Rassegna stampa 19 luglio 2016

Transcript

Rassegna stampa 19 luglio 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 19 luglio 2016
SOMMARIO
“Attenti a quei due” è il titolo dell’editoriale di Fulvio Scaglione su Avvenire di oggi:
“«Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta», fa dire la cancelliera Merkel ai
suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte
«significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea». Il
dopogolpe della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai
si contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma
anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano
da Occidente. Angela Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento
nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica
estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro
europeo si è unito il solista d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato
John Kerry, hanno addirittura legato «il mantenimento dei più alti standard di rispetto
per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della legge» alla permanenza della
Turchia nella Nato. Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui
Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello
del potere assoluto, dopo il primo del consenso conquistato con il decollo economico e
il secondo dell’avventura imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela
tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il caso Turchia. Certo, la
gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su golpisti veri e presunti la
spada della pena capitale, lo porterà ben lontano da ciò che, in termini di
applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia, si richiede a un
Paese dell’Ue. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina. Negli ultimi
anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai servizi segreti (nei
giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran
parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla libera
espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili. Non si
sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri princìpi. Allo
stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo,
parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli «alti standard » che ora
invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza
della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che
attraversavano il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi,
allora la Nato degli «alti standard» si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a
stendere il proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non
mille anni fa. Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i
profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di quell’Assad tanto
inviso agli americani e ai loro alleati in Medio Oriente, la moderazione di Erdogan non
sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan
da tempo non risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia che
abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti solo interni alla
Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto. Comunque, dopo aver ottenuto un
potere quasi assoluto. In questo clamoroso riposizionamento collettivo, c’è un
personaggio che bada bene a non farsi notare, ma potrebbe intascare un ottimo
dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del Cremlino è stato uno dei
primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due si sono promessi di
incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia russo nel
novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45
miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore
dell’energia. Lo zar e il sultano si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare
l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro
confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo
impegnata. Meglio non staccare gli occhi da quei due” (a.p.)
1 – IL PATRIARCA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag V Moraglia ringrazia la comunità ebraica
Il rabbino Bahbout condanna il sacrilegio del Crocifisso a San Geremia
LA NUOVA
Pag 19 Sfregio, il Patriarca ringrazia il rabbino per la vicinanza
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 19 Madonna Carmine, messa e processione con le autorità di n.d.l.
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 6 Ho da lasciare soltanto l’amore
Testamento spirituale del cardinale Silvano Piovanelli
Pag 7 Più tempo per l’ascolto
All’Angelus il Pontefice sottolinea l’importanza dell’ospitalità come opera di misericordia.
Si moltiplicano ricoveri e ospizi ma non sempre si pratica l’accoglienza
AVVENIRE
Pag 2 Chiesa e Sud, il tempo della concretezza di Angelo Scelzo
Case donate dalla curia di Napoli, schiaffo che sveglia
Pag 23 L’altare è il cuore della chiesa di Raul Gabriel
Prosegue il confronto sull’architettura sacra con lo scultore Gabriel
LA REPUBBLICA
Pagg 42 – 43 Bartholomeos I: “Nonostante i nemici del dialogo possiamo riunire
il mondo cristiano” di Alberto Melloni
Intervista al Patriarca di Costantinopoli
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 3 Sposarsi, la missione (im)possibile
Massimiliano Valerii: la verità, vi prego, sul matrimonio. Luciano Moia: la svolta può
arrivare da scelte controcorrente. Leonardo Becchetti: il mal-essere relazionale
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Se a Venezia nessuno fa i conti di Cesare De Michelis
Oltre l’Unesco
LA NUOVA
Pag 19 Braccio riattaccato con lo scotch di Nadia De Lazzari
Intervento artigianale del parroco di San Geremia e Lucia dopo il vandalismo ai danni
del Crocifisso
Pag 19 Quadro conteso tra notaio e vescovo di Giorgio Cecchetti
Trittico del 1300 acquistato all’asta dal professionista veneziano per 895 mila euro
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Le spose del terrore di Andrea Priante
Ingannate, sole, senza casa né denaro. Le storie di Lidia, Hirmet e le altre mogli dei
veneti accusati di legami con l’Isis
IL GAZZETTINO
Pag 8 Unioni gay, Spinea prima in Veneto di Melody Fusaro
Gino e Lorenzo: il 3 settembre pronti a tagliare il traguardo del “sì” dopo 41 anni di
convivenza
Pagg 12 – 13 Nordest, prevalgono le vacanze “casalinghe” di Natascia Porcellato e
Annamaria Bacchin
Il 41% ha già deciso la destinazione, ma la maggioranza (55%) non si sposterà
LA NUOVA
Pag 12 Meno nati, meno giovani. Il Veneto ha i capelli grigi di Silvia Giralucci
Calo di 12 mila residenti, non accadeva dal 1960. La demografa Tanturri: “Bisogna
aiutare chi vuole essere genitore”
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Le 4 ore di silenzio sul golpe di Paolo Mieli
Ambiguità occidentali
Pag 2 La vendetta del comandante che non può essere giustizia di Dacia Maraini
Pag 5 Che golpe è stato? di Lorenzo Cremonesi
Pagg 10 – 11 The Donald e la malattia d’America di Richard Ford
Un grande scrittore scandaglia il fenomeno Trump
Pag 27 Ma ora Europa e Usa non devono tollerare il cinismo di Erdogan di
Antonio Ferrari
LA REPUBBLICA
Pag 1 La vendetta e la paura di Ezio Mauro
AVVENIRE
Pag 1 Attenti a quei due di Fulvio Scaglione
L’Occidente, il “Sultano” e lo “Zar”
Pag 5 La grande “decapitazione” di Camille Eid
Non solo militari: la mannaia si abbatte pure sui dipendenti pubblici
IL FOGLIO
Pag 1 Dannata Europa senza Vangelo di Camillo Langone
Immigrazione, terrorismo e ascesa del clero neopauperista. Il cattochitarrismo non
basta. Perché l’Europa rantola da quando ha rinnegato la sua vera religione
Pag 2 Guerra (civile) tra gli imam francesi su islam e stragi jihadiste di Matteo
Matzuzzi
IL GAZZETTINO
Pag 1 La nuova strategia dei reclutatori di Carlo Nordio
Pag 2 L’ex ambasciatore Scarante: Bruxelles miope, Ankara può essere un
pericolo di Maurizio Crema
Pag 18 L’identità della Turchia mette a rischio l’Europa di Fabio Nicolucci
LA NUOVA
Pag 1 Aiuto nero al campione dei bianchi di Alberto Flores d’Arcais
Pag 9 Emergenze nell’Europa indebolita di Roberto Castaldi
Torna al sommario
1 – IL PATRIARCA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag V Moraglia ringrazia la comunità ebraica
Il rabbino Bahbout condanna il sacrilegio del Crocifisso a San Geremia
Dopo il sacrilegio compiuto ai danni del crocifisso mandato in pezzi nella chiesa di San
Geremia, numerose sono stati le condanne e le prese di posizione. Tra le tante anche
quella del Rabbino capo della Comunità ebraica, rav Scialom Bahbout che aveva
duramente contestato il gesto compiuto da un cittadino marocchino. Ieri, il Patriarca,
mons. Francesco Moraglia è intervenuto per ringraziare Bahbout con una nota ufficiale.
«Le Sue parole - scrive mons. Moraglia - rivestono particolare valore perché pronunciate
da chi appartiene a un popolo che, in un passato non lontano, ha pagato un prezzo
indicibile e inaccettabile all’irrazionalità e all’odio disumani che, talvolta, prendono forma
nella storia con una violenza inaudita e non degna dell’uomo. Lo stermino del popolo
ebraico, perpetrato nel secolo scorso, rimane una pagina oltremodo buia nella storia
dell’Europa del XX secolo, un monito costante al nostro presente e futuro. L’oltraggio a
simboli pacifici e cari alla tradizione religiosa dei differenti popoli - come è il Crocifisso
per i cristiani - addolora e ferisce profondamente tutti gli uomini e le donne di buona
volontà. A Lei, stimato rav Scialom Bahbout, e all’intera Comunità ebraica di Venezia
l’augurio della pace del Signore”.
LA NUOVA
Pag 19 Sfregio, il Patriarca ringrazia il rabbino per la vicinanza
Il Patriarca Francesco Moraglia ha trasmesso un messaggio di ringraziamento al rabbino
capo Scialom Bahbout per la vicinanza e la solidarietà anche pubblicamente rivolte alla
Chiesa veneziana riguardo l'episodio dello sfregio ad un crocifisso nella chiesa dei Ss.
Geremia e Lucia, avvenuto giovedì scorso. «Le sue parole» scrive Moraglia «rivestono
particolare valore perché pronunciate da chi appartiene a un popolo che, in un passato
non lontano, ha pagato un prezzo indicibile e inaccettabile all'irrazionalità e all'odio
disumani. L'oltraggio a simboli pacifici e cari alla tradizione religiosa dei differenti popoli
- come è il Crocifisso per i cristiani - addolora e ferisce tutti gli uomini e le donne di
buona volontà. Il rispetto dei simboli al di là delle legittime e specifiche differenze
religiose - sono un patrimonio comune di libertà da difendere».
Torna al sommario
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 19 Madonna Carmine, messa e processione con le autorità di n.d.l.
Venezia, ieri, ha vissuto momenti di intensa devozione in occasione della solennità della
Madonna del Monte Carmelo spostata perché in concomitanza con il Redentore. La
celebrazione presieduta dal Patriarca Moraglia con la presenza delle Confraternite
cittadine e della Corale Broccardo è iniziata con la processione dalla Scuola Grande dei
Carmini - fondata il primo marzo 1594 è l'ultima delle otto Scuole Grandi esistenti in
città - all'omonima chiesa. Durante la processione il parroco don Silvano Brusamento
custodiva tra le mani la reliquia della Madonna del Carmelo. Tra i presenti la presidente
del Consiglio comunale Ermelinda Damiano, il questore e le autorità militari della Finanza
e della Marina. Nell'omelia il presule partendo dalla figura del primo profeta d'Israele Elia
ha parlato della solennità mariana. «Ha origine devozionale biblica ed è antichissima».
Poi un accenno all'attualità. Il Patriarca ha detto: «Oggi viviamo nell'epoca del pensiero
addomesticato. L'umanità perseguendo queste strade prima di andare contro Dio va
contro l'uomo». A conclusione della messa una preghiera davanti al simulacro della
Madonna, poi tutti si sono riuniti in patronato per la festa.
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 6 Ho da lasciare soltanto l’amore
Testamento spirituale del cardinale Silvano Piovanelli
È firmato «prete fiorentino» il testamento spirituale che il cardinale arcivescovo emerito
di Firenze ha dettato dal convitto ecclesiastico del capoluogo toscano nel giorno della
memoria liturgica di sant’Antonio da Padova, meno di un mese prima della morte,
avvenuta sabato 9 luglio. Ne pubblichiamo integralmente il testo.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Sono in dirittura di arrivo e tutta la
mia vita è rivolta verso il Signore, il quale ha riempito la mia esistenza. Lui solo è stato
la luce dei miei giorni. Lui solo non ha abbandonato mai per un istante il mio cammino
nel tempo. Il Signore ha talmente accompagnato ogni mio passo che non mi sono mai
sentito solo ed è proprio Gesù che ora mi apre le braccia. Posso dire che passo dopo
passo Lui è stato al mio fianco e ha riempito la mia mente, il mio cuore, tutto di me.
Attraverso di Lui ho sentito di essere fratello di tutti gli uomini, particolarmente dei
poveri, dei malati e delle persone sole ed abbandonate. Io sono nato povero e
nonostante una vita piena di contatti con tante persone, tante situazioni e nonostante il
mio percorso nella Chiesa, sono rimasto povero e quindi non ho nulla da lasciare; ho da
lasciare soltanto amore; l’amore con cui ho cercato di incontrare gli altri; e ora che sono
ai momenti ultimi della mia vita intendo fare, mettendo tutto nelle mani di Dio, il dono di
me al Signore. È un dono rinnovato e sento che il Signore sta per accoglierlo. Pensando
a quanto il Signore ha sofferto per noi e per me, povero peccatore, devo dire che Lui,
abbandonato sulla croce, mi sta risparmiando tanta sofferenza; Lui crocifisso e
sanguinante, io curato e assistito da tanta delicatezza e affetto. Devo dire grazie in mille
modi, è la mia Eucaristia. Non so se potrò celebrare ancora una messa, ma sento che
ora l’offerta della mia vita diventa vera Eucaristia. Desidero, anzi voglio, che la mia
esistenza sia Eucaristia: ringraziamento per tutti, a cominciare dai sacerdoti a cui ho
sempre voluto bene; a tutti, senza lasciar da parte nessuno. Ai sacerdoti fiorentini vorrei
dare un abbraccio, ai singoli, dal caro vescovo Giuseppe mio successore fino all’ultimo
ordinato, ringraziandoli per quello che fanno e hanno fatto per il popolo di Dio. Vi dico:
crescete nell’amore verso Gesù Cristo e verso i poveri, i malati, i piccoli, gli ultimi. E
vogliatevi bene tra di voi. Non dimenticate mai quello che il Signore ha detto attraverso
l’apostolo Giovanni: «Amatevi come io vi ho amato». Offro la mia vita perché il
sacerdozio ministeriale sia vissuto proprio come un generoso, totale, entusiasta dono di
sé al popolo di Dio, il popolo che il Signore ci ha affidato. Alle persone consacrate, le
monache e i monaci di clausura, le religiose e i religiosi desidero dire, augurare, pregare
perché il Signore sempre più diventi l’unico della loro vita. E allargo le braccia per
stringere nell’affetto ognuna e ognuno di voi. Ai laici, al popolo di Dio, in mezzo ai quali
ho trovato tante tracce di santità, perlopiù nascosta e anonima, dico di fidarsi sempre di
Dio e guardare a Lui solo per far crescere l’edificio, di cui sono pietre vive, ognuna
essenziale e complementare per la costruzione del corpo di Cristo che è la Chiesa. Io
sono stato soltanto e sempre fiorentino. Il Signore mi ha tenuto soltanto a Firenze, dal
seminario come alunno prima e come vicerettore poi, alle parrocchie di Rifredi e di
Castelfiorentino, fino all’episcopato e allora è chiaro che io voglio offrire la mia vita per
questa città e per questa amata cara diocesi. Che Firenze diventi quello che nella storia
l’ha fatta città unica di bellezza, immagine così toccante della Gerusalemme celeste. Mi è
sempre parso che la città di Firenze esprimesse nel più bello dei modi proprio la
Gerusalemme celeste. Giunto a questo momento sono tanti i volti di persone che si
affollano nella mia mente, che sono stati per me dono e grazia. Dai miei genitori, da
tempo defunti, al mio fratello Paolo, morto alcuni anni fa: sono stati per me esempio di
vita, di fede e di onestà. Mi scorrono davanti agli occhi particolarmente i volti di tanti
preti che ci hanno lasciato, tanti fratelli e amici coi quali ho condiviso la straordinaria
avventura del sacerdozio ministeriale. Non posso non ricordare in questo momento il
venerato cardinale Elia Dalla Costa, che mi ha accolto in seminario e mi ha ordinato
sacerdote e che è stato per la mia vita un testimone dell’assoluto della fede pura e
profonda. Insieme a lui ricordo il caro cardinale Ermenegildo Florit che mi ha fatto fare
l’esperienza esaltante della parrocchia che è stata per me la scuola per la Parola di Dio e
per l’accoglienza, l’accompagnamento e la condivisione della vita di tanta gente. Non
posso poi dimenticare il dono che il Signore ha fatto alla mia vita facendomi incontrare
nei 10 anni da vicerettore in seminario monsignor Enrico Bartoletti e poi la grazia di
essere stato collaboratore di monsignor Giulio Facibeni. Il cardinale Giovanni Benelli lo
porto particolarmente nel mio cuore, lui che mi volle al suo fianco come vicario e come
vescovo ausiliare, facendomi fare, al suo fianco, un’altra esperienza esaltante, quella
della visita pastorale. E ancora il santo Papa Giovanni Paolo II che mi donò la sua
amicizia e il suo fraterno conforto quando, nonostante la mia indegnità e le mie
obiezioni, fortemente volle che diventassi vescovo di questa amata diocesi fiorentina e
poi mi annoverò nel collegio cardinalizio; quanti fratelli vescovi e cardinali defunti stanno
scorrendo nella mia mente in questi momenti, tanti fratelli e amici! Desidero confermare
il mio profondo attaccamento alla Sede Apostolica: il caro Papa emerito Benedetto e il
caro, amato Papa Francesco, che in diverse occasioni mi ha dimostrato la sua amicizia e
che proprio in questi giorni mi ha ribadito personalmente la sua affettuosa vicinanza. I
miei successori Ennio e Giuseppe li porto nel cuore e particolarmente al mio vescovo
Giuseppe voglio consegnare queste parole, che sto dettando al mio segretario don Luigi,
ribadendogli la mia fedeltà e il mio amore per la Chiesa fiorentina a lui affidata. Un
ultimo pensiero ai miei familiari: la mia cara cognata Cesarina, che ha speso la sua vita
per la mia persona e a cui ho domandato tanta pazienza: che il Signore la rimeriti per il
bene che ha fatto alla Chiesa prendendosi cura di questo povero vescovo pieno di
imperfezioni; i miei nipoti Antonella e Luca e i loro figlioli: vogliatevi bene e fidatevi
sempre del Signore. La maggior parte dei volti che si affollano ora nella mia mente sono
già nelle mani di Dio e sto guardando verso di loro, certo che mi vorranno accogliere tra
di loro. Ora che sono in dirittura di arrivo però non mi volto indietro se non per
ringraziare e corro verso il Signore per lasciarmi abbracciare totalmente da Lui.
Miserere. Amen. Alleluia.
Pag 7 Più tempo per l’ascolto
All’Angelus il Pontefice sottolinea l’importanza dell’ospitalità come opera di misericordia.
Si moltiplicano ricoveri e ospizi ma non sempre si pratica l’accoglienza
«Oggi siamo talmente presi, con frenesia, da tanti problemi che manchiamo della
capacità di ascolto. Vi chiedo di imparare ad ascoltare e di dedicarvi più tempo». Perché
«nella capacità di ascolto c’è la radice della pace». Lo ha sottolineato il Papa all’Angelus
del 17 luglio recitato con i numerosi fedeli presenti in piazza San Pietro. Commentando il
vangelo domenicale incentrato sulle figure di Marta e di Maria, il Pontefice ha parlato
dell’importanza dell’ospitalità, come opera di misericordia.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nel Vangelo odierno l’evangelista Luca racconta di
Gesù che, mentre è in cammino verso Gerusalemme, entra in un villaggio ed è accolto a
casa di due sorelle: Marta e Maria (cfr. Lc 10, 38-42). Entrambe offrono accoglienza al
Signore, ma lo fanno in modi diversi. Maria si mette seduta ai piedi di Gesù e ascolta la
sua parola (cfr. v. 39), invece Marta è tutta presa dalle cose da preparare; e a un certo
punto dice a Gesù: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a
servire? Dille dunque che mi aiuti» (v. 40). E Gesù le risponde: «Marta, Marta, tu ti
affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte
migliore, che non le sarà tolta» (vv. 41-42). Nel suo affaccendarsi e darsi da fare, Marta
rischia di dimenticare - e questo è il problema - la cosa più importante, cioè la presenza
dell’ospite, che era Gesù in questo caso. Si dimentica della presenza dell’ospite. E
l’ospite non va semplicemente servito, nutrito, accudito in ogni maniera. Occorre
soprattutto che sia ascoltato. Ricordate bene questa parola: ascoltare! Perché l’ospite va
accolto come persona, con la sua storia, il suo cuore ricco di sentimenti e di pensieri,
così che possa sentirsi veramente in famiglia. Ma se tu accogli un ospite a casa tua e
continui a fare le cose, lo fai sedere lì, muto lui e muto tu, è come se fosse di pietra:
l’ospite di pietra. No. L’ospite va ascoltato. Certo, la risposta che Gesù dà a Marta quando le dice che una sola è la cosa di cui c’è bisogno - trova il suo pieno significato in
riferimento all’ascolto della parola di Gesù stesso, quella parola che illumina e sostiene
tutto ciò siamo e che facciamo. Se noi andiamo a pregare - per esempio - davanti al
Crocifisso, e parliamo, parliamo, parliamo e poi ce ne andiamo, non ascoltiamo Gesù!
Non lasciamo parlare Lui al nostro cuore. Ascoltare: questa è la parola-chiave. Non
dimenticatevi! E non dobbiamo dimenticare che nella casa di Marta e Maria, Gesù, prima
di essere Signore e Maestro, è pellegrino e ospite. Dunque, la sua risposta ha questo
primo e più immediato significato: “Marta, Marta, perché ti dai tanto da fare per l’ospite
fino a dimenticare la sua presenza? - L’ospite di pietra! - Per accoglierlo non sono
necessarie molte cose; anzi, necessaria è una cosa sola: ascoltarlo - ecco la parola:
ascoltarlo -, dimostrargli un atteggiamento fraterno, in modo che si accorga di essere in
famiglia, e non in un ricovero provvisorio”. Così intesa, l’ospitalità, che è una delle opere
di misericordia, appare veramente come una virtù umana e cristiana, una virtù che nel
mondo di oggi rischia di essere trascurata. Infatti, si moltiplicano le case di ricovero e gli
ospizi, ma non sempre in questi ambienti si pratica una reale ospitalità. Si dà vita a varie
istituzioni che provvedono a molte forme di malattia, di solitudine, di emarginazione, ma
diminuisce la probabilità per chi è straniero, emarginato, escluso di trovare qualcuno
disposto ad ascoltarlo: perché è straniero, profugo, migrante, ascoltare quella dolorosa
storia. Persino nella propria casa, tra i propri familiari, può capitare di trovare più
facilmente servizi e cure di vario genere che ascolto e accoglienza. Oggi siamo talmente
presi, con frenesia, da tanti problemi - alcuni dei quali non importanti - che manchiamo
della capacità di ascolto. Siamo indaffarati continuamente e così non abbiamo tempo per
ascoltare. E io vorrei domandare a voi, farvi una domanda, ognuno risponda nel proprio
cuore: tu, marito, hai tempo per ascoltare tua moglie? E tu, donna, hai tempo per
ascoltare tuo marito? Voi genitori, avete tempo, tempo da “perdere”, per ascoltare i
vostri figli? o i vostri nonni, gli anziani? - “Ma i nonni dicono sempre le stesse cose, sono
noiosi...” -. Ma hanno bisogno di essere ascoltati! Ascoltare. Vi chiedo di imparare ad
ascoltare e di dedicarvi più tempo. Nella capacità di ascolto c’è la radice della pace. La
Vergine Maria, Madre dell’ascolto e del servizio premuroso, ci insegni ad essere
accoglienti e ospitali verso i nostri fratelli e le nostre sorelle.
Al termine della preghiera mariana Francesco è tornato con il pensiero alla strage di
Nizza e ha salutato i vari gruppi di fedeli presenti.
Cari fratelli e sorelle, nei nostri cuori è vivo il dolore per la strage che, la sera di giovedì
scorso, a Nizza, ha falciato tante vite innocenti, persino tanti bambini. Sono vicino ad
ogni famiglia e all’intera nazione francese in lutto. Dio, Padre buono, accolga tutte le
vittime nella sua pace, sostenga i feriti e conforti i familiari; Egli disperda ogni progetto
di terrore e di morte, perché nessun uomo osi più versare il sangue del fratello. Un
abbraccio paterno e fraterno a tutti gli abitanti di Nizza e a tutta la nazione francese. E
adesso, tutti insieme, preghiamo pensando a questa strage, alle vittime, ai familiari.
Preghiamo prima in silenzio... [Ave Maria...] Saluto con affetto tutti voi, fedeli di Roma e
di vari Paesi. In particolare, dall’Irlanda, saluto i pellegrini delle diocesi di Armagh e
Derry, e i candidati al Diaconato Permanente della diocesi di Elphin, con le loro mogli.
Saluto il Rettore e gli studenti del secondo anno del Pontificio Seminario Teologico
Calabro “San Pio X”; i ragazzi di Spinadesco (diocesi di Cremona); i giovani della
Comunità Pastorale dei Santi Apostoli in Milano; i ministranti di Postioma e Porcellengo
(diocesi di Treviso). E vedo lì anche i bravi fratelli cinesi: un grande saluto a voi, cinesi!
A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci.
AVVENIRE
Pag 2 Chiesa e Sud, il tempo della concretezza di Angelo Scelzo
Case donate dalla curia di Napoli, schiaffo che sveglia
Napoli non conosce le mezze misure. Nel male ma, ancora più spesso, nel bene. Per
queste due vie estreme passa tuttora la sua storia grande e tormentata, intorno alla
quale continua ad attorcigliarsi il filo di una cronaca che non dà requie. Non c’è
emergenza che qui non abbia messo le tende: Napoli è la patria di tutti gli eccessi. Chi la
conosce sa che è difficile sfuggire a una realtà forgiata proprio dal confronto senza
respiro, e a colpi bassi, tra i vizi e le virtù. Fu Benedetto Croce, la cui passione era
proprio Napoli, a riesumare il dileggio medievale del «paradiso abitato da diavoli», per
dar conto della misura del contrasto e della contrapposizione sulle quali, tuttavia, la città
ritrova il suo pur precario equilibrio. La normalità passa lontano da orizzonti simili e, non
a caso, non è neppure contemplata e tantomeno riconosciuta. Avviene così che quando il
male dilaga e sembra invadere tutto il terreno, ecco profilarsi l’ostacolo imprevisto, che
manda tutto all’aria. Il baratro è sempre stato a due passi, ma lì è poi rimasto:
minaccioso, incombente, ancora a bocca vuota. Conoscere Napoli però non basta. Se alla
città si vuol bene (e il bene ancora più forte che si dà a figli irrequieti e scapestrati)
occorre anche altro: per esempio, la capacità di non accontentarsi dell’ordinario, di dare
un senso forte e virile alla sfida contro i suoi tanti 'mali'. L’amore della Chiesa di Napoli
per la sua città è antico e a prova di una vena di santità che mai si è esaurita. Ma il
gesto del suo pastore di oggi, il cardinale Crescenzio Sepe che ha deciso di donare gli
alloggi di proprietà della curia agli inquilini indigenti, apre un capitolo nuovo: è a suo
modo una provocazione, lo schiaffo che anche il bene sa dare quando è messo alle
corde, e perciò ricorre a tutte le proprie risorse, una forza di dentro che mai viene a
mancare. La Chiesa di Napoli non ha fatto fatica a essere se stessa. E quel gesto non
vale solo come via d’uscita, o mezzo di provvisorio contrasto agli innumerevoli problemi
della città. Dietro non c’è la strategia di una pur apprezzabile economia virtuosa, bensì
una Lettera pastorale, la terza nell’ambito di un «Giubileo per la città» che, qui, dà ora
maggior forza al Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco.
Vestire gli ignudi. Avvolgerli di tenerezza e dignità è il titolo del documento di Sepe. Che
c’entra con la nudità, verrebbe da dire, la donazione degli alloggi di curia? Anche il bene
può avere i suoi abissi, nel senso di profondità, ed è questa che aiuta a capire come la
nudità non è solo assenza di indumenti, ma carenza dei bisogni primari, come appunto
la casa, mancanza di sostegno e protezione sociale soprattutto per gli ultimi della fila. Il
bene, sì, ma insieme alla volontà di andarlo a cercare, alla fantasia di poterlo applicare,
all’accortezza di non burocratizzare la carità e tenerla pronta per tutti gli usi. Anche
sotto il profilo sociale e, per così, dire politico. Nella Lettera c’è una chiamata a raccolta
di tutto i vescovi del Mezzogiorno per un’azione comune contro le emergenze che
minano i tentativi di riscatto sociale della parte più povera del Paese. L’incontro avverrà
in autunno. Non si tratterà, è stato precisato, di una sessione di studi. Le necessità e i
bisogni sono sotto gli occhi di tutti. Non è più tempo di analisi, ma di concretezza. E se è
Napoli a guidare il nuovo cammino, significa davvero che le opere di misericordia sono
diventate i capisaldi della sua storia come 'storia della carità'. C’è la mano (e il cuore) di
Francesco in questa Chiesa sempre più in uscita e accanto, ma anche il legame vivo con
Benedetto e, ripensando al Grande Giubileo del Duemila, e al ruolo che vi ebbe Sepe, la
grande eredità di san Giovanni Paolo II, il Papa della «speranza di Napoli». La speranza
è in buone mani.
Pag 23 L’altare è il cuore della chiesa di Raul Gabriel
Prosegue il confronto sull’architettura sacra con lo scultore Gabriel
Il cardine di una chiesa cattolica è l’altare. Sintesi di tutti i significati e motivo stesso di
esistenza. Alpha e Omega cronologico, origine di sostanza e struttura. Altare è la genesi
stessa di quella carne che incarna l’architettura. Fatto sostanzialmente ignorato. L’altare
per una chiesa cattolica è il cuore pulsante. Tutta la sua realizzazione dovrebbe
espandersi da quel cuore. Invece è trattato come la suppellettile più o meno estrosa di
un salotto borghese, noiosa appendice necessaria a soddisfare gli obblighi contrattuali o
lo sfogo marginale del creativo di turno. Altare e simboli sono essenziali in una chiesa, e
non per una mera ragione compositiva o un equilibrio di volumi. Lo sono per la ragione
stessa di essere chiesa. Questo sembra altrettanto scontato almeno quanto è evidente la
insignificanza e tristezza della maggior parte dei presbitèri che vengono realizzati.
Annichiliti da strutture che dovrebbero essere completamento, non finalità. In una totale
indifferenza al significato. Allora a che serve fare chiese? Realizzare omaggi a un
assemblaggio di maniera del contemporaneo, non fecondato dal significato? Ripetizione,
copia, accademia, estrosità fine a se stessa, testimoniano nella pratica che una cultura
non è più in grado di rigenerare, reinventare, rendere attuale e presente la vitalità del
suo messaggio. Una chiesa come ogni opera, ogni costruzione, ogni luogo, agisce per
osmosi, al di la delle parole. E se è finta, omaggio all’assenza, esercizio di stile,
trasferisce immediatamente queste percezioni al suo contenuto. Nei progetti che ho
affrontato tutto questo è stato anche provocatoriamente entusiasmante. Venendo
dall’arte contemporanea senza essere mai stato a contatto con una realtà che invece
molti praticano come mestiere, mi sono chiesto se era possibile trasferire l’energia
diretta di un’opera di poesia al pensare una chiesa. Pensare la forma come il
meraviglioso accidente che permette di incontrare la intuizione nella sua stessa
metodologia. Immaginare un’origine, il seme di ciò che ho trovato già fatto. Pensare
quale fulcro potesse essere il punto di espansione di tutta la chiesa già costruita. Altare
e simboli, geometrie pavimentali, vetrate e portali, connessi nell’architettura in una unità
che è essenziale. Una chiesa non è un museo, non è un luogo di raccolta incidentale di
oggetti delle mode o del gusto, o coordinati al tipo di arredamento che hanno i
frequentatori e magari finanziatori di quella chiesa. Non è questo che si intende con la
parola identità. Una chiesa come ogni opera artistica autentica dovrebbe essere un
progetto di gioia, un fiume impetuoso che trova i suoi argini che ne aumentano la
potenza. Come si può pensare che squadre di professionisti assemblati in forma
amministrativa, spesso solo per vincere un concorso, e che magari leggono come in un
“bugiardino” farmaceutico le prescrizioni contrattuali, abbiano la tensione giusta per
affrontare un percorso di questo tipo? La metodologia non può essere primariamente
normativa. Deve essere primariamente di amore comune. La visione non è un capitolato
edilizio. I committenti dovrebbero per primi esserne coscienti. La visione non si
accontenta della mediocrità. Deve in- contrare la genialità, la qualità. Ma la genialità che
si confronta con un luogo fortemente connotato, deve avere in sé un germe di quel
percorso, di quella origine. Perché la genialità, se ha qualità, non viene a patti. Si
esprime. E se non ha in sé una qualche appartenenza a quella identità, più è geniale e
più esprimerà altro. Arrivando anche a negare il senso stesso di quel luogo. È un dato di
fatto fisico, corporeo. Molte chiese sembrano in effetti asettici apparati agnostici e
polifunzionali, negazione della corporeità non perché utilizzano una idea vagamente e
volgarmente definita astrazione, ma perché sono volutamente negazione di vitalità,
confezione pastorizzata di una non ben definita propensione funzionalista e sociologica.
Non coinvolgono, permettendo a chi le frequenta quella distratta indifferenza che si
vende per superiorità culturale. Tutto a favore del non disturbare. Devastante per il
senso corporeo della fede senza cui il cattolicesimo non ha senso. Ma devastante anche
per poter ripensare un rinnovato umanesimo in senso puramente laico. Ma una chiesa
cattolica dovrebbe essere corpo. Il corpo anticipa la mente nella conoscenza, in una
meravigliosa pedagogia che prepara all’incontro. Il corpo è veicolo, ma molto di più: è
l’eredità in anticipo del percorso a venire. Corpo non è necessariamente figura e
neanche la sua negazione. Corpo è vibrazione vitale. Meravigliosa interstessi ferenza che
permette di non essere una linea piatta. L’idea di incorporeità è utopia di inesistenza. Il
corpo è imprendibile, sempre in processo, e non è semplice trasferirne l’essenza, fissarla
in un oggetto. Non credo vi sia una formula stilistica. Ma ovunque si percepisca
freddezza, eccesso di rifinitura, figurinismo da vetrina, la corporeità non passa. E non
aiutano le perline colorate degli effetti tecnologici, già cosi obsoleti, con possibilità
infinite di creare oleografie caleidoscopiche e copie perfette. La malattia del
“contemporaneismo” genera gli danni dell’artigianato seriale, endemico come la povertà
di ispirazione genuina. È fondamentale rigenerare il significato dei termini. Su alcune
chiese da concorso ho sentito parlare di equilibrio tra emotività e rigore. Per certi versi è
anche corretto. L’errore sostanziale è che quell’accezione di equilibrio e rigore si avvicina
molto più a una stasi da rigor mortis. La vita è flusso, sbilanciamento, costante
ridefinizione di esondamenti sempre imprevedibili e sorprendenti. La vita non è il bianco
asettico e “minimal chic” di un sudario geometrico, è il colore, la forza e la incontenibilità
dei fluidi e dello scorrere a volte impetuoso che ridefinisce le forme e le modella
costantemente. Nella chiesa di Olmo, dove ho realizzato il mio intervento, avevo ben
presente che il sangue e l’acqua, motivi ispiratori del progetto, non escono controllati in
blister monodose ma come un fiotto incontenibile: che giungano dalla esplosione della
nascita di un bambino e dalla ferita di un costato. Quel fiotto incontenibile è la garanzia
della nostra vita, il dono che abbiamo in eredità, è la forza inarrestabile che comunque
agisce. La rigidità formale e accademica è segno di un profonda avversione verso quel
provvidenziale sconvolgimento vitale che l’Incontro continua a generare.
LA REPUBBLICA
Pagg 42 – 43 Bartholomeos I: “Nonostante i nemici del dialogo possiamo riunire
il mondo cristiano” di Alberto Melloni
Intervista al Patriarca di Costantinopoli
Bartholomeos I, ha un titolo lunghissimo: Arcivescovo di Costantinopoli Nuova Roma e
Patriarca Ecumenico. È stato uno dei protagonisti del dialogo ecumenico fin dai tempi del
Patriarca Athenagoras, l'uomo dell'abbraccio con Paolo VI. Quando ci si rivolge a lui lo si
chiama "Panaghiotatos", cioè Ogni-Santità: quando parla di sé, dice "la Nostra
Modestia". Siede sul trono di Andrea da 25 anni: eletto sotto le strettissime maglie della
legge di Ankara, che chiede che il Patriarca sia di cittadinanza turca, ha vissuto la fase
"costantiniana" della presidenza Erdogan, che gli restituì il monaste ro di Sumela e la
scuola teologica di Halki; e ora si appresta a vivere la dura stagione antigolpista, le cui
conseguenze sulla vita del Patriarcato sono ancora incerte.
Il 27 giugno s'è concluso a Creta il "Concilio Grande e Santo" della chiesa ortodossa.
Nonostante il forfait di alcune Chiese, un evento epocale, costruito con pazienza e fede,
attraverso strumenti antichi e nuovi: qual è la ragione per cui ha voluto questo evento?
«Il Concilio Grande e Santo è stato il frutto di una lunga preparazione e la conseguenza
di una decisione panortodossa, presa sin dagli inizi del XX secolo. Non è stato qualcosa
di nuovo in quanto generazioni di fedeli ortodossi sono cresciute con questo sogno:
ovverosia la convocazione del Concilio "Grande e Santo". Ma la effettiva preparazione del
Concilio ha avuto inizio nel 1961, con la prima conferenza preconciliare panortodossa di
Rodi, che ha gettato le basi organizzative di tutto il processo preconciliare. I passi
successivi sono stati la convocazione delle "commissioni" preparatorie preconciliari e
delle "conferenze" preparatorie preconciliari: nel 2015 s'è tenuta l'ultima conferenza
panortodossa. Vorrei a questo proposito sottolineare che proprio dopo la mia elezione 25
anni fa al soglio dell'Apostolo Andrea, incominciammo le sinassi [cioè i summit, ndr] dei
Patriarchi e Primati delle Chiese Ortodosse: un istituto nuovo, che rientra nel contesto
della sinodalità. La convocazione dunque, da parte della Nostra Modestia e con il
concorde parere degli altri primati delle Chiese Ortodosse, del Grande e Sacro Concilio
panortodosso non è stata una decisione personale, ma è stata un' iniziativa, che
esprimeva la maturazione e la necessità della convocazione di questo concilio, affinché si
realizzasse il sogno di generazioni di fedeli, al fine di affrontare e dare una risposta ad
alcune questioni fondamentali della Chiesa Ortodossa. Perciò, come dice il comunicato
della Sinassi dello scorso gennaio a Ginevra, "i partecipanti 'facendo la verità nella carità'
secondo la parola apostolica, (Ef. 4,15) hanno operato pervasi da uno spirito di
concordia e di comprensione. I Primati hanno di conseguenza confermato la loro
decisone, perche il Concilio sia convocato da16 al 27 di Giugno del 2016"».
Qual è stata e quale sarà la portata del Concilio per la Chiesa Ortodossa e cosa sta a
cuore al Pariarca Ecumenico adesso che il Concilio è stato celebrato?
«Il Concilio costituisce un mezzo di autodeterminazione della stessa Chiesa e un mezzo
per il suo rinnovamento. Come ho ribadito nell'omelia di apertura dei lavori del Concilio,
"non si tratta di una semplice tradizione canonica, che abbiamo ricevuto e conservato,
ma si tratta di una fondamentale verità teologica e dogmatica, senza la quale non c'è
salvezza. Confessando la nostra fede espressa nel sacro Simbolo [il Credo, ndr], nella
Chiesa una santa cattolica e apostolica, si dichiara allo stesso tempo fede nella sua
sinodalità, che incarna nel corso della storia tutte le proprietà del mistero della Chiesa,
vale a dire l'unità, la santità, l'universalità e apostolicità di questa". La Chiesa Ortodossa
ha trascorso un lungo periodo senza riuscire di convocare un Concilio di tale portata,
soprattutto a causa degli sconvolgimenti politici del secolo scorso. Il Concilio Grande e
Santo non ha avuto carattere di Concilio Ecumenico e non si è trattato neanche di un
Concilio che mirasse ad affrontare questioni dogmatiche o di fede. Per questo motivo le
tematiche sono state circoscritte, sono state preparate, elaborate e trasformate durante
i lavori preconciliari, e sono state portate innanzi all'assemblea convocata per discuterle.
La Chiesa Ortodossa, secondo la prevalente prassi panortodossa, deve nel suo insieme
attuare le decisioni che sono state prese, come pure tutte le proposte e i punti di vista
che sono contenuti nell'Enciclica Sinodale. Secondo quanto è stato deciso nel corso
dell'ultima Sinassi dei primati di Gennaio 2016 a Chambesy, ogni Chiesa Autocefala
Ortodossa valorizzerà in modo appropriato i testi approvati e l'Enciclica Sinodale. Il
Concilio, attraverso i testi elaborati ed approvati, è riuscito a rispondere con successo
alle esigenze del moderno mondo cristiano Ortodosso, procedendo all' analisi e alla
soluzione dei quotidiani problemi pastorali, come, per esempio, i matrimoni misti, le
relazioni con i cristiani di confessione non Ortodossa e l'importanza del dialogo
intercristiano ed interreligioso. La presenza di osservatori di Chiese non Ortodosse e
delle organizzazioni cristiane [il Consiglio ecumenico delle Chiese, ndr], è un esempio
concreto dell'importanza che attribuisce la Chiesa Ortodossa alla collaborazione con gli
altri cristiani. Il Patriarcato Ecumenico, come primo Trono, avendo la responsabilità di
coordinare le relazioni e il dialogo intercristiano ed interreligioso, segue con immutato
interesse il cammino della testimonianza del Vangelo. Una testimonianza espressa nel
corso della storia travagliata del patriarcato ecumenico da figure come i padri della
chiesa Giovanni Crisostomo e Gregorio il Teologo, Geremia il Grande (il patriarca che nel
XVI secolo rispondendo alle richieste di Melantone disse: "Basta con altri scismi tra i
cristiani") e nell'era moderna con Ioakim III a inizio secolo scorso ed Athenagoras negli
anni Sessanta».
Al Concilio hanno partecipato oltre i due terzi delle Chiese: ma cosa riceveranno le
Chiese non Ortodosse dal Concilio di Creta?
«In verità la Chiesa Ortodossa attraverso questo Concilio ha acquisito la possibilità di
rivolgersi con maggiore autoconvinzione alla società moderna ed esprimersi con un'unica
voce su questioni relative alla collaborazione e cooperazione con le altre Chiese cristiane
e con le altre religioni. In particolare le Chiese Ortodosse Autocefale, lì dove coesistono
con altre Chiese Cristiane e confessioni e le altre religioni, si prestano all'instaurazione di
uno spirito di pace e convivenza attraverso il dialogo e il confronto quotidiano, in un
mondo oggi flagellato dalle guerre, dal terrorismo e dalla instabilità politica. Come si
recita all'Enciclica Sinodale del Concilio Grande e Santo "la Chiesa Ortodossa ha sempre
dato grande importanza al dialogo ed in modo particolare a quello con i cristiani di
diversa confessione. Attraverso questo dialogo il mondo cristiano non Ortodosso ha
preso migliore conoscenza dell'Ortodossia e dell' autenticità della sua tradizione. Noi
crediamo che, oltre al prosieguo del dialogo teologico bilaterale con la Chiesa Cattolica di
Roma, vi sia uno spazio per comuni azioni e ed iniziative, come l'ultima visita a
Lesbo,effettuata insieme al fratello Papa Francesco, espressione minima ma esemplare
di solidarietà ai rifugiati"».
Nel secolo scorso il movimento ecumenico ha seminato nelle Chiese una attesa di unità:
un sogno che ha dei nemici. Fra nove anni si celebrerà il XVIII centenario del primo
concilio ecumenico: quali sono i progressi che si aspetta?
«Il primo Concilio Ecumenico a Nicea nel 325 costituisce una tappa essenziale
dell'espressione della sinodalità della Chiesa. Con questo mezzo la Chiesa ha assicurato
la sua identità ed è stata protetta nel corso dei secoli da divergenze dogmatiche e
dottrinali. Dopo lo scisma del 1054, la Chiesa non ha cessato di riporre fede in Dio per la
piena unità: e per questo ha proseguito il dialogo costruttivo. Purtroppo, due importanti
concili - quello di Lione nel 1274 e di Ferrara e Firenze nel 1438-9 - non riuscirono a
sanare le divergenze tra la Chiesa di Oriente e di Occidente, con il risultato del
persistere, sino ai nostri giorni, di questa divisione. Naturalmente questa è una vergogna
per noi cristiani e non si dovrà mai smettere di cercare di ristabilire l' unità "affinché
arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo
perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo" (Ef 4,13). Accontentarsi
di quanto abbiamo già avuto ci conduce all'apatia e all'oblio, o ancora peggio al rifiuto di
dialogare con i nostri fratelli cristiani. Questo costituisce un grande peccato ed esprime
la nostra massima disobbedienza alla volontà di Dio per l'unità. Per la grazia dello Spirito
Santo, le persone che nel nostro tempo sono state chiamate ad offrire la loro diaconia al
servizio della Chiesa, sono pervase dalla necessaria nobiltà e sensibilità spirituale, così
da potersi esprimere con maggiore fede e fiducia in favore dell'unità dei cristiani. Questa
volontà è stata molto viva e forte all'inizio dei dialoghi teologici bilaterali del secolo
scorso, nonostante le voci maligne che hanno cercato di silurare questo sforzo. Finora
siamo riusciti a trovare un ritmo costante di comunicazione e un metodo di analisi
teologica: essi costituiscono strumenti necessari per la nostra cooperazione pratica in
materia di riflessione teologica. Naturalmente, non mancano voci provenienti da tutte le
Chiese cristiane che auspicano l’interruzione di questo dialogo: ma non bisogna
dimenticare però che questo sarebbe particolarmente gradito al Denigratore [il Diavolo,
ndr] il quale desidera la divisione e "denigra" [in greco: "diavola", ndr] ogni opera che
mira all'unità e compiere un comune cammino. La Chiesa Ortodossa, da parte sua, ha
fede in Dio e con ottimismo continuerà i dialoghi teologici, soprattutto con la sorella
Chiesa cattolico-romana. Noi crediamo che nei prossimi anni ci saranno significativi
progressi. Non sarebbe saggio mettere limiti di tempo al nostro dialogo, e non si deve
lavorare con i criteri e le regole secolari. Crediamo che dobbiamo dialogare con sincerità
e senso di carità e continuare a pregare molto, perché con la grazia di Dio, quando Lui lo
vorrà, ci si avvii a risolvere le nostre controversie e a raggiungere così la tanto
desiderata unità».
Torna al sommario
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 3 Sposarsi, la missione (im)possibile
Massimiliano Valerii: la verità, vi prego, sul matrimonio. Luciano Moia: la svolta può
arrivare da scelte controcorrente. Leonardo Becchetti: il mal-essere relazionale
(Massimiliano Valerii) Siamo davvero destinati a diventare una società a matrimoni zero?
Di qui ai prossimi anni, le nozze in Chiesa saranno solo un ricordo e le relazioni
sentimentali saranno più fragili perché vissute senza sposarsi? E questa tendenza
costituisce una minaccia al ruolo fondamentale che la famiglia ha svolto nello sviluppo
sociale del Paese? Parafrasando W.H. Auden: la verità, vi prego, sul matrimonio. Lo
studio del Censis diffuso in questi giorni analizza, in effetti, una crisi dell’istituto
matrimoniale che appare epocale per gli sposalizi celebrati con rito religioso e in forte
accelerazione anche per quelli civili. Nel 1974 nel nostro Paese i matrimoni erano stati
403mila, nel 2014 si sono ridotti a meno di 190mila (53%). I matrimoni religiosi, in
particolare, sono stati 108mila nell’ultimo anno, il 54% in meno rispetto a vent’anni fa, il
71% in meno dal 1974. Oggi le nozze in Chiesa costituiscono il 57% di tutti i matrimoni
celebrati, vent’anni fa erano l’81%, il 92% quarant’anni fa. Con la crisi, poi, anche gli
sposalizi in municipio hanno smesso di aumentare ai ritmi dei decenni passati, quando la
laicizzazione del matrimonio aveva svolto una funzione di relativa compensazione,
frenando il calo generale. Se il trend registrato negli ultimi vent’anni rimanesse costante
in futuro, verosimilmente il 2020 sarebbe l’anno del sorpasso dei matrimoni civili su
quelli religiosi e il 2031 l’anno in cui non si celebrerebbero più matrimoni in chiesa, ha
stimato il Censis sulla base delle proiezioni statistiche. Le previsioni possono suonare
come un puro esercizio teorico, ma servono a mettere il dito nella piaga. Perché ogni
proiezione dice molto sull’assunto su cui si basa, cioè sui fenomeni sociali che abbiamo
alle spalle. Sarebbe limitativo ricondurre la crisi dell’istituto matrimoniale, che viene da
molto lontano, alla deresponsabilizzazione affettiva delle giovani generazioni di oggi.
Non siamo alla Tinder generation (dal nome del sito di appuntamenti), né all’apologia del
dating, degli incontri mordi e fuggi, anche se tra i giovani appare innegabile una
erosione della capacità progettuale di lungo periodo che dovrebbe essere associata alla
scelta matrimoniale (non a caso, nel tempo aumentano i nuclei familiari unipersonali,
cioè i single). La verità è che il matrimonio ha smesso di essere il baricentro delle
esistenze delle persone e della vita sociale. Coinvolge meno i giovani perché non è più
una ragione primaria di uscita dalla famiglia d’origine; precede sempre meno
l’esperienza della genitorialità; non funziona più come meccanismo di ascensione sociale
per le donne. Rispetto al passato, infatti, ci si sposa sempre di più tra persone della
stessa età e dello stesso status socioeconomico. Cenerentola oggi avrebbe poche chance
di incontrare il suo Principe azzurro. A un’analisi più avveduta non sfugge che quanto è
successo dagli anni 70 in poi testimonia la vittoria del soggettivismo, che ha segnato
fortemente la parabola di evoluzione della società italiana negli ultimi decenni. È un
lungo corso di affermazione del primato dell’individuo che vuole decidere
autonomamente sulle questioni centrali della sua esistenza, in cui si inscrivono anche i
risultati dei referendum degli anni 70 sul divorzio e sull’aborto, fino a contemplare la
possibilità – l’altra faccia della crisi del matrimonio – di vivere l’autenticità della propria
relazione affettiva attraverso un libero patto d’amore al di fuori della cornice formale
dell’istituto matrimoniale, religioso o civile. Si invertirà la tendenza? Non saranno certo
sufficienti eventuali incentivi economici per riportare il matrimonio al centro della nostra
società. Così come non sarà un bonus bebè a fermare la denatalità che affligge il Paese.
Perché, nell’epoca della disintermediazione (politica e sociale), la crisi del matrimonio va
letta come il riflesso di una più generale tendenza a disconoscere l’autorità che c’è dietro
quell’istituto – statuale o sacramentale che sia. Ecco perché la fuga dai matrimoni
benedetti dal sacerdote come le stesse culle vuote ci riportano a quella solitudine
esistenziale di individui che – protetti sempre meno dai sistemi di welfare pubblici e
sempre meno capaci di elaborare il mistero e la fiducia come la fede richiede – non
rischiano più, consapevoli che ogni azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle
proprie solitarie biografie personali. E questo vale anche, se non soprattutto, quando si
tratta di sposarsi e mettere al mondo un figlio. Gli anni venturi ci diranno se sapremo
ritrovare una nuova cultura del rischio, che significherà ritrovare un modo diverso di
stare insieme.
(Luciano Moia) Nel cuore della grande emergenza educativa c’è un problema ancora più
vasto e profondo, che la comprende e la ingloba. E che, neppure tanto paradossalmente,
ne sarebbe la soluzione radicale. Perché se si vuole davvero invertire il disagio educativo
che inquina tanti rapporti pubblici e privati e determina situazioni acute di malessere
sociale, non c’è che una strada. Quella di ridare fiato a un’idea di matrimonio come
motore pulsante della famiglia, architrave della società, grammatica di virtù che si
irradiano dalla realtà domestica e diventano patrimonio civile. L’equazione che
dovremmo riproporre con forza, non si presta a equivoci. Ha l’immediatezza di uno
slogan e la forza della verità: più matrimonio, più famiglia, più benessere sociale.
Quanto più i giovani – e meno giovani – vengono aiutati a comprendere che il
matrimonio è la via preferenziale per il raggiungimento della massima felicità possibile,
quanto più le famiglie vengono poste nelle condizioni migliori per svolgere al meglio i
propri compiti, tanto più si costruisce un futuro migliore per tutti, con comunità più
vivibili perché più accoglienti, sorridenti e solidali. Non si tratta di un’utopia, perché
laddove, come in alcune aree del Trentino, si è avuto il coraggio di costruire una società
quanto più 'family friendly' possibile, si è visto un aumento della natalità e un
rallentamento della conflittualità familiare. Ma non solo, sostenere le reti familiari a
livello locale, si è tradotto in un beneficio per quelle aziende che hanno adottato
protocolli integrati per la promozione del benessere familiare. In questo modo sono
diminuite le ore di malattia ed è aumentata la produttività dei dipendenti. Nessuna
ricetta magica, ma una serie di buone pratiche come tariffe agevolate per le famiglie
numerose, progetti di conciliazione famiglia-lavoro, aiuti per le mamme lavoratrici,
redditi di garanzia con prestiti agevolati per le giovani coppie. Per risultare vincenti
questi progetti devono però essere costanti nel tempo. Quando la politica ha il coraggio
e il buonsenso di abbandonare i conflitti ideologici per mettere al centro la bellezza e la
bontà del 'far famiglia', si scopre che gli effetti, dall’Italia alla Germania, dalla Finlandia
all’Australia – come dimostrano le ricerche più attente – vanno tutti nelle stessa
direzione: alla radice del bene comune si può essere solo la valorizzazione della famiglia
come soggetto sociale. E quindi il matrimonio come struttura portante, irrinunciabile e
insostituibile della famiglia stessa. La grande rivoluzione culturale per rifondare la verità
delle relazioni – che la Chiesa da parte sua ha avviato con l’Esortazione postsinodale
Amoris laetitia – deve iniziare da qui. Rimettere il matrimonio tra uomo e donna in un
circuito virtuoso in cui educazione e scelte politiche riescano a offrire proposte
armoniche e non dissonanti. Capaci da un lato di debellare offerte devianti – come le
false suggestioni del relativismo affettivo o le teorie del gender – dall’altro di confermare
i giovani nel loro desiderio di affetti stabili e duraturi. La svolta è possibile. Non
smettiamo di crederci.
(Leonardo Becchetti) I mercati, ci ripetiamo istericamente, hanno bisogno di certezze,
non vanno 'inquietati' (un po’ come quelli squilibrati che è meglio assecondare). E per
dargli queste certezze noi esseri umani siamo costretti alla liquidità e all’iperflessibilità
efficiente. Ma noi di cosa avremmo bisogno, cosa desideriamo? Il rapporto Toniolo ci
dice che l’80% di un campione di più di 9.800 giovani intervistati tra i 18 e i 33 anni
desidera una famiglia con almeno due figli. Se accostiamo questo dato alla recente
'provocazione' del Censis che osserva, estrapolando l’attuale tendenza al declino dei
matrimoni religiosi, che nel 2031 nessuno si sposerà più, scopriamo che la società in cui
viviamo è drammaticamente incapace di soddisfare una dimensione fondamentale del
ben-vivere umano (catturata da uno dei domini del Bes) quella delle relazioni
interpersonali. Possiamo disquisire sul fatto che ci sono tanti modelli di famiglia e di
unioni, ma anche i trend degli altri modelli sono affetti dallo stesso virus, indicano cioè
riduzione dei flussi e declino della stabilità dei rapporti. E anche chi vive la propria vita
relazionale in altri modelli di famiglia e unione ha la stessa aspirazione di fondo di
ciascun essere umano. Quello che la propria relazione duri per sempre (non ha caso
vuole anche lui sposarsi). Deponiamo dunque per un attimo bandiere e appartenenze e
proviamo laicamente ad affrontare il problema. Addentrandosi nella questione con molta
prudenza, umiltà e generalità, senza cadere in giudizi e moralismi di confronti
interpersonali perché, come è proprio di ciascuna relazione, fallimenti/successi vanno
equamente divisi tra propri meriti e quelli del partner. Il virus delle relazioni ha
caratteristiche molto semplici. Nella nostra cultura il bene relazionale è assimilato ai beni
di consumo mentre si tratta in realtà di un tipico bene d’investimento. Ovvero di
qualcosa che non ci rende più felici se usiamo le relazioni affettive come album di
figurine, rottamiamo le vecchie per sostituirle con le nuove. La relazione affettiva in
fondo è una cosa molto semplice, è come un orto. Se ci metti un po’ di lavoro e passione
ogni giorno non senti la fatica e ti godi un’opera bellissima che produce sempre nuovi
frutti. Chi cerca fumettoni irrealistici si consoli con le pagine dei magazine del gossip. Ma
sappia che dietro quell’impalcatura mediatica c’è il nulla. Sono sempre di più quelli che,
traviati dal modello del bene d’investimento, si sciolgono alla prima difficoltà e non
hanno la saggezza di capire che con un po’ di pazienza un altro momento d’oro (più bello
perché contenente la ricchezza dei precedenti) è dietro l’angolo. In una cultura di massa
così effimera e liquida nella quale viviamo un matrimonio che si propone di durare per
sempre è una provocazione insostenibile alla vera ideologia di massa nella quale la ruota
della fortuna è ormai stata sostituita da tempo dalla ruota del criceto. E 'bloccarsi' con
un partner a vita vuol dire proprio sottrarsi alla ruota del criceto di un movimento
dannato e perenne che è condannato a non approdare mai a nessuna meta. La
questione numero uno dunque è come faranno i nostri figli a risolvere l’equazione tra
desiderio di continuità e stabilità affettiva e la previsione matrimoni zero. Saranno
condannati a essere eterni Peter Pan? E i loro figli senza contesti relazionali stabili
saranno parcheggiati per 12 mesi all’anno in centri estivi realizzando l’incubo di alcuni
modelli di società totalitarie? O scopriranno i futuri adulti anche loro che, senza un limite
che diventa leva e punto d’appoggio della nostra traiettoria vitale (e in cui è dolce
naufragare) l’identità umana rischia di non essere definita? Ma soprattutto la società del
futuro li aiuterà o li ostacolerà, ovvero sarà abbastanza relation-friendly (amica delle
relazioni)? È ora di inserire con decisione questo fondamentale indicatore di benessere
tra i criteri di valutazione di amministrazioni e aziende votando per i pionieri nella
capacità di conciliare benessere relazionale con i loro tradizionali obiettivi. E sarebbe il
caso che qualcuno tornasse a fare un po’ di educazione sentimentale (ai beni relazionali,
diremmo oggi). Che è cosa ben diversa dai consigli sulle tecniche per evitare di fare figli
indesiderati che sono un po’ come i foglietti delle istruzioni d’uso delle macchine. Siamo
persone, e possiamo realizzare cose meravigliose. La sapienza delle relazioni purtroppo
non si insegna più e si testimonia poco. Ma la nostalgia di un bene fondamentale sempre
scarso può fare miracoli. Dobbiamo essere pronti su tutti i fronti (educativo, economico,
politico) a saper cogliere questa domanda. Non certo consegnarci alla statistiche, e
rassegnarci.
Torna al sommario
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Se a Venezia nessuno fa i conti di Cesare De Michelis
Oltre l’Unesco
È lunga la storia dei rapporti tra l’Unesco e Venezia ed è storia di un conflitto perenne, di
un’incomprensione resistente, nella quale si contrappongono due punti di vista opposti,
che sono sempre gli stessi: chi vuol conservare la città insulare com’è, sottraendola al
confronto con la modernizzazione - e spesso si tratta di personalità estranee alla vita
ordinaria di Venezia, innamorate di un ideale, cui dedicano con generosità ogni cura,
certe della precaria salute di una città che immaginano fragile vittima di un futuro
minaccioso- e chi, invece, a Venezie vive e lavora e, come è sempre accaduto nei secoli,
la vorrebbe agibile e normale, in sintonia col mondo contemporaneo, non estranea al
moderno, pronta a cambiare. Il primo segnale del distacco fu il Rapporto su Venezia
(1969) che l’Unesco redasse e pubblicò dopo l’alta marea eccezionale di cinquant’anni fa
(4 novembre 1966) con l’obiettivo di denunciare il terribile pericolo che minacciava
Venezia. La questione la pose con chiarezza lo stesso direttore generale dell’Unesco,
René Maheu, nella Prefazione: Salvare che cosa?, i monumenti, le opere d’arte,
l’atmosfera culturale, oppure i suoi abitanti e la loro vita di ogni giorno; da che cosa?,
dall’amica natura, «che l’ha protetta così a lungo» o da «l’uomo moderno»; e,
finalmente, come? , scegliendo tra le pietre e la vita, perché forse si faceva ancora a
tempo, nonostante tutto. L’Unesco usciva allora vincitore dalla battaglia che aveva
salvato i templi di Abu Simbel in Egitto e pretendeva, peraltro senza impegnarsi a
reperire le risorse, di stabilire quanto dovevano fare gli Stati, ergendosi a difensore di un
bene che si confondeva col bello. Il senso dell’intervento su Venezia fu chiarito dal
Rapporto sulla pianificazione urbana a Venezia (giugno 1975), che contrapponeva a
quanto era stato fatto in tempi recenti una visione alternativa, intervenendo sul governo
locale con “raccomandazioni” sempre più imperative. Non diversa è l’iniziativa di questi
giorni, che accompagna i suggerimenti ultimativi con minacce che escludono il confronto
e la discussione, come se alle scelte proposte non ci fosse alternativa e se nel resto del
mondo si fosse provveduto già a fare come l’Unesco vorrebbe: si pensi al numero
programmato dei turisti, sul quale ci si arrovella da anni, ma che nessuna città ha
adottato, perché contraddice l’idea stessa di città e ogni etica dell’accoglienza, che per
altro oggi appare più necessaria di ieri di fronte alle migrazioni che investono l’intera
Europa. Turismo, grandi navi, Mose, e tante altre opere sempre più urgenti e rinviate:
Venezia è un problema dal 1962, quando il Comune promosse un convegno così
intitolato che affrontò questioni aperte, suggerì soluzioni, lasciando che tutto finisse agli
«atti» (1964) senza iniziative concrete. Chi pensa di avere le soluzioni in tasca - Unesco,
Italia Nostra, Fai - dovrebbe avere la coscienza di rispondere tenendo conto delle
conseguenze che ogni scelta produrrà, altrimenti schierarsi è troppo comodo, basta forse
a salvarsi la coscienza scaricando il seguito su chi oggi sarebbe costretto a subire: addio
ai servizi di accoglienza e poi al porto crociere, poche difese dalle aggressioni del mare,
eccetera: la decadenza veneziana sarebbe inarrestabile. Dopo cinquant’anni e più
Venezia resta quel problema del quale ognuno fa una lettura diversa e, quindi, dà una
soluzione diversa: non sto a ripetere quanto si è detto sull’uso che si dovrebbe fare del
centro storico, perché intanto quel che avanza sono solo i bed and breakfast, gli alberghi
e i souvenir; resistono solo porto e aeroporto. Tutti parlano, urlano, minacciano, ma
nessuno vuol far di conto: Dio mio!
LA NUOVA
Pag 19 Braccio riattaccato con lo scotch di Nadia De Lazzari
Intervento artigianale del parroco di San Geremia e Lucia dopo il vandalismo ai danni del
Crocifisso
Colla e nastro adesivo per riparare il Cristo del 1700. Non ci ha pensato due volte
l'infaticabile don Renzo Scarpa, amministratore parrocchiale della chiesa dei Santi
Geremia e Lucia. Quando il sacerdote è entrato nella chiesa - da anni guida la parrocchia
di quasi duemila anime - e ha visto quel Cristo con il braccio nel vuoto ha
immediatamente preso colla e nastro adesivo bianco ed ha aggiustato lo splendido
crocefisso scaraventato a terra la scorsa settimana da un giovane di origini marocchine
proveniente dalla Francia. L'opera lignea con parti dorate risale al diciottesimo secolo.
Don Renzo Scarpa spiega i motivi della sua riparazione provvisoria. «Quando è successo
l'atto vandalico ero partito da poche ore, un paio di giorni in montagna. Al ritorno,
entrando in chiesa, ho visto il Cristo con il braccio sinistro spezzato e penzolante dalla
croce. Quella scena mi ha addolorato e disturbato. Mi sembra che una settimana esposto
così all'adorazione dei fedeli sia già troppo». L'amministratore parrocchiale spiega nei
dettagli l'operazione. «L'ho aggiustato in questo modo» spiega don Renzo «Ho
avvicinato i due tronchi del braccio rotto. Internamente ho trovato un chiodo così sono
riuscito a combaciare le due parti di legno in attesa che l'intero crocifisso venga
restaurato. Nel parapiglia il vandalo che è stato bloccato da quattro persone ha
danneggiato anche la base che poggia su un mobile di legno massiccio e strappato
anche i fili elettrici». Il sacerdote, classe 1938, ordinato nel 1961, sottolinea: «Mi sono
fatto raccontare dal sacrestano Sandro Trevisan le farneticazioni del giovane e com'era
successo il fatto. Dalla violenta colluttazione il crocifisso poteva frantumarsi, andare in
mille pezzi. Direi che è un miracolo se in quello scontro si è spezzato solo un braccio».
Aggiunge don Renzo preoccupato per il restauro: «Non ho ricevuto alcuna telefonata.
Non so ancora quando e chi lo riparerà, forse il Patriarcato o forse la Soprintendenza».
Nel frattempo qualche persona si è già resa disponibile per restaurare l'antico crocifisso.
«Tra questi» spiega don Renzo «l'Ordine militare del Collare della Casa reale d'Aragona
che mi ha inoltrato un'interessante mail». Dopo l'appello della parrocchia per avere più
sorveglianza, ieri mattina, è passata una pattuglia della Polizia di Stato. Don Renzo
conclude: «Li ringrazio. Nella chiesa spesso accadono episodi incivili con balordi e
prepotenti. Qui è un porto di mare. Viene mezzo mondo. Siamo vicini alla stazione
ferroviaria e custodiamo le spoglie della martire siracusana Santa Lucia. Ci vorrebbe
però anche la polizia in borghese».
Pag 19 Quadro conteso tra notaio e vescovo di Giorgio Cecchetti
Trittico del 1300 acquistato all’asta dal professionista veneziano per 895 mila euro
Il notaio Alberto Tessiore, casa a Venezia e studi a Mira e a Dolo, ha perso anche il
secondo round. Il trittico del XIV secolo che il professionista aveva acquistato in un’asta
a Venezia per 895 mila euro resta nel museo della Diocesi di Firenze. Lo ha deciso nei
giorni scorsi il Tribunale del riesame del capoluogo toscano al quale era ricorso
l’avvocato veneziano Stefano Ferraro, che ne aveva chiesto il dissequestro e la
restituzione. Si tratta del dipinto «Madonna con bambino tra i santi Jacopo e Andrea»,
attribuito al Maestro della Predella dell'Ashmolean (valore stimato poco più di un milione
di euro). Il Tribunale toscano aveva già respinto la richiesta del professionista nel 2011:
il sequestro era stato disposto nel giugno di sei anni fa scorso dal giudice fiorentino, che
aveva riportato il possesso del dipinto nelle mani della Curia fiorentina, assistita
dall'avvocato Gianluca Gambogi. La “Madonna con bambino tra i santi Jacopo e Andrea”
era custodita fino agli anni '70 nella chiesa San Jacopo a Orticaia a Dicomano (Firenze)
da dove però scomparve. Decenni dopo, nel 2005, il trittico finì all'asta: ad acquistarlo
regolarmente e al prezzo di 895 mila euro era stato il notaio Tessiore. A inizio 2010
l'intervento dei carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale: individuata
l'opera visionando il catalogo dell'asta, ottennero dalla Procura fiorentina un
provvedimento di sequestro probatorio. Secondo i militari, chi aveva messo all'incanto
l'opera - un ex avvocato fiorentino poi denunciato per ricettazione - avrebbe saputo che
il dipinto era stato comunque trafugato. L'avvocato Ferraro per conto del notaio
veneziano, però, nel 2010 ricorse al Tribunale del riesame, che gli diede ragione, e così il
profesionista ritornò in possesso del trittico. Nuova puntata nel giugno 2011, dopo che a
muoversi fu la stessa diocesi fiorentina, che rivendicò la proprietà dell'opera, fornendo
anche documentazione risalente a prima della Seconda guerra mondiale, spiegò
l'avvocato Gambogi. Scattò un secondo sequestro, preventivo, e l'opera tornò a Firenze.
Qualche giorno fa il tentativo dell’avvocato Ferraro di far tornare nella casa veneziana di
Tessiore il trittico. «Non essendo intervenuta una sentenza di merito definitiva» scrivono
ora i giudici fiorentini del riesame, «il quadro deve rimanere in sequestro e deve
rimanere custodito dalla diocesi di Firenze», dove l'arcivescovo, il cardinale Giuseppe
Betori, spiega l'avvocato Gianluca Gambogi che ha rappresentato nuovamente la diocesi
davanti al riesame, «da sempre si sta spendendo per rafforzare la tutela del patrimonio
artistico di proprietà della curia». La vicenda giudiziaria del trittico, comunque, non è
conclusa, visto che presso la Corte d’appello del capoluogo toscano pende la causa civile
sulla proprietà del dipinto del XIV secolo: il notaio sostiene che è suo per averlo pagato
all’asta, mentre la Diocesi sostiene che è di proprietà della chiesa, visto che è stato
rubato.
Torna al sommario
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Le spose del terrore di Andrea Priante
Ingannate, sole, senza casa né denaro. Le storie di Lidia, Hirmet e le altre mogli dei
veneti accusati di legami con l’Isis
San Zenone (Treviso). Hirmet indossa un abito scuro che le lascia scoperte soltanto le
mani, il volto è incorniciato dal hijab, il velo tradizionale islamico. Mentre posa per la
foto da pubblicare sul Corriere del Veneto, sembra trovare a stento il sorriso. Adesso
questa donna giura che ci ha provato con tutte le sue forze a restare aggrappata - con i
suoi cinque bambini - a San Zenone degli Ezzelini. La stessa forza con cui ha sempre
difeso suo marito Redzep Lijmani dall’accusa di essere un potenziale terrorista, un
fanatico vicino all’Isis. «Lui è buono ma io non ce la facevo più, senza neppure i soldi per
l’affitto», assicura. Lunedì scorso si è arresa: ha raccolto quel che restava della sua
famiglia, i pochi oggetti del modesto appartamento in cui abitava a due passi dalla
moschea del paesino trevigiano, e ha raggiunto il «suo» Redzep a Htlga, un villaggio
della Macedonia.
HIRMET SFRATTATA - Lijmani era stato espulso il 13 gennaio, con un decreto del
ministro Angelino Alfano giunto al termine di un’inchiesta dei carabinieri del Ros che da
mesi lo tenevano sotto controllo. «Un profondo conoscitore del jihadismo», l’hanno
definito, anche dopo che suo figlio di 9 anni aveva esultato davanti a tutta la classe per
gli attentati di Parigi: «Hanno fatto bene! Adesso andiamo a Roma e ammazziamo il
Papa! Viva l’Isis». Redzep nega tutto, piange e intanto confida nei suoi avvocati che
hanno presentato ricorso ai tribunali di Roma e Venezia. Per sei mesi, Hirmet ha atteso
invano il suo ritorno a San Zenone, tentando di tenere unito quel che rimaneva della
famiglia. Si è nascosta dagli sguardi diffidenti dei vicini di casa, abbandonata da tutti,
anche dai «fratelli» della comunità islamica che inizialmente avevano preso le difese di
suo marito. Poi è arrivata la lettera di sfratto e si dovuta arrendere e tornare a Htlga.
Per lei, nonostante abbia vissuto gli ultimi vent’anni quasi isolata in quell’appartamento
e parli a stento l’italiano, è comunque uno choc. Peggio ancora la stanno affrontando i
suoi figli, nati e cresciuti nel Trevigiano e che da un giorno all’altro si ritrovano
trapiantati in Macedonia, ospiti dello zio e con un padre che non riesce a trovare lavoro
come camionista perché inserito nella lista Schengen delle persone pericolose. «Non so
come faremo a tirare avanti», ammette. In fondo, il destino di questa donna non è molto
diverso da quello toccato alle altre mogli dei presunti fondamentalisti individuati in
Veneto. Perché quando un uomo si avvicina all’Isis, alle spalle lascia solo macerie. Le
chiamano «le spose del terrore». Innamorate, spesso succubi del marito, all’improvviso
si riscoprono sole, povere, tradite. E quando capiscono che la conversione dei loro
compagni ha aperto un baratro profondo, è troppo tardi per non caderci dentro. «La
cultura islamica incoraggia l’impegno lavorativo del marito, mentre la donna deve
indirizzare i propri sforzi principalmente verso i figli e la casa», spiega l’avvocato Chiara
Gallina, che con il collega Stefano Azzari difende Redzep Lijmani. «Quando il
capofamiglia viene espulso, per di più con accuse così pesanti, per le loro mogli diventa
quasi impossibile trovare un’indipendenza, anche economica, che consenta di tirare
avanti».
AJTENA INGANNATA - Senza soldi né un lavoro, ha ricevuto lo sfratto anche la
compagna di Amara El Moustafa, espulso da Thiene con l’accusa di svolgere, assieme al
cognato Said Namiq, attività «collegate al terrorismo islamico». La Caritas l’ha aiutata
con cibo e vestiti, ma non è bastato. «Questi provvedimenti hanno effetti devastanti sia
su chi li subisce che sulle loro famiglie. Da un momento all’altro perdono tutto ciò che
hanno costruito», spiegava alcuni mesi fa l’avvocato Igor Brunello, meditando se portare
il caso di El Moustafa di fronte alla Corte Europea per i diritti dell’uomo. C’è chi sta
peggio. Ajtena ha sposato Munifer Karamaleski e gli ha dato tre bambine quando lui non
aveva appena 26 anni. Vivevano a Chies d’Alpago, frequentavano la moschea di Ponte
nelle Alpi, poi suo marito ha intrapreso un percorso di radicalizzazione: ha cominciato a
seguire i dettami dell’imam wahabita Bilal Bosnic - quello che rilasciava interviste al
grido di «conquisteremo il Vaticano» - si ritrovava con gli amici a pregare, si è fatto
crescere la barba, la obbligava a indossare il velo. «L’aspirazione di Munifer – ha
raccontato il suo datore di lavoro ai carabinieri di Belluno - era diventare un predicatore,
in ogni discorso metteva frasi o riferimenti al suo Dio. Non accettava più i modi e i tempi
del mondo occidentale…». Forse Ajtena era preoccupata ma non poteva ribellarsi al suo
uomo. Di sicuro non avrebbe mai immaginato che la svolta fondamentalista del marito
avrebbe trascinato lei e le sue bambine all’inferno. Invece, il 15 dicembre 2013
Karamaleski ha lasciato le Dolomiti per arruolarsi nell’Isis: dopo una tappa in Bosnia per
ricevere la «benedizione» dell’imam, si è fatto raggiungere dal resto della famiglia. I
carabinieri del Ros di Padova hanno scoperto che la donna era all’oscuro delle sue
intenzioni: è caduta in una trappola. In un’intercettazione, un amico bellunese racconta
che Ajtena «non sapeva niente. L’hanno presa e portata là e quando sono arrivati in
Turchia le hanno detto che entravano in Siria. Se avesse saputo non avrebbe mai
accettato, lei con tre figli piccoli…». Da quel giorno, della donna si sono perse le tracce,
inghiottita nella terra dei tagliagole. Se non è stata uccisa dalle bombe, vive da qualche
parte nei dintorni di Al-Busra, nel cuore del territorio controllato dai soldati di Allah.
Intercettato qualche mese fa al telefono con la sorella, Munifer assicurava che «stanno
tutti bene» e che «i bambini sono a casa, io in città. Prendo 200 dollari al mese. E ci
bastano».
LIDIA SENZA FIGLIO - Ajtena non è l’unica ad essere stata ingannata dall’uomo che
amava. Il caso più famoso è quello della cubana Lidia Herrera. Lei, cristiana, e Ismar
Mesinovic, musulmano, si erano conosciuti nel 2009 in una lavanderia di Ponte nelle Alpi
e dopo sei mesi erano andati a vivere insieme. Nel settembre 2011 era nato Ismail e
l’anno dopo suo marito aveva intrapreso lo stesso percorso di radicalizzazione del suo
amico Karamaleski. Interrogata dal Ros, Lidia racconta: «A casa stava collegato quasi
sempre al computer e mi faceva pesare i miei comportamenti non consoni ai precetti
islamici. Ha cambiato anche il suo aspetto, si è fatto crescere la barba, mi obbligava a
uscire indossando il velo islamico e, soprattutto, ha cominciato a essere molto più
aggressivo con me, picchiandomi quando gli rispondevo». Nel luglio del 2012, arrivò a
proporle di trasferirsi «in un villaggio dove le donne indossavano il burqa, vivevano
separate dagli uomini e dove non c’è la tv e tutto ciò che è riconducibile allo stile di vita
occidentale». Lei rifiutò e l’anno successivo i due si separarono. «Ho tentato di portare
con me nostro figlio ma me lo ha strappato dalle braccia». L’incubo era soltanto all’inizio.
Il 15 dicembre 2013 lui le telefonò per dirle che avrebbe portato Ismail qualche giorno in
Bosnia, a trovare i nonni. Quando Lidia capì che era solo l’ennesima bugia, il suo
bambino era già nell’Isis assieme al padre, che presto venne ucciso in battaglia. Da
allora non ha più visto il figlio, che cresce accudito dalle mogli dei mujaheddin siriani.
Oggi Lidia tira avanti lavorando in una casa di riposo per anziani nel Bellunese,
schiacciata dai sensi di colpa per non aver capito che il suo bambino era in pericolo.
«Aspetto Ismail tutti i giorni – racconta - prima o poi lo riabbraccerò».
IL GAZZETTINO
Pag 8 Unioni gay, Spinea prima in Veneto di Melody Fusaro
Gino e Lorenzo: il 3 settembre pronti a tagliare il traguardo del “sì” dopo 41 anni di
convivenza
Non ci sono ancora i documenti ufficiali ma se non altro ora una bozza delle direttive
ministeriali «sblocca» la possibilità di celebrare le prime Unioni civili. Una notizia che
rasserena Gino Tagliapietra, 65 anni, e Lorenzo Bagato, 70, di Spinea, che ieri, dopo un
nuovo incontro in municipio, hanno ufficialmente annunciato ad amici e parenti la data
del loro matrimonio: il prossimo 3 settembre. La coppia, che sta insieme da 41 anni, era
impaziente e temeva che l'attesa dei decreti attuativi e delle indicazioni del governo,
necessari al Comune per procedere senza intoppi a un atto regolare, li avrebbe costretti
a rinviare la data che, sulla scia dell'entusiasmo per il "sì" alla Cirinnà, avevano
immediatamente fermato, prenotando ristorante e invitando gli amici. Ma nei municipi,
in tutta Italia, non si potevano avere certezze sull'arrivo dei decreti, che possono
richiedere anche sei mesi, e quindi si era creato un clima di incertezza sulla possibilità di
celebrare realmente l'unione. «Gli uffici si stanno attrezzando - spiega l'assessore di
Spinea Gianpier Chinellato, che celebrerà le nozze - non c'è nulla di ufficiale dal governo
però ora almeno ci sono delle bozze di direttive che ci permettono di lavorare ai vari atti.
Quindi ora ci siamo sentiti pronti a dare garanzie a Lorenzo e Gino per settembre: per
quella data non ci saranno problemi». In effetti in municipio c'è ancora da lavorarci su,
per capire come modificare il regolamento interno del Comune (che attualmente prevede
solo matrimoni civili e non Unioni) e per produrre gli altri atti obbligatori. Dal governo
servono infatti indicazioni sull'eventuale cambio del cognome, sui diritti patrimoniali (le
unioni e le separazioni dei beni) e sulla separazione. Tutte indicazioni che dovranno
essere inserite nel contratto dell'Unione che le coppie omosessuali sottoscriveranno con
il loro "sì". «La settimana scorsa si è riunita la giunta - aggiunge Chinellato - e il sindaco
ha firmato le deleghe, perché fino a quel momento risultava che solo lui potesse
celebrare le Unioni. E con l'autorizzazione del prefetto anch'io sarò autorizzato a unirli».
Qualche altra coppia gay si è fatta avanti nei giorni scorsi, semplicemente per avere
informazioni e quindi senza l'urgenza di arrivare in fretta a una data di celebrazione. Da
molti comuni veneti però stanno piovendo richieste di chiarimenti sul municipio
veneziano - che in qualche modo è diventato capofila sul tema, alla luce della
determinazione della coppia a "sfruttare" subito le possibilità aperte dalla Cirinnà - per
capire le modalità su come accogliere le richieste di coppie omosessuali intenzionate a
unirsi civilmente. In ogni caso da settembre, almeno a Spinea, il "sì" sarà veramente per
tutti.
Pagg 12 – 13 Nordest, prevalgono le vacanze “casalinghe” di Natascia Porcellato e
Annamaria Bacchin
Il 41% ha già deciso la destinazione, ma la maggioranza (55%) non si sposterà
C’è chi parte e c’è (soprattutto) chi resta: le decisioni in merito alle prossime vacanze
estive sono ormai prese. Secondo i dati raccolti da Demos per l’Osservatorio sul Nordest
del Gazzettino, la maggioranza dei nordestini (55%) quest’anno passerà le proprie
vacanze estive a casa mentre il 41% dei nordestini ha le valigie ormai pronte. Molto
limitata (4%) la quota di chi non ha ancora deciso cosa fare. Chi non partirà, lo fa
soprattutto per ragioni economiche (53%) e passerà le sue serate estive semplicemente
restando a casa (30%) o andando a sagre e feste popolari (23%). L’estate 2016 è ormai
nel suo pieno e anche nel Nordest si stanno facendo i grandi preparativi per le partenze
di luglio e agosto. Per chi resta, però, il programma è, come da tradizione, molto ricco e
vario. C’è il “Mittelfest” di Cividale del Friuli, giunto alla 25° edizione, che ha preso il via
proprio lo scorso fine settimana. È già partito il 36° OperaEstate Festival Veneto, che
chiuderà a settembre avendo realizzato oltre 200 eventi di danza, teatro, musica e
cinema tra Bassano del Grappa e altri 34 Comuni della Pedemontana (arrivando anche in
Trentino e Friuli). Già iniziato anche il Festival “I Suoni delle Dolomiti”, che riunisce
musica e panorami mozzafiato (22° edizione). Imminente, invece, è l’inizio a Treviso del
Festival musicale “Suoni di Marca”, arrivato a tagliare il traguardo della 26° edizione.
Queste sono solo alcune delle proposte che mirano sia ad attirare turisti sul territorio che
ad offrire un’alterativa di qualità a chi in estate non potrà muoversi. E non sono pochi: il
41% come detto dei nordestini ha dichiarato che andrà in vacanza quest’estate, ma la
maggioranza assoluta (55%) ha già deciso che quest’anno non partirà. Guardando al
recente passato, assistiamo a una diminuzione dei “casalinghi estivi” (rispetto al 2015,
meno 4 punti percentuali; guardando al 2014, meno 7 punti percentuali). Sembra
ancora lontano però quanto osservato nella seconda parte degli anni 2000, quando la
quota tendeva stare sotto la soglia del 50%. Chi resta? Sono soprattutto adulti (63%) o
anziani con oltre 65 anni di età (76%) a dichiarare che non si muoveranno di casa. Se
guardiamo al livello di istruzione, osserviamo una maggiore presenza di persone con un
basso titolo di studio (82%). Consideriamo, poi, la categoria socio-professionale: sono
soprattutto pensionati (74%), oltre a casalinghe e disoccupati (69%) ad essere costretti
a passare a casa tutta l’estate. Tuttavia, rileviamo come anche la maggioranza dei liberi
professionisti e degli operai (entrambi 55%) abbiamo preso la stessa decisione. La quota
di chi resta a casa, pur mantenendosi su livelli tutt’altro che trascurabili, tende ad
abbassarsi tra imprenditori (46%), studenti (35%) e soprattutto impiegati (28%). Chi
non andrà in vacanza ha preso questa decisione soprattutto perché ha problemi di
natura economica (53%): rispetto al 2005, l’aumento è di 10 punti percentuali. Come
preferiscono passare le serate estive i vacanzieri-casalinghi? Il 30% non fa niente di
speciale, mentre il 23% ama andare alle sagre. Il 15% cerca concerti musicali e l’11%
sceglie di assistere ad un film delle rassegne estive. Sono soprattutto gli over-55 a stare
in casa, mentre gli intervistati tra i 25 e i 55 anni mostrano una preferenza per i concerti
musicali. Gli under-25, infine, hanno uno spiccato interesse per il cinema estivo (come le
persone tra i 25 e i 34 anni) e le sagre (passione condivisa quanti hanno tra i 35 e i 44
anni).
«Il peggio per il settore turistico sembrerebbe essere passato. Almeno stando ai dati del
sondaggio. Veneti, friulani e trentini hanno ripreso ad andare in vacanza. Le variazioni
non sono così incisive, ma rimangono comunque significative, soprattutto rispetto al
2014 quando a restare a casa durante l’estate erano 6 persone su 10. Uno scenario che
reca in sé la promessa di tempi migliori, ma che agli occhi di chi, nel settore turistico ed
alberghiero vive e lavora con grande passione da più di qualche decennio, pare abbia
bisogno “di nuovi investimenti e finanziamenti per spingere gli imprenditori a crescere
ulteriormente». Ne è convinto Alessandro Rizzante, il nuovo Presidente dell’Aja
(Associazione jesolana albergatori) che aggiunge: «nonostante il nostro litorale sia
sempre leader a livello nazionale ed internazionale, ora abbiamo la necessità di contare
su nuove risorse per diventare ancor più competitivi. E la fidelizzazione del cliente deve
diventare il nostro punto di forza».
Le statistiche raccontano finalmente un andamento confortante, almeno sul fronte degli
spostamenti del Nordest. Una narrazione che aderisce alla realtà dei nostri litorali?
«Per quanto riguarda Jesolo, mi sembra di rilevare un buon trend per il mese di luglio.
Rimane, invece, qualche ritardo sulle prenotazioni per agosto, complice anche il
desiderio della ricerca dell’occasione, il cosiddetto "last minute"; o magari il non sapere
ancora con sicurezza quando ci si potrà prendere l’agognato periodo di ferie. E poi
ancora c’è chi prende tempo per esplorare online tutte le proposte del territorio».
C’era una volta il telefono per fissare l’albergo o l’appartamento. Ora, invece, tutto
viaggia sulla rete. E, magari, anche il dialogo con il cliente si smarrisce nel video di un
pc o di uno smartphone.
«Vero. Un tempo le prenotazioni arrivavano all’inizio dell’anno o, comunque, entro il
principio della primavera attraverso la cornetta. E le previsioni sulle presenze potevano
essere effettuate con largo anticipo. Ma, è altrettanto vero che gli imprenditori del
settore turistico alberghiero di Jesolo non sono dei nostalgici e, così, si sono adeguati
alle nuove richieste e alle nuove relazioni anche virtuali con i nuovi e con i vecchi clienti.
Per questo al bureau di un hotel, ora, non si vede più solo il portiere, ma c’è chi si
occupa delle richieste degli ospiti presenti, chi si occupa di gestire i potenziali clienti
online, chi dell’amministrazione e della segreteria».
La parola d’ordine, quindi, è guardare avanti. Nessuna nostalgia per Jesolo di trenta o
quarant’anni fa?
«Di quei tempi si può avere nostalgia soltanto di una cosa: della certezza di una crescita
continua del settore turistico. Oggi non è esattamente così. Per questo dobbiamo
impegnarci molto più che in passato; e questo è anche il percorso già intrapreso con
successo dalle nuove generazioni di albergatori».
La destagionalizzazione è da anni un obiettivo degli imprenditori del litorale. Come sta
andando?
«E’ mancato il sostegno di una politica che è stata poco lungimirante e scarsamente
attenta nel sostenere con investimenti concreti e defiscalizzazioni gli attori del settore
turistico. Aspettiamo fiduciosi, però, che si possano vedere delle evoluzioni a breve.
Perché, in effetti, abbiamo tutte le carte da giocare per prolungare i flussi turistici nel
nostro territorio oltre l’estate. Jesolo, del resto, è un punto privilegiato e strategico per il
mare, per la vicinanza a Venezia, alle valli e tutte le città d’arte del Nordest. E, poi, non
dimentichiamo la proposta enogastronomica delle nostre strutture ricettive, con menù
ormai di alta ristorazione che mettono nel cassetto dei ricordi i pasti (ora desueti) della
vecchia “pensione completa”. Si guarda avanti con entusiasmo e anche qui con nuove
professionalità d’eccellenza».
LA NUOVA
Pag 12 Meno nati, meno giovani. Il Veneto ha i capelli grigi di Silvia Giralucci
Calo di 12 mila residenti, non accadeva dal 1960. La demografa Tanturri: “Bisogna
aiutare chi vuole essere genitore”
Padova. Il Veneto perde abitanti, 12 mila in meno solo tra il 2014 e il 2015, e quelli che
rimano hanno sempre più i capelli grigi, le donne fanno figli sempre più tardi (quando
non sempre ci riescono) e i giovani migliori vanno all’estero per trovare opportunità
lavorative qualificate che in regione non trovano. È questo il quadro che emerge dal
Rapporto Statistico 2016 appena pubblicato dal Sistema statistico della Regione Veneto.
Il rapporto segnala che nel 2015, per la prima volta dal 1960 nel Veneto sono diminuiti
gli abitanti. Con 12 mila i residenti in meno, la popolazione del Veneto è di 4.915.123.
«È come se si fossero “persi”- fa notare Maria Teresa Coronella, direttrice del Sistema
statistico regionale - tre comuni di circa 4.000 abitanti l’uno». La diminuzione delle
popolazione si spiega con una serie di concause: la scarsità di nascite per la prima volta
non è compensata dai flussi migratori, l’elevata mortalità del 2015 (nel Veneto ma anche
a livello nazionale) e, infine, l’aumento dei ragazzi laureati che se ne vanno. Il calo della
natalità è piuttosto drastico: dai 9,8 nati per mille abitanti del 2008 il Veneto scende agli
8 del 2015. I 38.961 bambini nati nel 2015 sono quasi il 20% in meno rispetto al 2008
(in Italia il calo è stato del 16%). Inoltre, per la prima volta, le “culle vuote” non sono
più compensate dai flussi migratorii. L’apporto della popolazione immigrata, che conta
oltre mezzo milione di nuovi residenti, pari al 10,4 per cento della popolazione regionale,
risulta in flessione. Per quanto riguarda il picco di mortalità del 2015, secondo l’Istat le
cause sono state l’epidemia influenzale e le temperature estive particolarmente elevate,
ma tra gli studiosi c’è chi ipotizza che questo possa essere ricollegato anche a una
minore possibilità di accedere a cure mediche a causa della crisi. Di certo va considerato
l’aumento “fisiologico” dei decessi che ci si può aspettare da una popolazione che
invecchia. Oggi il 22 per cento della popolazione ha più di 65 anni, nel 2060 in Veneto
tre su dieci saranno anziani. Sorprendente anche il dato sul saldo migratorio: mentre si
riducono le iscrizioni in anagrafe dall’estero (e molti migranti arrivati più di 10 anni fa
chiedono la cittadinanza diventando italiani), aumenta il numero dei veneti che se ne
vanno: dal 2012 al 2014 sono 11mila i giovani veneti che si son trasferiti all’estero.
Negli ultimi sei anni il numero degli under 34 che hanno deciso di lasciare il Veneto è
salito del 44 per cento. A questa perdita di giovani che abbiamo formato e lasciato
andare si aggiunge il noto problema della sostenibilità del welfare per una popolazione
che invecchia. Se in Veneto il sistema pensionistico appare più sostenibile che altrove,
con 63 pensionati ogni 100 occupati (dati 2013) rispetto ai 72 della media nazionale e
con una spesa pensionistica pari al 14,6% del Pil (in questo il Veneto è terzultimo tra le
regioni), tuttavia metà degli assegni pensionistici non arriva ai mille euro al mese.
Padova. La nostra Regione perde pezzi: 12.000 abitanti in meno nell’ultimo anno. Dai
9,8 nati per mille abitanti del 2008 il Veneto scende agli 8 del 2015. A che cosa è dovuto
il calo della natalità? «Diciamo che ci sono meno donne, che fanno anche meno figli»,
risponde Maria Letizia Tanturri, professore associato di Demografia all’Università di
Padova. «Sono diminuite le donne in età fertile: quelle del baby boom sono ormai
cinquantenni, mentre le ragazze che ora entrano nell’età riproduttiva fanno già parte di
un periodo in cui la natalità era diminuita. A questo si aggiunge che, complice la crisi
economica, è anche diminuito anche il tasso di fecondità. La crisi fa sì che si posticipi
sempre di più l’età della maternità. L’età media delle italiane residenti in Veneto che
fanno figli è di 33 anni, molto elevata e più elevata rispetto alla media nazionale. Questo
spostamento della maternità verso età più avanzata della vita produce anche l’effetto
collaterale che più facile rimanere senza figli, perché quando ci sono le condizioni per
farli è più difficile che arrivino». Quali indicazioni vengono per la politica da questo
rapporto? «Sicuramente anche il Veneto, che pur è una Regione che si distingue per
tante ragioni positive, dovrebbe fare uno sforzo maggiore per il sostegno alla
genitorialità. I figli sono una scelta delle coppie, ma oggi questa scelta è diventata molto
più rischiosa, perché è una definitiva in una società in cui non c’è nulla di definitivo.
Spesso il lavoro è precario, le condizioni cambiano molto rapidamente mentre un figlio
rimane. Questo rischio che i genitori decidono di correre andrebbe sostenuto dalle
istituzioni perché ha anche un impatto sociale nella riduzione dell’invecchiamento». Un
investimento sulle famiglie sarebbe utile anche per la sostenibilità delle pensioni? «Non
solo, anche per il mercato del lavoro. Un aspetto che fa riflettere del rapporto è l’indice
di ricambio degli occupati che esprime il rapporto tra coloro che andranno in pensione
tra 10 anni e quelli che potenzialmente entreranno. Se nel 2005 su 100 che andavano in
pensione, circa 100 giovani che entravano nel mercato del lavoro, adesso su 277 che
escono solo 100 entrano. Questo squilibrio rischi di diventare molto forte. La popolazione
attiva diventa sempre più anziana e non ci saranno più giovani in grado di rimpiazzare i
pensionati. Un investimento sulle famiglie, un aiuto ai giovani che desiderano formare
una famiglia, avrebbe un senso anche sociale». Per quanto riguarda l’immigrazione, è di
questi giorni il grido di allarme di diversi amministratori locali, secondo cui capacità di
accoglienza di immigrati del Veneto sarebbe ormai satura. È così? «Anche
sull’immigrazione che tanto fa paura è opportuno fare un ragionamento in prospettiva.
Innanzi tutto i dati per quanto riguarda l’integrazione nel Veneto sono sempre stati
positivi. Inoltre se la popolazione non è fino ad ora invecchiata troppo, lo dobbiamo
anche alle “iniezioni di giovinezza” della popolazione straniera. Se le scelte saranno di
chiusura, questo avrà un ulteriore effetto negativo sull’invecchiamento della nostra
popolazione».
Torna al sommario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Le 4 ore di silenzio sul golpe di Paolo Mieli
Ambiguità occidentali
Quattro, cinque ore di troppo. Quattro, cinque ore, la notte di venerdì scorso, nel corso
delle quali le cancellerie europee hanno evitato di prendere energicamente le distanze
dal colpo di Stato che era in atto in Turchia. Un tempo lunghissimo nel quale quelle
cancellerie sono rimaste inerti a valutare «l’evolversi dell’iniziativa militare». Lo scrittore
turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura, dieci anni fa) ha raccontato di aver
seguito gli eventi alla televisione e di aver atteso invano quella presa di posizione.
Pamuk ha ricordato di essere da tempo un irriducibile avversario «per moltissime
ragioni» del governo turco ma di aver immediatamente messo a fuoco il concetto che «i
colpi di Stato militari non saranno mai la soluzione ai problemi della Turchia». Nella sua
vita, ha raccontato, di putsch ne ha visti tre andati «a buon fine» e tre no. Ma tutti
«hanno creato alla Turchia problemi maggiori e reso le persone meno felici». Pamuk non
considera irrilevante il fatto che Recep Tayyip Erdogan il potere lo ha conquistato con
libere elezioni e, per quanto possa essere biasimevole questo o quell’atto della sua
politica (moltissimi, a dire il vero), dovremmo essere abituati a pensare che solo una
tornata elettorale altrettanto regolare potrà un giorno detronizzarlo. Se poi Erdogan
abolirà il ricorso alle urne, allora e solo allora potrà essere contemplato il ricorso alla
forza. Ma fino a quel momento - come ha ricordato,sia pur tardivamente,Obama al
termine di quella notte arroventata - il «governo democraticamente eletto» deve essere
difeso. Sempre e comunque. Dopo che il presidente degli Stati Uniti si è deciso a dire
queste cose di elementare buon senso (sia pur molto tardivamente, ripetiamo), i capi di
Stato europei hanno iniziato a balbettare qualcosa di analogo, raccomandando per
giunta a Erdogan di «dimostrare moderazione» nei confronti di coloro che avevano
ordito l’intento. Forse ritenevano così di aver risolto ogni cosa e di essersi messi a posto
la coscienza. Ma, ad ogni evidenza, il caso non è chiuso. Nel senso che quelle quattro,
cinque ore di troppo - «vergognose» le ha definite Can Dündar, direttore del quotidiano
Cuhmuriyet, altro grande nemico di Erdogan - richiedono adesso una valutazione
supplementare. Detto che, come ricordava ieri su queste pagine Luigi Ferrarella, le
elezioni non sono l’ingrediente unico di una democrazia (altrettanto fondamentale è
l’attenzione alle regole che garantiscono lo Stato di diritto), è doveroso però mettere in
risalto che la libertà nell’esercizio del voto è la fonte battesimale di ogni regime
democratico. Ne discende che la presa d’atto di quel che si è deciso nelle urne è un
dovere di ogni persona o entità statuale che si ispiri ai principi della liberaldemocrazia. E
nel caso vengano conculcati gli altri diritti? Si deve aver fiducia nei popoli, i quali popoli
alla successiva tornata elettorale saranno liberi di sconfiggere nel voto chi, in modo più o
meno grave, ha intaccato le loro libertà. Solo la compressione del diritto di voto,
ripetiamo, può giustificare una ribellione in armi. Purtroppo, però, noi da tempo siamo
abituati ad usare - quando si tratta di musulmani che hanno vinto le elezioni - uno
standard diverso da quello a cui ricorreremmo per un qualsiasi altro Paese. Lo abbiamo
fatto per l’Algeria nel 1992 e per l’Egitto nel 2013. In entrambi i casi il suffragio a favore
di formazioni islamiche è stato sovvertito da un colpo di Stato e noi, regolarmente,
abbiamo salutato con un applauso quei sovvertimenti. Nel gennaio del 1992, tra il primo
e il secondo turno delle elezioni algerine, constatata la pressoché certa vittoria del
Fronte islamico di salvezza, i militari presero il potere e insediarono alla guida del Paese
un anziano leader della resistenza ai francesi, Mohamed Boudiaf, che sarebbe stato
ucciso sei mesi dopo lasciando in eredità al Paese un decennio e più di scontri
sanguinosi. Ai primi di luglio del 2013 il presidente egiziano Mohamed Morsi,
regolarmente scelto dagli elettori, fu deposto dai militari di Abdel Fattah al Sisi che si è
poi insediato sul trono da cui a tutt’oggi regna. Ed è irrilevante che, come ha fatto
osservare lo scrittore egiziano dissidente Alaa al Aswani, i soldati del suo Paese
approfittarono della circostanza che, a fine giugno, contro Morsi erano scesi in piazza
molti manifestanti e che perciò l’iniziativa di al Sisi ebbe un sostegno popolare mancato
ai golpisti turchi di venerdì scorso. Non è questo che conta, ha ammonito al Aswani.
Conta il fatto che l’Europa si stia abituando a considerare le elezioni come qualcosa di
non decisivo. Qualcosa che non ha un valore in sé ma che, in qualche caso, si può
rimettere in discussione nei modi più diversi. Solo nei Paesi a maggioranza musulmana?
Chissà. Ieri è accaduto in Turchia, domani potrebbe ripetersi in Ungheria o in Polonia. Se
non ci piace chi ha vinto le elezioni, venga pure un colpo di Stato. E qui giungono al
pettine alcuni nodi che si potevano individuare già un mese fa ai tempi della Brexit o di
qualche voto come quello presidenziale in Austria o amministrativo in Francia e in Italia.
In un articolo sul Sole 24 Ore, Luca Ricolfi ha riferito di alcuni commenti ascoltati a casa
di amici dopo il referendum in Gran Bretagna e l’elezione di Chiara Appendino a sindaco
di Torino. Gli parve di cogliere una qualche «animosità contro il suffragio universale», o
meglio contro il popolo tout court da parte di una «élite che lo rispetta (il popolo)
quando “fa la cosa giusta” ne prende commiato quando fa quella sbagliata». Gli elettori
sono diventati un insieme di essere umani che «benpensanti e governanti illuminati»
considerano, sotto sotto, «cieco e abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri
interessi». Sicché il loro voto vale sì, ma fino a un certo punto. Queste acute notazioni di
Ricolfi ci inducono a riflettere meglio sui sentimenti di «attesa» che nella notte di venerdì
scorso hanno paralizzato le cancellerie europee e quella statunitense. Gli eletti da un
popolo che, secondo i «governanti illuminati» dell’Occidente, ha fatto la «scelta
sbagliata» sono considerati dal consesso internazionale rimuovibili per via putschista.
Quello stesso consesso che in tempi normali con essi stringe patti, li impegna in alleanze
militari, cerca sponde per far fronte a grandi emergenze, al presentarsi sulla scena del
primo golpista di passaggio è pronto ad abbandonarli al loro destino. Non è un buon
modo per essere percepiti come affidabili nelle intese che saremo costretti a stipulare. E
rende un po’ ridicole le nostre raccomandazioni a che si comportino virtuosamente nel
dopo golpe.
Pag 2 La vendetta del comandante che non può essere giustizia di Dacia Maraini
Soldati che si coprono la testa con le braccia mentre un uomo, che sembra uscito
dall’Inferno di Dante, li picchia con un lungo bastone, giudici che camminano a testa
bassa, mentre la folla urla e sputa, ragazzi seminudi dalle mani legate dietro la schiena
che aspettano il colpo, corpi accartocciati per terra che vengono frustati senza pietà.
L’enorme purga è cominciata. La vendetta sacra si erge a giustiziera. Ma la vendetta può
chiamarsi giustizia? È questo che vorremmo chiedere al grande comandante Erdogan.
Crede davvero che la vendetta purifichi il Paese, rimetta a posto la sua autorità
calpestata, e costituisca un atto nobile di esemplare punizione? Non si rende conto che i
suoi metodi assomigliano molto a quelli dell’Isis, che fanno spettacolo di una violenza
che si dichiara voluta da un dio feroce e sanguinario? Un dio che non conosce pietà, non
conosce comprensione, non conosce pudore e non ha neanche un poco di rispetto per gli
esseri che ha creato? Sta tutto in quel sottile confine la differenza fra storia antica e
storia moderna: nell’avere imparato a separare la giustizia dalla vendetta. La vendetta è
gratificante, lo sappiamo, la vendetta è dolce, la vendetta fa bene al cuore e al sangue
che scorre piu rapido nelle vene. Tutti siamo affascinati dalla vendetta: il modo più
rapido di rivalersi sull’altro, il modo più bruciante per ricostruire il nostro «onore» offeso.
La Bibbia e il Corano offrono la stessa arma a chi si considera tradito e oltraggiato. Ma
per l’appunto, sia il Corano che la Bibbia ci raccontano, come in una bellissima epopea, i
sentimenti più nobili del momento. Sentimenti che oggi risultano intollerabili, come ci
risulta intollerabile la crocifissione, l’impalamento, il rogo, la lapidazione. Non so se
possiamo chiamarlo, con presunzione, progresso, ma certo evoluzione sì: le tante troppe
guerre fatte in nome di vendette nazionali, l’avere riconosciuto l’insensatezza del
razzismo ideologico e religioso, il rifiuto e la condanna della schiavitù, l’avere separato lo
Stato dalla Chiesa, l’avere stabilito i diritti dell’uomo, ci hanno portati a un punto in cui
la giustizia si è dovuta separare dalla vendetta, e prendere una strada piu vicina alla
legge, al codice, all’umana presunzione che un colpevole possa avere le sue ragioni,
abbia il diritto di difendersi e chiedere giudici imparziali che non sono lì per vendicarsi
ma per applicare la legge. E invece sento parlare del ripristino della pena di morte. È
questo il suo pensiero, comandante Erdogan? Il suo segreto, sensualissimo desiderio di
vendetta? Una cosa che colpisce guardando le fotografie che mettono in evidenza
l’umiliazione dei soldati e dei giudici è l’assenza totale di figure femminili. Immagino che
la vendetta sia, per il comandante Erdogan, una questione squisitamente maschile, che
riguarda chi combatte, chi protesta, chi congiura e chi tradisce. Ma dove sono le donne
turche in tutto questo? Io sono stata di recente in Turchia: Ankara e Istanbul sono città
moderne, dove le donne studiano, si laureano, lavorano, guidano la macchina, prendono
la parola. Possibile che siano state messe tutte a tacere? Non ne ho vista una nella folla
che inveiva contro i soldati fedifraghi presi a bastonate, quei giovani figli e fratelli che
probabilmente ubbidivano a degli ordini, oppure avevano in mente un progetto di libertà
dalla tirannia. C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico in queste punizioni plateali
che debbono servire da esempio. Per quanto si condanni il «diabolico mondo moderno»
con la sua libertà di critica, la sua libertà sessuale, la sua libertà di religione, quando si
tratta di diffondere la propria parola e raccogliere consensi, non ci si fa scrupolo di usare
ciò che prima si è disapprovato. Il massimo della spregiudicatezza tecnologica si sposa
con il massimo dell’arcaismo storico. Sono proprio le contraddizioni che l’Isis ci propone
tutti i giorni quasi fosse una grande conquista. Per chi crede nei diritti dell’essere umano
sono forme di schizofrenia storica. Una malattia della fede e della memoria, una peste
della ragione. Ma allora, che fare? Mi sembra chiaro che il solo modo di combatterla
questa peste consista nel difendere e proteggere e tutelare quelle conquiste che tanto
sono costate. Smettere le risse e unirsi contro chi si è innamorato della morte e vuole
uccidere la vita.
Pagg 10 – 11 The Donald e la malattia d’America di Richard Ford
Un grande scrittore scandaglia il fenomeno Trump
Ho riflettuto - o cercato di riflettere - su Donald Trump. Avrete notato che, a meno che
Trump stia inveendo contro di noi da una selva di microfoni, in uno dei suoi abiti fuori
taglia, pavoneggiandosi e facendo smorfie e boccacce alla Mussolini, agitando il suo dito
corto o a volte puntandolo a forma di pistola contro la sua stessa zucca arancione, o
scagliandosi contro qualcuno che, tra il pubblico ormai in diminuzione, lo fischia - o a
meno che ci troviamo esattamente di fronte alla sua iridescenza - è veramente difficile
pensare a lui. Cosa strana, per un individuo di taglia grande che sembra voler vincere le
elezioni presidenziali con l’argomento «quello che ottieni è quello che vedi» - il cliché che
spera rappresenti la sua autenticità. In effetti, Trump - che, credo, sia un vero essere
umano - sembra stranamente inconsistente. Qui, devo dire, sto mettendo da parte tutta
la sua cortina di fumo e il suo gioco di specchi, le sue «prese di posizione» e «politiche»
menagrame e i suoi roboanti, poco plausibili «propositi» su quello che farebbe se fosse
eletto a quella che Andrew Jackson una volta definì «la carica più importante del
mondo» (oggi potrebbe non esserla più). Sto solo commentando il suo atteggiamento.
Guardare Donald Trump, con tutti quei capelli appariscenti, la cera da becchino, la sua
rumorosità e l’aria minacciosa, mi fa pensare a quando si guarda in un caleidoscopio
scadente in cui si può vedere una successione di mandala, non abbastanza strani,
interessanti, memorabili, particolari. Pensare a Trump cercando di fissare il punto che è
presumibilmente lì dove si vede, è come volere immaginare quale disegno fondamentale
il caleidoscopio contenga davvero, in fondo a quel tubo di carta vuoto. Non ce n’è
alcuno. Potrebbe sembrare ingiusto (potrebbe esserlo, dato che non ho mai conosciuto
Trump) giudicarlo in questo modo. Certo, la maggior parte degli indici che utilizziamo
per valutare e scegliere i nostri presidenti negli Stati Uniti sono terribilmente
impressionistici e labili. Non sceglieremmo una persona per tosare l’erba dietro la nostra
casa in base a una tale pietosa quantità di crude prove corroboranti. Innanzitutto,
insisteremmo sulle referenze. Dopodiché, avremmo bisogno di sapere che il candidato
possa sicuramente riconoscere un tosaerba, e che dimostri di essere portato per usarlo.
I presidenti ne sono dispensati più facilmente. Per inquadrare meglio Trump e misurare
il suo «essere reale», ho provato a pensare a delle attività di routine quotidiane che
avrei potuto cercare di condividere con lui - in sostanza, per confrontarlo con me, dato
che sono ancora abbastanza reale. Tanto per cominciare, sono sicuro che non potrei
cenare da solo con Trump nel mio ristorante preferito di Parigi. Rovinerebbe la cena.
Sono anche sicuro che non potrei andare a pesca con lui presso un lago fuori mano, nel
Maine. Per lo stesso motivo. Sono certo che non potrei spiegargli e interessarlo ai risvolti
preoccupanti dell’operazione alla mia ghiandola salivaria (o al mio divorzio - se mai
l’avessi avuto). Sono certo che non potrei discutere con lui di un grande romanzo
appena letto. Lui avrebbe letto qualcosa di meglio, probabilmente qualcosa che «ha
scritto». Sono sicuro che non potrei andare a vedere con lui la maggior parte dei film:
parlerebbe senza sosta. Durante tutte queste attività - cose che farei tranquillamente
con qualunque estraneo - Trump e io non avremmo niente da dirci. Niente in comune. E
il risultato mi ferirebbe spiritualmente. Non so perché sembri importante, ma lo è. Per
essere equo, potrei eventualmente andare a un incontro di pugilato con Trump, o meglio
a un evento di arti marziali miste tenuto in una gabbia d’acciaio (avrebbe già degli ottimi
posti). Con lui potrei anche andare a un concerto di Bruce Springsteen in qualche arena
che possedeva (lì, vedremmo il governatore Christie, che gli piacerebbe), sebbene
preferirebbe probabilmente vedere Ted Nugent. Potrei condividere con lui un drink al
vecchio Oak Bar nella Plaza (se guardassi in giro per imbattermi in lui. Potrebbe
possedere anche quello). Potrei andare con lui a comprare un’automobile molto costosa.
Potrei andare con lui a comprare delle scarpe estremamente economiche. Potrei anche
andare con lui (sulla sua barca) a pescare pesci vela o squali bianchi o altri pesci
mostruosi. Non è che vorrei fare qualunque di queste attività con Donald Trump. Ma
potrei provare, mentre non potrei fare le altre, quelle più regolari. Non che pensi che,
per appoggiare qualcuno come presidente, lo si debba immaginare nelle vesti di amico.
Non ho nessuna ansia di incontrare, conoscere o essere amico di Barack Obama sebbene lo ritenga un ottimo presidente e vorrei poterlo votare ancora. Penso solo che,
se decidessi di dire qualcosa al presidente Obama - sulla mia operazione, o l’ordinare il
merluzzo da Sur le Fil, la prossima volta che è a Parigi, o su quale tipo di filo colorato
Mylar è adatto per pescare al lago Wappanooky - mi ascolterebbe e quanto meno
cercherebbe di ricordare. Il che ci porta a considerare quale caratteristica di una persona
la fa sembrare reale o autentica, presente, invece di sembrare assente ed evanescente
come Trump. Non mi riferisco alla genuina densità e profondità emersoniana, ma ancora
su come sembrano le persone, cosa fanno per farci credere che sono presenti. Ascoltare
sarebbe una di quelle cose. Donald Trump non sembra ascoltare la gente, specialmente
quella che non corrobora le sue convinzioni (sebbene sembri sentire gli insulti e ami
ridicolizzare, minacciare e persino ferire quelli da cui ritiene di essere insultato). Essere
in grado di distinguere i nostri bisogni dai suoi sarebbe un altro segno di realtà, invece di
credere (come Trump sembra) che i nostri bisogni dovrebbero corrispondere ai suoi. È la
seconda cosa. Un altro segno di realtà potrebbe essere che chi investe molto tempo e
impegno per convincerci che vuole fortemente qualcosa, deve dimostrarci di sapere un
minimo di ciò che dice di volere. Terza cosa. La quarta sarebbe che una persona
superficiale è fuorviante quando la verità è facilmente disponibile altrove. La quinta
sarebbe che una persona non sparli di chiunque non sia d’accordo con lui virtualmente
su ogni cosa, tirando in ballo la sua moralità, etica, religione, matrimonio, razza, il nome
del cane. La sesta sarebbe (e qui concludo) che una persona possa associarsi a coloro
che sembrano loro stessi reali o autentici, consentendo a noi osservatori di concludere
che è come loro. L’assenza di queste qualità è ciò che ci allontana dalle persone. Non è
ciò che ci porta ad eleggerli come presidenti. Ho una teoria. Magari non è nuova. Ma
dato che riguarda Donald Trump e la presidenza americana, è discutibilmente
interessante. L’altra mattina mentre salivo le scale, la signora che vende cucce per gatti
ricamate a mano sotto la finestra del mio ufficio nel Maine mi ha detto che Donald
Trump presto si sarebbe ritirato dalla corsa. Non le piace, per cui era una buona notizia
per lei. Non aveva appreso perché si sarebbe ritirato. L’aveva sentito alla televisione
poco prima di entrare in doccia e si era persa il resto della notizia. Sentire ciò mi ha fatto
comunque riflettere sul perché potrebbe effettivamente abbandonare la corsa
presidenziale. Cosa che mi ha portato a considerare che potrebbe non volere davvero
essere il presidente degli Stati Uniti. Solo perché dice di fare e agire in quel modo...
perché dovrebbe avere importanza? Dice qualunque cosa gli venga in mente - non
importa quanto stupida o non plausibile - e obietta sempre di non aver detto le cose che
sappiamo che ha detto. È come se pensasse che siamo noi a essere inconsistenti. E cosa
peggiore - che siamo stupidi, e che le ha inventate solo per divertimento. Posso dire che
il signor Trump mette in mostra alcune tradizionali qualità quasi-presidenziali che
potrebbero rafforzare la sua volontà di rimanere in corsa. Ad esempio, finge di odiare la
stampa, ma in realtà vive e muore grazie ad essa. Finge un’avversione per Washington,
ma non vede l’ora di arrivarci. Fa finta di ammirare la politica bipartisan e la separazione
dei poteri, ma in realtà odia entrambi. Finge di essere un outsider della politica, ma in
realtà è un consumato e ben inserito oligarca che non rispetta alcuna autorità, se non la
sua. Le sue convinzioni morali sono sempre allineate ai suoi interessi privati, e accusa
tutti i suoi avversari di essere nemici dell’America. Inoltre è un maschio. Da un punto di
vista filosofico, Trump, come molti dei nostri presidenti, crede che la pace debba essere
assicurata dalle armi. Ritiene che l’America sia sempre fraintesa e offesa all’estero, come
anche dai suoi oppositori in casa. Crede che la storia americana sia una lotta costante
per ristabilire il nostro carattere americano e che quel che serve a tutti noi sia essere più
americani. Ritiene che il potere del «popolo» (i suoi sostenitori) venga costantemente
viziato da una élite, che diffida di quel «popolo» e vuole rubarne i voti. E, naturalmente,
è totalmente a favore di Israele. In più Trump, non avendo alcuna esperienza di governo
e mostrando di non aver mai pensato a ciò che realmente fa un presidente, sfrutta la
vecchia idea anti-intellettuale americana che ricoprire una carica pubblica sia - come
scrisse Andrew Jackson nel 1829 - una faccenda tutto sommato «banale e semplice». O,
nel caso di Trump, «una cosa bella». Gli americani, anche i vecchi federalisti del New
England, sono sempre stati diffidenti nei confronti del governo - tranne quando
potrebbero trarne benefici personali. Allo stesso tempo, la maggior parte degli americani
ha scarsa pazienza o apprezzamento per la complessità del governare, e spesso si lascia
cullare da sciocche semplificazioni. Preferiamo credere alla falsa idea del dilettante di
talento e siamo spesso vagamente offesi da chi è, o promette di essere, un presidente
esperto. Barack Obama, ad esempio. È un po’ come noi ex puritani ci sentiamo nei
confronti di qualcuno che ha fama di essere veramente bravo a fare sesso. Ma
guardando la presidenza unicamente nella prospettiva che ha dinanzi Trump, e
dimenticando per un momento la nostra, come elettori, è difficile pensare che essere
presidente renda Trump molto felice. Certo, per un po’ gli piacerà quel successo. Ma
Trump è un bugiardo per natura, non per talento. Ricordate tutte quelle «migliaia e
migliaia» di musulmani che si suppone abbia visto festeggiare l’11 settembre a Jersey
City? E sotto il costante controllo pubblico e del Congresso, sarebbe presto colto a
mentire, rendendosi penoso e inefficace (come era successo a Bill Clinton). Potrebbe
essere bloccato dalla stessa macchina governativa, di cui non sa nulla. Odia anche
essere chiamato a rispondere per le cose che non funzionano, e ne dà continuamente la
colpa agli altri, perciò il motto di Harry Truman «the buck stops here» [qui ci si prende
la responsabilità, non si passa la mano] non sarà il suo - ciò che farà la gioia dei suoi
critici. Peraltro è notoriamente molto suscettibile, tanto che il costante scontro con
avversari a cui non può sparare, come una stampa libera e irrispettosa, lo farà quasi
certamente impazzire e provocherà sfoghi ancor più stupidi di quelli che abbiamo già
sentito, facendolo sembrare ed essere patetico. Inoltre, quasi tutti gli altri capi di Stato
saranno più svegli e più giovani di lui, e dovrà sentirselo dire ogni giorno. E alla sua età
(lo so, lo so non si dovrebbe parlare di questo, ma sarebbe il presidente più anziano a
iniziare il suo mandato), la curva della minima competenza potrebbe essere
irrimediabilmente ripida per il presidente Trump. Potremmo finire con Ivanka come
nostra «first female», badante del presidente. Mi rendo conto che non c’è limite al
narcisismo, e che la voglia di vincere di Trump potrebbe distrarlo, nel corso di una
lunghissima luna di miele, dal rendersi conto che non è poi così bravo a fare il presidente
e che in realtà detesta esserlo. Ma a differenza di Ronald Reagan - che Trump ama
evocare - la gente di solito più lo conosce, meno lo ama, e la luna di miele non durerà a
lungo. Non è un uomo del popolo, né un vero populista. È un sacco di vento ricco e
sconsiderato che ama insultare la gente meno potente di lui. Il suo voler essere il messia
dei bianchi delusi della classe operaia è, a mio avviso, una messinscena, un’invenzione
scaturita dalla sua ambizione e dal disprezzo che quegli uomini provano per il governo,
dalla loro paura di perdere potere economico e spirituale in un mondo che sta
rapidamente cambiando e diventando non-bianco. In quanto a eroismo, il signor Trump
non si distingue particolarmente. Come altri presidenti che abbiamo avuto, potrebbe
finire per diventare uno sfortunato prigioniero della presidenza, e noi elettori le sue
colpevoli vittime. Potrebbe anche decidere di lasciare. L’ha fatto per tutta la vita. Oh,
certo, se Donald Trump improvvisamente uscisse di scena o facilitasse per il suo partito
il compito di scaricarlo durante la Convention repubblicana, potremmo dire che ha
dimostrato il suo punto. Ha mostrato che il sistema politico americano è quella farsa che
tutti immaginavamo - un campo di battaglia finto dove un buffone come lui può avere
successo. Un meta-candidato. Questo gli darebbe quel tipo di vittoria che ha assaporato
tutta la vita come magnate della stampa. La vittoria di un bluffer. Se solo potessimo
credere che è intelligente fino a questo punto. E no, non è questo il modo in cui il
sistema politico americano dovrebbe funzionare. Quando una persona aspira alla nostra
presidenza, lui o lei dovrebbe crederci. Ma questa meta-candidatura inventata - se è
davvero così - fa venir voglia all’osservatore interessato di chiedere ancora: cosa
diamine facciamo in America? Non si tratta veramente della trascurata porzione di
maschi bianchi incazzati. Non si tratta veramente dell’impotenza dei repubblicani a
mettere in campo un candidato migliore. Non è la nostra stanchezza nei confronti di un
governo che non funziona. In fondo non si tratta tanto del governo e neppure di Donald
Trump presidente. Questo è solo uno scherzo. Ci sintonizziamo sul signor Trump per le
stesse ragioni per cui ci rassegniamo a subire la pubblicità, quando siamo mezzi
addormentati la sera tardi, per guardare un film che forse ci piace ma forse no, mentre
dovremmo solo andare a dormire e risvegliarci più lucidi. Se quando vediamo Trump
pensiamo di provare una sensazione di irrealtà, siamo noi, in realtà, ad essere minacciati
di non esistere veramente. Siamo noi a essere colpevoli di non avere in mente qualcosa
di meglio. È il nostro malessere nazionale nei confronti della vita a essere diventato il
problema. Donald Trump? Vero o no, è solo un sintomo vistoso e scolorito della nostra
malattia americana - un’altra delle cose a cui non vogliamo pensare più di tanto.
Pag 27 Ma ora Europa e Usa non devono tollerare il cinismo di Erdogan di Antonio
Ferrari
Quel che vediamo in Turchia è inquietante. Dopo il golpe inventato probabilmente dai
circoli vicini al presidente-sultano, come ormai spiegano le evidenze non inquinate dal
pregiudizio ideologico, è cominciata una campagna persecutoria del regime contro tutti
gli oppositori di Recep Tayyip Erdogan. È come se l’incendio avesse costretto gli
avversari a uscire allo scoperto. Erdogan è un duro, con livelli di cinismo e di ferocia
inimmaginabili. Ora che ha in pugno il Paese è pronto ad osare quello che qualche
settimana fa avrebbe esitato a compiere. Sarà pronto persino a mostrarsi tollerante con
i nemici. Il ripristino della pena di morte forse è solo una minaccia, e con la stampa e i
social si potrebbe persino immaginare una tregua fredda. Il sultano è capace di tutto.
Tuttavia per ora la scure repressiva è spietata: arresti di massa, trasferimenti,
licenziamenti, ferie abolite, ci mancano solo i campi di rieducazione. Che cosa fa l’Unione
Europea? Come ci comporteremo con il dittatore? La realpolitik della cancelliera tedesca
Angela Merkel si era manifestata con la generosa offerta di riprendere in fretta le
trattative per l’ingresso di Ankara nella Ue per risolvere il problema-migranti. Ho però
un’impressione: non soltanto l’Europa è restia a riaprire il dossier, ma neppure i turchi lo
desiderano ardentemente, come invece accadeva anni fa. Con la Turchia, è bene
confessarlo, la Ue ha giocato sporco, alzando l’asticella delle condizioni a gara in corso.
Scorretta e offensiva, per un Paese orgoglioso e soprattutto nazionalista. Un Paese che,
a un certo punto, si è avvitato su se stesso, orgogliosamente: «Se non ci volete,
percorreremo altre strade». La nomina di Ahmet Davutoglu a ministro degli esteri e poi
a capo del governo, dopo il sacrificio dell’europeista Egemen Bagis (coinvolto in scandali
finanziari, chissà quanto veri o presunti) ha segnato la svolta: da zero problemi con tutti
i vicini al poco allettante traguardo di problemi con tutti i vicini. Erdogan, amico di
Assad, Mubarak e Gheddafi, diventa nemico mortale di Assad, amico di Morsi e nemico
di Al Sisi, complice degli estremisti che impedivano una recuperata stabilità alla Libia.
Qualche settimana fa, svolta di 180 gradi: via Davutoglu, nomina a primo ministro del
fedele Yildirim e cambio radicale in politica estera: pace con Israele e soprattutto con la
Russia di Putin dopo l’abbattimento del caccia di Mosca; mano tesa al regime siriano
(quindi ad Assad); e infine conferma del legame con gli Usa e con la Nato, impegnandosi
a lottare contro il terrorismo, quindi anche contro l’Isis e Al Nusra, gruppi terroristi che
la Turchia armava e con cui faceva affari (petrolio di contrabbando). Ankara si ritrova
con un presidente più forte, con un’immagine più debole, ma pronta a riprendere il ruolo
che il megalomane presidente aveva sminuito. E l’Unione Europea? La concatenazione
degli eventi rivela un ampio disegno geostrategico che la Ue, per adesso, può solo
osservare. Certo, Bruxelles non può tollerare che un Paese, formalmente ancora
candidato al club, continui ed accentui la politica repressiva, minacciando il ripristino
della pena di morte, cancellata al processo contro quello che la Turchia riteneva il più
pericoloso terrorista al mondo, il capo del Pkk Abdullah Ocalan, che sconta l’ergastolo.
L’unico dossier che impone prudenza è sempre quello degli immigrati. Se la situazione in
Siria si componesse, almeno parzialmente come gli ultimi mesi hanno dimostrato, la
generosità europea con la Turchia, sostenuta per ragioni interne dalla Merkel, si
attenuerebbe. Come ha detto il sottosegretario italiano Mario Giro, dei sei miliardi
promessi, finora sono stati versati poco meno di 400 milioni di euro. Certo, l’Ue non può
accettare che la repressione in Turchia si intensifichi. Deve alzare una voce alta e forte,
esattamente come hanno fatto gli Stati Uniti e persino il più grande partito
dell’opposizione turca, il Repubblicano del popolo, cioè i laici che si richiamano a Kemal
Ataturk, che ne fu il fondatore. La notte di venerdì i primi e i secondi hanno dichiarato
subito d’essere con il governo democraticamente eletto dal popolo. Gli Usa per calcolo
geostrategico (meglio Erdogan che avventure al buio), il partito turco di opposizione
perché forse aveva odorato i subdoli piani del sultano. Dall’Europa, invece, silenzio. Fino
alla positiva soluzione della crisi, quando tutto è diventato più facile.
LA REPUBBLICA
Pag 1 La vendetta e la paura di Ezio Mauro
L'unico segno di riconoscimento sono i capelli scuri dei vent'anni, con la sfumatura alta
dei soldati. Nient'altro. Centinaia di uomini ammassati sulla sabbia a torso nudo, piegati
in avanti perché le manette tengono le braccia imprigionate dietro la schiena, costretti a
stare in mutande e a capo chino come bestie prigioniere, in una palestra militare dalle
finestre sbarrate. Non c'erano i social network a Tienanmen quando dopo aver oscurato
l'antenna della Cnn il regime fece scattare la repressione selvaggia contro i ragazzi che
avevano occupato la piazza, e il lavoro sporco poté compiersi nel buio. C'era solo il
terrore quando Stalin ordinò le deportazioni e le uccisioni di massa della grande purga
sovietica. Non c'era né Internet né una pubblica opinione quando Franco ordinava la
garrota per i dissidenti «per liberarli dal peso della loro stessa malvagità purificando la
Spagna». Oggi quella foto postata su Twitter dalle caserme di Erdogan documenta lo
stesso meccanismo, in circostanze diverse e in mezzo al XXI secolo. Il potere che dopo
essersi difeso si vendica selvaggiamente demonizzando intere categorie sociali e
cancellando fino all'annientamento le persone che stanno sotto le toghe giudiziarie, le
grisaglie dei prefetti o le divise militari, scelte come simbolo del nuovo nemico del
popolo. Torna, invocato dal potere, il concetto di "popolo", normalmente evocato là dove
non esiste il "cittadino", soggetto autonomo, libero, titolare di doveri e diritti. Torna la
purga, la vecchia cistka sovietica, un'operazione che per definizione è senza giustizia e
fuori misura perché mescola paura e vendetta, e mentre dovrebbe re-insediare con la
forza un potere minacciato, in realtà rivela il terrore del Palazzo per il nemico nascosto,
l'insicurezza di un regime che non sa trovare la sua legittimità se non nel pugno di ferro
universale, la violenza che certifica l'instabilità permanente mentre vorrebbe
sconfiggerla. Torna soprattutto l' umiliazione fisica e morale dei prigionieri trasformati
nell' immagine materiale e pedagogica della sconfitta e come tali "esposti" perché il
popolo veda, impari e capisca: la foto dei prigionieri è la documentazione perfetta della
distanza incommensurabile che può correre tra i vincitori e i vinti anche nella modernità
in cui viviamo, quando si è fuori dallo stato di diritto. Il vincitore è puro potere che
perpetua se stesso, proteggendosi anche contro le ombre e con qualunque mezzo,
perché ha prevalso e perché avrà sempre più paura. Il vinto è ridotto a puro corpo, da
legare, ammassare e colpire, pur di controllarlo, in attesa di poterlo magari giustiziare
domani, perché l'ossessione della purificazione non ha limiti, come l'angoscia. D'altra
parte il presidente Erdogan ha parlato di una necessaria «pulizia» all'interno di tutte le
istituzioni dello Stato, per liberarle dal «virus» della rivolta. Ritorna, con la pretesa di
sterilizzare la società infetta, l'incubo contabile con cui il potere prova a rassicurare se
stesso spaventando i sudditi. Non c'è altro, quando la politica viene consegnata in
caserma, come in Turchia. Con Istanbul presidiata da 2 mila uomini dei reparti speciali, i
caccia che pattugliano lo spazio aereo delle capitali, gli elicotteri militari che non possono
decollare senza permesso, il premier annuncia che gli arrestati sono 7.543, tra cui 100
poliziotti, più di 6 mila soldati, 650 civili, 755 giudici e procuratori, 103 ammiragli e
generali, due giudici della Corte Costituzionale. Ma intanto 1.500 funzionari delle Finanze
sono stati sollevati dal loro incarico, insieme con 30 prefetti e 8.777 dipendenti degli
Interni, tra cui 7.899 poliziotti che hanno dovuto riconsegnare pistola, manganello e
distintivo. È la somma del ritorno all'ordine sventolata dal Palazzo, una somma parziale
visto che il ministro della Giustizia Bozdag promette che ci saranno altri 6 mila arresti,
«perché continueremo a fare pulizia». Ed è la misura dell'arbitrio e della sproporzione,
perché nessuno è in grado di controllare il regime a cui sono sottoposti gli arrestati, le
condizioni in cui si svolgono gli interrogatori, la misura della reazione del potere
all'offesa subita col tentativo di golpe, le reali possibilità di difendersi e discolparsi degli
incarcerati in massa. Ciò che è chiaro è il richiamo di fedeltà assoluta al Sultano che
arriva da queste operazioni. Non c'è spazio per distinzioni, l'emergenza continua, il
pericolo è in agguato, lo Stato dev'essere un blocco unico compatto nella difesa del
potere sfregiato ma superstite, dunque autorizzato a colpire. La decimazione
dell'esercito cancella ogni eredità laica riducendolo a guardia reale. L'epurazione della
polizia - da tempo inquieta - suona come l' ultimo richiamo all'ordine. Soprattutto,
l'accanimento carcerario nei confronti dei giudici e dei Capi delle procure riscrive nei fatti
codici e costituzione, imponendo fedeltà prima che giustizia, guardando alla salvezza del
regime più che a quella del diritto. A questo punto, con la pistola puntata alla tempia
della magistratura, chi giudicherà i golpisti e in nome di quale legalità? Torna l'ombra dei
processi politici, tipica dei regimi autoritari e totalitari. Se salta di fatto la divisione dei
poteri, chi controllerà il presidente e l'esecutivo? Con quale legge, al riparo di quale
Costituzione? Con quale opinione pubblica, dopo che i giornali liberi sono stati annientati
e le televisioni occupate e controllate? Mentre i tribunali certamente chiederanno conto
ai colonnelli dei carrarmati portati in strada nella notte dell'intentona, chi chiederà conto
ad Erdogan e al suo governo di quella lista già pronta, fulminea, di magistrati da
arrestare, prefetti da destituire, ammiragli da ammanettare, funzionari da epurare? Non
è nemmeno necessario arrivare alle conclusioni interessate del grande nemico del
Sultano, il predicatore Fethullah Gülen, che dall' America accusa Erdogan di essersi
confezionato il golpe per poter annientare i suoi avversari interni: basta osservare la
reazione del potere per capire che un vero e proprio "controgolpe" è in atto in Turchia.
Per poi aggiungere, necessariamente, che quel "controgolpe" è fuori da qualsiasi canone
delle democrazie occidentali, che anche quando sono sotto attacco sanno di avere il
diritto di difendersi, ma insieme con il dovere di rimanere fedeli a se stesse, e ai loro
principii. E qui, sta tutta l'ambiguità dell'Europa. La Ue e i suoi governi hanno aspettato
alla finestra la notte del golpe, per capire se i militari erano in grado di spazzare
l'equivoco e la grandeur di Erdogan, senza scegliere tra le urne che gli avevano dato il
potere un anno fa e i carrarmati che volevano toglierglielo. Oggi l'Europa, condizionata
dal negoziato appena firmato con Ankara per il contenimento dei due milioni di profughi
siriani, balbetta davanti alla minaccia turca di reintrodurre la pena di morte e di fronte
alla vendetta del Sultano, che si sta dispiegando sotto i nostri occhi, fuori da ogni codice.
È ora di dire che noi viviamo in democrazie deboli e malandate: ma una "democratura"
autoritaria, finché rimane tale e lega le sue vittime nude come animali in gabbia, non
può entrare in Europa.
AVVENIRE
Pag 1 Attenti a quei due di Fulvio Scaglione
L’Occidente, il “Sultano” e lo “Zar”
«Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta», fa dire la cancelliera Merkel ai suoi
portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte
«significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea». Il dopogolpe
della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai si contano a
migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma anche dai moniti e,
come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano da Occidente. Angela
Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento nella Ue. Lo hanno
fatto anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza
della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista
d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato John Kerry, hanno addirittura
legato «il mantenimento dei più alti standard di rispetto per le istituzioni democratiche e
per l’applicazione della legge» alla permanenza della Turchia nella Nato. Tutto questo
avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui Erdogan deciderà di varare il nuovo
atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello del potere assoluto, dopo il primo del
consenso conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura imperialista
neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il disagio con cui l’Occidente, e non
da oggi, maneggia il caso Turchia. Certo, la gigantesca purga che Erdogan vuole varare,
agitando su golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben lontano
da ciò che, in termini di applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia,
si richiede a un Paese dell’Ue. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto
vicina. Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai
servizi segreti (nei giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla
magistratura gran parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto
alla libera espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili.
Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri princìpi.
Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo,
parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli «alti standard » che ora
invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza
della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che attraversavano
il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi, allora la Nato degli
«alti standard» si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il proprio velo
militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non mille anni fa. Finché la Turchia
faceva comodo per intercettare, ben pagata, i profughi che tanto inquietano gli europei o
per smembrare la Siria di quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio
Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi
forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non risponde alle redini dell’Occidente
ed è difficile che lo faccia, sia che abbia superato un golpe vero (che comunque non può
avere mandanti solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto.
Comunque, dopo aver ottenuto un potere quasi assoluto. In questo clamoroso
riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che bada bene a non farsi notare, ma
potrebbe intascare un ottimo dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore
del Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due
si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia
russo nel novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45
miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore
dell’energia. Lo zar e il sultano si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare
l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro
confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo
impegnata. Meglio non staccare gli occhi da quei due.
Pag 5 La grande “decapitazione” di Camille Eid
Non solo militari: la mannaia si abbatte pure sui dipendenti pubblici
Non sono servite a nulla gli appelli dei leader europei alla moderazione. La repressione
prontamente lanciata da Erdogan contro i responsabili presunti del golpe sta assumendo
le proporzioni di una vera e propria purga che si abbatte contro diversi settori, militari e
non. Stando ai numeri forniti dalle stesse autorità di Ankara, si parla già di «migliaia di
arresti e rimozioni». A mo’ di paragone, nella repressione contro Ergenekon, il gruppo
ultranazionalista segreto accusato nel 2007 di tramare contro lo stesso Erdogan (allora
premier) e il suo partito, erano state arrestate non più di 300 persone, di cui 194
successivamente condannati a diverso titolo dopo un lungo iter processuale. Oggi,
invece, in poche ore la scure delle purghe ha decapitato buona parte dei vertici militari,
con ben 103 generali e ammiragli finiti in arresto. Un numero, questo, che corrisponde al
29 per cento dei 358 generali censiti nelle diverse branche delle Forze armate turche alla
fine del 2015, compresi quelli che servono nella Gendarmeria e la Guardia costiera. Di
loro l’agenzia ufficiale Anadoluha stilato un elenco dettagliato. Provengono da tutte le
armate (forze di terra, aeree e Marina militare) e da tutta la Turchia: Ankara, Smirne,
Edirne, Adana, Denizli, Samsun, Bitlis, Antalya, Kastamonu, Tunceli e altre basi ancora.
Tra di loro si leggono i nomi di alti comandanti dei II e III Corpi d’Armata, della
guarnigione di Ma-latya, di comandanti del Mar Egeo, della base di Incirlik utilizzata dagli
americani per bombardare le postazioni del Daesh in Siria, e addirittura dell’assistente
capo militare di Erdogan. Epurazioni anche nella fila dei dipendenti pubblici, il 5 per
cento della popolazione, impediti da ieri di espatrio senza previa approvazione del loro
ufficio. Il ministero dell’Interno parla – ma i numero sono ancora provvisori – di 8.777
dipendenti licenziati o arrestati, tra cui 7.899 membri della polizia (nonostante la relativa
lealtà dimostrata durante il golpe), 398 ufficiali della gendarmeria (su circa 5.500 che
conta il corpo), 215 sottufficiali, e 18 capi delle guardie costiere. Tra i governatori (“vali)
delle 81 province uno solo è stato rimosso ma insieme con altri 29 “vali centrali” in
servizio presso il ministero. Poi ancora: 16 consiglieri legali, un vice direttore generale,
due capi dipartimento, 92 vice-vali e 47 sottoprefetti (caimacam, sui 923 che conta il
Paese). Sospesi anche 1.500 dipendenti del ministero delle Finanze. Insieme al settore
dell’istruzione, quello economico è sospettato di essere quello «maggiormente infiltrato»
dai fedeli di Fethullah Gülen, il presunto ispiratore del golpe fallito e dello “Stato
parallelo”. Ieri, le autorità turche hanno ordinato la sospensione delle attività della banca
Asya, legata al predicatore esiliato. Pugno di ferro anche contro la magistratura, con
centinaia di giudici e procuratori allontanati dalla funzione. Tra questi, due giudici della
Corte Suprema, Alparslan Altan e Erdal Tercan, arrestati in base a una «azione
disciplinare» promossa dalla stessa Corte per presunti legami con Gülen. La Corte è
composta da un presidente, due vicepresidenti e 14 giudici. Un difetto di circa il 10 per
cento. Le proporzioni di queste purghe ricordano da vicino quelle operate in un passato
vicino dai vertici militari contro chiunque venisse sospettato di simpatie verso i partiti
islamici. Si calcola, infatti, che circa 1.350 ufficiali e sottufficiali furono allontanati tra il
1996 e il 2002, anno di arrivo dell’Akp al potere. E il numero sale a 4mila se si
considerano coloro che furono costretti a interrompere gli studi nelle accademie militari
o che si ritirarono spontaneamente. Molti semplicemente perché osservavano la
preghiera islamica o avevano la moglie velata. La vittima di quei soprusi sembra
scatenare oggi una tremenda vendetta.
IL FOGLIO
Pag 1 Dannata Europa senza Vangelo di Camillo Langone
Immigrazione, terrorismo e ascesa del clero neopauperista. Il cattochitarrismo non
basta. Perché l’Europa rantola da quando ha rinnegato la sua vera religione
Europa che sembri alla fine della decadenza e che guardi passare piccoli e grandi barbari
neri, o ambrati dal sole feroce del deserto, mentre componi editoria li pensosi, tweet
ironici, post commossi, tutti ugualmente inutili, ti scrivo. Europa che hai lasciato
circondare il castello di Bouillon, in Belgio, da gruppi di donne fazzolettate: me lo
racconta, turbato, un amico che lavora in Lussemburgo e che nel tempo libero visita le
senescenti province di Fiandre e Vallonia. Come e quando tante maomettane sono
arrivate nel pittoresco, verdeggiante paese? Goffredo di Buglione, "il capitano / che il
gran sepolcro liberò di Cristo", scese da quelle mura per scalare quelle di Gerusalemme:
ma tu Europa non leggi più Torquato Tasso e la nemesi ti punisce. Europa decrepita che
dimostri valida la tesi di Todd Buchholz, l'economista di "The price of prosperity": "Con
l'aumento della ricchezza, la natalità crolla e l'età media della popolazione cresce.
Questo richiede un flusso di nuovi operai e comporta l'apertura delle frontiere agli
immigrati che hanno il potenziale per frantumare la cultura prevalente". Io venni
internettianamente lapidato quando scrissi che una delle cause del crollo demografico è
l'istruzione universitaria femminile: Buchholz lo conferma, non è con l'aumento della
povertà che aumentano le iscrizioni delle ragazze alla Bocconi, alla Sorbona o alla
London School of Economics. Ed Erasmus, vista la sua efficacia nel ritardare, ostacolare,
impedire la maternità di migliaia di giovani europee, potrebbe essere il nome di una
marca di preservativi. Ma la causa principale della tua astenia è la tua apostasia, Europa.
Da quando hai rinnegato la tua religione, la vera religione, non fai che rantolare. La
religione che ti creò (nascesti con la battaglia di Poitiers, prendesti forma col Sacro
Romano Impero), la religione che ti fece grande nonostante le tue dimensioni, la
religione che ti diede i monasteri, le cattedrali, gli ospedali e, siccome derivante da
ragione e non superstizione, i laboratori scientifici. Il primo a rinnegare Cristo fu san
Pietro, quindi non mi avventuro a parlare di un fenomeno nuovo, sono nuove semmai le
dimensioni. "Il più grande avvenimento recente - che "Dio è morto", che la fede nel Dio
cristiano è divenuta inaccettabile - comincia già a gettare le sue prime ombre sull'
Europa", scrive Nietzsche alla fine dell' Ottocento. Prima la fede l'hanno persa i filosofi,
com'è ovvio: purus philosophus, purus asinus. Poi gli scrittori, gli artisti, i musicisti: il
passo successivo al nicciano "Gott ist tot" è il lennoniano "Imagine there' s no countries
/ it isn' t hard to do / nothing to kill or die for / and no religion too". Lennon era il più
stolido dei Beatles (il più perspicace era ed è McCartney, non a caso uno dei pochissimi
vip a mantenersi neutrale fra Brexit e Remain) e ogni volta che applaudi "Imagine" tu,
Europa, diventi un poco più stupida e quindi un poco meno europea (tua caratteristica
precipua era la qualità: la quantità è asiatica). Nel 1996 la celeberrima canzoncina
anticristiana venne cantata davanti a Papa Giovanni Paolo II e non mi stanco di
ricordarlo a chi pensa che la crisi dottrinale della chiesa cominci con l'ascesa al soglio di
Papa Francesco. Nel 2016 è stata criticata via Facebook da Susanna Ceccardi, fresco
sindaco leghista di Cascina, che ne ha sviscerato la natura comunista (e perciò, anche in
questo, più asiatica che europea), evidente nel verso "Imagine no possessions".
Evidente a chiunque non sia assordato dall' ideologia e per nulla evidente al clero
pauperista che oggi ha sequestrato il cristianesimo, dimentico o ignaro di quanto il
capitalismo debba alla teologia francescana medievale di Pietro di Giovanni Olivi e
Giovanni Duns Scoto, a san Bernardino da Siena, a sant'Antonino da Firenze, ai
domenicani della scuola di Salamanca. Sembra che la fede l'abbiano persa anche i tuoi
preti, Europa. Quanti cardinali credono nell'esistenza del diavolo, nell'incarnazione, nella
presenza reale di Gesù Cristo nell'eucaristia, a parte l'africano Sarah? Quanti fra i
cardinali tedeschi, ad esempio? E in Austria? Europa debosciata dove accade che il
cardinale Schönborn faccia entrare un giovane omosessuale, unito civilmente con un
altro omosessuale, nel consiglio pastorale di una sua parrocchia. Dio è davvero molto
misericordioso se dopo simili episodi non affoga la diocesi di Vienna nel pozzo del suo
tradimento, e si limita a dissanguarla lentamente, dandole il tempo di un ravvedimento
che però non si intravede. E intanto nelle scuole della capitale austriaca gli studenti
musulmani hanno già superato gli studenti cristiani: come se nel 1683, davanti alle sue
mura, avesse vinto il Gran Visir anziché Giovanni III di Polonia. Come se Marco d'Aviano
non avesse meritato il titolo di Beato col sermone che entusiasmò i soldati poco prima
della battaglia, Europa dannata che non sei altro. Europa calcolatrice che sbagli i calcoli,
Europa di Angela Merkel che ha aperto le porte agli invasori per raddrizzare la curva
demografica e continuare a pagare le pensioni: col risultato che nel medio periodo non ci
sarà più la Germania e non verranno comunque pagate le pensioni. Europa
collaborazionista che come sindaci delle tue metropoli eleggi islamofili o direttamente
islamici, vedi Londra, amministratori autorizzanti moschee sulle quali si innalzeranno
minareti dai quali si affacceranno muezzin: non hai appena visto, Europa, il tentato
golpe turco, il ruolo dei muezzin nell'eccitare i tagliagole di Allah? Cambia occhiali,
Europa. E già che ci sei cambia pure protesi acustiche: sei talmente sorda da affollare i
concerti di Elton John, il ladro di bambini, di David Gilmour, grande chitarrista dell'epoca
di Nilde Iotti, e di Bruce Springsteen, che già al tempo in cui aprii le orecchie al mondo,
mille anni fa, mi faceva tenerezza per quanto era musicalmente grossolano e superato.
Palestrina è più moderno, anche se dubito possa piacerti, Europa smemorata, un
compositore così esemplarmente cattolico romano. Non piace nemmeno ai preti, così
come il gregoriano e l'organo a canne: migliaia di parroci appartengono a un'altra
religione, il cattochitarrismo, senza schitarrata la messa non sembra loro valida. Forse
anche per questo "piccoli atei crescono", come scrive il sociologo Franco Garelli: mette
tristezza, respinge, non attrae, un culto con una colonna sonora così
programmaticamente di serie B. Europa che sembri alla fine della decadenza e
probabilmente lo sei davvero, non per risollevarti, missione impossibile a viste umane,
bensì per salvare il meglio del tuo patrimonio, per trasmettere il tuo lascito alle
generazioni e ai popoli che verranno, certamente dobbiamo valutare l'Opzione
Benedetto, la creazione di oasi di civiltà nel caos di un continente insanguinato dal
nichilismo come in un romanzo di Cormac McCarthy. All'uopo ci vorrebbe un nuovo
ordine benedettino (chi conosce i benedettini odierni dubita che possano salvare se
stessi, altro che il continente). Sarebbe utile anche un movimento popolare e giovanile
di educazione alla fede, tipo quello fondato nel 1970 dal sacerdote lombardo don Luigi
Giussani. Si chiamava Comunione e Liberazione, qualcuno se lo ricorda ancora. Poiché a
Roma ci sono due Papi e questo anche per i bendisposti è un fattore di confusione e
strabismo, e tu, Europa, bendisposta non lo sei di sicuro, sappi che c'è un vescovo a
Ferrara. "Questo sistema sociale si sta disfacendo", afferma monsignor Negri col
pessimismo profetico che lo contraddistingue e lo innalza sul piatto paesaggio di talpe
ottimiste. "In questo mondo dove tutto si dissolve e la solitudine domina la vita dei
singoli e della società bisogna decidersi a non puntellare l'impero. I primi cristiani non
puntellarono l'impero ma fecero semplicemente un'altra cosa: fecero il cristianesimo.
Affermarono che Cristo era l'unica vera risposta sulla vita dell'uomo e del mondo.
Ricostruiamo dunque le nostre comunità attorno a Gesù Cristo". L'islam che ti seduce
tanto, Europa baldracca, è un fungo velenoso che cresce sulla tua decomposizione, un
parassita sociale oltre che teologico (Maometto per scrivere il Corano ha sfruttato sia
l'Antico che il Nuovo Testamento). Cos'è infatti la tua presente decadenza se non la fase
putrefattiva della civilizzazione? Europa che tutto hai mangiato e tutto hai bevuto, come
scrive Verlaine, e ancora ti gingilli con le guide dei ristoranti, con i programmi dei cuochi,
perché la tavola è il talamo di chi non fotte più, non ti sto chiedendo niente perché
niente mi aspetto da te. Io insieme a Rimbaud rimpiango la vecchia Europa dei parapetti
antichi, ma è una cartolina ingiallita, un sospiro, non un fondamento. Non chiedo niente
nemmeno alla tua cultura dato che, lo ha rimarcato Gabriel Matzneff, "il Café de Flore si
inginocchia davanti ai barbuti fanatici di Libia, di Siria, così come una volta si
inginocchiava davanti a Stalin". Ti ho scritto per dirti che vogliamo smettere di
puntellarti, traballante Europa. Non possiamo rischiare che il Vangelo finisca sotto le tue
macerie: se e quando ti ricorderai della tua giovinezza, e vorrai non rimpiangerla bensì
riviverla, lo ritroverai intatto.
Pag 2 Guerra (civile) tra gli imam francesi su islam e stragi jihadiste di Matteo
Matzuzzi
Roma. A quattro giorni di distanza dalla strage di Nizza, la spaccatura nella comunità
musulmana francese si fa più profonda. La Conferenza degli imam presieduta da Hassen
Chalghoumi (rettore della moschea di Drancy, immensa banlieue parigina non distante
da Saint Denis) ha deciso di rompere ogni rapporto con il Consiglio francese del culto
musulmano, organo ufficiale riconosciuto dalla République che ha voce in capitolo
sull'edificazione di nuove moschee, sull'allestimento di mercati halal e che - soprattutto è il primo interlocutore del governo su tutto ciò che abbia a che fare con la religione
islamica sul suolo francese. L'accusa mossa dalla Conferenza degli imam al Consiglio del
culto musulmano - il cui primo presidente è stato Dalil Boubakeur, passato alle cronache
per essersi opposto alla visita in Francia di Salman Rushdie nel 1996 e, più
recentemente, per aver proposto di convertire in moschee le chiese senza più fedeli a
frequentarle, scatenando l'ira di diversi vescovi cattolici transalpini - è di non aver fatto
nulla per prendere le distanze da chi, in nome dell' islam, s'è dato alla mattanza dell'
occidentale infedele. Hocine Drouiche, imam di Nîmes e vicepresidente della Conferenza
- che ha ritirato le dimissioni annunciate venerdì in cambio della rottura delle relazioni
con l'organismo islamico ufficiale - nel suo tour compiuto nel fine settimana tra Nizza e
Tolone ha parlato del "disgusto di tanti cittadini musulmani, praticanti e non praticanti,
davanti all'immobilità e alla non reazione di questi (gli imam del Consiglio del culto, ndr)
che danno l'impressione di chiara incompetenza e totale incoscienza circa la gravità della
situazione". E questo, aggiunge Drouiche, "nonostante tutti i mezzi che lo stato offre
loro ogni anno". Venerdì, con le vittime ancora stese sulla Promenade des Anglais,
l'imam di Nîmes aveva chiesto ancora una volta che i responsabili musulmani francesi
prendessero atto di quanto accaduto, parlando della strage nei sermoni del venerdì,
accettando di intraprendere un percorso di autocritica e ammettendo che il problema
fondamentale s'annida nell' interpretazione che viene data ai testi islamici, nelle
moschee e nelle scuole coraniche. Messaggio non recepito. anzi. Dalle parti del Consiglio
del culto musulmano sono piovute critiche ai referenti del fronte opposto, con l'accusa di
"non rappresentare nessuno a parte loro stessi" e di essere solo alla ricerca di visibilità
criticando l'islam con la scusa della scia terroristica che sta insanguinando il paese.
L'imam di Nizza, Tawfik Bouhlel (solo omonimo dell' attentatore che a bordo di un tir ha
causato la morte di 84 persone e il ferimento di altre decine) ha subito detto che il
massacro dello scorso 14 luglio "non ha nulla a che fare con l'islam. Questo uomo
(l'attentatore, ndr) non rappresenta l'islam. Temo che ci siano fanatici ovunque, in ogni
quartiere. Possiamo sconfiggerli solo stando insieme". Una linea, quella di dire che
l'elemento islamico nulla c'entra con la macelleria nizzarda o la fusillade al Bataclan, che
rappresenta l'opposto di quanto la Conferenza degli imam va dicendo da tempo. Proprio
in una conversazione con il Foglio, Hassen Chalghoumi - sulla cui testa pende una fatwa
dello stato islamico da quando condannò la strage nella redazione parigina del
settimanale Charlie Hebdo ("sei poliziotti vegliano su di me e la mia famiglia ventiquattro
ore al giorno, sette giorni su sette") - disse qualche mese fa che "l' ascesa dell' islam
politico è un enorme pericolo, qualunque forma esso assuma". Anche per questo, oltre
che per il dialogo intrapreso con la comunità ebraica francese e le visite a Gerusalemme
(Yad Vashem compreso), è stato in modo sprezzante definito "l'imam degli ebrei" dai più
ostili correligionari della banlieue dove abita e lavora. Una posizione condivisa dal suo
vice: "Il jihadismo vuole rompere la fiducia tra l'islam e l'occidente. Dobbiamo
correggere i nostri errori, che hanno portato all'estremismo", ha detto Drouiche
all'indomani dell'attentato di Nizza. "Non possiamo accettare l'importazione di un islam
dai paesi arabi. Abbiamo bisogno di un islam europeo. Vivere un islam al modo dei
sauditi, dei marocchini o degli afghani non potrà che creare conflitti nella nostra società
francese". L'islam, aggiungeva, "è innocente, ma necessita di uomini coraggiosi per
provare ciò. Perché oggi è molto difficile distinguere l'islam inteso come religione dall'
islamismo considerato alla stregua d'una ideologia".
IL GAZZETTINO
Pag 1 La nuova strategia dei reclutatori di Carlo Nordio
La rivendicazione, da parte dell’Isis, della paternità dell’attentato di Nizza, ha sollevato
alcune perplessità, connesse essenzialmente alle caratteristiche del suo autore: uomo, si
è detto, disordinato e dissoluto, ben diverso dai disciplinati e austeri martiri islamici
votati al suicidio. Questi dubbi, solo apparentemente giustificati, riflettono in realtà il
solito wishing thinking che si manifesta quando il nostro raziocinio stenta a spiegare
certe atrocità, e si rifiuta anche di ammetterle. Perché, se le ammettessimo, dovremmo
trarne conclusioni ben più allarmanti di quelle già dolorose finora raggiunte: non solo
che siamo in guerra – concetto per molti già duro da digerire – ma che essa viene
combattuta con armi sempre più fantasiose e micidiali, che riducono o annullano le
nostre già scarse difese Ci spieghiamo. Il terrorismo, nelle sue dimensioni nazionali e
internazionali, ha avuto un’evoluzione operativa: negli anni 70 e 80 esso esprimeva – si
trattasse dell’Olp o delle Br – un’energia ideologica che a sua volta consentiva il
reclutamento di agenti estremamente motivati e addestrati. La sua forza è stata anche
la ragione della sua sconfitta: il tramonto del marxismo (per le Br) e una saggia
combinazione di repressione militare e di accordi internazionali ( per l’estremismo
palestinese) ne hanno quasi del tutto svuotato la ragion d’essere. E infatti, a parte
episodi isolati, dovuti all’eterno conflitto arabo israeliano, l’Europa e il mondo occidentale
sono vissuti abbastanza a lungo in pace. Con l’attacco del 2001 alle due torri, e la
nascita del terrorismo religioso, è mutata la motivazione, ma è rimasta la tattica
operativa tradizionale: i dirottatori di New York erano persone istruite e addestrate,
inserite in un’organizzazione diretta da un personaggio ricco e intelligente come Bin
Laden. Questo terrorismo aveva un nome e un volto, anche quando colpiva,
apparentemente a casaccio, vittime innocenti. Era, in definitiva, un esercito di ombre,
ma di ombre identificabili. E infatti, sia pure con fatica e tra mille sconfitte, l’attività di
intelligence ha a lungo funzionato. Quando ha fallito, come a Parigi e a Bruxelles, i
servizi di informazione sono stati accusati di scarsa vigilanza, perché gli autori erano noti
alla polizia. Era vero, ma era anche comodo. Perché si pensava che, evitando quegli
errori, si sarebbero evitati anche i prossimi attentati. E invece Nizza ha dimostrato
esattamente il contrario. Mohamed Bouhlel, infatti, aveva ben poco in comune con gli
altri suoi confratelli assassini: era manesco, vizioso e forse mezzo alcolizzato; e
soprattutto era ignoto alla polizia, se non per marachelle di lieve entità. Da questo,
come dicevamo, qualcuno ha concluso che l’Isis non c’entrasse nulla. E invece è arrivata
la rivendicazione. Che significa questo? Significa che l’organizzazione – pur non
difettando di martiri ansiosi di attivarsi – sta arruolando adepti anche tra gli
insospettabili sbandati, estranei alla sua struttura operativa, per servirsene solo come
strumento finale. Questo ha due conseguenze, entrambe drammatiche. La prima, che
questi individui agiranno nel modo non solo più sinistro ma anche più imprevedibile: ieri
un camion sul lungomare, domani una carrozzina dentro un asilo, e avanti così secondo
la loro fantasia. La seconda, che l’attività di intelligence, l’unica veramente utile in
questa battaglia, è resa ancor più difficile dalla stessa personalità di questi neofiti
stragisti, scelti a caso da uno spregiudicato reclutatore. E così l’occidente, che già
faticava ad affrontare una forma di guerra cui non era preparato, è ora minacciato da
una tattica ancora più inattesa, resa più funesta, perché più insidiosa, dall’ impossibilità
di delineare e persino di immaginare, il volto del nemico.
Pag 2 L’ex ambasciatore Scarante: Bruxelles miope, Ankara può essere un
pericolo di Maurizio Crema
«È un golpe che sembra arrivare da un altro secolo, hanno pensato a occupare la Tv
senza bloccare Internet. La verità è che oggi la Turchia non è più quella di mezzo secolo
fa e che anche il mondo è cambiato: gli equilibri e i confini usciti dalla Prima guerra
mondiale non sono più validi. L’Europa e l’Occidente sembrano non essersi ancora resi
conto di questa rivoluzione».
Gianpaolo Scarante, 66 anni, veneziano del Lido, ambasciatore italiano in Turchia fino al
2015 e docente di teoria e tecnica della Negoziazione Internazionale all’università di
Padova, non sembra sorpreso dal putsch fallito ad Ankara: «Erdogan è al potere dal
2002 e ha sempre avuto come nemico l’esercito. Non dobbiamo poi dimenticare che solo
una piccola parte dei militari si è schierata con i golpisti».
Ora che accadrà in Turchia?
«Non siamo più negli anni ’60 e ’70, la Turchia oggi è la sesta economia d’Europa, la 16.
nel mondo. Un golpe avrebbe portato all’isolamento internazionale del Paese,
l’establishment economico e politico non avrebbe mai tollerato una cosa del genere. Però
non credo che sia stato un auto-golpe come molti sostengono, sarà solo un golpe che
farà gli interessi di Erdogan e gli permetterà di regolare i conti definitivamente con i
gulinisti, con quello che lui identifica come uno stato parallelo».
Sarà per questo che l’Occidente ha reagito così timidamente al golpe?
«Aver atteso 2 o 3 ore per una reazione ufficiale fa parte della prassi istituzionale. La
verità è che ormai tutte le cancellerie occidentali hanno capito che la politica estera turca
può essere un pericolo. Il Paese è più radicalizzato con un Erdogan che ha sempre più
potere. Ma la Turchia non è la Libia: è sempre una nazione al centro dei grandi
movimenti della Storia. Il problema è che non è detto che il suo sviluppo futuro sarà
nell’interesse dell’Europa e dell’Occidente».
La Turchia di Erdogan è un pericolo?
«La sua politica estera neottomana in chiave islamica in Siria e nel Medio Oriente si è
rivelata un fallimento. Erdogan oggi sta correggendo la sua rotta, ha riaperto le relazioni
con Israele, dialoga con Mosca. Ma la verità è che si stanno sgretolando tutti gli equilibri
costruiti dopo la Prima Guerra Mondiale e confermati dalla Seconda: niente sarà più
come prima. Il Mediterraneo, contrariamente a quello che pensavano in molti in Europa,
è tornato al centro del mondo per questioni economiche, di sicurezza, energetiche.
L’Europa sta pagando la sua miopia e rischia di uscire da questi conflitti destabilizzata».
Europa minacciata?
«I conflitti del XXI secolo non hanno più un recinto dell’orrore. Quando è crollato il muro
di Berlino si è aperto il vaso di Pandora, l’Europa non era preparata a questo. Ancora
adesso trattiamo questi terroristi come degli squilibrati, non capiamo l’Isis e quello che
sta accadendo in Medio Oriente. È fuori dai nostri schemi mentali. E le nostre
democrazie appaiono deboli, disorientate. Il problema è proprio questo: come le
possiamo ravvivare?
Pag 18 L’identità della Turchia mette a rischio l’Europa di Fabio Nicolucci
A tre giorni dalla Notte degli Stretti sul Bosforo, il modo con cui Erdogan sta chiudendo i
conti con i golpisti sta aprendo una vera e propria battaglia sull’identità della Turchia.
Sulla natura del suo Stato e sulla sua collocazione internazionale. Di fronte alla sua vera
prima crisi statuale Erdogan sta infatti scegliendo di guardare a Putin più che a Togliatti.
Di restringere il perimetro della legittimità nazionale e non di allargarlo verso una
pacificazione, come invece fece il Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti con l’amnistia
per i collaboratori del regime fascista del 22 giugno 1946, appena un anno dopo la fine
di una terribile Guerra mondiale e di una drammatica guerra civile. E mentre Togliatti
fece quel provvedimento a discapito delle pur comprensibili volontà di rivalsa della base
del Pci e dei partigiani, tanto da essere velatamente accusato da Pietro Secchia di
tradimento o ignavia, Erdogan pare invece volersi creare un nucleo duro di feroci
sostenitori e entusiasti sodali. A quale scopo? Perché il dubbio è che, voluto o meno, il
golpe possa essere l’occasione per Erdogan di ottenere quella “Presidenza assoluta” che
egli non è riuscito sinora a raggiungere per via elettorale. Proprio perché la democrazia
turca ha un suo spessore, pur con tutti i suoi limiti. Anche se proprio i golpisti gli hanno
dato un bel colpo di piccone, aprendo la strada a reazioni fuori dal suo perimetro. Vanno
in questo senso non tanto le pur spietate purghe all’interno dell’esercito, così come le
macabre uccisioni di oramai inermi soldatini golpisti da parte di paramilitari dell’Akp
(partito di Erdogan) e dell’estrema destra, con scene di decapitazioni e mutilazioni
apparse per ora solo sui social network. E nemmeno la subitanea applicazione di liste di
proscrizione per quasi 3mila giudici, un potere dello Stato composto di attempati signori
che certo non hanno imbracciato il fucile venerdì notte. Con una fretta e precisione tanto
sospetta da far dire al commissario Ue che ha in mano il dossier sull’adesione della
Turchia all’Ue, Johannes Hahn, che esse “erano già pronte”. Il segno più preoccupante
della possibile intenzione di Erdogan di finire il lavoro che non era riuscito a completare
con le due ultime elezioni politiche, è piuttosto nella sua dichiarazione di “non poter
ignorare la voce del popolo”, cioè le invocazioni dei suoi sostenitori ieri nelle strade per il
ritorno alla pena di morte, abolita nel 2004 proprio per “europeizzare” il paese. Una
dichiarazione emblematica, che ha infatti alzare la voce anche alla Cancelliere tedesca
Angela Merkel. Soprattutto se la si mette accanto a quella rivolta con toni scomposti
all’Amministrazione Usa – come se gli Usa fossero la Russia di Putin e non un paese
dove vige la separazione dei poteri - di “estradare” il clerico diventato suo nemico,
Fethullah Gulen, in autoesilio negli Usa dal 1999. Una richiesta la cui strumentalità ha
fatto imbizzarrire pure quegli Usa che si erano schierati contro il golpe, soprattutto
perché esso avrebbe cacciato la Turchia in un vicolo cieco e la regione ancor più nelle
pesti. Se dunque questo sarà effettivamente il percorso di Erdogan, ciò metterebbe la
comunità internazionale di fronte non ad una scelta, perché essa è stata già fatta ed in
modo concorde nella notte di venerdì. Quanto piuttosto al fatto che la Turchia da
possibile parte della soluzione delle crisi regionali diverrebbe del tutto – più degli effetti
già nefasti della sua ultima e autarchica politica estera – parte del problema. Tali crisi
infatti sono generate dall’incapacità della diplomazia europea e mondiale di fronteggiare
l’interdipendenza che le sottende. Una Turchia che scelga l’autarchia e l’isolamento, e
dunque escluda l’Ue come suo orizzonte, in questo terribile scenario regionale di ferro e
fuoco potrebbe essere l’ultima pagliuzza che – come dicono gli inglesi - “spacca la
schiena del cammello”. Perché se pure l’Ue va reinventata, non è certo il ritorno al
concerto degli stati nazionali come monadi tra di loro la chiave per la pacificazione
regionale e la stabilizzazione del Mediterraneo.
LA NUOVA
Pag 1 Aiuto nero al campione dei bianchi di Alberto Flores d’Arcais
Cortei contrapposti, polizia ad ogni angolo, critiche feroci, polemiche e lo spettro di
troppi morti recenti. È un’America divisa come non si vedeva da quasi mezzo secolo,
quella che si ritrova (idealmente) a Cleveland per la Convention del Grand Old Party, il
partito repubblicano che fu di Lincoln e Reagan e il cui futuro è adesso affidato alle mani
di Donald Trump. Era dalla guerra dei Vietnam e dalle marce per i diritti civili che negli
Stati Uniti la questione razziale non esplodeva con la sua scia di sangue e di vendette,
ideologicamente ancora più marcata per la presenza del primo presidente
afroamericano, che sembra assistere impotente dalle finestre della Casa Bianca.
Cleveland oggi (e Philadelphia con la Convention democratica la settimana prossima)
sono i luoghi simbolo di un paese - la prima superpotenza del pianeta Terra - che fatica
a fare i conti col suo passato più recente. Pochi giorni fa, a Dallas, Barack Obama e
George W. Bush si sono ritrovati uno accanto all’altro per onorare cinque poliziotti uccisi
e denunciare la violenza di ogni parte. I due ultimi presidenti, sedici anni di storia
recente d’America, che tra attacchi del terrorismo, guerre (Afghanistan e Iraq), divisioni
ideologiche e conflitti razziali ha portato alle scelte di oggi: un candidato alla presidenza
populista e fuori da ogni schema politico, una candidata la cui grande novità (sarebbe la
prima donna ad entrare alla Casa Bianca dalla porta principale) è offuscata
dall’appartenenza al vecchio establishment politico-finanziario, un quasi-candidato
(Bernie Sanders) che si definisce socialista ed ha mobilitato una generazione di giovani
(i millennials) le cui scelte e i cui comportamenti non sono facili da analizzare. Tutto ciò
condito dal terrorismo interno (vedi i fatti di San Bernardino e Orlando) e dall’imporsi di
un movimento di protesta radicale come BlackLivesMatter (le vite dei neri contano). A
due-tre anni dalla sua nascita, dopo quanto accaduto a Dallas (cinque poliziotti morti) e
a Baton Rouge (altri tre uccisi), si trova a fare i conti con una violenza a cui il
movimento è stato finora estraneo ma di cui rischia di subire pesanti conseguenze. Con
una conseguenza impossibile da immaginare fino a poco fa: che siano i neri (sia pure in
modo involontario) a spianare a Trump, il campione dei maschi bianchi, la strada verso
una presidenza che pochi mesi fa tutti ritenevano impossibile. Da Cleveland, dove ieri si
è aperta la Convention repubblicana in un clima di grande tensione, The Donald rilancia
il suo messaggio law&order, arrivando a farsi portavoce “ufficioso” di quella petizione che in pochi giorni ha raggiunto 150mila firme - per mettere fuori legge BlackLivesMatter
definendola una “organizzazione di terrorismo interno”. Come ha fatto fin dall’inizio della
sua campagna elettorale, prima contro i suoi avversari all’interno del Grand Old Party e
adesso contro Hillary Clinton, Trump con pochi e semplici slogan, che arrivano diretti alla
cosiddetta "pancia" d'America, si erge a paladino di legge e ordine e risale nei sondaggi
che (sia pure presi con le dovute cautele) indicano come sia oggi praticamente alla pari
con l’ex First Lady e in alcuni Stati-chiave (la Pennsylvania) addirittura in vantaggio.
Quanto accaduto nelle ultime settimane rende più debole la posizione di Obama - che
deve destreggiarsi tra violenze contro i poliziotti e violenze della polizia contro gli
afroamericani - a pochi giorni dal suo ingresso in campo a fianco di Hillary. Dopo le
scelte ambigue sulla politica estera (Siria in primo luogo), il presidente vede volgere a
termine il suo secondo mandato in un clima di divisione che è l’opposto di quanto aveva
promesso in quella campagna elettorale del 2008 all’insegna della speranza e del “yes,
we can”.
Pag 9 Emergenze nell’Europa indebolita di Roberto Castaldi
Le vicende e le emergenze delle ultime settimane indicano la straordinaria debolezza
delle leadership politiche europee. La presunta egemonia tedesca si manifesta solo in un
attendismo estenuante e paralizzante. Poiché la responsabilità politica ultima rimane
negli Stati nazionali, la crisi degli stessi porta alla crisi della politica e all’assenza di
leadership e di responsabilità politica. Dopo il referendum sulla Brexit, la classe politica
britannica a capo del fronte per l’uscita si è data alla fuga. Alla fine la leadership tory è
andata a Theresa May - che era schierata con Cameron per rimanere nell’UE - perché
tutti i contendenti si sono ritirati. E lei ha rimesso i capofila dell’uscita nei posti chiave
della negoziazione della Brexit, pronta a scaricare su di loro il costo politico di un
eventuale accordo sfavorevole al Regno Unito. Il referendum ha mostrato che nessuno
dei governi nazionali aveva un Piano per l’emergenza. Coloro che istituzionalmente
dovrebbero esser chiamati ad avere un piano per lo scenario peggiore avevano preferito
metter la testa sotto la sabbia, e si sono affrettati a cercare di prendere tempo. Solo le
tanto vituperate e presunte burocratiche istituzioni europee hanno risposto subito: la
Commissione e il Parlamento europeo con una plenaria straordinaria hanno detto che la
democrazia è una cosa seria e il verdetto delle urne andava rispettato ed eseguito
rapidamente. E che gli altri avrebbero dovuto rilanciare il processo di integrazione per
mettere l’Ue nelle condizioni di affrontare i problemi che angustiano i cittadini per
poterne recuperare il consenso. Sperare - come fanno i governi - che si possano
cambiare le politiche in assenza di strumenti e poteri nuovi, e con il principio
dell’unanimità per cui basta un solo governo nazionale a bloccare tutto, è irrealistico. La
Francia è stata colpita da un ennesimo attentato terroristico durante la sua Festa
Nazionale. Sono seguiti gli ormai usuali discorsi di circostanza e le lacrime di coccodrillo
delle elites politiche europee sui morti di Nizza. Probabilmente con qualunque altro
presidente francese precedente, questa serie di attentati avrebbe portato ad un’iniziativa
politica per la creazione di un’intelligence europea e di una procura anti-terrorismo
europea, il corrispettivo del Department of Homeland Security (Dipartimento per la
sicurezza interna) creato dagli USA dopo l’11 settembre. Ma Hollande ha paura della
propria ombra e in tutta la sua presidenza non ha preso un’iniziativa politica
lungimirante, spianando la strada alla vittoria della destra, e allo scontro tra Valls e
Macron per la candidatura presidenziale socialista nel 2017. In Turchia c’è stato un
tentativo fallito di colpo di stato, che deve far riflettere sull’esplosività e contraddittorietà
della situazione turca, tra involuzione autoritaria di Erdogan, attaccamento allo stato di
diritto mostrato dai cittadini, indebolimento del tradizionale ruolo di custodi dello Stato
laico e filo-occidentale dell’esercito. La Turchia poteva essere il modello per l’Islam
moderato: ancorata all’Occidente attraverso la partecipazione alla Nato, con una sistema
democratico, con riforme avviate a garantire stato di diritto e minoranze per poter
eventualmente entrare nell’Unione Europea. Ora è nel pieno di una svolta autoritaria,
favorita da una politica europea che l’ha respinta, incapace di comprendere che
l’ingresso della Turchia nell’Ue era insieme la condizione del consolidamento della linea
riformista occidentale da un lato e la carta per disinnescare la lotta di civiltà dall’altro.
Naturalmente l’adesione della Turchia avrebbe richiesto prima un approfondimento
dell’integrazione politica, perché avrebbe spostato i confini dell’Ue a diretto contatto con
le aree di crisi. Comunque ci siamo arrivati, e in condizioni ben peggiori, poiché
l’incapacità europea di unirsi dal punto di vista politico, e quindi della politica estera e di
difesa, per colmare il vuoto di potere creato ai suoi confini dallo spostamento del focus
strategico americano verso il Pacifico, ha portato a crisi gravissime in Ucraina, Siria,
Libia, Egitto, oltre alla fragile situazione in Tunisia.
Torna al sommario