I banchieri genovesi - Banca ALBERTINI SYZ

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I banchieri genovesi - Banca ALBERTINI SYZ
I banchieri Genovesi e la Spagna:
il “secolo d’oro”
Genova come appariva nelle «Cronache di Norimberga», libro illustrato del 1493
Rispetto al declino italiano, i cui primi embrioni si manifestarono già agli inizi del
Cinquecento, Genova ha avuto un ruolo e uno sviluppo differente. Per comprendere questa
“diversità” occorre soffermarsi sulla svolta strategica voluta da Andrea D’Oria nel 1528. E si può
partire dalla visione del bellissimo film di Ermanno Olmi Il Mestiere delle Armi: è un film che
ovviamente non parla di Genova, ma descrive bene la situazione italiana del Cinquecento e l’inizio
della nostra decadenza, che poi culminerà in un lungo e doloroso Seicento. La creazione degli Stati
nazionali in Europa e l’apertura delle rotte atlantiche con la scoperta dell’America, aveva
comportato un grande “salto di scala”, una nuova dimensione della geopolitica. In questa “nuova
scacchiera” l’Italia rimane focalizzata sulle proprie rendite e sulle proprie divisioni. Nel 1526 fu
fondata la “Lega di Cognac” - che vedeva insieme al Papato di Clemente VII, la Repubblica di
Venezia, la Firenze Medicea, Genova, Francesco I Re di Francia, gli Sforza di Milano - con lo
scopo di opporsi allo strapotere di Carlo V, Re di Spagna ed Imperatore del Sacro Romano Impero.
A combattere l’esercito imperiale guidato da Georg von Frundsberg vi furono Giovanni delle Bande
Nere (un membro della famiglia Medici), impavido condottiero ma con poche truppe e sui mari la
flotta comandata da Andrea Doria, l’ammiraglio invictus. Con la caduta di Giovanni de’ Medici le
truppe lanzichenecche, ricongiunte con quelle spagnole guidate da Carlo III di Borbone, ebbero la
strada spianata in Italia fino alla conquista di Roma nel 1527, dove senza la guida del von
Frundsberg e poi prive anche del comando di Carlo di Borbone, ma soprattutto senza paga, si
abbandonano ad ogni devastazione.
Il “sacco di Roma” fu un tragedia enorme, la città santa veniva dissacrata con inaudite
violenze e saccheggi. Ma fu, anche, un chiaro messaggio per le potenze europee: l’Italia era divisa, i
suoi vari stati, ducati, principati, le stesse famiglie nobiliari (si pensi all’insanabile odio dei Colonna
contro i Medici) non si sarebbero mai messi insieme in modo stabile e perenne. Quindi, in quanto
divisa, l’Italia era una pregiata terra di conquista (“occasione grande di predare e di arricchirsi in
Italia” dirà il Guicciardini) e per tutto il Cinquecento fu un cruento teatro di battaglia tra Francia e
Spagna. Città e territori che erano stati fiorentissimi entravano in una spirale di decadenza o di
isolamento. Le Signorie italiane sopravvivevano solo grazie a matrimoni ed alleanze. Venezia era
impegnata sul fronte orientale e rimaneva il coraggioso baluardo contro l’avanzata dei Turchi, che
iniziavano a impadronirsi dell’Europa Orientale.
Con Andrea D’Oria Genova fece una scelta strategica netta. Dopo il fallimento della Lega di
Cognac, di fronte alle mire d’espansione dei vicini francesi forti della loro potenza continentale,
l’ammiraglio D’Oria nell’estate del 1528 siglò un’alleanza con la Spagna di Carlo V in cui ottenne
la garanzia dell’indipendenza di Genova e, dopo aver liberato Napoli dalle truppe francesi, liberò
anche la stessa città genovese. Carlo V, all’apice del suo potere, controllava un impero vastissimo
che si estendeva su tre continenti ma aveva bisogno di “navi e di capitali”. L’alleanza hispanicogenovese si basò, dunque, su una ripartizione, su una “divisione di competenze” come ha
sottolineato lo storico Arturo Pacini. I Genovesi fornirono l’infrastruttura finanziaria all’Impero
spagnolo, scalzando fiorentini, tedeschi ecc. Il loro know-how era fonte di vantaggio competitivo:
“La loro posizione di privilegio non deriva da particolare benevolenza dei sovrani spagnoli, ché
anzi costoro a cominciare da Filippo II, odiavano i genovesi (…).Ma la potenza finanziaria dei
genovesi obbligava i re spagnuoli a fare quello che i genovesi richiedevano” (C.M.Cipolla,1996).
In questa alleanza strategica non mancarono certo i dissapori, ad esempio gli attriti tra
l’aristocrazia spagnola e i genovesi, alla cui base non vi era solo un problema di rapporti di potere,
ma una diversa “philospohia”: la nobiltà spagnola era tutta dedita al feudo e alla rendita, viveva di
lignaggio e delle concessioni della corte reale, il suo orizzonte era essenzialmente politico-religioso.
I Genovesi invece erano mercanti-banchieri, conoscevano terre e costumi di continenti diversi,
parlavano più lingue e soprattutto, da lungo tempo, padroneggiavano il nuovo linguaggio dei
commerci: partita doppia, lettere di cambio, assegni, garanzie, prestiti, cedole, piani di
ammortamento. Si mantenne insanabile questa dicotomia tra la rendita della nobiltà spagnola e la
“molla della competizione”, actio mentis dei mercatores genovesi.
Ritratto di Carlo V a cavallo di Tiziano – Museo del Prado, Madrid
Il periodo che và dalla svolta dell’ammiraglio D’Oria fino ad almeno il terzo decennio del
Seicento è conosciuto nella storiografia (non solo spagnola) come il “secolo d’oro” dei genovesi,
emblematico lo studio di Ruiz Martín, “El siglo de los genoveses en Castilla (1528-1627):
capitalismo cosmopolita y capitalismos nacionales”. I Centurione, gli Spinola, i D’Oria, i Grimaldi,
i Balbi, i Giustiniani, i Durazzo, i Lomellini e poi i Pinelli, i Sauli, gli Invrea assumono la
leadership economico-commerciale nell’Impero. I genovesi seppero sfruttare abilmente le
opportunità offerte dalle nuove rotte verso le Americhe: un enorme “mercato comune” formato
dallo spazio atlantico-europeo, con le nuove ricchezze che affluiscono dalle colonie e da ogni parte
del continente europeo. Genova diventò la più ricca città d’Europa, snodo centrale di quell’enorme
mercato che erano i territori della corona spagnola. L’Europa viene inondata dall’oro e soprattutto
dall’argento delle colonie, in particolare dopo la scoperta in Sud America della miniera di Potosì
(sulla saga dell’argento spagnolo si leggano le interessanti pagine di Carlo Maria Cipolla).
Nel Seicento il poeta spagnolo Francisco de Quevedo y Villegas scriveva:
“Poderoso caballero
es Don Dinero .
(…)
Nace en las Indias honrado,
donde el mundo le acompaña,
viene a morir en España,
y està en Génova enterrado”.
Ma non erano solo i capitali e l’intermediazione finanziaria il terreno d’elezione dei
genovesi. Essi commerciavano il grano siciliano e la lana castigliana, seta e manufatti tessili, spezie
dall’Oriente, spostavano e intermediavano merci e capitali, soldati e lavoratori. Nello stesso tempo
la flotta genovese forniva un validissimo ostacolo all’avanzata dei turchi e dei pirati barbareschi nel
Mediterraneo.
Anche i genovesi come i banchieri fiorentini subirono dei default sovrani: si pensi ai
mancati pagamenti dei debiti da parte di Filippo II nel 1557. Furono perdite dolorose, con ingenti
danni, che colpirono lo “stato di salute” di tutta la città. Persino i Fugger, banchieri tedeschi, furono
colpiti pesantemente e agli inizi del Seicento si arrivò alla liquidazione delle loro attività bancarie.
Non fu così per i genovesi che riuscirono a riprendersi e rifinanziarono il debito della corona
spagnola. Rispetto alla Siena o alla Firenze del Trecento, rispetto al crollo del Banco Mediceo nel
Rinascimento, Genova era riuscita a ridurre gli effetti del rischio sistemico attraverso due grandi e
straordinarie creazioni: innanzitutto il Banco di San Giorgio, un banco pubblico, che fungeva da
primordiale Banca Centrale (Giorgio Felloni è stato il responsabile scientifico del progetto di
sistemazione dei suoi straordinari archivi, valorizzando e pubblicando documenti interessantissimi)
e si è giustamente sottolineato come il Banco sia stato un fondamentale elemento di successo nella
storia millenaria della città.
Poi le novità introdotte con le fiere di Besançon e in seguito di Piacenza: in un mercato
europeo così vasto e sempre più globalizzato (dalle Americhe ad Oriente) occorreva creare delle
“camere di compensazione” tra debiti e crediti ed occorreva separare il commercio delle merci dal
commercio dei denari. Le fiere si erano già affermate come luoghi di scambio istituzionalizzati sin
dal Medioevo. Ma in quelle dell’età moderna i genovesi assunsero – grazie alle elevate competenze
tecniche e alla disponibilità di capitale - il governo del “mercato dei cambi” (le cambiali tratte) con
la creazione di un sistema “accentrato” per la regolazione delle cambiali di tutta Europa. I genovesi
in questo modo riuscirono a resistere anche alla crisi francese del 1558 e agli altri successivi default
della corona spagnola.
Banchieri e mercanti della Repubblica genovese, dunque, non solo sfruttarono le opportunità
(enormi) offerte dalla globalizzazione dei mercati ma, consapevoli dei rischi insiti in questo
vertiginoso processo di crescita, iniziarono a implementare dei metodi di controllo, di
compensazione e di regolamentazione.
Ovviamente nel “secolo d’oro” genovese vi furono luci ed ombre: la riforma del 1528
comportava la “repubblica dei ceti”, un governo cioè oligarchico, sul fronte dei trasporti non era più
possibile alcuna sfida sulle grandi rotte transoceaniche ormai monopolio degli inglesi e degli
olandesi, i commerci portarono in dote rendite e possedimenti (soprattutto nel Regno di Napoli) e la
spinta commerciale col tempo diminuì a favore della gestione delle ricchezze e delle proprietà.
Analizzare questo periodo è tuttavia utile per comprendere quanto la “dimensione
commerciale” spieghi successi e declino della Repubblica Genovese.
Spesso si è detto che nel panorama italiano la storia economica è stata trascurata perché non
era “storia delle idee” (nel senso crociano), ma Genova rappresenta un esempio straordinario in cui
storia economica, storia politica e storia delle idee coincidono: “est genuensis, ergo mercator” .
L’ars mercatoria per Genova è stata sempre nomos, legge costitutiva e fondante della città,
nomos basileus. Sono il mare e i commerci la proiezione naturale di Genova.
Ma la storia, avvincente ed unica, di Genova può essere esempio e allo stesso tempo monito
per l’intera Italia. Non è nel feudo o nella rendita parassitaria, ma nei commerci e nel “governo dei
commerci”, nella ponderazione di opportunità e rischi, nei viaggi, nella visione cosmopolita,
insomma nella “mercatura” che si trova il migliore animus italiano.
Giovanni Fracasso
Ph.D. “Mercati e Intermediari Finanziari”
Università degli Studi di Parma
Articolo pubblicato, con alcune modifiche, il 26 febbraio 2012 con il titolo “I Doria resero Genova
la più ricca, ma 600 anni fa” nella sezione “Società” del giornale Linkiesta.it:
http://www.linkiesta.it/genova-doria