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Massimiliano Governi Come vivevano i felici http://narrativa.giunti.it © 2013 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia Prima edizione: settembre 2013 Ristampa Anno 6 5 4 3 2 1 0 2017 2016 2015 2014 2013 11 dicembre 2012 Io fisso il soffitto e il soffitto fissa me. Sotto il cane ticchetta avanti e indietro sul pavimento, mi annusa le scarpe da ginnastica, mugola piano. Lo so che c’è, lo sento, ma non posso vederlo. Mi sembra naturale stare qui, il viso rivolto all’intonaco bianco, alle piccole stelline adesive fluorescenti che io stesso ho attaccato usando il bastone appendiabiti allungabile, non molto tempo fa. Mi sembra naturale questa corda sotto al mento, questa lamiera di nylon che mi trancia in due la gola. Ma ora sento qualcuno entrare nella stanza in silenzio, alle mie spalle, e dire: «…che fai lassù? Guardi le stelle?». È la voce di mio figlio. E improvvisamente mi sembra insopportabile che il bambino mi veda così, in questa posizione. Cerco di staccare il guinzaglio appeso al tubo sul soffitto, ma non ho più un grammo di forza. Provo a parlare ma mi esce una voce strozzata roboante, mi divincolo, scalcio. Inspiro rumorosamente varie volte, l’ossigeno non arriva, mi accorgo che sto soffocando. Caccio il fiato per urlare, ma non esce niente. Solo una strozzatura rauca, rumorosissima. 5 Dieci giorni prima Sono seduto a gambe incrociate sul parquet di rovere, con il computer portatile che mi balla sulle ginocchia. Indosso calzoncini neri da ciclista, guanti di lana a mezzo dito e un maglione Aran a collo alto bianco panna. Sto controllando i messaggi lasciati da migliaia di utenti su un forum. Passo da uno all’altro, febbrilmente. Spero che i nostri soldi vi serviranno per poter fare un brillante e lussuosissimo FUNERALE. Sappiamo tutti come vive suo figlio più grande, nascosto come un verme, ed esce solo in bicicletta. Porta il caschetto e gli occhiali per non farsi riconoscere. Andate nella sua città, organizzatevi. Siete migliaia e migliaia di persone, gli fate il culo a limone a ’sto pezzente che ha bisogno di rubare i soldi a gente che va a lavoro la mattina ladro balordo. Coglione, ma perché non ti spari? Il 2013 senza di te sarebbe migliore, sai? 6 Se avevi truffato me a quest’ora stavi attaccato in croce. Finalmente ho trovato la foto del figlio maggiore. Ve la posto qui. Franck Ribery, il giocatore del Bayer Monaco, è più bello. AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH Ho scoperto dove abita il signorino con la sua famiglia. Adesso lo vado a beccare. Ciao Mentre continuo a far scorrere lo sguardo sulla pagina, e a ogni messaggio sento annodare i muscoli attorno al petto e alla gola, mia moglie varca la soglia e oltrepassa i mucchi di giornali e i rifiuti sparsi nella stanza. Tiene per mano uno dei nostri figli, quello più piccolo, che appena mi vede dice: «Pappà…». Con un colpo secco chiudo lo schermetto del portatile e allargo le braccia verso il bambino, che mi viene incontro dondolando. Lo stringo forte a me e gli bacio la cima della fronte. «Che stavi facendo?» Sollevo lo sguardo verso mia moglie, che mi fissa. «Guardavo un po’ di siti di aziende, società con cui potrei collaborare. Ho mandato qualche mail, speriamo…» Dopo una pausa mia moglie dice: «Sei entrato ancora in quel forum». Io vorrei tanto dirle: Sto morendo, ti prego aiutami, ma mi esce invece una spallucciata indifferente. «Cazzate.» 7 «Qualcuno sa dove abitiamo. Hanno il nostro indirizzo, vero?» «Sono dei poveretti, dei dementi. Non avranno mai le palle di venire qui.» Mia moglie scuote lentamente la testa. «Ma che cosa stai dicendo? Tu non ti rendi proprio conto. Tu sei...» Io mi metto un dito sulle labbra. Dico: «Sssh…» Lei si protende verso di me. Mi punta l’unghia rosa sotto al naso. «Sappi che cambierò il cognome ai nostri figli, gli metterò il mio. Ho già iniziato le pratiche.» Afferra il bambino per la mano e fa per allontanarsi furibonda, ma io scatto in piedi e la blocco. Le piego il braccio destro contro la schiena. Lei calcia il tallone all’indietro incontrando la mia rotula e io diminuisco la stretta. Si libera con uno strattone, si volta e ora ci troviamo faccia a faccia. Contorco il viso in una smorfia, zoppico. «Brutto stronzo bastardo!» mi urla lei spintonandomi al petto. Io la agguanto, cerco di ritorcerle il braccio, ma questa volta lei sguscia dalla presa e cominciamo ad accapigliarci, barcollando all’indietro, cadendo e sfondando il tavolino basso di vetro. Mentre il bambino inizia a piangere, io e mia moglie ci alziamo incespicando, guardandoci in cagnesco. Io faccio una risatina e dico: «Non è niente, non è niente, mamma e papà hanno fatto patapunfete!» Lei si avventa su nostro figlio, se lo prende in braccio e scappa via. «Stai lontano da me!» urla. Io, con la mano destra che mi pulsa e la coscia sinistra che mi brucia, li guardo sparire lungo il corridoio, senza nemmeno un pensiero in mente. 8 22 marzo 2012 Il vecchio furgone procede lento come un camion sovraccarico, ma io non sono tipo da accettare questa andatura e tento continuamente di superare macchine, anche di grossa cilindrata, provocando le ire degli automobilisti. Alla fine devo rinunciare al sorpasso, ma grido sempre qualche parolaccia ai conducenti che mi hanno suonato o solo lampeggiato, oppure faccio segno di accostare. Un paio di volte ho anche aperto lo sportello in corsa e ho fatto il gesto di scendere. Un automobilista era sul punto di raccogliere la sfida e ha affiancato il furgone ma dopo aver incrociato i miei occhi diabolicamente rossi ha spinto il pedale dell’acceleratore fino al tappettino, distanziandomi. Con la testa fuori dal finestrino, ho urlato le mie maledizioni, poi mi sono consolato sniffando un po’ di coca e ho continuato a guidare scuotendo il volante fino quasi a spezzarlo. Ora sono le nove e mezzo di mattina e accosto il furgone in prossimità di un cancello. Salgo sul bordo del marciapiede e parcheggio a spina di pesce. Spengo il motore. Lancio un’occhiata al deposito pieno di macchine di lusso e mi sembra di riconoscerne un paio. Sto per aprire lo sportello poi ci ripenso. Sniffo un altro po’ di polverina, accostando 9 la narice a un foglietto piegato in due, poi esco dal furgone. Apro il cancello accostato, e entro. Faccio qualche passo sbandato sullo spiazzo e ho come l’impressione di guardarmi in un sogno: la prospettiva del racconto si sposta dalla prima alla terza persona. Mi fermo davanti a una Maserati GranTurismo bianca, accarezzo il tettuccio. Mi abbasso a sbirciare dentro i sedili in pelle rossa. Poi sento una voce dire: «Serve aiuto?». Io sollevo la testa e mi scosto dalla macchina. Guardo l’uomo con gli occhiali da sole neri. «No, stavo solo dando un’occhiata.» L’ uomo si toglie gli occhiali. «Prego, faccia pure. L’ asta comincia lunedì prossimo. Si terrà nell’Ufficio Gare e Contratti del Comune. Se le interessa…» Io annuisco, serrando e allentando le mascelle. «Grazie, magari faccio un salto.» L’ uomo spreme un sorriso professionale, poi mi segue discretamente mentre mi muovo tra le macchine. «Sa, queste auto d’epoca sono tutte dell’uomo della grande truffa. Ha capito chi? Quello della Rambo…» Io mi giro di scatto e lo interrompo stizzito. «Sì, ho capito.» Poi bofonchio brutta testa di cazzo a voce bassa ma perfettamente udibile. L’ uomo mi fissa sorpreso, incerto se quella parolaccia fosse diretta a lui o all’uomo della truffa. Sta per replicare qualcosa, ma poi rinuncia e dice soltanto: «Be’, la lascio fare il suo giro». Quindi si volta e torna verso l’ufficio, torcendo il collo un paio di volte per guardarmi. Io lo osservo andare via con la coda dell’occhio, e intanto riprendo a vagare tra le macchine. Sfioro le capottine, palpo il metallo delle portiere. La Bentley Continental GTC, la Rolls–Royce Phantom, la Chevrolet Corvette, la Lamborghini LP–670 SV. Mi fermo davanti a una macchina decapottata, una vecchia Ferrari 400 che pare colorata con i pastelli a cera, di un blu indaco, 10 che io da bambino chiamavo blu puffo. Mi sento mancare le ginocchia. Mi stringo il dorso del naso e mi sembra di stare per svenire. Socchiudo gli occhi e il ricordo mi risucchia violentemente. In un attimo mi trovo con mio padre nel salone di esposizione di un concessionario d’auto. Una delle pareti è costituita da uno specchio che va dal pavimento al soffitto; lo specchio più grande che abbia mai visto. Io sono attratto dalla mia immagine riflessa. Ho dieci anni, i capelli pettinati con un po’ di acqua e la riga, porto i pantaloni rimboccati alle caviglie e una camicetta a quadri a maniche corte, dalla cui tasca spunta una mazzetta di banconote. «Scegli la macchina che vuoi, una qualunque» mi ha detto mio padre prima di entrare, ficcandomi con forza le banconote dentro. «Di soldi per pagarla ne hai a bizzeffe, ce ne sono da fare indigestione.» Io sento i biglietti da centomila lire ammassati contro il petto. Annuso l’odore di carta. Guardo le macchine nello specchio. Cammino lungo la parete, puntando il dito o appoggiando palmo e dita sull’immagine riflessa di un’automobile. Poi mi fermo, e chiedo a mio padre di aiutarmi a salire su un’auto. Mio padre mi dice di domandare a uno dei venditori. Io non faccio in tempo ad aprire bocca che subito accorrono entrambi. Uno spalanca subito la portiera della macchina, poi l’altro mi solleva e mi sistema sul sedile del guidatore. Io afferro il volante e guardo il salone di esposizione, da una parte e dall’altra, come fosse la strada, poi scendo. Vado da mio padre, gli prendo la mano e rimango così senza dire niente, in attesa. «Hai deciso?» mi chiede mio padre. «È quella che vuoi?» Io annuisco. Ho scelto quella color puffo. 11