelle vicine
con un filo invisibile. Capire che è artificiosa ogni divisione tra
noi e l’esistente, ogni cesura tra l’essere cosciente dell’uomo e il
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Visnu e Siva
volo delle nuvole; non ha più senso pensare a noi e a un monte, a
noi e a una stella marina come entità separate, diverse. Tale stato è
per l’Induismo il samadhi, l’estasi, l’annullamento delle barriere
ontologiche tra mente e cosmo, delle cortine che separano io e
non-io, spirito e materia, infinito e umano, cielo e terra, divino e
naturale. L’io del fedele, lo atman, e l’io Cosmico, variamente
personificato in Visnu o Siva, si sono finalmente fusi; alberi, fiumi
e stelle sono una espansione dell’io, li ritroviamo già o li
accogliamo dentro la nostra mente, sono una proiezione di noi
stessi, ma allo stesso tempo quello che chiamiamo il nostro io
deriva dalla stessa fonte che trasmette la qualità dell’esistenza ad
alberi, fiumi, stelle. Smettere di concepire il mondo come un
grande carcere frantumato in tante cellette stagne: qualcosa che
oltrepassa le distinzioni particolari pervade la totalità e la
definisce, come fa l’acqua spandendosi per un canale o le radici di
un albero in ogni intercapedine aperta nel terreno. Espandere l’io
sono oltre i confini della personalità individuale, fino a inglobare
le distanze dei cieli e i continenti: quanto, a quel punto, ci
sembrerà povero, ristretto, l’orizzonte degli interessi e dei legami
con la vecchia vita di uomini! Il senso della vastità in cui si
estende il palpito divino dà le vertigini ubriaca, stordisce, ma
anche esalta, perché noi stessi ne siamo parte.
A paragone con la complessità dottrinale del visnuismo, lo stesso
Schopenhauer, il pensatore europeo che più si avvicina alle
caratteristiche dei sistemi filosofici orientali, appare addirittura
scolastico. C’è, in Oriente, una varietà di sfumature per definire i
gradi della consapevolezza, della comunione tra io e dio, da
umiliare il nostro borioso cogito ad artificio miserevole e
primitivo: l’equipollente induista del ‘cogito’ si sfaccetta in
‘psiche’, ‘mente’, ‘io’, e quindi la ‘coscienza’, nelle sue molte
specificazioni culminanti nel purusa, in cui tale stato spirituale
trascende se stesso e sfocia nel divino. Ad ogni stato interiore
corrisponde un dio e perfino i concetti sono personificati in
divinità; il mondo sensibile è schermo posato sul palpitare di una
potenza trascendente dotata di sakti, la capacità di manifestarsi
nelle apparenze e nel loro caleidoscopio cangiante; la natura è una
continua teofania, un palesarsi del numen, ossia del divino inteso
come energia piuttosto come ‘persona’, a differenza che nella
48
Aprile
speculazione religiosa occidentale; il piano terrestre e quello
celeste non sono contrapposti da una antitesi gerarchica, come da
noi è stato a partire da Platone, ma si compenetrano.
L’incarnazione del nume, il suo vestirsi di parvenze terrene, è
evento quasi ordinario, se si pensa che ogni oggetto o fenomeno
della natura rende accessibile ai sensi una divinità, come nei dieci
e più avatar di Visnu; nel Cristianesimo, invece, è fatto unico e
straordinario.
Si parla tanto di educare le nuove generazioni a partire dalle
scuole; ma perché nessuno parla di impartire loro i miti connessi
agli dei indù (ma anche a quelli mesopotamici, o aztechi, o
scandinavi…)? Se vogliamo tornare a essere uomini, nel senso di
‘figli della terra’, dobbiamo ritrovare la memoria del patrimonio
mitico addormentato nella memoria dell’umanità, non in chiave di
rivendicazione nazionalistica, come fraintesero i fascismi, ma di
convergenza di quei miti sul terreno comune dell’immaginazione
umana. Riscoprire la sacralità del mondo, pensare nuovamente
l’essere quale emanazione della divinità: se è questo lo scopo che
diamo alla poesia, dovremmo farne il punto d’arrivo di una nuova
evangelizzazione. Preparare il campo a uno sconvolgente avvento
spirituale: i giornali pubblicherebbero distici tratti dai Veda,
invece che intercettazioni telefoniche tra politici e banchieri; la tv
racconterebbe le imprese di Indra piuttosto che aggiornarci sui
passatempi boccacceschi di manager e fotomodelle. Penso che
sapere del dio Visnu che prende aspetto di Cinghiale e solleva con
le zanne il pianeta per salvarlo dal diluvio primordiale sia più
importante di conoscere le ultime dichiarazioni di un ministro.
Come per gli Aborigeni, per i quali ricordare i ‘Canti’ che
descrivono il viaggio di un Antenato per l’Australia è di primaria
importanza: ne va della preservazione della sacralità del Creato.
Per essi la parola è ancora soffio che crea; alberi, paludi e sassi
esistono perché qualcuno, in tempi anteriori all’inizio del tempo
fisico, pronunciò i loro nomi e ancora oggi li ripete nel vuoto del
cosmo. Lo stesso per gli Induisti, che credono l’origine del mondo
una eco del Para vak, la Parola Cosmica, il Suono fondativo
dell’esistenza, che come il Verbum biblico è creatore e insieme
immanente alla realtà.
Dobbiamo però fare i conti con l’incapacità di credere in nulla che
49
Visnu e Siva
non sia dimostrabile, di ammettere un vaglio della verità
alternativo al nostro limitato empirismo. Insegnare ai bambini i
nomi dei fiori e degli animali e cosa raffigurano le costellazioni,
piuttosto che a usare i computer, o a conoscere il numero dei
parlamentari. Risvegliare il senso del meraviglioso, oggi quasi del
tutto spento. Altrimenti diverremo dei ‘laici’ – parola così
ingiustificatamente celebrata oggi – privi di quella ingenuità
indispensabile per salutare la bellezza. Dar retta a tutte le chimere,
lasciarsi tentare dalla lusinga dell’inverosimile: qui è il canto delle
Muse, la strada perché gli Dei tornino tra noi. Se è offuscata in noi
la para samvid, la coscienza dell’unità divina e sovraindividuale
degli esseri, è come se non vivessimo autenticamente: è come se
dormissimo. Noi non vediamo davvero alberi, uccelli e acque,
perché in essi vediamo solamente alberi, uccelli e acque. Ci
illudiamo di essere svegli e invece siamo preda di una condizione
analoga al sonno. Occorre allora svegliarsi dalla veglia apparente,
perché c’è differenza tra essere svegli ed essere risvegliati. La
poesia è una attesa paziente, ci chiama a una seconda nascita.
Convertirsi vuol dire accordare una preferenza a un culto rispetto a
un altro. E in fondo io non me la sento di scegliere: per me sono
valide e vere le credenze dei Celti, quanto quelle fiorite sulle rive
del Gange, o sugli altopiani dello Utah; ma c’è un fondo comune,
sul quale tutte le fedi si incontrano, e che solo il materialismo
moderno ha sconfessato. E poi, la riflessione morale di un po’ tutte
le filosofie orientali esige che l’uomo abdichi alla componente
istintuale della propria natura. Le pulsioni distruttive però sono
segno di vitalità. Per gli Orientali, cattiveria e rancore
appesantiscono l’ego. Ma l’incapacità di provare rabbia
rammollisce: se ne guadagna in serenità, certo, ma si diventa
placidi, acquosi, indifferenti. Eppure una certa dose di aggressività
indica che il sangue scorre.
Schopenhauer intende il nirvana come soppressione della volontà
di vivere foriera di sofferenze – ma la volontà è un fondamento
metafisico, è il soffio che alimenta l’inesorabile ruota di creazione
e distruzione, il fuoco vitale che pulsa nei rami, nelle galassie e
nelle nostre vene, è l’abbraccio (in India Dio si concepisce come
abbraccio, oltre che come respiro) che riconduce le manifestazioni
più semplici ed umili della natura quanto le più solenni e
50
Aprile
grandiose sotto lo stesso emblema di perfezione. Perciò posso
approvare Schopenhauer solo se egli intenda la ‘Liberazione’
rivolta alle catene delle contingenze individuali; altrimenti mi pare
che faccia un’operazione analoga a quella rinfacciata da Nietzsche
a tutte le confessioni codificate: diffamare, vituperare,
scomunicare l’istinto della vita. Invece, un’arte che si voglia
finalmente ‘dionisiaca’ dovrebbe farsi lode, ringraziamento del
soffio che porta la primavera, e l’artista essere chi furiosamente si
immedesima con esso, spogliandosi di sé, del proprio atman.
Forse una religione vitale e gioiosa dovrebbe edificarsi su una
celebrazione del respiro panico del mondo e non sulla sua
mortificazione; forse l’estasi consiste in un assecondare quel
ritmo, staccandosi dalla volontà individuale fino a sentirsi una
cosa sola con ciò che finora era stato altro da sé.
Tornando al punto da cui era partito il nostro ragionamento: come
si fa a credere in una natura retta da una volontà superiore, quando
la natura stessa è ingranaggio inesorabile, che stritola l’uomo e
ogni creatura nella necessità che incatena le generazioni e macina
continuamente vita e morte? La poesia ha il potere alchemico di
redimere l’annientamento delle apparenze e l’estinzione dei
singoli esseri in esultanza di fronte alla continuità della vita
cosmica; il lutto si rovescia in giubilo, la distruzione e la fine sono
giustificati, perché funzionali all’imperativo del ritorno,
all’avvicendarsi inesorabile delle onde, e di giorno e di notte: a
quel piacere del fanciullo eracliteo che gioca a innalzare e a
buttare giù forme di sabbia sulla riva del mare, forme che
somigliano ai nostri gesti e pensieri, agli archetipi invariabili della
nostra mente. D’altronde, nel linguaggio della mistica induista
‘Distruzione’ si dice anche ‘Riassorbimento’: è una delle cinque
funzioni di Siva, corrispondenti ad altrettante modulazioni dell’Io
sono. La poesia non occulta, non nega il rovescio crudele e
doloroso del divenire, ma lo riconduce nell’alveo di quell’unica
volontà vitale che, anche nel travaglio e nell’agonia, nella pena
con cui la singola creatura obbedisce alla legge del circolo,
riverbera la propria potenza creatrice, l’affermazione sofferta e
gioiosa della sovrabbondanza di forze di una natura perpetuamente
giovane e generante, feconda di sempre nuovi solstizi.
51
Sfulingo
E. M. CIORAN, “divorare il silenzio” (I)
scelta e traduzione a cura di Massimo Barbaro
Dite che l’universo non ha senso, e non farete arrabbiare nessuno
– ma affermate la stessa cosa di qualcuno, e non mancherà di
protestare, e finirà per prendere delle misure contro di voi.
Siamo tutti così: quando si tratta di un principio generale, ci
chiamiamo fuori e non abbiamo alcun imbarazzo nell’erigerci a
eccezione. Se l’universo non ha senso, c’è qualcuno che sfugge
alla maledizione di questa frase? Tutto il segreto della vita si
riduce a questo: non ha alcun senso, ciascuno di noi, tuttavia,
glielo trova.1
***
Quando tutto si fa minerale, la nostalgia stessa diventa geometria,
le rocce sembrano fluide davanti alla pietrificazione del vago
dell’anima, e le sfumature sono più ripide delle montagne. Non si
ha più bisogno allora che dello sguardo tremante dei cani
schiacciati, o dell’orologio rotto di un altro secolo – cuscino per la
fronte di un folle.2
***
Su qualsiasi cosa – e innanzitutto sulla solitudine – si è obbligati a
pensare al tempo stesso negativamente e positivamente.3
***
Un uomo che pratica per tutta la sua vita la lucidità diventa un
classico della disperazione.4
52
Cioran
***
Ogni volta che penso alla morte, mi sembra di stare per morire un
po’ meno, che non posso spegnermi, né sparire, sapendo che sto
per sparire e spegnermi…
E sparisco, mi spengo e muoio da sempre.5
***
Anche la tristezza è un mestiere. Poiché non si prende facilmente
l’abitudine di essere soli, e ogni giorno bisogna sforzarsi nella
derelizione, sottomettendo le onde di amarezza a un lavoro
interiore. Il bisogno di stile nell’infelicità e di ordine nelle tristezze
sembra mancare ai poeti. Poiché cosa significa essere poeti? non
avere distanza nei confronti delle proprie tristezze, essere identici
alla propria infelicità.
La preoccupazione dell’educazione personale tradisce, persino in
quelle cose, un residuo di filosofia in un’anima toccata dalla
poesia. La superstizione teorica organizza tutto, anche la tristezza.
La morte di un filosofo somiglia al crollo di una geometria, mentre
il poeta, che porta la sua tomba da vivo, è morto prima di morire.
Il nodo della poesia è una fine anticipata, e la lira non ha voce che
nei pressi di un cuore ferito. Niente fa scivolare più in fretta nella
tomba del ritmo e delle rime, poiché tutto ciò che i versi hanno
saputo fare è erigere pietre tombali agli assetati della notte.6
1
E. M. Cioran, Le Crépuscule des pensées, Paris, L’Herne, 1991, p. 7.
P. 17.
3
P. 25.
4
P. 30.
5
P. 37.
6
P. 56-57.
2
53
Lettere
PAROLE SALVATE DALLE FIAMME
Una lettera a Pasternak di Varlam Šalamov
Kjubjuma, 24 dicembre 1952
Caro Boris Leonidovic,
Soltanto una settimana fa ho avuto tra le mani la Sua meravigliosa
lettera di quest’estate. Per andare a prenderla ho percorso
millecinquecento chilometri nel gelo di meno 50° e sono ritornato
a casa solo ieri l’altro.1 Grazie per la Sua cordialità, per la Sua
bontà, per la delicatezza – insomma per tutto ciò che spira dalla
Sua lettera, per me tanto più cara in quanto ero pronto ad
accontentarmi di sapere che Lei aveva preso conoscenza dei miei
lavori, e in questo vedevo quasi la giustificazione di tutta la mia
vita vissuta in maniera così goffa e dolorosa. Avevo tanta paura
che rispondesse con vuoti elogi di cui non ho bisogno, e questo
per me sarebbe stato il colpo più duro. Io volevo un giudizio
severo, senza nessuna concessione di nessun genere su nulla.
Anche adesso non so ancora se ci siano delle concessioni oppure
no. E neppure mi aspettavo una risposta. Le ho mandato le poesie,
perché nella vita c’è sempre una promessa non mantenuta,
un’azione non compiuta, un’intenzione non realizzata e la paura di
pentirsi di non aver portato a compimento quella promessa,
azione, intenzione. Sentivo un dovere verso la mia coscienza,
un’inquietudine interiore per non essere in grado, in nessun altro
modo che con una semplice lettera che avrebbe potuto sembrare
strana, di ringraziarLa per tutto quello che di buono, puro e retto
c’era nei Suoi versi e che mi ha illuminato la strada nel corso di
molti anni.
Io l’ho vista una sola volta in vita mia. Nel 1933 o 1932 a Mosca,
al circolo dell’Università, Lei recitava Seconda nascita,2 e-io,
rimpiattato in un angolo, seduto nell’oscurità della sala, pensavo
che la felicità era proprio lì, in quel momento: poter vedere un
54
Šalamov
vero poeta e un vero uomo – così come me l’ero immaginato da
quando avevo fatto conoscenza con la poesia. Solo alcuni anni
prima mi avevano sbalordito e sopraffatto i versi «Febbraio.
Prender l’inchiostro e piangere. / Scrivere di febbraio a
singhiozzi» ecc. Ero agitato e non capivo quale forza e quali occhi
si dovessero avere per scrivere simili versi. E da quel tempo ogni
Suo verso pubblicato mi ha affascinato e turbato.
Scrivo versi da molto tempo, da quando ero bambino, ma mi pare
di non aver mai tentato di mostrarli a qualcuno e per la prima volta
li ho mostrati a Lei. Tutto quello che ho scritto prima è
irrimediabilmente perduto, ma neppure rimpiango quei versi.
Rimpiango quelli degli ultimi anni – ne sono andati persi molti e
la parte che Le ho mostrato è forse solo un decimo.
Più tardi, quando incontrai i versi di Annenskij,3 che per me
furono la successiva rivelazione – mi fu chiaro che le idee
poetiche di Annenskij erano vicine alle Sue. Lei parla di influenze.
In un certo modo ho sempre diffidato di questo concetto. Mi
sembrava che in alcuni casi (e anche nel mio) non si trattasse di
influenza, ma della professione di una stessa fede. L’influenza è
asservimento, mentre la professione della stessa fede è libertà.
Sono di tutto cuore d’accordo con Lei che lo scrivere versi fine a
se stesso è una stupidaggine. Eppure come è nato, così va avanti:
un gioco nel quale percepisci una forza, la voce di antichi maestri
che, quando la ascolti, ti toglie il fiato, un martellamento di versi
nel cervello – così persistente che ti senti meglio soltanto quando
li scrivi, un mondo che di anno in anno sempre più docilmente si è
adagiato sulla carta.
E poi – fin da quando si è giovani, si pensa a come poter servire
gli uomini, essere di qualche utilità, non vivere invano la propria
esistenza, fare qualcosa per rendere migliori gli uomini, per
rendere la vita più calda e più umana. E se senti dentro di te la
forza di fare questo con i versi, nell’arte – allora tutte le altre
strade si perdono nella nebbia e tutto diventa insignificante,
talvolta anche la vita stessa. Così tante cose sono state smarrite,
sprecate, uccise, non raggiunte e soltanto ciò che mi era più caro si
è conservato per tutta la vita: l’amore per mia moglie e i versi.
Per di più io credo da tempo nella spaventosa forza dell’arte, una
forza che non si può misurare con alcun metro e tuttavia una forza
55
Lettere
possente, non paragonabile a nessun’altra. L’eternità di queste
Gioconde e Infante, nelle quali ognuno trova ciò che
confusamente, inconsapevolmente lo turba; e l’artista, morto molti
secoli fa, con la forza della sua arte educa gli uomini ancora oggi –
che cosa ci può essere di più invidiabile di una tale forza e quale
felicità deve provare colui che ha collocato la propria pietra in
questo edificio eterno. Io non faccio nessun paragone tra gli artisti,
elimino la nozione delle dimensioni.
E per quanto grandiosa sia la forza di un altro poeta – essa non mi
costringerà al silenzio. Anche se ciò che ho visto viene espresso in
maniera mille volte più debole – comunque viene detto per la
prima volta. Io sono felice di comprendere, di percepire come è
stato dipinto questo quadro, comprendo il turbamento dell’artista e
lo invidio, comprendo la sua anima, comprendo come egli ha
parlato con la vita, e come la vita ha parlato con lui. E inoltre:
sono profondamente convinto che l’arte sia l’immortalità della
vita. Che ciò che l’arte non ha sfiorato – presto o tardi morirà.
Forse La fanno ridere queste frasi ingenue. Io non capisco nulla
dell’aspetto teorico della faccenda. Le sto semplicemente
spiegando – perché scrivo versi. E poi non riesco più a farcela con
me stesso – ciò che mi costringe a prendere carta e matita è più
forte di me. E oso sperare che tutto quanto ho scritto sia tutto
meno che letteratura.
Scrivo e non vedo una fine a tutto quello che ho voglia di dirLe e
raccontarLe. Vedo in me migliaia di difetti oltre a quelli da Lei
indicati, tuttavia quello che ho scritto sono versi, e il mio rapporto
con la vita su questa strada – è legittimato.
Lei dice molte cose giuste, ma su alcune non posso essere
d’accordo con Lei. E prima di tutto – il fatto di cancellare il
passato, i Suoi lavori passati. Le Sue ultime raccolte traboccano di
questo motivo e, quindi, lo conoscevo anche prima della Sua
lettera. Non è eccessivamente crudele questa abiura? Capisco che
un maestro rigoroso cresca e viva negando e distruggendo se
stesso, ma io ricordo, so anche un’altra cosa. Conosco persone che
sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla
percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano – proprio
quelli che adesso sono destinati alle fiamme. Ha mai pensato a
questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto
56
Šalamov
perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri?
Che i Suoi versi venivano letti come preghiere? Qui non si tratta di
«discepoli» che sono stati abbandonati. I versi continuano a vivere
anche senza di Lei. E poi quelli non sono neanche discepoli. Ma in
quei versi c’erano una vita e una forza che, lo ripeto, hanno
mantenuto umani degli esseri umani.
[…] Grazie a Sua moglie per il cordiale giudizio sui miei scritti.
Ella tuttavia si sbaglia, giacché io non cerco approvazione. So per
primo di trovarmi sulla soglia della poesia e per quanto questo
passo decisivo sia difficile – lo farò.
[…] alla metà degli anni venti, che nella biblioteca Rumjancev ho
incontrato per la prima volta i Suoi versi. Non starò qui a
scriverLe perché i modi di dire da Lei condannati in quanto gioco
di parole mi sono sembrati necessari. Lei li ha sentiti, nella
maggioranza dei casi, come una forzatura, una nota falsa. Per
quanto a me potessero sembrare giustificati e addirittura
indispensabili, se ciò pare soltanto a me, vuol già dire che non
vanno bene e devono essere eliminati. Sono comunque
profondamente commosso e orgoglioso del fatto che Lei abbia
trovato il tempo e la pazienza di leggere attentamente quei due
libri – certo, non sono dei libri, ma dei brogliacci. Perché
diventino libri, bisogna lavorare ancora molto su ogni verso. Ho
ricopiato per Lei le poesie una dopo l’altra e solo poi ho rimpianto
di non averne incluse molte altre invece di quelle che ho mandato.
Io non posso, non sono abituato a scrivere in presenza di qualcuno,
ma nel gelo, d’inverno, non si sa dove andare a nascondersi.
Grazie per le cinque meravigliose poesie inviatemi. Si potrebbe
parlare molto di ciascuna di esse, più esattamente, a ciascuna di
esse, perché – forse che si deve parlare di una poesia?
[…] Ancora una volta La ringrazio calorosamente per la lettera.
Lei mi pone di fronte grandi e alti compiti. Dio sa se saprò vincere
questa battaglia, ma ho l’impressione di aver compreso la verità e
l’anima della poesia, e la coscienza di questa forza mi costringerà
a restare attaccato alla carta e all’inchiostro. […]
V. Šalamov
57
Lettere
Note
1
Šalamov raccontò questo episodio nel racconto ‘La lettera’ in
Kolyma. Trenta racconti dai lager staliniani, Roma 1976, pag.
226.
2
Raccolta di versi di Pasternak pubblicata nel 1932.
3
I. F. Annenskij (1856-1909) poeta, traduttore e critico letterario
russo, influenzò l’acmeismo e il futurismo.
Da Varlam Šalamov – Boris Pasternak, Parole salvate dalle
fiamme, Archinto, Milano 1993.
Dell’autore sono disponibili in commercio i volumi:
I racconti di Kolyma, (Einaudi e Adelphi), La quarta Vologda
(Adelphi) e Destino di poeta (La Casa di Matriona).
Varlam Šalamov (Vologda, 1 luglio 1907 – Mosca, 17 gennaio 1982) è
stato uno scrittore, poeta e giornalista sovietico. Prigioniero politico per
lunghi anni, sopravvisse all’esperienza dei gulag.
Figlio di un prete ortodosso e di un’insegnante; si diploma al ginnasio e
viene ammesso, nel 1926, all’Università di Mosca, nel dipartimento di
Diritto Sovietico, dove si unisce ad un gruppo trockista. Viene arrestato il
19 febbraio 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di
Vyšera, sugli Urali settentrionali; l’accusa è quella di aver diffuso le
“Lettere al Congresso del Partito”, note come Testamento di Lenin, in cui
vengono sollevate critiche all’operato di Stalin.
Rilasciato nel 1931, lavora nella città di Berezniki fino all’anno seguente,
quando rientra a Mosca e riprende a dedicarsi alla scrittura. Nel 1936
vede la luce il suo primo racconto Le tre morti del Dottor Austino.
58
Šalamov
Il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, è nuovamente arrestato per
“attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per
cinque anni nella Kolyma, tristemente nota come “la terra della morte
bianca”. Nel 1943 gli viene comminata una seconda pena, stavolta per
dieci anni, tra le accuse l’aver definito Ivan Bunin “un classico scrittore
russo”. Lavora dapprima nelle miniere d’oro, quindi in quelle di carbone.
Le condizioni di vita dei forzati sono rese ancora più penose dal clima
della regione. Nel 1946 è ridotto allo stremo, la sua vita viene salvata dal
medico-prigioniero A. I. Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riesce
a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo. Questa
nuova sistemazione gli consente di sopravvivere e, successivamente, di
riprendere a scrivere. Rilasciato nel 1951, continua a lavorare e a scrivere
nello stesso ospedale. Nel 1952 spedisce alcune sue poesie a Boris
Pasternak, che le apprezza pubblicamente. Al termine della prigionia la
sua famiglia non esiste più: la figlia, ormai adulta, rifiuta di riconoscerlo.
A Šalamov viene permesso di lasciare Magadan nel novembre 1953 – otto
mesi dopo la morte di Stalin – e si trasferisce nel villaggio di Turkmen,
nella provincia di Kalinin, non lontano da Mosca. Inizia a lavorare alla
raccolta di racconti ispirati alla vita di forzato, I racconti di Kolyma, che
completerà nel 1973.
Nel 1956 anche Šalamov ottiene la riabilitazione ufficiale e, nel 1957, può
tornare nella capitale sovietica, dove trova un impiego come
corrispondente della rivista letteraria «Moskva». Le sue condizioni di
salute sono peggiorate tanto che, ormai invalido, gli viene assegnata una
pensione.
In questo periodo conosce importanti scrittori quali Aleksandr
Solženicyn, Boris Pasternak e Nadežda Mandel’štam, scrive saggi, poesie
e racconti. Numerosi suoi scritti riescono ad espatriare in modo
clandestino e si diffondono con il samizdat.
Nel 1978 viene stampata a Londra la prima edizione integrale in russo dei
racconti. Šalamov trascorre gli ultimi tre anni della sua vita in una casa di
riposo per scrittori anziani e disabili a Tušino, tornato a Mosca, muore nel
1982. Nel 1987, quando ormai era vicino il crollo dell’Unione Sovietica,
l’opera vede la luce anche nella sua patria. I racconti di Kolyma è
considerata una delle più importanti raccolte di racconti della letteratura
russa del XX secolo.
59
Pessoa
A flor que és, não a que dás, eu quero
A flor que és, não a que dás, eu quero.
Porque me negas o que te não peço?
Tempo há para negares
Depois de teres dado.
Flor, sê-me flor! Se te colher avaro
A mão da infausta esfinge, tu perene
Sombra errarás absurda,
Buscando o que não deste.
60
Pessoa
Il fiore che sei voglio, non quello che dai
Il fiore che sei voglio, non quello che dai.
Perché mi neghi quello che non ti chiedo?
C’è tempo per opporsi
dopo l’aver dato.
Fiore, siimi fiore! Se avaro ti coglierà
la sventurata mano della sfinge, tu perenne
ombra vagherai assurda,
cercando quel che non concedesti.
Traduzione di Leonardo Eriu
61
Ripellino
Lazzaro si nascose in una tomba
Lazzaro si nascose in una tomba,
Lazzaro non morí.
Conobbe i grandi occhi di gufo del buio, la tromba
dell’alba, il gelido chicchirichí.
Vi piacerebbe risuscitare? Vi piacerebbe
attraversare ancora queste strade?
Bere la luce di questo cielo violaceo,
lasciarvi accarezzare?
E che qualcuno vi lodasse,
come uno zingaro loda il suo ronzino rabberciato?
E invitare gli amici? E ascoltare Janáček,
evaso dal filo spinato di una casa di morti?
E col senno di poi rivangare le cause,
non esser malati ma forti,
e splendere come un oggetto di rame,
e abbarbicarvi di nuovo alla vita,
e giocare ancora una volta a clinàmen,
e perdere ancora una volta la vana partita?
Da ‘Notizie dal diluvio (1968-69)’, in Notizie dal diluvio,
Sinfonietta, Lo splendido violino verde, Einaudi, Torino 2007.
62
Rizzi
ALBERTO RIZZI (1956)
***
Dell’uomo che osserva fisso
il gioco d’un bambino
nulla so dire
se estraneo
padre
parente
Si china con cura
indifeso come un ramo
o come me
ne son certo
in un attimo d’un futuro a venire
ancor’ignoto ad avverbi di tempo
e spazio che non chiude
però non so su chi
63
Rizzi
***
Non c’è
quest’oggi
speranza nel sole
nella strada che serpeggia
priva di qualsivoglia meta
né pietà
Così anch’io
sono soltanto fusto d’erba nuova
e spina getto dentro l’aria agra
64
Rizzi
***
Strada e stanze ampie
uomini con sguardi straniti
dal lavoro basso del tempo
questo presente è porta che si chiude
che chiede venia al passato
pesanti entrambi come pietre di fornace
Anch’io tengo il fiato di qualche amico
annodato stretto alla gola
ma ripido
come solo un ricordo sa essere
per questo gli occhi miei
tengo rivolti altrove dalle facce loro
Da La luce, lo specchio, autoproduzione, Ceregnano 2005.
Alberto Rizzi (Arco di Trento, 1956), poeta e artista multimediale. Si
avvicina alla poesia durante i primi anni Ottanta, quando rileva l'ostilità
con cui vengono accolti i suoi lavori pittorici negli ambienti locali. Dal
1991 inizia una sua presenza continuativa su fanzine, riviste e in reading,
anche radiofonici. Significativa l'edizione di una fanzine di poesia, curata
con Alessandro Ceccotto dal 1989 al 1993 «The Mouth». Ha pubblicato le
raccolte poetiche: Opera prima. Non voglio morire a Rovigo (1994),
Poesie (1998), L'armadio cromatico (2000), Piccola trilogia nera (2000)
alle quali si affiancano numerose raccolte autoprodotte poetico-visive tra
cui: Intuizioni aliene (1996), In ombra (1997), Il filo continuo (1998). È
presente in diverse antologie.
65
Pazzi
MATTEO PAZZI (1977)
***
Età: dodici anni come una manciata di sale gettato negli occhi;
frequentavo una scuola media
dalle otto del mattino alle sei del pomeriggio,
una scuola gestita da preti violenti –
letamaio dove si ingoiava merda
giorno dopo giorno –
imparai sin troppo presto
che l’inferno è un buco del culo
nel quale tutto e tutti
non possono far altro
che attendere d’essere cagati –
non mi picchiarono mai
ma vidi quei preti picchiare e umiliare
molte volte molti bambini –
c’era la mensa scolastica ma mi bastarono
un paio di mesi di quella galera
per smettere di mangiare,
divenni molto magro
molto magro
magro
desideravo essere una statua di pietra
per non provare più niente,
desideravo essere invisibile
per non essere visto e non vedere,
poi cessai di desiderare
e quando una persona
smette di sognare o desiderare
allora persino il cielo diventa
66
Pazzi
un patetico soprammobile
ricoperto di polvere...
poi più niente,
non so dove sia finito
quel me bambino di dodici anni,
forse è scomparso
forse è ancora in quella scuola
o forse è libero
ovviamente come solo
un respiro può esserlo.
***
come un libro adagiato sopra un comodino
che nessuno, a quanto pare,
ha intenzione di leggere –
è come se avessi dimenticato o perso qualcosa –
brivido di calzino bucato
e lei che ovviamente chiede:
“perché non ci togliamo le scarpe?” –
sei lontana, gli scogli
– denti neri lucidati dalle onde –
tracciano nell’aria un sentiero
fatto di portafogli d’acqua
senza più un quattrino di mare da spendere,
ormai non mi interessa,
il finale è una carezza data di sfuggita
e assegno a vuoto il cielo
che è sguardo solo se lo guardi.
67
Pazzi
***
Si procede, come un respiro
immaginato,
è un raggio di luce
sopra il filo di un muro
che è un messaggio
o un foglio d’onde
dinnanzi al quale
lo sguardo disegna
una bugia innocente
come un biscotto
mangiato di nascosto.
Da Lupanare dei tredici anni & altri animali. Inedite.
Matteo Pazzi, trent’anni, è nato ad Este e risiede a Voghiera. È laureato
in Scienze Politiche e sta conseguendo il secondo Master universitario.
Ha pubblicato due sillogi poetiche (Ventiquattro poesie, Montedit, 2000, e
Il Pasto, Este Edition, 2002) e un breve romanzo intitolato Chiuso per
Lotta, Prospettiva editrice, 2004. Molti suoi lavori sono apparsi su riviste
letterarie («Poesia», «Ellin Selae», «Il vascello di carta», «Il Segnale». Ha
ottenuto inoltre segnalazioni in premi letterari.
68
Piccola antologia
IL CIMITERO AL MARE
Era Manet o Monet quand’eravamo insieme
su quel divano di casa, con la tv addosso,
a parlare delle zanzare sul soffitto?
Sono passati, poi,
tutti gli autobus che potevano,
sotto i balconi di cani dei palazzi,
e noi siamo rimasti a portare
le foto dei parenti nel portafogli
o nella tasca interna, accanto
alle penne aziendali o rubacchiate.
Abbiamo iniziato a guardare gli alberi
per fare qualcosa di quei frutti di città diversi,
con poca stagione appresso.
Poi tu hai pensato di girarti
e mi hai visto gli occhi, lì,
ma già portati al mare che volevo
e non hai saputo dire,
come non sentivo più,
vedremo o va bene.
Stare a partire
per un ricordo che chiuda la giornata,
come, a pochi anni, l’uomo
che pareva portare via la spiaggia
chiudendo tutti gli ombrelloni,
con la famiglia
che sbagliava bene a restare
e le mani della nonna normali
anche mentre moriva.
Stefano Aldeni, Sesto San Giovanni
69
Piccola antologia
NON GUARDARE INDIETRO
La lavatrice suonava
Il frigorifero ripeteva
Il mio stomaco aspettava il momento di farsi sentire
La plastica stava alla finestra
Tu da qualche parte nella tua mente
Io davanti a uno spettro
Avrei fumato volentieri
Mentre cercavo di comprendere
Se quella strada di breccia e rami rotti
Potesse diventare una strada da percorrere fino alla fine
O
Se amato allo spuntare del sole
Con l’upupa sul ramo della quercia
Con le cornacchie grigie nel campo sbiadito
Con la tosse dell’automobile che non vuole partire
Avrei sempre potuto infilare una scusa dopo l’altra
E smettere di farmi vedere in giro
Invece
Desideravo incontrare uno spaventapasseri sceso dal bastone
Con una mano nella tasca della giacca a quadretti
E l’altra su un sacchetto pieno di soldi
Quello mi avrebbe fatto cenno con la testa in direzione di un’altra
[via
Un altro passaggio tra questo tempo e il prossimo
Oppure
Potevo restare seduto nel campo con una sigaretta accesa
La musica dalla nostra finestra e qualcosa nel forno
Avrei visto spuntare Roberto da dietro la stalla
Con sotto il braccio le notizie della sera
Mentre il tramonto violaceo sarebbe avanzato senza
[preoccuparsene
Mentre le mani screpolate non se ne sarebbero accorte
In ogni modo
70
Piccola antologia
Sarebbe successo che avrei smesso di stare nel mezzo
Con le scuse ipocrite
Lanciando le lenzuola in aria
Scalpitando come un cavallo azzoppato
Con gli occhi irrequieti.
Arjuna Cecchetti, Terni
Da che parte ritorna questa luna
Da che parte ritorna questa luna
che sbraita e sussurra al vento innescato
dal neon? Sul lamierato
attraverso la cruna
di due gomiti appoggiati i ricordi
fanno fatica a passare, non è
nemmeno memoria se non ti vengono
i nomi, le facce, solo un momento
di bambina alla finestra che impara
senza capirlo un battito qualsiasi
puntando all’evaporazione sia
con i polsi che con il naso. Lento
decomporsi delle cose, l’aumento
della frequenza, il silenzio riduce
le distanze attutisce ogni caduta,
anche il precipitarsi delle foglie.
Alessio Pardi, Viareggio
71
Piccola antologia
Eppure non ne parla mai nessuno nei telegiornali
Eppure non ne parla mai nessuno nei telegiornali,
e a me viene spontaneo sempre domandarmi
se in India o nel Centrafrica
si crepi poi realmente per gli stenti o solo per un raffreddore
e che non stiano quelli invece bene, come sulla costa romagnola
o nei locali sardi, come la bella gente
con i sandali griffati o con gli yacht da ottanta metri,
perché altrimenti se qualcuno stesse male lo direbbero
senz’altro non parlerebbero del tempo o delle mode
Dell’estate, cosa si beve o cosa fare verso sera.
Perché se no non lo farebbero:
e se un metalmeccanico italiano non arrivasse a fine mese,
fosse costretto a far la fila in Caritas per far mangiare
la famiglia tutti i giorni in tv ne parlerebbero,
perché anche questi avranno certo una coscienza,
un senso d’oppressione che li annienta
giunti a casa, chiusi nella propria stanza.
Matteo Fantuzzi, Castel San Pietro Terme
Da Kobarid, Raffaelli Editore, Rimini 2008.
72
Piccola antologia
***
Chiaroscuri sul tuo volto, ora. Luci
assorte. C’è un’aria calma nell’assenza
di respiro, nell’assenza di risposta.
L’immobilità dell’aria asseconda ogni
tua quiete. Una mosca instancabile
sostiene il ronzio della vita
***
Di te restano arie sottili, suoni di
conchiglie alla porta.
Meno ancora. Voci di madri ai cortili,
gesti riflessi sull’acqua, vento che non
risale al tuo nome.
E ti allontani da questa terra, ti allontani
con occhi abbassati a unica, divina luce.
***
Quante conchiglie abbiamo contato per
unire acqua e terra? La ricerca serale,
infinita per i miei quattro anni, sulla
battigia di sabbie e d’ali bagnate. Ne
rimane ancora una, superstite di quei
giorni, a riprova che siamo esistiti.
Marco Fregni, Carpi
Da Dialoghi con il padre, Edizioni del Laboratorio, Modena 2007.
73
Piccola antologia
io vorrei
io vorrei
vorrei credere
nella risurrezione dei corpi
e nel ritorno di quelle tue grandi mani
mani che aprivano distese arate
a un sole alto sul confine
Vanda Guaraglia, Stazzano
Da Le mani del poeta, LietoColle, Faloppio 2008.
74
Piccola antologia
Ma nessuno dei due
Ma nessuno dei due
in quel momento ricordava.
Erano presenza
nello stesso luogo
col solito treno
già pronto per andare.
E la corsa di lui
e lo sguardo di lei.
Uguali.
Paolo Lezziero, Sesto San Giovanni
Da I ritorni, con 7 opere di José Lazcarro Toquero, Signum
edizioni d’arte, Bollate 2008.
75
Piccola antologia
SEDUTO SUL CONFINE
Seduto sul confine
di ieri
sono il sangue di mia madre
la voce di mio padre
il moto circolare
dove
scorre il tempo
sono
la foglia assetata
nel sole
che già conosce
la frescura
dell’acqua della luna
sono
la canzone triste
delle cisterne
il rumore della moneta
nella tasca del vagabondo
la neve ferma alla banchina
sono
quello che non sono
un vento che strappa
il giallo dei girasoli
e semina alfabeti
nelle gole delle sorgenti
Emilio Paolo Taormina, Palermo
Da Luoghi.
76
Mosca
COMING OUT
Ho accettato una supplenza in un liceo. Lo faccio senza nessun
interesse, così per noia, in attesa che accada qualcosa. La mattina
vado a scuola per fare test ben poco scolastici: sulla presa di una
copertina sulla psicologia di una certa fascia d’età. Faccio così:
porto per una settimana due o tre testi che lascio distrattamente
sulla cattedra. I ragazzi passano per chiedere il permesso di uscire,
si fermano, guardano distrattamente, guardano attentamente,
chiedono, prendono in mano il libro, sfogliano il libro, oppure non
si fermano, o non guardano, né distrattamente né attentamente, o
non chiedono, o non aprono il libro. Intanto io registro ognuna di
queste azioni (gli studenti pensano che io stia registrando
osservazioni sistematiche). La copertina migliore è quella che ha
fatto fermare più persone, le quali hanno chiesto, hanno aperto e
sfogliato il libro.
Alla fine della supplenza ho scritto:
COLORE: ROSSO
CARTA: LUCIDA
IMMAGINE: FOTO DI DONNA
Che fa un professore quando si annoia a morte? Di tutto. Una volta
chiesi ai ragazzi di andare in bagno e mi ci chiusi per mezz’ora, a
riposare. Un’altra volta dissi che avevo un lavoro da completare
entro la fine dell’ora, poi presi un foglio e cominciai a riempirlo
con frasi senza senso.
Faccio finta di avere un grosso lavoro di carte, da sbrigare, un
lavoro impegnativo. Quindi entro in una delle mie classi e invece
di controllare la versione di greco dico di ripetere gli ultimi
argomenti, poi comincio a scrivere, scrivere, un grosso lavoro di
scrittura. I ragazzi stanno abbastanza in silenzio, sono molto
comprensivi, con chi ha del lavoro e li alleggerisce del loro. Cosa
scrivo? Scrivo velocemente qualsiasi cosa senza pensare, e senza
che abbia un senso, si può andare avanti per ore, per chilometri di
scrittura. Qualche serio psicologo lo consiglia, ma non credo
mentre si è sul lavoro. Più tardi, a casa rileggo quello che viene
77
Narrativa
fuori dalla mia scrittura-sismografo:
Solita incertezza. Solita noia. Meglio girare. I ragazzi sono
abulici- non c’è da chiedere, da esigere, da pretendere.
Sento il segnalino vibrato di un sms. Prendo il telefono e leggo il
messaggio tenendo il cellulare nascosto contro la ribaltina della
borsa di pelle. È Andrea: «Ciao bellezza, puoi chiamarmi? Ho una
bella proposta da farti. Un bacio.»
Riprendo in mano la penna e la valanga di parole torna a scorrere
davanti ai miei occhi. Sembra che solo la mia mano sappia cosa
sto scrivendo, è la mano l’organo intelligente qui, perché io non ne
ho nessuna idea:
Cosa mi può proporre? Un viaggio. Un incontro shock. Una
scrittura a quattro mani (magari!). Roma. Milano. Oppure?
Matera. Oppure? Le isole (magari). Io andrei. E poi?
Ernesto svanisce. Questo è il termine. Svanisce. Svanisce per
mancanza di contorni, per mancanza di pregnanza, per grigiore,
per incertezza, fobie, altalenante evanescente, svanisce. Poi torna.
Ma svanisce. E io ti lascio svanire. Così va bene. Ma solo se sono
io a deciderlo. Troppo tempo. Troppo a lungo. Chi dice che deve
essere eccezionale (?). Siamo diversi. Almeno con Roberto è
chiaro, è così senza pretese. Nessuna pretesa. Perché dovrebbe
durare tanto? La fobia dell’abbandono produce la mania
dell’amore eterno. L’amore non è eterno. L’amore è. Ed eterno è
in quel momento in cui è vivo.
Suona il campanello e l’ora di greco è finita. Fuori dall’aula
chiamo Andrea.
– Ciao bellezza mia, come stai?
– Ciao Andrea, sono a scuola, ho poco tempo. Bene, e tu come
stai?
– Io bene, ma sono così triste, sono in treno, capisci, da solo
capisci, mi assale l’angoscia, e ti penso, lo sai che ti penso, quando
sono in treno?
– Dove stai andando?
– Sto andando a ritirare un premio a Genova, capisci, sai queste
cose noiose, ma mi pagano, e sono triste capisci, perché non mi
raggiungi?
– A Genova?
– Sì, ti trovo una camera, anzi ti invio un messaggio con il nome
78
Mosca
dell’albergo così prenoti su internet. Dai… non sai quanto mi
faresti felice, guarderò solo te durante la premiazione, non sai
quanto mi farebbe felice vederti nel pubblico.
– Da qui per arrivare a Genova ci metto un giorno. Quando sono là
il premio è finito e io devo ripartire.
– Ma dormiremmo insieme, lo sai, dormire in questi alberghi mi
mette un’angoscia, da solo…
– Lo so, guarda Andrea non sai quanto farebbe piacere a me quello
che dici, ma così non riesco a organizzarmi con i tempi, te l’ho
detto anche altre volte, dovresti avvisarmi con qualche giorno
d’anticipo, avrei preso due giorni di permesso, così proprio non
posso, credimi è impossibile.
– Mannaggia, hai ragione, ma non è colpa mia, mi hanno
comunicato l’albergo solo tre giorni fa(!).
– Senti, e perché non mi raggiungi a Castelfiorentino?
– Quando?
– Domani sera sono in giuria al premio letterario. E’ una bella
cosa, ti piacerebbe, e io guarderei solo te. Vieni, ti prego, se non
vieni non so come faccio a reggere anche la serata di domani sera.
– Ci penso, l’idea mi piace, lo sai, in tutti i sensi, anche l’idea di
dormire con te, e soprattutto di partecipare al premio. C’è un
diretto da qui?
– Sì, sì che c’è il diretto bellezza, tu ti metti sul treno e quando
arrivi ti vengo a prendere, poi stai con me al premio, io guarderò
solo te, lo sai, poi andiamo a cena insieme, e poi a letto insieme,
bellezza, non ci posso pensare, dai…
– Ma quante ore più o meno di viaggio?
– Solo quattro, non di più, solo quattro.
Cade la linea. C’è una classe tutta fuori dall’aula a giocare con una
palla di carta. Le bidelle sul piano mi guardano. Io guardo
l’orologio, ho perso più o meno mezz’ora al telefono, e la classe di
calciatori sta aspettando me. Cinque minuti dopo ho ripreso il mio
lavoro:
Non mi stupisce. Mi delude. Andiamo avanti. Avanti. Avanti c’è
un’altra donna? Da consumare in poco tempo perché è più
superficiale e scaltra? Avanti c’è il mio successo? Successo e
solitudine? Successo e un uomo eccezionale? Io vado. Non posso
fare altro. Altro che sorridere mestamente. Strano modo di
79
Narrativa
amarmi. Strano modo di vendicarsi. Tu fai questo. Io faccio lo
stesso. Quanto siamo diversi. Cosa stimo in te alla fine dei conti?
Quello che tu hai vissuto e io no. Il maschiaccio che vorrei essere.
Ma per il resto, ti vedo dietro. Sei dietro. Non so più nemmeno se
mi capisci realmente. Sei più piccolo. Poi sei traditore. Debole e
pauroso. Quindi traditore. Ma perché mi piaci? Perché sei dolce?
Perché sei amabile? Poco, poco, poco. Questo è il quantum. Tutto
questo tempo. Ma poi così poco in fondo. Nel fondo, così poco.
Il resto dello scritto è una ricetta per il pranzo. E stranamente ha
un senso. Tutta questa montagna di periodi insensati ha un senso.
Poi c’è un’altra cosa che mi capita di fare, nel periodo che passo a
scuola. Salgo in ascensore per pigrizia, anche per via dei tacchi,
per orgoglio non mi va di mostrare un’andatura insicura. Le mie
classi sono al secondo piano. In ascensore con me di solito ci sono
tre o quattro colleghi. Si parla, si scherza, poi si arriva sul piano, e
qualcuno scende. L’ascensore riparte e gli altri si mettono a
ridergli dietro. Poi l’ascensore si ferma ancora, secondo piano, e
qualcun altro scende. Appena le porte si richiudono di nuovo, si
ride di quello che è appena sceso. Beh, io salgo fino al quarto, mi
diverte assistere a questo cabaret improvvisato, non mi va di
offrirmi come soggetto allo sberleffo, ma soprattutto perdo un
poco di tempo. Quando arrivo al quarto piano faccio scendere tutti
e me ne torno giù, al secondo. Con questo giochino riesco a
perdere anche dieci minuti. In altri momenti chiedo alla classe di
fare esercizi mentre vado in bagno. Entro, mi chiudo e mi siedo
sulla tazza, nel silenzio. Le mani tra i capelli pensando alla
differenza tra la tranquillità somatica di quando si è soli e
l’architettura finta delle ossa del volto e del corpo quando si è
rispettabili attori sociali. Sono riuscita a farla durare anche venti
minuti.
Rileggo le righe buttate giù in classe.
“Dai raggiungimi, amore” dice Andrea.
Quando capirai che non si tratta di amore ma di chimica, che non
si tratta nemmeno di chimica ma di meccanica. Scrivo in cima il
titolo: “Meccanica dei corpi”.
Silvana Mosca, Campobasso
80
Bierce
L’ALLUCINAZIONE DI STALEY FLEMING
Dei due uomini che stavano chiacchierando, uno era medico. –
L’ho mandata a chiamare dottore, – disse l’altro, – ma non credo
che mi possa aiutare. Forse mi può consigliare uno specialista in
psicopatia. Penso di essere un po’ suonato.
– Ma ha un aspetto sano, – rispose il medico.
– Sarà lei a giudicare. Ho delle allucinazioni. Tutte le notti mi
sveglio e vedo nella mia stanza un grande cane Terranova nero
con una zampa anteriore bianca, che mi fissa intensamente.
– Lei dice che si sveglia. Ne è sicuro? Qualche volta si pensa di
avere delle “allucinazioni”, ma in realtà si sta solo sognando.
– Oh sì, sono proprio certo di essere sveglio. Qualche volta
rimango a lungo disteso e guardo il cane con la stessa serietà con
cui lui guarda me; lascio sempre la luce accesa. Poi quando non
resisto più mi siedo sul letto e... non vedo più niente!
– Uhm... che espressione ha l’animale?
– Mi sembra sinistra. Lo so che, se si esclude l’arte, gli animali se
sono tranquilli hanno sempre la stessa espressione, ma quello non
è un vero animale. I Terranova hanno sempre un’espressione mite,
lo sanno tutti; perché questo no?
– Beh, la mia diagnosi non avrebbe valore: non è il cane che devo
curare.
Il dottore rise per la sua stessa battuta, ma con la coda dell’occhio
guardava il suo paziente. Dopo un po’ disse: – Fleming, l’animale
che mi ha descritto corrisponde al cane del defunto Atwell Barton.
Fleming fece per alzarsi, poi; si risedette sforzandosi di assumere
un’espressione di malcelata indifferenza. – Mi ricordo di Barton, –
disse; – credo che... avevano scritto che... , ma non c’era qualcosa
di oscuro nella sua morte?
Il medico guardò il suo paziente dritto negli occhi e disse: – Il
corpo del suo vecchio nemico, Atwell Barton, fu trovato tre anni
fa nel bosco che divide le vostre case. Era stato pugnalato a morte.
Nessuno fu arrestato, perché non c’erano indizi. Alcuni di noi
hanno fatto delle “supposizioni”, ed io stesso ho una mia teoria. E
81
Narrativa
lei?
– Io? Santo Cielo, cosa ne posso sapere io? Lei si ricorda, no, che
partii per l’Europa quasi immediatamente dopo..., un bel po’ di
tempo dopo. Non si aspetterà di certo che nelle poche settimane
che sono passate da quando sono tornato, io abbia formulato una
“teoria”. In realtà non ci ho pensato per niente. Che cosa mi stava
dicendo di quel cane?
– Fu lui a trovare il corpo. Morì d’inedia sulla sua tomba.
Noi non conosciamo l’inesorabile legge che regola le coincidenze.
Staley Fleming non la conosceva; altrimenti non sarebbe balzato
in piedi, quando dalla finestra aperta giunse in lontananza,
trasportato dal vento, il lungo e doloroso ululato di un cane.
L’uomo per un po’ andò su e giù per la stanza, mentre il dottore
continuava ad osservarlo con sguardo fermo; poi si voltò di scatto
verso di lui e quasi gridando chiese: – Che cosa ha a che vedere
questa storia con il mio problema dottor Halderman? Non si
dimentichi del motivo per cui l’ho mandata a chiamare.
Il dottore si alzò a sua volta, e posando la mano sul braccio del
paziente disse gentilmente: – Mi scusi, ma non posso fare una
diagnosi così su due piedi; forse potrò farla domani. La prego,
vada a letto, ma non si chiuda a chiave. Io passerò la notte qui, in
compagnia dei suoi libri. Può chiamarmi senza doversi alzare?
– Sì, c’è un campanello elettrico.
– Bene. Se qualcosa la disturbasse prema il bottone senza alzarsi.
Buona notte.
Il dottore fissava i carboni ardenti comodamente seduto su una
poltrona; era immerso in profondi pensieri, ma non sembrava
giungere ad alcun risultato, dal momento che si alzava spesso e,
aprendo la porta che conduceva alla scala, si metteva attentamente
in ascolto; e poi ritornava al suo posto. Poco dopo, tuttavia, si
addormentò e quando si risvegliò era mezzanotte passata. Dopo
aver ravvivato il fuoco, prese un libro dal tavolo e diede
un’occhiata al titolo. Erano le Meditazioni, di Denneker. Aprì una
pagina a caso e cominciò a leggere: «Come da Dio è stato
comandato che a tutta la carne sia uno spirito ed allora anche
poteri spirituali, così allo stesso modo allo spirito sono le proprietà
della carne, senza escludere quello quando si sia separato da
questa e prosegua la sua vita come essenza autonoma, così come
82
Bierce
dai molti atti di violenza praticati da spettri e lemuri ci è
dimostrato. Ed anche ce n’è di quelli che aggiungono che in ciò
non è l’uomo solo, ma le fiere pur’esse sono parimenti sospinte da
demoniaci pungoli, e che...». Improvvisamente fu interrotto dal
rumore di un tonfo che fece tremare tutta la casa, come d’un
oggetto molto pesante che cada a terra. Gettò via il libro e si
precipitò alle scale che portavano nella stanza di Fleming. Cercò
di aprire la porta, ma, contrariamente ai suoi ordini, questa era
stata chiusa a chiave. Il dottore la prese a spallate con tanta forza
che essa cedette. Sul pavimento, accanto al letto disfatto, c’era
Fleming, in pigiama, ormai morente. Il medico gli sollevò la testa:
aveva una ferita alla gola. – Avrei dovuto immaginarmelo, – disse,
credendo che si fosse suicidato. Il corpo dell’uomo fu poi
sottoposto ad autopsia, dalla quale risultò che la ferita era stata
provocata dalle zampe di un animale, penetrate profondamente
nella vena giugulare.
Ma non fu trovato nessun animale.
Ambrose G. Bierce
Da Possono accadere queste cose?, Lucarini, Roma 1989.
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Narrativa
Ambrose G. Bierce (Horse Cave Creek, 24 giugno 1842 –
Messico, 1914), scrittore e giornalista statunitense, tra i più
caustici della San Francisco a cavallo tra il 1850 e i primi anni del
‘900.
Nato da una numerosa famiglia (lui era il decimo figlio), Bierce
conduce una vita spesso ai limiti, ma non per i vizi, bensì per il
suo sarcasmo che col tempo gli vale il nomignolo di bitter,
l’amaro. A quindici anni, stanco della povertà della famiglia, se ne
va di casa cominciando a girare per gli Stati Uniti e vivendo di
espedienti fino a quando uno zio, Lucius, fratello minore del
padre, lo prende sotto la sua ala protettrice. Lucius Bierce aveva
fatto fortuna divenendo un discreto avvocato e sindaco della
cittadina di Akron. Lo zio gli fa frequentare il Kentucky Military
Institute, dove impara, tra le altre cose, la cartografia, il che gli
permette di arruolarsi nel 1861 come volontario nell’esercito con
mansioni di topografico.
Sono gli anni della guerra di secessione, che Bierce vive in prima
persona e da cui nasce Tales of soldiers and civilians, ovvero
“Racconti di soldati e civili”, un campionario degli orrori della
guerra in cui la visione spietata e sprezzante degli uomini, nessuno
escluso, dà il senso della misura di Bierce. Qui emerge un altro
aspetto dell’opera di Bierce: la casualità degli eventi e l’esistenza
del soprannaturale, del fantastico, che si cala nella realtà
quotidiana. Da ciò nascono anche ottimi racconti macabri e
dell’orrore, sempre permeati di cinismo.
A 24 anni Bierce, stanco di quella vita, abbandona l’esercito e
approda a San Francisco, dove inizia la carriera di giornalista e
scrittore. Vive inizialmente di piccoli lavori, comincia a scrivere e
ad essere quotato per i suoi attacchi a politici, uomini di malaffare,
imprenditori, tanto che secondo le cronache di allora, usa portare
una pistola con sé. Nel 1871 sposa una bella e ricca ragazza e,
grazie al suocero, fa un lungo viaggio di nozze a Londra, dove
cerca di pubblicare, con scarso successo, le sue opere. Nel 1904
divorzia dalla moglie che gli ha dato tre figli, due dei quali morti
tragicamente. La morte dello scrittore è uno dei più grandi misteri
della letteratura americana: nel 1913 (a 71 anni), parte per il
Messico dilaniato dalla guerra civile di Pancho Villa e di Emiliano
Zapata e scompare per sempre senza lasciare traccia.
84
Rossi
IL VIAGGIO DELLA SIRENA
Supina ho dormito fino a ieri l’altro nel canale della vita in mezzo
a pesci- gatto miagolanti a una luna d’acqua ossigenata.
Quasi per incanto mi risvegliò un pesce-palla rimbalzandomi con
la sua nuova gomma-teflon sull’occhio del destino.
S’aprì una branchia accanto alle alghe di capelli che avevano
sussurrato per decenni il loro amore ai gamberetti.
Le lucide scaglie della coda sobbalzarono di sdegno percependo
tutti quei giovani muscoli che stavano lì attaccati da millenni.
Fu una pasta dentifricia partorita dalla moglie del capitano Grant
che m’aveva addormentato, cercando il suo spazzolino nel bagno
dell’albergo dove lui mi lasciò senza risposte.
Inarcando il petto per emettere un sospiro ingoiai la melma delle
sue domande che m’avevano dipinto di nero queste iridi turchine.
Nuotando fino al mare per rivedere il sole, trovai gocce di rubino
impigliate nelle reti dei pescatori.
Scartai la nuova Ansa che godeva di neonate Gilde di mercanti e
finalmente vidi le lunghe onde e i cormorani.
Smarrii la corrente dei ricordi e mi ritrovai sotto la stessa barca
dove la Speranza remava con l’Amore in un’orgia di flutti
garantita dai Tritoni.
Balbettai un’angoscia incoerente nel vedere torpediniere e
sottomarini terra d’ombra naturale solcare come immense rughe di
vecchiaia la fronte del mare.
Sul ponte di una nave riconobbi il capitano, dentro un sigaro
d’acqua lo vidi guardiamarina.
Ne afferrai le prore per leggerci le parole quelle che non
pronunciò, rifacendomi Sirena.
Cantai la nostalgia di tutti quei ritorni, abbandonati in lampi di
silenzi.
Cantai per lui che amavo, che mi raschiò via dal mondo in gesti e
negligenze.
Non spararono i siluri – non quella volta –.
Si calmarono le acque. Si mossero le orche insieme a maghi e dei.
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Centocinquantarighe
Contemplarono il mio amore fischiato coralmente dai delfini, il
mio amore nato per gemmazione, colpevole di fiducia. Il mio
amore per un uomo di carne e sangue e guerra, il mio amore per
un uomo con un cuore come garza di nebbia.
Annalisa Rossi, Bra
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L’artista
L’autore delle illustrazioni di copertina, Claudio Parentela, nasce
a Catanzaro nel 1962, dove vive e lavora.
È un illustratore, pittore, fotografo, mail artista, collagista,
cartoonist, giornalista free lance, attivo da molti anni nella scena
underground internazionale.
Ha collaborato e collabora con tantissime zines, magazines di arte
contemporanea, letterarie e di comics in Italia e nel mondo, sia
sulla carta, sia sul web, ad esempio: Komix.it, BrainTwisting, Lo
Sciacallo Elettronico, Inguine, Stripburger, Lavirint, Komikaze,
ConArt, The Lummox Journal, The Cherotic R(e)volutionary,
Sick Puppy, Malefact, Gordo.it, johnmagazine, Abusemagazine,
Zupi, Lamette, Chance, Lucid Moon, Que Suerte, Art Life.
Nel 1999 è stato ospite del BREAK 21 FESTIVAL di Ljubliana
(Slovenja), i suoi oscuri e pazzi lavori sono presenti ed esposti in
tantissime gallerie nello sterminato e misterioso web… e poi
ancora al “Girasole” (Villa Basilica), al “Tabula
Rasa” (Barcellona), al Forte Prenestino (Roma), a Skorie
Industriali (Roma), allo Spazio Aurora (Mi), alla Andenken
Gallery (USA), alla Fira Magica de Santa Susanna (Spagna), alla
Red Labels (Toronto-Canada), al “Sage Club” (Berlino) ed in
moltissimi altri luoghi in Italia e nel mondo.
Per informazioni e contatti:
http://www.claudioparentela.net
http://claudioparentela.altervista.org
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Notizie
NIENTEGUERRE
Poesia contro ogni violenza
VIII edizione – 2009
Le edizioni del Foglio Clandestino
selezionano testi poetici per la realizzazione di una raccolta di
poesie sul tema NIENTEGUERRE – Poesia contro ogni violenza. Il
comitato di lettura selezionerà per la pubblicazione i testi migliori.
L’adesione è libera; le partecipanti e i partecipanti possono inviare
da 1 a 3 poesie in due copie, per un massimo di 30 versi ciascuna
(per l’invio tramite e-mail è sufficiente inviare un’unica copia).
A parte, o in calce ai testi inviati, si dovranno indicare: nome e
cognome dell’autore, un recapito postale e l’e-mail.
Non è richiesta alcuna quota di partecipazione o tassa di
lettura.
È gradito un contributo libero per la copertura delle spese di
realizzazione e invio a tutti i partecipanti del volume che verrà
stampato per l’occasione. Se il materiale non avrà qualità
sufficiente per una pubblicazione autonoma, i testi più interessanti
verranno inclusi in questo aperiodico.
Per i contributi usare il conto bancoposta n. 37 47 62 07 con
IBAN IT43 J076 0101 6000 0003 7476 207 intestato a Gilberto
Gavioli.
I testi devono pervenire entro il 31 luglio 2009 ed essere inviati,
con rif. Nienteguerre, a:
Casella Postale n. 67 – 20099 Sesto San Giovanni (Mi)
oppure [email protected]
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Notizie
A partire dal prossimo numero del nostro aperiodico proponiamo
spazi-finestre di comunicazione da inserire sulla quarta di
copertina o all’interno della pubblicazione.
La nostra ricerca è rivolta esclusivamente al settore culturale e
letterario (ad es. libri, riviste, autori, blog, editori, aziende, siti,
artisti). Naturalmente opereremo una selezione delle richieste
ricevute, al fine di ottenere non soltanto un “respiro economico”,
ma soprattutto per avviare nuove collaborazioni e immaginare
futuri progetti comuni.
per contatti e informazioni:
[email protected]
mobile 320/8695845 oppure 340/8296907
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Notizie
edizioni del Foglio Clandestino
Potete acquistare i volumi pubblicati sul sito delle nostre edizioni.
Inoltre, con il codice ISBN, potete richiederli nelle librerie della
vostra zona oppure on line.
Petr Halmay: L’impronta del tempo, € 8,00
Francesca Bonelli: Reiki. Un percorso verso il benessere, € 12,00
Massimo Baraldi: One for the road, € 12,00
Verrà effettuato uno sconto del 10% a chi sostiene l’impegno
editoriale dell’aperiodico.
Per informazioni e acquisti:
edizionidelfoglioclandestino.it
[email protected]
mobile 340/82.96.907
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