06 borgogno - Richard e Piggle

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06 borgogno - Richard e Piggle
Teoria e tecnica
Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione
del sé: una “forma di ricordo” poco illuminata
dalla letteratura psicoanalitica
FRANCO BORGOGNO, MASSIMO VIGNA TAGLIANTI
Prologo
Quello che qui vi proporremo è un work in progress su una delle forme
in cui si può manifestare la ripetizione all’interno del processo analitico.
Mentre Freud ha essenzialmente posto come oggetto precipuo della ripetizione (e nucleo della sofferenza psichica) gli antichi cliché libidico-relazionali sottostanti la nevrosi del paziente, noi vorremmo portare all’attenzione
– per anticipare in modo succinto il succo del nostro discorso – il fatto che
assai spesso nei bambini e negli adulti ciò che viene ri-attualizzato nelle
sedute, continuativamente riproponendosi nella dinamica transfert-controtransfert, sono veri e propri spezzoni di vita emozionale in parte non pensata e non metabolizzata. Questi ultimi si rianimerebbero e ridiverrebbero
operanti nel presente attraverso una sorta di inversione dei ruoli dove sull’analista sono perlopiù traslati aspetti dissociati del sé infantile anziché le
tradizionali imago genitoriali.
Al fine di raggiungere il nostro obiettivo porteremo materiali al
momento non ancora del tutto coordinati attinenti a quest’area su cui stiamo
lavorando: fili da ricomporre successivamente in una tessitura più definita
e chiara o, se vogliamo usare “à la Ferro” la metafora della cucina analitica,
ingredienti già preparati e precucinati che per farsi “piatto finale” richiederanno ulteriore tempo di dosaggio e mescolamento. Quello che vi chiediamo
ascoltandoci è di pensare voi stessi una possibile trama conclusiva aggiun-
Questo lavoro preparato in occasione dell’IPA Congress Berlin Germany 25.7.07-28.7.07
su “Remembering Repeating & Working Through”, costituisce la base del lavoro che verrà presentato in tale congresso all’interno di uno Small Discussion Group dal titolo “Remembering
and repeating in the context of the curative factors in psychoanalysis”.
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
2 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
gendo i vostri fili e colori preferenziali o di assaggiare i nostri ingredienti
immaginando di condirli con le vostre spezie e di cuocerli a modo vostro
senza l’impazienza di pretendere un prodotto finito. Tessitori e cuochi sono
tuttora al lavoro ma vi invitano a entrare nei loro laboratori.
Transfert primitivo, transfert simbolico e ripetizione
Uno dei fili centrali alla base di queste nostre considerazioni è che il
transfert si manifesta nell’analisi in diverse forme, e non sempre a livello
simbolico. Nei pazienti, per esempio, la cui sofferenza psichica si origina nell’area dei traumi preverbali – del difetto fondamentale per dirla con Balint
(1968) – il transfert si presenta prevalentemente nel dialogo analitico a un
livello più primitivo di espressione (Winnicott, 1967), a un livello che coinvolge in maniera inconscia, almeno inizialmente, anche l’analista oltre che
il paziente. Siamo, cioè, in queste situazioni nel campo della non avvenuta
o non completata simbolizzazione, che solo lentamente nel tempo verrà reintrodotta nell’analisi dall’analista e dalle funzioni da lui svolte sì che il
paziente la possa ritrovare, in futuro, dentro di sé. La simbolizzazione da
costruirsi a cui qui ci riferiamo implica ovviamente ben di più che una semplice attività di verbalizzazione da parte dell’analista: si tratta concretamente di creare le condizioni affettive interpsichiche affinché possa essere
trasmesso e appreso l’alfabeto emotivo, di dare – in altri termini – strumenti
elementari per padroneggiare lettura e scrittura degli eventi relazionali e
non – per essere forse un po’ eccessivi – di restituire rapidamente “Proust”
a uno “scolaretto delle elementari”.1 Di creare, in sostanza, le condizioni del
processo di simbolizzazione piuttosto che di ripararlo o re-instradarlo, cosicché soprattutto in questi casi l’analisi è elettivamente, e più che mai, fare
una “nuova esperienza”, una nuova esperienza non sufficientemente (o a
volte per nulla) data prima.
Se non v’è dubbio che le manifestazioni del transfert – riedizione degli
impulsi e delle fantasie che devono essere risvegliati e resi coscienti durante
il procedere dell’analisi e in cui a una persona della storia infantile viene
sostituita la persona dell’analista – siano talvolta fin dalle prime battute
immediatamente decodificabili e interpretabili anche in virtù dei diversi
1
È Balint (1968) l’Autore che, lavorando su quest’area clinica, ha posto alla comunità psicoanalitica della sua epoca il problema “quale linguaggio per quale paziente”: un problema che
in quegli anni – lo testimoniano le sue lettere – non lasciava indifferente neppure Winnicott
(Rodman [ed.], 1987), ma che, se si va a ritroso nel tempo, si trova già apertamente denunciato
da Ferenczi con la sua riflessione sulla “confusione di lingue” (1932a), confusione che non
riguardava esclusivamente le interazioni comunicative tra genitori e figli ma anche quelle tra
analisti e pazienti.
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F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé 3
livelli di rappresentazione simbolica, più o meno evoluti, che esse possono
assumere in seduta, quanto succede specialmente con i nevrotici e con le personalità vicine alla cosiddetta normalità non lo si ritrova con molti dei
pazienti che attualmente richiedono il nostro aiuto. La clinica odierna pone
a questo riguardo in chiaro rilievo che, se da un lato nella maggior parte
delle analisi ci vuole comunque un cospicuo tempo perché il transfert giunga
a emergere in una veste decodificabile e perché esso non sia precocemente
indotto e indirizzato verso particolari forme dagli interventi dell’analista
stesso, si possono dare contingenze in cui non si sono ancora affatto istituite
le condizioni psicologiche di minima perché si sviluppino un transfert e un
controtransfert l’uno distinto dall’altro. Mancherebbe così, quando si tratta
di ciò, un pezzo di esperienza connessa alla soggettivazione e il trauma consisterebbe in queste circostanze proprio nel fatto che non è accaduto qualcosa che sarebbe dovuto accadere (Ferenczi, 1932b; Winnicott, 1963; Bokanowski, 2004; Borgogno, 2005a, 2006).
Come punto di partenza noi vorremmo, perciò, in primo luogo sollecitarvi a considerare che queste forme più arcaiche della vicenda transfertcontrotransfert sovente prescindono dai contenuti verbali prendendo vita
sullo scenario analitico o sulla sua cornice attraverso vere e proprie messe
in atto reciproche. Queste messe in atto coinvolgono difatti in maniera inconsapevole anche l’analista nel suo trovarsi a sperimentare vissuti emotivi
che, solo se adeguatamente elaborati nell’onda lunga dell’incontro analitico,
acquisteranno col loro reiterato riproporsi un significato comunicativo pregnante divenendo veicolo di ciò che sarà autenticamente trasformativo in
un’analisi. Intendiamo qui per ripetizione l’accezione d’essa introdotta da
Ferenczi quando la descrive come un tentativo di dare una soluzione a un
compito lasciato in sospeso nell’aspettativa di rinvenire “un incoraggiamento a provare e pensare fino in fondo eventi psichici traumaticamente
interrotti” (26-III-1931, in 1920-32), in modo tale che – nell’ottica da noi
scelta – l’analisi non può essere se non quell’attività mentale capace di riportare in auge e di far ripartire quanto è rimasto non metabolizzato a livello
di percezione e significazione affettiva.2
Tali messe in atto, peraltro, avvengono frequentemente a nostro avviso
(sarà questo il filo portante della nostra riflessione) attraverso la “dissociazione nell’analista”, della parte infantile e sofferente del paziente: attraverso
ossia l’inversione dei ruoli. Un ambito investigativo – il rovesciamento dei
ruoli – scarsamente illuminato nella storia della psicoanalisi, per molti
motivi che man mano nel corso delle nostre osservazioni andremo a illustrare.
Basti, intanto, in via generale mettere qui a fuoco tutto lo sforzo psichico
2
Un punto di vista che sarà ripreso da Lagache (1925), pur senza citare Ferenczi, quando
paragonerà il transfert all’“effetto Zeigarnik”.
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4 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
che noi psicoanalisti abbiamo dovuto compiere per passare da una psicoanalisi più cognitiva a una psicoanalisi davvero fondata sul vicendevole
apprendere dall’esperienza e per riuscire, in questo lungo e travagliato transito, a giungere dopo molto lavoro non soltanto a riconoscersi genericamente
nei ruoli di padri e madri quali oggetti del transfert (una posizione per lo più
abbracciata di buon grado, fatta salva la difficoltà a identificarsi con immagini di padri e madri assolutamente dissonanti col repertorio di affetti e di
modi d’essere e di sentire accessibile a ciascuno di noi), ma a essere realmente disponibili all’interno di questa direzione esplorativa a differenziare
che tipo di padre e madre abbiamo il più delle volte (nostro malgrado) contribuito ad attuare nelle varie interazioni analitiche. Quando per giunta si
è trattato – in tempi assai più recenti a un livello consapevole – di impersonificare e letteralmente “incarnare” sullo scenario analitico non esclusivamente i genitori ma gli aspetti infantili del paziente, il prezzo del riconoscersi in queste nuove parti si è fatto ancora più elevato a livello del working
through del proprio controtransfert e della propria indispensabile risposta
affettiva a quello che il paziente ci chiede di accogliere e di ospitare dentro
di noi. In questo aumento del costo richiesto progressivamente agli analisti
sono in effetti subentrate, come in seguito più ampiamente porremo in luce,
due nuove voci: non solo la difficoltà di essere in vivo il bambino sofferente
ma quella di accettare tempi così protratti per arrivare a enucleare il transfert, sbrogliarlo dalle proprie quote personali ineluttabilmente implicate e
poterlo infine (il più spesso retrospettivamente) interpretare in una maniera
tale da essere efficace per l’evoluzione di un trattamento.
La scena del transfert: una scena a più attori
Mantenendo fisso il riferimento alle coordinate sin qui tracciate, fotograferemo ora in modo ingrandito un filo strutturale della nostra trattazione. Sappiamo che i pazienti, nella loro vita, sono costantemente alla
ricerca di una “piazza” dove mettere in scena e rappresentare il loro dramma
o la loro tragedia personale: questa ripetizione dal nostro punto di vista non
è tanto, come già abbiamo adombrato, il frutto della circolarità mortifera
legata alla non pensabilità della sofferenza psichica ma – piuttosto – un
replicato tentativo da parte loro di divenire via via più attrezzati per dominare la catastrofe, nella speranza che finalmente qualcuno capisca e gestisca ciò che essi non sono stati in grado di capire e di gestire e che, “incarnando” una posizione psichica diversa e dunque un “nuovo finale”, possa
scrivere nella loro storia ripetitiva la parola “fine”. Ciò permetterebbe allora
di uscire dall’atemporalità chiusa e mortifera della patologia per entrare nel
fluire del tempo e della vita.
A questo proposito, seguendo il Freud di Ricordare, ripetere, rielaborare
(1914), compatti noi psicoanalisti abbiamo sostenuto che il setting fosse il
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teatro principe perché ciò accadesse, lo scenario ideale sul quale – grazie alla
nostra astinenza e neutralità – la storia del paziente riprendesse forma per
essere “interpretata” dalla voce di un benevolo narratore fuori campo. Un
narratore – lo precisiamo – che noi desideriamo capace di promuovere la correzione delle molteplici distorsioni e fraintendimenti legati all’odio, all’amore e alle aspettative infantili, e di avvicinarsi proprio per questa via a
un’offerta di strumenti emancipativi fondati sulla verità.
Sicuramente già lo stesso Freud (1912) ci aveva però messo in guardia
circa l’evenienza che il transfert non fosse soltanto una mera riedizione simbolica di cliché relazionali costituitisi nell’infanzia e nell’adolescenza da
affrontarsi “in absentia o in effigie”. Nel “Poscritto” al caso di Dora egli, per
citare un turning point degli inizi del nostro percorso, ha evidenziato le componenti agite e preverbali del transfert, parlando di messa in atto in parte
non consapevole anche per l’analista. È questa la prima volta che Freud ha
introdotto il termine agieren, quasi a sottolinearne le caratteristiche drammatiche (Freud, 1905); e non è casuale che abbia menzionato questo importante aspetto nel “Poscritto”, e non durante l’esposizione del caso clinico di
Dora, solo dopo – cioè – che in après-coup fu possibile per lui effettuarne una
rielaborazione emotiva e concettuale (che – per inciso – allo sguardo odierno
è parziale e limitata).
Con il progredire e l’accumularsi della nostra esperienza, abbiamo in
aggiunta dovuto in modo crescente anche fare i conti con il fatto che era
tutt’altro che indifferente il teatro dove la rappresentazione analitica
andava in scena, quali fossero le caratteristiche e la struttura del palcoscenico, l’acustica della sala, la stoffa del sipario e così via. Tutti questi particolari, lungi dall’essere trascurabili o “da eliminare” perché disturbanti, sono
di conseguenza vieppiù divenuti fattori di cui si è riconosciuto l’influenza su
come, per esempio, la “pièce” prendeva forma, su come veniva interpretata
dai suoi attori e su come veniva ascoltata e vissuta dai suoi spettatori.
Da narratori fuori campo a tecnici delle luci, da uomini di scena a suggeritori, da maschere ad attori, il passo non è stato in ogni caso né breve né
semplice per noi analisti: Ferenczi, Heimann, Racker, Winnicott, Little, Searles, Khan, King, Coltart, Bollas, Sandler…, nell’aprire la via dell’esplorazione
del controtransfert e della risposta emozionale dell’analista, sono stati – per
questa estensione della loro visione dell’interdipendenza tra transfert e controtransfert – anche oggetto da parte della comunità psicoanalitica dei commenti preoccupati che si riservano a registi d’avanguardia un po’ bizzarri.
Oggi, in breve, a differenza dagli inizi, proprio come in quegli spettacoli
teatrali “interattivi” d’avanguardia degli anni ‘60-’70, siamo del tutto
coscienti del fatto che il paziente ci “chiama” a più riprese sul palco, dove ci
ritroviamo a “interpretare” e “personificare”, per lunghi tratti non consapevolmente, personaggi e ruoli specifici della sua storia, del suo sé e del suo
mondo interno. Ma questa “interpretazione”, prima di essere quella classica,
non potrà che basarsi sulla messa in campo e sull’uso della nostra soggettiRichard e Piggle, 15, 1, 2007
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vità poiché è precisamente da queste fonti che l’interpretazione classica trae
forza espressiva ed efficacia dopo un sodo lavoro “dietro le quinte”. Non ci
stupiamo del resto della capacità di un bravo attore di dare vita a un personaggio attraverso la sua personalità e la sua spontaneità, così come diamo
per scontate e valorizziamo le differenze apprezzabili nell’interpretazione
dello stesso personaggio da parte di attori diversi.
Il mutare stesso delle definizioni che sono state date nel tempo a questa partecipazione soggettiva e attiva dell’analista parla, d’altro canto, del
progressivo riconoscimento dell’importanza di questo coinvolgimento come
strumento per la comprensione dei fenomeni riguardanti il percorso analitico: controtransfert inteso dapprima come interferenza e ostacolo, quindi
come strumento elettivo d’analisi, infine come reverie, attunement e, per
ultimo, come risposta affettiva globale o addirittura atto di libertà, irrinunciabile per convocare e raggiungere, in non poche situazioni, il paziente come
partner vivo e sveglio della relazione analitica.
Se ai nostri giorni quindi non possiamo più fare a meno di constatare la
nostra soggettività come uno degli elementi in gioco nella costruzione del
transfert e della scena analitica, è tramontato al contempo in noi inevitabilmente il mito della neutralità dell’analista su cui abbiamo edificato la
nostra pratica, in quanto lo specchio che siamo venuti a usare non è più
meramente finalizzato a rimandare al paziente, nella maniera più fedele
possibile, i suoi soli contenuti emotivi ma è al contrario impegnato nel farsi
consapevole e responsabile di quel di più che obbligatoriamente deve rifrangere perché si renda possibile un effettivo riconoscimento, un riconoscimento che ha a che fare con la convalida psichica e affettiva che viene dall’altro (da un altro soggetto) e non tanto con la sua sola illuminazione.
Più utile e corretto, oltre che onesto, è diventato allora per noi il fatto
che l’analista si assuma a pieno titolo la centralità e la complessità della sua
compartecipazione attiva al processo analitico, compartecipazione la cui elaborazione consapevole è uno dei cardini del nostro impegno.
“Giocare” i ruoli che il paziente ci attribuisce, “interpretare” magari a
lungo e per nulla intenzionalmente i suoi oggetti deficitari o caratteristiche
del suo sé infantile, disidentificarci successivamente da essi introducendo
nuovi modi di sognare, ascoltare, disegnare e comprendere le realtà dell’incontro, sono così divenuti in sintesi attività indispensabili del procedere dell’analista, il quale deve prendere contatto sia con l’inevitabile apporto soggettivo con cui contribuisce alla narrazione e alla ri-costruzione della storia
del paziente sia con la lunghezza dei tempi della comprensione e di ogni evoluzione terapeutica.3
3
Si imporrebbe qui una nota sul concetto di origine americana di enactment. Vedi al
riguardo: Jacobs (1991), Ogden (1994), Renik (1998) e Smith (1993).
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Dunque, quando la storia va in scena sulla scorta della ripetizione
transferale e l’analista come “attore” vi partecipa, l’analista stesso – con
la sua specifica soggettività nell’“interpretarla” – immancabilmente la
influenza e la modifica: con ciò che è e con ciò che fa, con ciò che non è e
con ciò che non fa, e in ultima analisi con ciò che fa ed è al fine di riuscire
a trasformare una situazione esistente (un filo implicito e per noi basilare
nella nostra visione dell’analisi che qui non approfondiremo). È da tutto
ciò, d’altronde, che nel bene e nel male una nuova storia potrà prendere
vita sullo scenario analitico, in un intricato intrecciarsi di trame relazionali passate e presenti, di orditi intrapsichici e interpersonali, di vecchie
storie e nuovi significati ricostruiti e co-costruiti; ed è proprio a partire da
questo modo di intendere le cose che si può affermare a ragione che l’interpretare è il motore dell’analisi. Non nel senso di limitarsi a dare interpretazioni ma del mettere piuttosto a disposizione la propria persona (i
propri sentimenti, i propri pensieri, i propri desideri...compresi gli “asini
selvaggi” di bioniana memoria [Bion, 1975]) per poterle dare, nell’attesa
fiduciosa che il paziente diventi lui stesso “persona” nel senso più pieno del
termine.
Perché, in definitiva, il “Werde, was Du bist” sia possibile, perlomeno
nelle situazioni cliniche che abbiamo in mente nella scrittura di queste
note, la costruzione a cui è chiamato l’analista è la costruzione di una
realtà affettiva “effettiva” preliminare e necessaria alla costruzione di
un ricordo (Wirklichkeitsgefuhl); quest’ultima (la costruzione di un
ricordo) – lo rammentiamo – è stata introdotta, nella versione maggiormente accreditata dagli psicoanalisti, da Freud alla fine della sua vita
quando, continuando a dialogare con Ferenczi, soprattutto su quegli
effetti dei traumi narcisistici che eccedono le manifestazioni comunemente reattive ai disturbi nevrotici, parla di “costruzioni in analisi” allo
scopo di recuperare un passato storico non simbolizzato e inaccessibile
in forma veridica attraverso gli usuali ricordi su cui si impernia l’analisi
(Freud, 1937).
Freud-“padre nobile” recupera con questo nuovo concetto teorico-clinico del suo armamentario – potremmo dire – la parte di lavoro cosiddetta
“sporca” che complementarmente anche per lui ha svolto nella sua epoca
Ferenczi, ma recuperandola ne evidenzia prettamente il risvolto più intellettuale di operazione cognitiva, posteriore al precedente immergersi dell’analista dentro la scena per poi eventualmente, quando l’analisi funziona, emergere differenziato e capace di pensiero. Oggi naturalmente, a
distanza di quasi cent’anni, non abbiamo più alcun dubbio che si debbano
svolgere entrambe le parti e che parimenti si debbano descriverle ambedue, senza il timore – nel farlo – di mostrarsi, come è avvenuto nel nostro
passato e per molto tempo, mischiati e “meticci” (Borgogno, 1999; VignaTaglianti, 1999).
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La dissociazione del sé infantile: un po’ di storia
sfogliando l’album di famiglia
Entrando adesso seppure succintamente nel merito della dissociazione
del sé infantile del paziente colpisce innanzitutto, come già abbiamo rilevato, la scarsità nella letteratura psicoanalitica di contributi della nostra
comunità riguardo a questo aspetto che per noi è fondamentale.
L’unico autore che ci risulta averlo visto e averlo esplicitamente utilizzato nella sua pratica è stato Sándor Ferenczi, benché egli non sia giunto a
formulare tramite le osservazioni da lui compiute su bambini e adulti una
vera e propria teoria intorno a questo fondante intreccio relazionale. Egli
aveva tuttavia ben in mente fin dagli esordi del suo cammino analitico (si
pensi al suo lavoro sui sintomi transitori nell’analisi [Ferenczi, 1912])
quanto fossero importanti l’umore diffuso delle associazioni, l’atmosfera
della seduta, gli elementi formali e il comportamento come segnali per comprendere il paziente e quanto spesso l’analista sia con gli adulti che con i
bambini si trovasse a sperimentare sulla propria pelle come essi si fossero
sentiti trattati dai “grandi” sia nel loro passato sia nella realtà del presente.
L’intuizione di Ferenczi concerne cioè il fatto che i sintomi transitori nella
seduta sono evocativi di transazioni emotive e relazionali in atto e che i bambini, in particolare, ma anche gli adulti diventano facilmente ciò che l’altro
in rapporto con loro fa loro provare facendo in risposta per di più provare a
quest’altro cosa provano o hanno provato loro stessi con lui (sottoponendolo
in altre parole al medesimo trattamento al quale sono stati sottoposti).
Valga per tutti il semplice esempio che egli fa del paziente che si sente
trattato alla stregua di uno stupido e che in risposta a tale trattamento
diventa idiota e fa sentire stupido l’analista nella seduta: coincidenza che
viene letta acutamente da Ferenczi (1912) nei termini di una comunicazione
che “mette in caricatura” il “tic interpretativo” dell’analista (Borgogno,
2005b), come d’altra parte – Ferenczi lo sottolinea in nota allorché parla di
questo paziente – è tutt’altro che raro si comportino i bambini quando vengono presi in giro dagli adulti (“fanno – ossia – loro il verso”).4
L’immaginare una segreta e criptica circolazione e trasmissione di sentimenti dissociati nel dialogo fra gli inconsci, l’incominciare a ospitarli dentro di sé e il riconoscere in ciò la possibile apertura di una breccia per accedere al nocciolo dei problemi dei pazienti erano pertanto una risorsa
idiosincratica del suo stile clinico, presente sin dagli albori del suo essere
4
Un bell’esempio di ciò è quello del “leone” e dell’“agnello” narrato da Ferenczi: “Una volta
ho detto a un bambino di cinque anni che non bisognava aver paura dei leoni; bastava fissarli
negli occhi e quelli scappavano. ‘Anche l’agnello può mangiare qualche volta il leone, non è
vero?’ mi chiese poi. ‘Allora non hai creduto al mio racconto sui leoni’ ribattei. ‘No, no davvero;
ma la prego non se n’abbia a male’, rispose diplomaticamente il piccolo (Ferenczi, 1912, p. 185).
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psicoanalista; ma solo molti anni dopo l’accoglimento e il riconoscimento
della dissociazione degli aspetti infantili raggiunsero in lui una sufficiente
e specifica evidenza tanto da portarlo a concettualizzare una sottile dinamica interpsichica che si viene sovente a riproporre nella situazione terapeutica, offrendosi – nel caso possa essere colta e individuata – come una
chiave magistrale di ricognizione di vicende passate traumatiche e traumatizzanti. Si vedano al riguardo i numerosi passaggi degli ultimi scritti di
Ferenczi (1932ab) dove parla del caso RN e delle molteplici peripezie ch’egli
dovette compiere per raggiungere e capire questa paziente (fra cui va messo
in risalto – come egli stesso consapevolmente giunge a dichiarare – il suo
precedente aver scelto a lungo di mettersi preferenzialmente nel ruolo del
genitore per la paura di trovarsi nei panni assai più scomodi del bambino).
Fu esattamente con questa paziente – Elizabeth Severn – che egli arrivò a
intuire, alla resa dei conti, come essa fosse inconsciamente identificata con
la madre e con il padre deprivanti e abusanti5 e come egli fosse divenuto nel
rapporto con lei la bambina che la paziente aveva dissociato da sé non
avendo lui medesimo potuto contenere e pensare l’esperienza dolorosa relativa all’essere in rapporto con genitori che minacciano il bambino di morte o
di farli morire (un’esperienza, fra l’altro, che oltre a essergli proposta dalla
paziente era già stata vissuta in prima persona anche da lui nella sua infanzia); e fu proprio attraverso la travagliata elaborazione di siffatte vicende
che Ferenczi scoprì quella particolare forma di doppio legame che chiamò
terrorismo della sofferenza (Ferenczi, 1929, 1932ab).
Nonostante Ferenczi si sia accorto in quei frangenti di aver dovuto “corposamente” entrare in quel ruolo a causa del suo non avere potuto elaborare
in tempo utile aspetti simili della sua passata esperienza infantile (fu per
questo che ricorse alla famosa “analisi reciproca”), è per l’appunto per questa via che non evitò (contrariamente ai colleghi del tempo che la evitarono
e/o misero lo “sporco”, per così dire, sotto al tappeto) che riuscì ad accedere
al cuore del problema della sua paziente: un “cuore dissociato” o meglio, in
accordo con il nostro discorso, un “cuore infantile dissociato”.
Quello che Ferenczi comunque già allora aveva ben presente come risultato delle sue sperimentazioni cliniche, anticipando in ciò uno dei concetti di
Bion (1992) tra i più apprezzati dagli analisti moderni, è che il paziente
5
Il processo di identificazione con l’aggressore a cui noi ci riferiamo non è quello individuato da Anna Freud nel 1936 come ordinaria difesa nevrotica, ma quello descritto anni prima
da Ferenczi (1932ab) nei termini di una complessa dinamica interpsichica che sorge in condizioni ambientali particolarmente disturbate e deprivanti. Ferenczi tuttavia considerò la possibilità che questa dinamica potesse prendere piede anche nella normalità, come ad esempio
nella situazione analitica: un punto recentemente ripreso da Frankel che si sofferma sulle possibili collusioni identificatorie dell’analista sia nei confronti dell’“aggressore” che nei confronti
della “vittima” (Frankel, 2002).
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10 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
vuole vedere, quasi toccare con mano, come l’analista gestisce quella sofferenza che lo ha fatto ammalare essendogli risultata ingestibile. La descrizione del caso “Giulio Cesare” riportata nel Diario clinico (1932b) è una
vivida prova di com’egli sapesse transitare nell’esperienza del paziente per
poter “tradurre” emotivamente in parole le comunicazioni: come sapesse
“convivere” e costruire quel senso, quel significato condiviso trasformativo
di cui Bion cinquant’anni dopo ci parlerà e che le formulazioni concettuali
nei termini di campo analitico oggi ritengono uno degli snodi primari dell’evoluzione terapeutica (Bion, 1970; Ferro, 1996). L’aspetto titanico richiesto
all’analista dal paziente in questione era che lui diventasse Giulio Cesare e
che si facesse epilettico per conoscere da vicino la situazione psichica catastrofica ch’egli stava vivendo. Caesar, che suona in inglese “Seize her”, verrà
da Ferenczi inteso proprio in questo senso: “Prenditela (la mia sofferenza
catastrofica) su di te se vuoi veramente capirmi!”.6 Giusto ciò di cui qui noi
stiamo discutendo insieme a voi.
Ma in fondo che cos’è – ci si può chiedere sulla scia di Ferenczi – che un
analista non vuole prendere su di sé, se non la vulnerabilità stessa di cui
soffrono i pazienti, che immancabilmente risuonerà con la propria (con i
propri vissuti e conflitti infantili, la propria pregressa sofferenza psichica,
le proprie cicatrici emotive, le proprie macchie cieche) allorché egli cercherà, per entrare in comunicazione profonda con loro, di fornire un “cuore”
là dove non v’è stato o dove si è fermato e dove, in risposta a tale infelice
contingenza di vita, regnano il vuoto, il freddo, il silenzio oppure l’odio, il
sadismo, la compiacenza e la sottomissione masochistica che non raramente sono anche il frutto di un’identificazione collusiva con tratti impropri dell’adulto (Borgogno, 2004)? Non è questa, del resto, l’unica sofferta via
per varcare la soglia dei molti mondi di dolore, terrore e desolazione psichici in cui i nostri pazienti sono vissuti e vivono, come una ballata degli
anni ottanta canta in modo toccante: “You see me now, a veteran of a thousand psychic wars, I’ve been living on the edge so long where the winds of
limbo roar. And I’m young enough to look at, and far too old to see; all the
scars are on the inside and I’m not sure if there is anything left of me...” (Blue
Oyster Cult, 1981)?
Diviene a questo punto, con quest’ultima nostra osservazione, forse più
esplicita la ragione per cui ci siamo soffermati essenzialmente su Ferenczi:
è lui infatti che ha iniziato a percorrere la “No Man’s Land” della frontiera
e che ha varcato il filo “spinato” e “spinoso” di cui stiamo parlando (VignaTaglianti, 2002) assumendo su di sé ruoli e aspetti emotivi che la psicoanalisi dell’epoca rifiutava, inaugurando con ciò pionieristicamente una “Lewis-
6
Un analogo processo di raggiungimento della comprensione lo metterà in luce Bion
(1970) nel famoso esempio dell’“Ice cream” / “I scream”.
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F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé 11
Clark Trail psicoanalitica” e tracciando sentieri che a tutt’oggi noi analisti
di primo acchito non battiamo volentieri.7
Fenomenologia del rovesciamento dei ruoli: alcuni cenni
Tirando le fila del nostro discorso, stanti gli aspetti principali in cui il
rovesciamento dei ruoli si declina (l’identificazione inconscia da parte del
paziente a personaggi dell’ambiente in cui vive ed è vissuto e alla loro cultura psichica; la risultante dissociazione del sé infantile nell’analista),
vogliamo ora accennare ad alcune caratteristiche generali di questo processo
difensivo interconnesse fra loro quali la durata, la maggiore o minore fissità
e pervasività dei ruoli e delle identificazioni che lo connotano e il diverso
grado di simbolizzazione con cui viene messo in atto. Caratteristiche che
variano in funzione di molti fattori fra cui: la storia peculiare del soggetto;
la configurazione specifica del suo mondo interno; il livello di sofferenza
mentale in lui presente (inclusa la gravità della deprivazione subita e l’estensione della menomazione affettiva che ne è derivata); la differente
intensità di risonanza che provoca nell’analista e la pervietà o meno di quest’ultimo ad accoglierlo e a lasciarlo soggiornare dentro di sé nell’intento di
raggiungere e comprendere il paziente.
Per quel che concerne la durata, la fissità e la pervasività con cui questa costellazione, per noi tipica, di “enactment” ha luogo nel dialogo e nell’interazione analitici, l’esperienza ci insegna che – tanto nel trattamento dei
bambini che in quello degli adulti – la dimensione temporale del rovesciamento dei ruoli assume solitamente, per restare nella metafora teatrale,
due forme fra loro opposte: o stile “unica data” o “duecentesima replica a
Broadway”. Se in linea di massima si può affermare che più la durata e la
fissità dei copioni sono consistenti e rigidi più il disturbo psichico alla radice
è considerevole (si pensi agli psicotici che non accettano i tempi di fine spettacolo né i buoni modi prescritti per recitarlo, il più delle volte invocando bis,
tris o addirittura innumerevoli ed estenuanti repliche), non dobbiamo trascurare il fatto che anche l’acting grossolano episodico e circoscritto può
essere il segno di un’area di grave e misconosciuta sofferenza da prendere
nella più seria considerazione. Ciò per esempio accade sovente con gli ado-
7
Potremmo osservare qui che, se per molti versi Ferenczi, com’è noto, era portato a indugiare nel suo lavoro nell’immedesimarsi nei bambini e nelle loro vicende, Freud all’opposto in
molti momenti del suo ascolto si identificava preferenzialmente e con più facilità per l’appunto
nell’adulto aggressore e deprivante che Ferenczi veniva denunciando nei suoi scritti e nelle lettere. Dobbiamo tuttavia non dimenticare che entrambe queste “parti” sono difficili e scomode
da interpretare e che non possono darsi l’una senza l’altra in una comprensione globale delle
dinamiche in gioco nella psicopatologia del paziente e della coppia analitica.
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
12 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
lescenti che ci sorprendono con improvvise messe in atto dal contenuto altamente drammatico,8 ma tale tipo di acting inaspettato e imprevedibile può
fare capolino pure in altre situazioni cliniche senza che il suo comparire una
volta sola preoccupi meno l’analista esonerandolo dal chiedersene la ragione
e dal riflettere sul perché questa comunicazione agita sia sparita dalla scena
altrettanto fulmineamente così come era comparsa.
Fatta questa premessa, il ripetuto protrarsi di una medesima replica,
se può essere da un lato legato a un possibile deficit di comprensione da
parte dell’analista, dall’altro corrisponde frequentemente, come abbiamo
già rimarcato, al profondo bisogno che il paziente ha di sondare da vicino e
in concreto come la mente dell’altro possa sopravvivere a un trattamento di
questo genere, rendendosi contenitrice di esperienze da lui sperimentate ma
fino a quel momento impossibili a dirsi e a pensarsi. Operazione quest’ultima – lo ricordiamo – non effettuabile in tempi brevi perché implica l’entrare e il soggiornare nell’universo relazionale dell’altro familiarizzandosi
con i personaggi e i caratteri molteplici che lo abitano, con le loro scenografie e sceneggiature cangianti a seconda di quale sé, di quali affetti e di quale
brano di vita mentale sta andando in onda in un determinato momento.9
È inoltre la qualità simbolica di tali scenografie e sceneggiature (vale a
dire la capacità del paziente di figurare e rappresentare le sue vicende relazionali e mentali) che può indicare fino a che punto egli, indipendentemente
dalla severità del quadro patologico e dalla compromissione psichica che lo
caratterizza, ha preservato una qualche possibilità di trasmettere, e quindi
di comunicare ad altri, sebbene attraverso una penosa coazione a ripetere
priva per lui di significato, la natura del suo ineffabile dolore. Quando invece
l’individuo non accede più alla simbolizzazione, che è scarna o financo “latitante”, siamo con ogni probabilità in presenza di storie segnate da eventi
traumatici preverbali che hanno creato un danno così vasto alla strutturazione dell’apparato psichico che la loro drammaticità non può più essere
“drammatizzata” e al posto dell’angoscia si è installato un terrore catastrofico. In queste circostanze è chiamata in causa l’area dell’impegno interpersonale dell’analista che dovrà in prima persona scoprire e concepire i simboli della catastrofe in campo, portando col tempo il paziente a sentire “reali”
(nel senso della realness di Winnicott [1967a]) e legittimi i suoi perduti o mai
avvenuti accadimenti emozionali. Ciò renderà allora possibile la ricomposi-
8
Abbiamo qui in mente il caso recentemente presentato da una psicoterapeuta infantile
che si ritrovò a gridare per fermare un gioco crudele di una ragazza orfana e sballottata fra
varie “comunità alloggio” che, saltando in modo euforico sul lettino, rischiava di uccidere calpestandolo il piccolo criceto che portava con sé in seduta non potendosene separare (Arfelli,
2002).
9
Rinviamo a un prossimo lavoro il confronto e la discussione sui legami e sulle differenze
fra il role-reversal e l’identificazione proiettiva.
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé 13
zione di quanto è stato dissociato e la cicatrizzazione psichica di un io che ha
fatto naufragio (Borgogno, 2004, 2005b; Botella, 2001).
Differentemente dalle situazioni estreme qui in ultimo abbozzate in cui
è palese una compromissione dell’Io e del processo di simbolizzazione, nella
psicoanalisi dei bambini l’inversione dei ruoli e la dissociazione del sé possono essere un evento pressoché naturale: il bambino attraverso il gioco e la
drammatizzazione tende spesso, come è noto, a volgere in attivo quanto ha
subito passivamente e a utilizzare simili strategie relazionali come parte
comune del suo fisiologico cammino identificatorio. Ne sono esempi classici
il suo diventare con l’analista la maestra severa che sgrida e tormenta un
alunno imbranato; il padre manager assertivo che è distratto rispetto alle
richieste affettive e di gioco del bambino; oppure la mamma affettuosa che
coccola il suo bebè; il lupo capo branco che insegna al lupetto a orientarsi
sicuro nella foresta ... . A prescindere da ciò, anche la stanza d’analisi infantile – palestra e laboratorio ideale per studiare questi fenomeni nella normalità – può trasformarsi in un luogo dove diveniamo spettatori e attori di
inversioni di ruolo oscure e inquietanti, senza un significato simbolico decifrabile e, in breve, drammatiche e per niente “drammatizzate”.
Passando ora all’analisi degli adulti, in essa il rovesciamento dei ruoli
perde per lo più, come è ovvio, quasi del tutto la sua veste ludica per giocarsi
precipuamente nei sottili e talvolta subdoli movimenti di comunicazione
affettiva che accompagnano o “stanno dietro” ai contenuti espliciti del dialogo verbale. In questo contesto, se alcune volte la problematicità relazionale
è dovuta al fatto che ciò che nell’immediato può apparire simbolico in realtà
non lo è minimamente, cosicché l’analista dovrà scavalcare un vero e proprio
“muro di Berlino” linguistico per cogliere gli affetti retrostanti e il “why is
the patient now doing what to whom?” (Heimann, 1955-1956), altre volte il
cimento sorgerà dal trovarsi nel più completo silenzio o dal venire trasportati emotivamente in luoghi e ruoli che, non riconoscibili d’emblée, sono faticosamente decodificabili. Altre volte ancora il rovesciamento dei ruoli e la
dissociazione del sé coinvolgeranno e intaccheranno la “cornice” dell’analisi
e gli elementi costitutivi del setting e sarà a quel livello che potranno comparire “agiti” il cui significato si chiarirà esclusivamente nell’onda lunga del
processo analitico.
A proposito della “problematicità” testé delineata, potremmo forse
aggiungere – riassumendo – che più le emozioni e gli stati d’animo che l’analista prova sono indifferenziati e non subito decifrabili più il sé del
paziente è dissociato e più gli è probabilmente venuto a mancare un pezzo
di quell’esperienza che è indispensabile per la soggettivazione psichica e per
l’ingresso nell’universo simbolico condiviso. Spetterà perciò all’analista non
solamente un tenace lavoro di incontro e di “interpretazione” dei sentimenti
e dei ruoli dissociati, ma il rendersi disponibile a fornire, dandovi esistenza,
quelle funzioni genitoriali e quegli aspetti del sé infantile omessi e venuti
meno nella storia del paziente. L’analista in pratica dovrà essere sia il geniRichard e Piggle, 15, 1, 2007
14 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
tore sofferente e non confacente che il paziente ha avuto, sia un genitore
diverso da quello avuto in sorte dal paziente; sia il bambino che il paziente
è stato, sia il bambino capace di sentire, di reagire e in tutti i sensi di farsi
sentire che il paziente nella sua infanzia e adolescenza non ha mai potuto
essere e conoscere.10
Abbiamo scritto “dovrà essere” perché non è scontato che ciò sia possibile in ogni analisi e per ogni analista. Già Anna Freud (1970) osservava un
po’ ironicamente che gli analisti sono più bravi a retrodatare la genesi degli
accadimenti dei pazienti e a immaginare nelle loro interpretazioni nuovi territori psichici infantili in cui avventurarsi, che non a occuparsi prontamente
dei bambini “in carne e ossa” inoltrandosi nel loro sconosciuto mondo psicologico. Specialmente di fronte al materiale analitico portato dagli allievi, ma
non necessariamente soltanto nei loro confronti, ci sovviene ogni tanto la
battuta scherzosa: “Non parlare al conducente”, che traiamo dall’immagine
dei vecchi taxi di Londra in cui, per motivi di reciproca sicurezza e privacy,
cliente e conducente erano separati da uno spesso e infrangibile schermo di
vetro. Una battuta che è emblematica per noi tutti di una certa nostra fobia
verso l’azione e il contatto, su cui dobbiamo vigilare in quanto – nel nostro
caso – potrebbe ad esempio impedire che il rovesciamento dei ruoli vada in
scena e prenda corpo nella relazione analitica (Ogden, 2001).
In conclusione cent’anni dopo Freud il quale – benché si rendesse conto
che il dramma umano doveva essere messo in atto e ripetuto prima che fosse
possibile parlarne – era convinto e determinato nel differenziare la talking
cure dall’acting cure, noi oggi più saldi ed equipaggiati nella nostra devozione al metodo psicoanalitico vorremmo con altrettanta determinazione e
convinzione sostenere che non è possibile un’autentica talking cure senza
una qualche acting cure e che è proprio l’azione ad essere talvolta matrice
del pensiero fecondo per una proficua elaborazione e trasformazione a livello
psichico. In definitiva, ci vuole molto lavoro di servizio, modesto e umile, per
giungere all’interpretazione mutativa: occorre soprattutto essere disponibili
a separarsi momentaneamente dal proprio ruolo per rivestire – come interpreti – i ruoli che il paziente ci chiede di assumere. Dal nostro punto di vista,
sulla base di quanto siamo venuti esponendo, potremmo allora riproporre il
titolo del prossimo Congresso IPA di Berlino, “Remebering, Repeating &
10
Il soggetto che in parte è privato del proprio sé non è consapevole di ciò che veramente
gli manca, come neppure i suoi genitori – quando lui era piccolo – erano consapevoli di ciò che
gli stavano facendo mancare e di ciò che non era presente nel loro, per molti versi inappropriato,
prendersi cura dei suoi bisogni e delle sue richieste. Al limite, queste persone pur provando un
disagio intenso (ma a loro oscuro) non sanno di essere state deprivate: lo possono scoprire in
analisi quando ottengono, attraverso “il farne esperienza”, un ambiente psichico diverso da
quello in cui sono cresciuti, rinvenendo al contempo in se stessi risorse che non avevano mai
sospettato di avere.
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé 15
Working Through”, in questa sequenza: “Sperimentare (farsi interpreti),
ripetere, elaborare-rielaborare e ricordare”, sottolineando “sperimentare
(farsi interpreti)” e “ripetere” come condizioni per “elaborare-rielaborare” e
“ricordare”.
A mo’ di titoli di coda e dissolvenze: personaggi e interpreti
A chiusura vorremmo con brevi flash far sfilare rapidamente sul palco,
dandovi volto, alcuni attori sin qui invisibili – i nostri pazienti – che hanno
ispirato i pensieri del work in progress che vi abbiamo presentato.
Hugo che all’inizio della carriera analitica di uno di noi spinse l’analista ad alzarsi trepidamente e con spavento dalla sedia e a dirgli: “Io sono
molto spaventato da quanto sta succedendo, lo avverto una grave minaccia
che non permette di lavorare. Non so perché accade questo, ma come io sono
spaventato deduco che anche lei lo sia, sentendosi per qualche ragione – forse
anche a lei ignota – fortemente minacciato da qualcosa che potrebbe essere il
vero motivo per cui mi ha chiesto aiuto”. Si trattava del sesto incontro vis à
vis in ospedale con un giovane sofferente di attacchi di panico intervallati da
condotte delinquenziali, cresciuto – come successivamente si venne a ricostruire – in un ambiente psichico abbandonico, povero emozionalmente e
assai violento. Ad ogni colloquio e con piglio crescente Hugo aveva cercato di
schiacciare alla parete l’analista girando subdolamente il tavolino quadrato
che li separava in maniera tale che fosse puntato contro di lui in posizione
di rombo acuminato. Fu esattamente questo il punto di partenza di una
paziente esplorazione della sua florida aggressività, del suo stato di confusione e della sottostante paura di essere matto che pian piano lo convinse ad
attivarsi per passare da un sostegno psicoterapeutico a un’analisi a quattro
sedute.
Teddy, abile equilibrista dodicenne, che per gran parte di una consultazione motivata da un improvviso deficit scolastico e da problemi disadattativi (destinata a concludersi felicemente per l’esito che ne derivò) mimò
con mille posture acrobatiche le peripezie di un motoscafo folle inducendo
nell’analista intensi sentimenti di terrore e disperazione, oltre che di rabbia
e di sconcerto, soprattutto per i danni che tali acrobazie avrebbero potuto
procurare all’integrità fisica del ragazzo. Il che cosa stesse scansando Teddy
col suo comportamento estremo, quale fosse l’“onda anomala” a cui tentava
di sfuggire, in che cosa consistessero le burrasche in corso che inscenava
nelle sedute e quali potessero essere le conseguenze di questi giochi pericolosi furono gli interrogativi che l’analista si trovò a sperimentare da solo
sulla sua pelle, per riuscire unicamente più avanti a metterli in parole e
immagini e permettere così a Teddy di rivelare una situazione familiare
impossibile di cui era impotente spettatore. Una situazione che vedeva in
primo piano un padre esasperato che tornava a casa ubriaco menando la
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
16 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
moglie e minacciando tutti di morte, a causa del suo non potere prendere
atto che il rapporto coniugale purtroppo era terminato: impossibilità a separarsi dei genitori che si veniva esplosivamente a connettere in Teddy alle sue
medesime intense angosce di perdere l’attuale casa (la casa vera e propria,
ma anche il suo corpo di bambino che a tutta velocità si stava trasformando
inviandogli numerosi messaggi enigmatici). Angosce – va sottolineato –
totalmente negate, nonostante la loro evidenza, da tutti i membri della sua
famiglia.
Mara, giovane matricola universitaria schizoide, mutacica e affettivamente spenta, che domandò all’analista per svariati anni (più di quattro) di
farsi interprete nel più completo silenzio da parte sua (un silenzio sporadicamente percorso da lamenti e mugolii legati a vaghe e tormentanti sensazioni corporee dolorose) di un personaggio presente nel sogno portato alla
prima consultazione (un personaggio dall’identità incerta e incapace di
esprimersi che, suo malgrado, doveva ripetutamente assistere all’harahiri e
all’agonia conseguente di un altro personaggio anch’esso dall’identità
incerta e senza parola, forse giapponese); e che, così facendo, lo portò a incarnare un bambino indesiderato e incompetente che non poteva essere di alcun
aiuto, che non conosceva e non parlava la lingua dei genitori e neppure
poteva essere vivo poiché la vita per i suoi equivaleva a nient’altro che perdita, morte e dolore. Fu, in questo caso, nuovamente l’analista che dovette
indossare uno a uno i sentimenti di Mara bambina (verso una madre fragile
e ingombrante, sofferente per un male misterioso di cui si taceva entro le
mura domestiche, e un padre anch’esso ritirato e depresso) e che, solamente
a un certo punto, dopo averla aiutata a reintegrare molti fili della sua storia, rischiando lui medesimo un harahiri analitico, prorompette in una
seduta con veemenza reclamando, con una serie di interpretazioni-esternazioni dirompenti, il suo inalienabile diritto all’esistenza e innescando con
questa nuova possibilità espressiva il “risorgimento” stesso della paziente.
Tommaso, tardo adolescente e collega, che – come confidò a uno di noi
in un frangente delicato della sua esistenza – alla sua terza analisi in due
tempi strettamente consecutivi dapprima disorientò completamente il suo
analista e quindi lo fece diventare temporaneamente psicotico, affinché questi – individuando con pena e rammarico il senso di sconquasso e di irrealtà
provato da Tommaso di fronte all’intermittente follia che può assalire un
padre peraltro sano seppure fragile e coartato – potesse finalmente credere
a un grave episodio di vita da lui subito (episodio la cui realtà non era mai
stata convalidata in casa sua e nei trattamenti analitici già effettuati, e che
lui stesso oramai sottovalutava dimenticando le indubbie ricadute che aveva
avuto sulla sua persona). Un padre – lo ripeto – sino a quel momento non
visto come figura davvero traumatizzante, concretamente operante negli
anni della sua adolescenza e pure reduplicato in ulteriori esperienze che per
interposta persona riattivavano la situazione originaria di ingiustizia
patita. Per Tommaso il non indietreggiamento del terzo analista nel riconoRichard e Piggle, 15, 1, 2007
F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé 17
scere l’ennesima riproposizione di questa sua dolorosa vicenda vissuta fu
testimonianza esemplare perché si aprisse in lui un varco di coraggio per
una conquista identitaria più radicata e più capace di fare crescere insieme
nella sua mente genitori e figli con mutuo vantaggio e minor offesa.
Andrea, undicenne post-autistico, che chiese al suo terapeuta di farsi
umile scolaro scrivano di infinite liste ossessive, dettate da un maestro
tirannico, di animali selvaggi e mostri paurosi: vero e proprio tentativo di
sterilizzazione emotiva che fu possibile arginare e rivitalizzare solo attraverso un generoso lavoro di drammatizzazione che ridiede “corpo” e “cuore”,
e poi parole, allo spavento di un bambino atterrito dal contatto con le proprie e altrui emozioni allo stato “brado”.
Sandro “pulcino” inibito e silenzioso che, rifiutando terrorizzato di
andare a scuola, accompagnò il suo analista per svariati “inverni” a un
“campo di calcio”, dove fargli vivere tutta l’inadeguatezza, la paura e la frustrazione del sentirsi il numero “zero” a confronto di una sfilata di numeri
“uno”: allenatori severi, campioni esigenti, avversari arroganti che disprezzavano le sue “piccole” prestazioni. Se una parte (quella più simbolica) del
lavoro terapeutico con Sandro si svolse tramite l’assunzione da parte dell’analista delle vesti di “pulcino” di una squadra di calcio – un pulcino che, fra
parentesi, imprestava i sentimenti a quanto accadeva – un’altra consistente
sua parte (più primitiva) si realizzò nel diventare fisicamente depositario di
misteriose sensazioni di freddo, noia e tristezza. Queste sensazioni si prospettarono poco a poco come l’indice di un possibile disinvestimento melanconico di Sandro compiuto da sua madre. Costei l’aveva infatti partorito prematuramente facendosi di “ghiaccio” in quanto troppo giovane per sentire di
poter affrontare l’eventualità di perderlo e per di più non sostenuta dal
marito il quale altrettanto giovane trattava con assoluto snobismo ogni
paura e debolezza, avendole lui per primo molto presto nella sua crescita
dovute negare e non percepire.
Matteo, un bambino di sei anni indifeso e tirannico al tempo stesso, che
– protagonista di un impressionante ritiro schizoide avvenuto dopo la
nascita del fratello e una concomitante seria malattia della madre – divenne
in seduta uno “sceneggiatore” d’eccezione. Assegnò in pratica al suo analista
la parte di un bambino stupito e sgomento che dovette assistere alla lenta
ontogenesi di pensieri via via più rappresentabili attraverso una caleidoscopica filogenesi di tragiche figurazioni di emozioni primitive. Figurazioni che
dal feroce Tirannosaurus-Rex culminarono – dopo molte “ere” ed “evoluzioni
darwiniane” che videro sfilare squali, delfini, rapaci, piccioni, tigri e gatti –
nella possibilità di mettere in scena l’odio, l’amore, l’invidia e la gelosia di un
cucciolo d’uomo smarrito in un ambiente per molti versi improvvido.
Alberto, che – giunto in analisi per un’incallita insoddisfazione nei rapporti con le donne e per un esteso senso di estraneità verso la vita – costrinse
il suo analista a dipanare un’aggrovigliata matassa di angosce paranoidi
connesse al vivere le sedute come una medicina (una “purga” o un “clistere”)
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
18 F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé
che, al fine di farlo “stare meglio”, lo costringeva a una forzosa produzione
di contenuti verbali. Se fu operazione relativamente semplice ricondurre siffatta persecuzione al “fantasma” inquietante di un padre-preside esigente e
intrusivo (morto improvvisamente quando egli aveva solo dieci anni),
impresa ben più ardua fu quella di dare un significato all’educata ma martellante sua continua affermazione (peraltro contraddetta dalla regolarità
con cui arrivava agli appuntamenti) di non essere tagliato per ciò che
insieme stavano facendo. Richiese infatti all’analista sia di diventare consapevole di quanto avesse inciso su Alberto il rapporto con la madre (una
donna parca d’affetti e slanci che, rimasta vedova, non aveva mai espresso
altro che dovere e sacrificio nel crescere e nell’occuparsi dei suoi cinque figli),
sia di essere lui a iniziare a contrastare l’atmosfera stagnante venata da
nichilismo e da minacce di interruzione che impaludava le sedute. Un punto
di svolta lo si ebbe in quest’analisi allorché quest’ultimo con toni accesi fece
notare al suo paziente che paradossalmente – al contrario di quanto la
madre interna con la quale era identificato sosteneva (che Alberto non era
per nulla interessato a ciò che emergeva nell’incontro analitico) – lui continuava a mettercela tutta nel ricreare “l’aria di casa” proprio perché “qualcuno”potesse capire che cosa avesse voluto dire essere stati perennemente
esposti alla rassegnazione e alla mancanza del desiderio.
Vogliamo infine nominare – fra chi ha battuto ed esplorato questo territorio clinico-teorico in parte disertato – alcuni autori nei cui confronti riteniamo di essere in debito per averci aiutato ad esprimere i pensieri che vi
abbiamo offerto:
Paula Heimann (1965, 1975), che fra i primi ha posto all’attenzione che,
in presenza di un trauma nella storia passata del paziente, l’analista può
“inconsciamente introiettare […] il paziente, che a questo punto agisce
[internamente a lui] sulla base di un’identificazione con la figura materna
rifiutante intrusiva, e ripete le sue esperienze personali invertendo i ruoli”;
Masud Khan (1974), per il dettagliato caso di Peter in cui tratteggia in
modo efficace il destino dell’inversione dei ruoli nell’analisi e la possibilità
dell’analista di vivere questa situazione accettando l’eclisse della propria
soggettività per ritornare solo in un secondo tempo al paziente con una rielaborazione degli stati emotivi penosi patogeni che la sua affettività arcaica
non gli consentiva di esprimere e comunicare;
Pearl King (1951/1953/2004; 1978), per il suo denso lavoro su questa
tipica risposta affettiva dell’analista alle comunicazioni del paziente, ch’essa
ha segnalato fin dal primo caso da lei pubblicato: quello del piccolo Philip di
quattro anni alle prese con la morte del fratellino di due e con l’isolamento
e la depressione della madre;
Joseph Sandler (1976), per le sue incisive annotazioni sulla “risonanza
di ruolo” e sul complesso sistema di comunicazioni inconsce, emesse e ricevute, circolanti nella coppia analitica nel tentativo da parte di ciascun partner d’essa di imporre all’altro una specifica relazione di ruolo intrapsichica;
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
F. Borgogno, M. Vigna Taglianti: Il rovesciamento dei ruoli e la dissociazione del sé 19
Peter Giovacchini (1989), per le sue acute e sensibili intuizioni terapeutiche intorno alla ri-creazione dell’ambiente infantile traumatico nell’interazione transfert-controtransfert con pazienti che soffrono di disordini mentali primitivi; e, per i loro contribuiti più in generale collegati ai processi
identificatori, oltre agli autori già citati nel testo: Helene Deutsch (1926),
Racker (1948-1958), Searles (1947-1948; 1959) e – fra gli autori più recenti
– Roussillon (1991, 1999), che – gradita sorpresa – abbiamo scoperto solo a
stesura ultimata di questo lavoro aver teorizzato, appoggiandosi al concetto
di “transfert paradossale” di Anzieu (1975), il transfert “par detournement”
distinguendolo da quello più classico “par déplacement”, offrendo considerazioni che ci paiono in parte solidali e in sintonia col nostro modo di vedere
le problematiche da noi qui trattate.
Riassunto
Gli autori esplorano dal punto di vista teorico e clinico il fenomeno del rovesciamento dei ruoli, una particolare forma di ripetizione transferale che può riproporsi più o meno continuativamente sullo scenario analitico attraverso l’identificazione inconscia del paziente alle difese e alla cultura psichica del genitore con
concomitante dissociazione nell’analista di aspetti sofferenti del sé infantile. Brevi
flash clinici a conclusione illustrano alcune delle modalità con cui questo processo
inter-psichico viene messo in atto nell’onda lunga del trattamento analitico di bambini, adolescenti e adulti.
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Franco Borgogno, Psicoanalista con funzioni di training (Società Psicoanalitica Italiana).
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:
Via Cavour, 46
10123 Torino
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Massimo Vigna Taglianti, Psicoanalista (Società Psicoanalitica Italiana).
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P.zza Statuto, 11
10122 Torino
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