Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale

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Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale
Luiss
Libera Università
Internazionale
degli Studi Sociali
Guido Carli
CERADI
Centro di ricerca per il diritto d’impresa
Profili sistematici del “trasferimento” della
residenza fiscale delle società
Giuseppe Melis
[maggio 2005]
© Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o
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sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione
(∗)SOMMARIO: 1. Oggetto dell’indagine. – 2. Questioni di diritto internazionale privato.
– 3. Le exit taxes “societarie” nella UE: un’ipotesi di classificazione. – 4. Altri profili tecnicogiuridici rilevanti sul piano interno. – 5. Exit taxes e doppia imposizione internazionale. – 6.
Convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito ed exit taxes. – 7. Exit taxes e diritto
comunitario: profili generali. – 8. Segue: le cause di giustificazione. – 9. Conclusioni.
1. Oggetto dell’indagine. – Il “trasferimento” della residenza fiscale conseguente
allo “spostamento” da parte di un soggetto, da uno Stato ad un altro, di uno (o più)
criteri di collegamento di tipo “personale” (1) ha formato in questi ultimi anni oggetto
di notevole attenzione da parte dei legislatori nazionali, al preciso scopo di evitare che
tale trasferimento potesse risolversi nella definitiva sottrazione ad imposizione delle
plusvalenze latenti sui beni appartenenti al soggetto trasferitosi.
Le misure al riguardo adottate, note anche come exit taxes, pur essendosi in
taluni casi rivolte anche alle persone fisiche – non esercenti attività di impresa – titolari
di rilevanti partecipazioni in società, si sono essenzialmente concentrate sui soggetti
esercenti attività di impresa, in forma individuale o collettiva. Una indagine sui sistemi
positivi comunitari mostra in effetti che una disciplina delle exit taxes per soggetti non
imprenditori è presente nelle sole legislazioni di Francia, Austria, Germania e Paesi
Bassi (2), mentre le legislazioni di tutti gli Stati membri disciplinano gli effetti tributari
del “trasferimento” della residenza in un altro Stato da parte di soggetti imprenditori.
(∗) Il presente articolo è stato pubblicato in Diritto e pratica tributaria internazionale, 2004, p. 13 ss.
(1) Come è noto, i principali criteri di collegamento personali che valgono ad integrare, nel diritto
tributario internazionale, la nozione di “residenza fiscale” sono, per le persone fisiche, la dimora abituale,
il luogo principale degli affari ed interessi e la cittadinanza; per le persone giuridiche il luogo di
costituzione, la sede legale, la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale dell’impresa. E’ per tale
ragione che non si è utilizzata, nel titolo, l’espressione trasferimento della “sede”, perché ciò che rileva è
che vi sia il trasferimento della “residenza fiscale”, rispetto alla quale la sede assume valore di mero
elemento costitutivo, di regola non esclusivo.
(2) Sulle exit taxes applicate a persone fisiche, vedi L. DE BROE, General Report sul tema The Tax
Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p.
36 ss. e le relazioni presentate per i vari Stati interessati. In Italia, un riferimento ai possibili effetti elusivi
del trasferimento della residenza fiscale all’estero da parte di persone fisiche detentrici di partecipazioni
societarie si rinviene nella Ris. Ag. Entrate 2 novembre 2001, n. 175/E/2001/134384, relativa ad uno
scambio di azioni in società italiana contro azioni in una società lussemburghese da parte di un soggetto
scambiante persona fisica non imprenditore. A tale riguardo l’Agenzia, ritenuto che il regime di neutralità
applicabile non equivalga ad una rinuncia definitiva all’esazione dell’imposta da parte dello Stato, bensì al
differimento della stessa al verificarsi di successivi atti dispositivi, osserva che “la circostanza che i soci
partecipanti siano residenti in Italia rappresenta una garanzia per lo Stato italiano affinché esso non veda
vulnerato il proprio interesse erariale, mantenendo la possibilità di tassare il profitto risultante
dall’eventuale successivo atto di disposizione dei titoli ricevuti. Ovviamente, nel caso contrario di trasferimento
all’estero della residenza da parte del soggetto partecipante, l’assenza di una specifica previsione normativa di immediato
realizzo dei plusvalori latenti, analogamente a quanto disposto dall’art. 20-bis del TUIR per i soggetti che esercitano
imprese commerciali, potrebbe impedire, di fatto, l’effettivo esercizio del potere impositivo dello Stato italiano (…). Ciò
E’ su tali ultime misure, quelle rivolte agli imprenditori – e ancor più
specificamente su quelle rivolte alle società commerciali – che il presente studio
intende soffermarsi, al fine di delineare, nella triplice prospettiva interna,
convenzionale e comunitaria, i principali problemi che esse sollevano, anche in vista
della determinazione dei possibili contenuti di quella disciplina regolamentare che l’art.
20-bis t.u.i.r. (ora divenuto art. 166 t.u.i.r. (3)) ancora attende a distanza di quasi un
decennio dalla sua emanazione.
Il tema del trasferimento della residenza fiscale non si esaurisce tuttavia nella
questione delle exit taxes. Esso presenta in verità numerosi profili problematici, che
occorre – sia pur sinteticamente – richiamare al fine di delimitare con precisione
atteso, l’operazione descritta può essere considerata legittima soltanto se resterà salvaguardato l’interesse dell’erario alla
tassazione dell’imponibile e cioè soltanto se i soci scambianti, persone fisiche non imprenditori, non trasferiscano la propria
residenza fiscale all’estero prima di cedere le partecipazioni al fine di sottrarre, così, all’imposizione domestica le plusvalenze
sui titoli scambiati. In quest’ultimo caso, infatti, le operazioni poste in essere – che singolarmente appaiono legittime – si
intenderebbero nel loro complesso preordinate al fine ultimo di evitare la tassazione dei plusvalori insiti nelle riferite
partecipazioni e, pertanto, sarebbero disconosciute ai sensi e per gli effetti dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/73” (corsivo
nostro).
(3) Per comodità del lettore, se ne riporta in nota il testo: “Art. 20-bis. 1. Il trasferimento all’estero
della residenza o della sede dei soggetti che esercitano imprese commerciali, che comporti la perdita della
residenza ai fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti
dell’azienda o del complesso aziendale, salvo che non siano confluiti in una stabile organizzazione situata
nel territorio dello Stato. La stessa disposizione si applica se successivamente i componenti confluiti nella
stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato ne vengano distolti. Si considerano in ogni caso
realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero. Per le imprese
individuali si applica l’art. 16, comma 1, lettera g). 2. I fondi in sospensione d’imposta, inclusi quelli
tassabili in caso di distribuzione, iscritti nell’ultimo bilancio prima del trasferimento della residenza o della
sede, sono assoggettati a tassazione nella misura in cui non siano stati ricostituiti nel patrimonio contabile
della predetta stabile organizzazione”. Con il nuovo art. 166 la disposizione è rimasta invariata, salvo che
per il primo periodo, così formulato: “Il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti di cui all’art. 2 ed all’art.
72 [leggi: 73], comma 1, lett. a) e b), che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi
(…)”. L’incipit non brilla per eleganza ed efficacia: posto infatti che ciò che conta è la perdita della
residenza fiscale e che tale perdita è riferibile sia alle persone fisiche esercenti attività di impresa che ai
soggetti Ires, il riferimento al trasferimento all’estero della “residenza” o è fatto a quella “fiscale” – ma in
tal caso il successivo riferimento alla relativa perdita è “pleonastico” (non potendosi pensare ad un
trasferimento della residenza fiscale all’estero senza una sua “perdita”!) – oppure è fatto agli elementi
costitutivi della residenza fiscale, ma in tal caso sarebbe ampiamente incompleto perché la residenza
(civilistica) è concetto come noto valevole per le sole persone fisiche. L’espunzione nella nuova norma del
riferimento alla “sede” e lo svuotamento di qualsiasi significato nel caso di soggetti Ires che altrimenti ne
deriverebbe, rendono ovvio l’accoglimento della prima ipotesi. Peraltro, con riferimento alla precedente
formulazione, vi era chi aveva ritenuto che l’espresso riferimento al trasferimento della “sede” non
consentisse di comprendere nell’applicazione dell’art. 20-bis l’ipotesi di trasferimento all’estero
dell’oggetto principale di una società non avente nel territorio italiano né la sede legale, né la sede
dell’amministrazione (G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, in AA. VV. (a cura di C. SACCHETTO
e L. ALEMANNO), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, p. 210). E’ infine interessante
notare che il rinvio all’art. 72 lett. a) e b) esclude ora gli enti non commerciali, così superando il dubbio –
sorto con riferimento all’art. 20-bis – se una tale disciplina dovesse applicarsi anche gli enti non
commerciali svolgenti un’attività commerciale: sul punto, S. MAYR, Effetti del trasferimento della sede all’estero,
in Corr. trib., 1995, p. 2707 e M. LEO – F. MONACCHI – M. SCHIAVO, Le imposte sui redditi nel testo
unico, t. 1, Milano, 1999, p. 388. Ritiene tale esclusione dovuta ad un difetto di coordinamento testuale, N.
SACCARDO, Le proposte di modifica al regime del trasferimento all’estero della residenza, in Riv. dir. trib., 2003, IV,
p. 172, il quale evidenzia altresì la lacuna formatasi con riferimento alle società di persone.
l’oggetto del presente lavoro e fornire un inquadramento sistematico del tema che ci
occupa.
In primo luogo, il trasferimento della residenza fiscale può trovare, sempre sul
piano normativo, ostacoli diversi dalle exit taxes.
Ciò si manifesta sotto un triplice profilo. Sotto un primo profilo, può invero
capitare di confrontarsi con nozioni unilaterali assai ampie di “residenza fiscale”, le
quali difficilmente consentono di accompagnare all’acquisizione della residenza fiscale
nello Stato di destinazione la perdita della stessa nello Stato di partenza. Si pensi alla
normativa italiana relativa ai soggetti Ires, dove il criterio di collegamento dell’“oggetto
principale” rende necessario delocalizzare all’estero anche l’attività prevalente
dell’impresa (4), non essendo sufficiente a tal fine lo spostamento della sede legale e
della sede dell’amministrazione (5). Sotto un secondo profilo, ostacoli possono porsi
sul piano probatorio, riconnettendo talvolta il legislatore al trasferimento della
residenza in Stati a fiscalità privilegiata l’effetto di inversione dell’onere della prova, sì
da costringere il contribuente a fornire la prova di avere effettivamente prima
acquisito, e poi mantenuto, la residenza nell’altro Stato. Ciò è quanto ad esempio
accade in Italia con il noto art. 2, co. 2-bis t.u.i.r., ma altrettanto avviene in Svezia,
anche se limitatamente ad un quinquennio dal giorno del trasferimento. Sotto un terzo
profilo, gli effetti fiscali del trasferimento di residenza possono essere sin anche esclusi.
Ciò può avvenire sia in virtù di circostanze fisiologiche, come la non definitività dello
spostamento nell’altro Stato, tipica dei transfrontalieri e degli agenti diplomatici; sia
sulla base di considerazioni di carattere antielusivo, laddove si stabilisca una
presunzione assoluta di mantenimento della residenza in caso di suo trasferimento in
(4) Il che peraltro non è sempre possibile. Si pensi ad esempio ad una società avente quale unico
oggetto la gestione di un immobile sito nel territorio italiano, dove ben si potrebbe argomentare la
permanenza dell’oggetto principale in Italia anche a seguito del trasferimento della sede legale ed
amministrativa all’estero. Sul punto vedi C. SACCHETTO, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in
Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, IV, Padova, 1994, p. 92 e G. MARINO, La residenza nel
diritto tributario, Padova, 1999, p. 141. Vedi anche H. TAVEIRA TORRES, Pluritributação internacional sobre
as rendas de empresas, San Paolo, 1997, p. 101 ss. Il discorso potrebbe estendersi alle partecipazioni in
società residenti in Italia, con la differenza tuttavia che queste ultime potrebbero a loro volta deliberare il
trasferimento della residenza all’estero, trovandosi così la società non residente a detenere una
partecipazione in un soggetto anch’esso non residente. Per alcune problematiche relative al mutamento di
status dei soggetti partecipati, vedi M. NUSSI, Trasferimento della sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti
in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, in Rass. trib., 1996, p. 1354 ss.
(5) Ne deriverebbero allora situazioni di doppia residenza fiscale, da risolvere esclusivamente su
base bilaterale avvalendosi dell’art. 4 par. 1 (“filtrando” tra i criteri interni quelli rilevanti ai fini
convenzionali), 2 e 3 (applicando le “tie breaker rules”) delle convenzioni stipulate sulla base del Modello
OCSE. Il problema non è peraltro esclusivo del diritto tributario, ben potendo verificarsi anche nel diritto
societario la “personificazione” di una organizzazione imprenditoriale collettiva da parte di più di un
ordinamento a motivo dei diversi criteri di collegamento (e/o di giurisdizione) adottati nei vari Stati: sul
punto vedi M.V. BENEDETTELLI, Libertà comunitarie di circolazione e diritto internazionale privato delle società,
in Riv. dir. int. priv. proc., 2001, p. 606.
un paradiso fiscale (6); sia, infine, semplicemente a motivo del criterio di collegamento
adottato che, se consistente nella “cittadinanza” delle persone fisiche o nel luogo di
costituzione delle società, priva alla radice di qualsiasi rilievo tributario – fatte salve le
convenzioni internazionali – gli “spostamenti” del contribuente (7).
In secondo luogo, superati (ove possibile) gli ostacoli appena riferiti, si pone il
problema di individuare il preciso momento nel quale la perdita di residenza fiscale possa
dirsi avvenuta, al fine ad esempio di delimitare l’efficacia temporale della potestà
impositiva oppure di individuare la decorrenza delle norme che stabiliscono inversioni
dell’onere della prova o presunzioni assolute di residenza limitate nel tempo. Si tratta
anche qui di un problema di non agevole soluzione, sia in quanto il trasferimento può
avvenire in modo non “istantaneo”, sia in quanto la residenza fiscale è sovente
ancorata a più presupposti, la cui perdita potrà essere integrata in momenti successivi
(8).
In terzo luogo, verificatasi la perdita di residenza fiscale e determinato il
momento esatto nel quale essa è avvenuta, può aversi concorrenza di potestà tributarie
illimitate sui redditi prodotti nel medesimo periodo di imposta. Ciò accade quando gli
Stati interessati dal trasferimento ancorino la tassazione dei soggetti residenti ai redditi
(6) Così ad esempio stabilisce la legislazione spagnola per i propri cittadini per un periodo di
quattro anni dalla data del trasferimento, decorsi i quali rimarrà comunque a carico del contribuente
l’onere della prova della effettiva residenza nel paradiso fiscale; oppure quella francese per i propri
cittadini che si trasferiscono a Montecarlo. Per la Spagna, vedi J.J. BAYONA GIMENEZ, Report per la
Spagna sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol.
LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 483 ss.
(7) Si determina dunque anche in questo caso una situazione di doppia residenza fiscale, da
risolvere anch’essa esclusivamente su base bilaterale avvalendosi dell’art. 4, parr. 1, 2 e 3 del Modello
OCSE. Va peraltro ricordato che l’attribuzione di residenza ad un altro Stato in applicazione delle “tie
breaker rules” contenute nelle convenzioni contro le doppie imposizioni non significa il venir meno della
residenza interna ai fini dell’applicazione di convenzioni internazionali con Stati terzi (con l’eccezione del
Regno Unito).
(8) Ad esempio, nei Paesi Bassi si è stabilito, con decreto del Segretario di Stato alle Finanze del
22 gennaio 1996, che il momento del trasferimento della sede effettiva da parte di una società olandese
deve individuarsi in quello in cui sono stati posti in essere tutti gli atti preparatori per far sì che
l’amministrazione di fatto non si svolga più nei Paesi Bassi. E’ evidente che gli atti da compiere sono al
riguardo numerosi: si pensi all’adozione delle delibere societarie, all’apertura dei nuovi uffici,
all’assunzione del personale, all’apertura dei conti correnti, ecc. A ciò si aggiungono i problemi derivanti
dal fatto che lo status di residente fiscale viene riferito ad un periodo di imposta, potendosi così
determinare sfasamenti tra trasferimento degli elementi costitutivi e perdita della residenza fiscale: ad
esempio gli elementi costitutivi della residenza fiscale potrebbero essere trasferiti il 1° ottobre dell’anno
“x”, senza che ciò comporti, per la legislazione italiana, l’immediata perdita di residenza fiscale, che
avverrà soltanto nel periodo di imposta “x+1”. Su tale problematica vedi M. NUSSI, Trasferimento della sede
e mutamento della residenza “fiscale”: spunti in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, cit., p. 1344
e G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, cit., p. 210. Un ulteriore problema, sempre riguardante il
periodo di imposta, riguarda la relativa determinazione: ad esempio, nella Convenzione tra Regno Unito e
Francia si prevede (art. 3 par. 3) che il periodo di imposta avrà durata annuale dal giorno in cui si sia
perfezionato il trasferimento. Per alcuni problemi riguardanti l’esercizio sociale di una società trasferitasi
dall’estero in Italia vedi F. GALLIO – G. TERRIN, Alcune problematiche di carattere contabile e fiscale che
potrebbero sorgere a seguito del trasferimento in Italia della sede di una società, in Il Fisco, 2003, 1, p. 10767.
ovunque prodotti nel periodo di imposta, non riconoscendo al trasferimento
medesimo alcun effetto “interruttivo” sul piano temporale. Avviene allora che il
reddito ovunque prodotto in tale arco temporale sia doppiamente tassato, dando
luogo alla più grave tra le forme di doppia imposizione conosciute poiché
coinvolgente l’intero reddito prodotto dal contribuente. Tale problema trova talvolta
una soluzione a livello unilaterale, come per il Regno Unito, dove la sect. 12 (3) (d) del
Finance Act 1988 prevede la chiusura del periodo di imposta alla data di cessazione
dello status di residente da parte della società che si trasferisce all’estero; e talvolta a
livello internazionale, come nelle Convenzioni tra Francia e Danimarca (art. 19, par.
1), Francia e Svizzera (art. 4 par. 4) e Germania e Italia (Punto 3 del Protocollo).
In quarto luogo, il trasferimento della residenza fiscale può sollevare il
problema della sorte delle eventuali ritenute alla fonte operate nel paese di provenienza
quando il soggetto era ancora ivi “residente”, oppure nel paese di destinazione quando
esso era ivi ancora “non residente”, dovendosi stabilire se tali ritenute mantengano
inalterata la loro natura “istantanea” oppure se quest’ultima debba essere apprezzata
alla luce dello status finale del contribuente – residente o non residente – nel periodo di
imposta interessato. Trattandosi di forme di imposizione sostitutiva, il problema
riguarderà di regola le persone fisiche non svolgenti attività di impresa.
Infine, dal trasferimento della residenza possono nascere problemi sul piano dei
principi regolanti l’imputazione a periodo dei redditi. Si pensi ad esempio a redditi
tassabili secondo il principio di cassa, “maturati” nel periodo di imposta nel quale il
contribuente era residente, ma corrisposti solo successivamente al trasferimento di
residenza. Alcuni Stati prevedono al riguardo norme ad hoc. In Francia, ad esempio,
l’art. 167 CGI stabilisce che il soggetto che trasferisce la propria residenza (domicile
fiscal) all’estero è tenuto a presentare una dichiarazione nella quale deve indicare i
redditi maturati e pagati sino al momento del trasferimento, i redditi di impresa
conseguiti dalla chiusura del periodo di imposta precedente e tutti i redditi maturati,
ma non ancora percepiti (ad esempio i redditi di lavoro dipendente, in deroga al
principio di cassa che ne informa la tassazione). Questa dichiarazione deve essere
presentata, a titolo provvisorio, nei trenta giorni che precedono il trasferimento e deve
essere seguita, nei 60 giorni successivi al trasferimento, da una dichiarazione a titolo
definitivo. L’Amministrazione finanziaria liquiderà l’imposta e invierà al contribuente
l’avis de mise en recouvrement, a seguito del quale egli dovrà provvedere al pagamento delle
imposte dovute oppure apprestare garanzie tali da consentire all’Amministrazione
finanziaria di disporre il “differimento” di tale pagamento.
Ebbene, a tale ultimo aspetto – lo sfasamento tra momento lato sensu di
“maturazione” e momento di imputazione a periodo del reddito – si ricollegano
appunto le exit taxes, nelle quali il trasferimento della residenza fiscale viene in rilievo
quale momento di emersione a tassazione delle plusvalenze latenti sulle partecipazioni
detenute da persone fisiche o sugli assets relativi ad imprese, individuali o collettive (9).
Plusvalenze che verranno effettivamente (ed eventualmente) realizzate solo in un
momento successivo a quello del trasferimento della residenza.
Ciò premesso, è sulla tassazione degli assets appartenenti a società in caso di
trasferimento della residenza che la nostra indagine intende concentrarsi, onde
verificare come alcuni Stati comunitari “chiudano i conti” con i soggetti societari che
si trasferiscono in un altro Stato (10). Ovviamente, in considerazione dell’ampiezza
dell’ambito territoriale oggetto del presente lavoro, le caratteristiche delle normative
dei singoli Stati interessati saranno richiamate solo nei tratti rilevanti per una
ricostruzione sistematica dell’istituto e per un suo esame sotto il profilo convenzionale
e comunitario.
2. Questioni di diritto internazionale privato. – La notevole complessità dell’indagine
sui profili giuridico-tributari del trasferimento della residenza delle società si
compendia efficacemente nell’espressione utilizzata dalla Corte di giustizia delle
Comunità Europee nel noto caso Daily Mail: “diversamente dalle persone fisiche, le
società sono enti creati da un ordinamento giuridico e, allo stato attuale del diritto
comunitario, da un ordinamento giuridico nazionale. Esse esistono solo in forza delle
diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano costituzione e funzionamento” (11).
I problemi giuridici che derivano al riguardo dall’essere la società un soggetto
non naturale non attengono tanto alla legittimità sul piano civilistico dell’istituto del
trasferimento “di sede” in sé considerato, la cui possibilità è generalmente riconosciuta
(12).
(9) Nell’ambito delle “exit taxes” si fanno peraltro rientrare anche le ipotesi di c.d. “extended tax
liabilities”, consistenti nell’estendere il presupposto soggettivo tramite le presunzioni di residenza già
richiamate (c.d. “unlimited extended tax liability”) oppure quello territoriale, ampliando i criteri di
localizzazione dei redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti che si trasferiscono all’estero (c.d.
“limited extended tax liability”). Si tratta tuttavia di misure soprattutto rivolte alla tassazione dei redditi
futuri, mentre nel caso delle exit taxes in senso stretto si tratta di una “anticipazione” della tassazione di
plusvalenze maturate, ma non ancora realizzate. Esiste infine un’ultima misura, consistente o nel far
venire meno le ipotesi di sospensione d’imposta in corso oppure nel recuperare a tassazione deduzioni
concesse in precedenti esercizi (c.d. “clawback of tax deductions”). Così accade ad esempio nei Paesi
Bassi per i premi di assicurazione sulla vita detratti nei periodi di imposta anteriori al trasferimento della
residenza. Per questa classificazione, vedi R. BETTEN, Income Tax Aspects of Emigration and Immigration of
Individuals, IBFD, 1998, p. 11 ss.
(10) Formerà oggetto di indagine la legislazione di Italia, Francia, Germania, Austria, Belgio, Paesi
Bassi, Svezia e Regno Unito.
(11) Corte di giustizia, 27 settembre 1988, C-81/98, Daily Mail, in Raccolta, 1988, p. 5483 ss.
(12) Fa eccezione la legislazione olandese, che ammette il trasferimento della sede sociale – a pena
di nullità della delibera adottata – solo in circostanze eccezionali (guerra, ecc.), pur riconoscendo la
possibilità di trasferire la sede del management and control in un altro Stato, con le conseguenze tributarie che
esamineremo successivamente. Per quanto riguarda l’Italia, pur non essendo nel sistema codicistico
italiano contenuta alcuna norma espressa sul trasferimento di sede all’estero (neanche a seguito del d. lgs.
n. 6/2003), è noto come la relativa ammissibilità sia da sempre stata riconosciuta sulla base degli artt.
Essi si ricollegano, piuttosto, agli effetti conseguenti all’operatività, congiunta o
disgiunta, della teoria della c.d. “incorporazione” (“incorporation theory”,
“Gründungstheorie”) – per la quale la lex societatis deve rinvenirsi nella legge dello
Stato in cui si è perfezionato il procedimento costitutivo dell’ente – e della teoria della
c.d. “sede reale” (“real seat theory”, “Sitztheorie”, “siège réel”) – che rimette alla legge
del luogo di localizzazione di fatto dell’amministrazione la disciplina delle società
commerciali – ciascuna peraltro riferibile, in ognuno degli Stati interessati dal
trasferimento, ai presupposti della “nazionalità” (13) del soggetto che si trasferisce (14)
e/o della sua residenza fiscale (15).
2369, co. 4 (ora co. 5) e 2437 cod. civ., aventi rispettivamente ad oggetto la previsione della maggioranza
necessaria per procedere al trasferimento di sede all’estero e il diritto di recesso in capo al socio
dissenziente per tale trasferimento (sul punto, G. MARINO, Brevi note sul trasferimento di sede all’estero, in
Dir. prat. trib., 1993, p. 1029 e ID., La residenza nel diritto tributario, cit., p. 224 ss. e l’ampia bibliografia e
giurisprudenza ivi richiamata). Ad essi va aggiunto l’art. 25, co. 3, L. n. 218/95 che, riconoscendo che “I
trasferimenti della sede statutaria in un altro Stato (…) hanno efficacia soltanto se posti in essere
conformemente alle leggi di detti Stati interessati”, prende nuovamente atto dell’operatività di tale istituto
nel nostro ordinamento, alle condizioni che successivamente esamineremo.
(13) Potrà capitare, nel corso del lavoro, di usare indifferentemente i concetti di “nazionalità” e di
“statuto personale societario” (o lex societatis). Tuttavia, tra detti concetti non v’è coincidenza. Come rileva
T. BALLARINO, Diritto internazionale privato e processuale, Padova, 1999, p. 144, mentre lo “statuto
personale” significa la ricerca di una legge regolatrice che è anteriore rispetto alla stessa qualificazione
della nazionalità, quest’ultima esprime essenzialmente un dato rilevante per le norme del foro che
distinguono tra cittadini e stranieri (es. per l’ammissione a determinate attività). La loro caratterizzazione
sarebbe più complessa quando società italiane vengano prese in considerazione dal punto di vista del
nostro ordinamento giuridico, poiché accertarne il carattere straniero significherebbe soltanto che non
sono regolate dalla legge italiana (e, come conseguenza, che non sono ammesse alle attività riservate ai
nazionali), senza peraltro dire quale questa legge sia. Essa emergerebbe invece con chiarezza quando si
debba valutare un atto giuridico compiuto all’estero (ad es., un contratto) da un ente giuridico non
italiano, essendo il problema da risolvere quello della legge regolatrice della società (es. per stabilire la
capacità di concludere quel contratto). Sul rapporto tra “nazionalità” e “legge applicabile”, vedi anche M.
MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, Ed. Montchrestien, Paris, 2001, p. 33 ss.
(14) Ai fini internazional-privatistici, in ambito comunitario il criterio dell’incorporazione è tipico
degli ordinamenti anglosassoni come Inghilterra e Irlanda, ma si ritrova anche nei Paesi Bassi, in
Danimarca, in Svezia e in Italia. Il criterio della sede reale si ritrova invece in Francia, Germania, Austria e
Belgio. Per ulteriori riferimenti, vedi G. PETRELLI, Lo stabilimento delle società comunitarie in Italia, in
AA.VV. (a cura del Consiglio nazionale del notariato), Il notaio tra regole nazionali ed europee, Relazioni al XL
Congresso nazionale del notariato, Bari, 26-29 ottobre 2003, Milano, 2003, p. 96 ss. e AA.VV.,
Consecuencias fiscales de los cambios de la residencia de las empresas, in Revista de la economia social y de la empresa,
2003, n. 41, p. 94 ss., in esito alle ricerche svolte durante il Wintercourse 2003 presso la Stockholm School of
Economics (con la partecipazione, tra le altre, dell’Università Luiss-Guido Carli di Roma) dal gruppo di
ricerca sul “Transfer of corporate seat”, coordinato da E. Kemmeren e dal sottoscritto.
(15) Ai fini tributari, sempre in ambito comunitario il criterio dell’incorporazione si ritrova nei
Paesi Bassi (per le società ivi costituite: c.d. “deemed residency”), nel Regno Unito (per le società ivi
costituite) e in Svezia (allo stato puro); il criterio della sede reale è adottato in Germania (insieme,
alternativamente, alla sede legale), in Austria (insieme, alternativamente, alla sede legale), in Belgio
(insieme, alternativamente, alla sede legale e all’oggetto principale), nei Paesi Bassi (per le società non ivi
costituite), nel Regno Unito (per le società non ivi costituite) e in Italia (insieme, alternativamente, alla
sede legale e all’oggetto principale). In Francia vige invece un principio territoriale per la tassazione dei
redditi di impresa, sicché la residenza fiscale finisce per assumere rilevanza ai soli fini dell’applicazione
delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, venendo all’uopo identificata con la sede
Non è questa certamente la sede per esaminare funditus caratteristiche strutturali,
ragioni di fondo ed effetti di ciascuna delle due tesi che compongono la richiamata
dicotomia, questioni che danno ancora oggi luogo ad accesi dibattiti nella dottrina
internazional-privatistica (16). Alcune indicazioni di massima devono tuttavia essere
qui fornite, siccome strumentali all’analisi tributaria che si intende condurre,
analizzando a tal fine separatamente la posizione della società trasferenda nello Stato
di partenza e in quello di destinazione.
Muovendo dal primo corno del dilemma, in particolare dalla prospettiva dello
Stato di partenza, potremmo innanzitutto immaginare che detto Stato adotti il
principio della “incorporazione” non soltanto quale rattachement rilevante per
l’assoggettamento alla lex societatis, ma anche quale criterio di collegamento ai fini della
soggezione alla potestà tributaria illimitata. In una simile evenienza duplici sarebbero
le conseguenze. Da un lato, l’adozione di un siffatto criterio di collegamento rilevante
per l’applicabilità dello statuto personale societario, pur ininfluente ai fini della
disciplina tributaria del trasferimento all’estero stante la normale autonomia tra sistemi
di localizzazione ai fini civilistici ed ai fini tributari, escluderebbe la perdita della qualità
di “soggetto giuridico” (e della eventuale “personalità giuridica” ad esso conferita) in
quanto creato (da) e destinatario della lex societatis dello Stato di partenza (17).
Dall’altro, il principio della “incorporation” adottato ai fini tributari farebbe sì che in
caso di trasferimento della sede all’estero, una società costituita in un determinato
Stato non potrebbe mai perdere – salva l’applicabilità delle c.d. tie-breaker rules
contenute nelle convenzioni internazionali – lo status di società fiscalmente residente e
il conseguente assoggettamento a tassazione illimitata, rimanendo quale unica
statutaria (purché non fittizia). Sul punto, vedi H. LEHÉRISSEL, The Tax Residence of Companies, in
European Taxation, 1999, p. 157 ss.
(16) Per richiami dottrinali su tale dibattito vedi M.V. BENEDETTELLI, Libertà comunitarie di
circolazione e diritto internazionale privato delle società, cit., p. 570 ss., in particolare nota 4, e S. MECHELLI,
Libertà di stabilimento per le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea, in Riv. dir. comm., 2000, II, p.
85, nota 10. Emblematica del conflitto è la vicenda legislativa dell’art. 25 L. n. 218/95, il cui disegno di
legge governativo sottoponeva le società e gli altri enti “alla legge dello Stato nel quale si trova la loro
amministrazione”; criterio, questo, che fu abbandonato a seguito di un emendamento e sostituito con
quello, contrario, dell’incorporazione! Vedi F. MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale. Parte
speciale, Torino, 1997, p. 30.
(17) Eventualmente mantenendo la sede legale nel Paese di origine: sul punto, vedi F. FERRARI,
Corporate tax law ed i progetti di direttiva sul trasferimento di sede di società da un paese membro ad un altro, in Dir.
comm. int., 1999, p. 400, nota 3, che richiama il Companies Act 1985 del Regno Unito. Vedi anche M.
MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 48: “De l’impossibilité de modifier le
rattachement législatif, les droits adoptant l’incorporation en déduisent l’incapacité pour une société de
changer de domicile par sa propre volonté. Le seul changement admis sans réserve, dans tous les
systèmes nationaux, consiste à dissoudre la société pour la reconstituer dans un nouvel État” e p. 283:
“En effet, dans le système d’incorporation, la localisation du domicile (…) dans l’État de constitution
représente une des conditions de régularité de l’enregistrement des sociétés. Ainsi, dès lors qu’il
s’accompagne d’une modification des statuts, le trasfert du siège social conduit au changement de lex
societatis, directement, dans les systèmes le considérant comme facteur de rattachement et, indirectement,
dans les systèmes d’incorporation”.
alternativa la liquidazione e la costituzione ex novo (c.d. “re-establishment”) nell’altro
Stato.
I risultati si capovolgono, sempre nella prospettiva dello Stato di partenza, in
caso di applicazione del principio della “sede dell’amministrazione” ai fini sia
internazional-privatistici che tributari. In questo caso, infatti, ben sarebbe possibile
perdere lo status di soggetto fiscalmente residente sostituendosi, a seguito del
trasferimento di residenza, al criterio di collegamento di tipo personale quel sistema di
“sourcing rules” proprio della tassazione su base territoriale dei soggetti non residenti.
Il problema si sposta tuttavia sul piano internazional-privatistico, in quanto la perdita
del criterio di collegamento rilevante ai fini della applicazione della lex societatis
potrebbe ricostruirsi in termini di sostanziale “scioglimento” del soggetto stesso,
conseguendone a ciò, in via di presupposizione, l’applicabilità delle norme tributarie
previste, lato sensu, per la cessazione dell’impresa.
Gli effetti da ultimo evidenziati non sono tuttavia pacifici. Ad esempio, mentre
in Germania e Francia, Stati che ricorrono in via generale al criterio della sede reale, il
trasferimento della sede comporta la perdita della nazionalità e lo scioglimento della
società (18) – limitandosi così il legislatore, come si vedrà, a rinviare in punto di effetti
tributari sic et simpliciter alle norme previste in caso di liquidazione di società – in Belgio,
dove pur vige il principio della sede reale, dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto
che il trasferimento della sede dell’amministrazione non comporti lo scioglimento
della società laddove questo non sia implicato dalla legge dello Stato di destinazione
(19).
Anche in Italia la giurisprudenza aveva inizialmente considerato il trasferimento
della sede all’estero come assimilabile alla messa in liquidazione della persona giuridica,
(18) Sugli effetti di scioglimento a titolo di liquidazione del trasferimento nel Regno Unito della
sede (statutaria e amministrativa) di una società di diritto tedesco, vedi Corte di Appello della provincia
bavarese, III camera civile, 7 maggio 1992, n. 3Z BR 14/92, in Dir. prat. trib., 1994, II, p. 301 ss., con nota
di G. MARINO, Ancora sul trasferimento di sede all’estero e in Le Società, 1993, p. 139 ss. con nota di A. DE
VITA, Ritenuto inammissibile il trasferimento di società all’estero. Dalla motivazione della sentenza si evince che
tali conseguenze non sono previste a livello normativo, bensì sono frutto delle ricostruzioni dottrinali e
giurisprudenziali intorno al concetto di “change of personal law applicable to the company”, dalle quali la
Corte bavarese non ha inteso discostarsi. Sempre per quanto riguarda la Germania, qualche dubbio
sussiste invece con riferimento al trasferimento in uno Stato che adotta il principio dell’incorporazione
mantenendo la sede statutaria in Germania, posto che in tal caso il “renvoi” allo Stato di incorporazione
potrebbe, secondo parte della dottrina tedesca, non far venire meno la nazionalità tedesca. Questa
soluzione è peraltro adottata a livello internazionale in trattati ad hoc stipulati dalla Germania con gli Stati
Uniti e con la Spagna, che basano la capacità delle società sulla legislazione dello Stato in cui la società è
stata originariamente costituita. Per quanto riguarda l’Austria, si ricostruisce la vicenda in termini di
“liquidazione” solo se il trasferimento della sede reale avviene in uno Stato che adotta il criterio della sede
reale; altrimenti, si ritiene che il trasferimento in uno Stato che adotta il principio dell’incorporazione
finisca pur sempre per rendere applicabile la legge societaria austriaca, purché la sede statutaria rimanga in
Austria.
(19) In giurisprudenza, vedi Cons. Stato, 29 giugno 1987, T.R.W. 1988, p. 110, nel caso Vanneste
International Transport.
con conseguente estinzione della stessa ed eventuale nuova costituzione all’estero (20).
Ciò nonostante il contrario avviso della dottrina, che sosteneva l’inesistenza di un
conseguente pregiudizio per l’esistenza della fattispecie societaria, purché ciò fosse
consentito dalla legislazione degli Stati interessati (21). Questa ultima tesi, che ha
finito per far breccia anche in giurisprudenza riconoscendosi ivi la possibilità da parte
delle società italiane di trasferirsi all’estero mantenendo il loro carattere italiano (22),
appare ulteriormente avvalorata, sul piano internazional-privatistico, dal già richiamato
art. 25, co. 3, L. n. 218/1995 che, ricorrendo le situazioni ivi indicate, non fa venire
meno la continuità del soggetto giuridico “società” (23) nonché, sul piano tributario,
(20) Sul trasferimento di sede all’estero quale causa di scioglimento dell’organismo societario, il
cui riconoscimento giuridico sarebbe strettamente legato ad uno specifico ordinamento, vedi App.
Torino, 17 giugno 1958, in Riv. dir. int., 1958, p. 597 ss., con nota di F. CAPOTORTI. Vedi anche Ordine
dei dottori commercialisti di Milano e Lodi, Commissione per i rapporti internazionali, Il trasferimento della
sede sociale all’estero e all’estero, Milano, 1988, p. 21.
(21) In dottrina, vedi F. CAPOTORTI, Il trasferimento di sede di una società da uno Stato all’altro, in
Foro it., 1958, c. 209 ss.; ID., Sulla continuità delle società di “persone” che trasferiscono la sede in un altro Stato, in
Riv. dir. internaz., 1958, p. 615 (“si avrà, allora, una successione di leggi regolatrici dell’esistenza di un dato
soggetto, ancorché il soggetto stesso non abbia dovuto estinguersi per l’una e rinascere per l’altra; ipotesi,
questa, che chiunque riterrebbe assurda rispetto a un individuo che avesse mutato cittadinanza, e che non
è meno assurda rispetto a un ente collettivo, dal momento che non v’è dubbio sulla unicità formale della
veste di persona, di fronte al diritto”); P. GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano, Torino, 1959, p.
499 ss.; A. SANTA MARIA, Le società nel diritto internazionale privato, Milano, 1970, p. 143; E.
SIMONETTO, Società costituite all’estero od operanti all’estero (artt. 2498-2510), in Commentario del codice civile (a
cura di A. Scialoja e G. Branca), Bologna-Roma, 1976, p. 370; T. BALLARINO, La società per azioni nella
disciplina internazionalprivatistica, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. COLOMBO e G.
PORTALE, Torino, IX, 1994, p. 66 e 106 ss. Vedi anche lo Studio della Commissione Studi civilistici del
Consiglio Nazionale del Notariato, n. 3310 del 2 maggio 2001, relativo al “Trasferimento all’estero della
sede sociale”. Contra, R. MONACO, L’efficacia della legge nello spazio, in Trattato di diritto civile, diretto da F.
Vassalli, Torino, 1954, p. 116, che ritiene che la delibera di trasferimento di sede all’estero debba
considerarsi illegale e priva di effetto; F. CARUSO, Le società nella Comunità Economica Europea, Napoli,
1969, p. 298 ss., che ritiene che la perdita di tutti i criteri di collegamento con l’ordinamento italiano
determini lo scioglimento della società e la sua ricostituzione nel paese di destinazione.
(22) Vedi App. Milano, 7 maggio 1974, in Giur. comm., 1975, II, p. 832 ss.; Trib. Torino, 16
dicembre 1991, in Giust. civ., 1992, p. 811 ss.; Trib. Verona, 5 novembre 1996, in Le società, 1997, con nota
di F. FIMMANO’, per la quale nel caso di trasferimento nel Regno Unito di una s.r.l. italiana presso la
sede della casa madre “il principio cosiddetto dell’incorporazione vigente nei paesi di tradizione
anglosassone, non comporta, in via di principio, la perdita automatica della nazionalità di provenienza in
capo alla società incorporata, che viene accolta nell’ordinamento senza imporre quegli oneri e formalità di
tipo civilistico, che caratterizzano invece l’ordinamento italiano, continuando la società a vivere secondo
la legge dello Stato di provenienza”; Trib. Udine, 12 gennaio 1998, che ha ritenuto legittimo il
trasferimento di sede di una società per azioni italiana all’estero, sia pure subordinatamente al
mantenimento della dizione “spa” nella nuova denominazione sociale e alla nomina di un legale
rappresentante nel territorio. Vedi però Trib. Udine, 17 agosto 1998, che ha invece negato il trasferimento
della sede all’estero nell’ipotesi in cui la società costituita in Italia rescinda tutti i rapporti con
l’ordinamento italiano, assistendosi in tal caso all’estinzione della società in Italia e alla sua ricostituzione
nello Stato di destinazione; e App. Trieste, 9 ottobre 1999, in Riv. not., 2000, p. 167, secondo cui la
delibera di trasferimento della sede sociale all’estero che comporti la perdita della nazionalità si configura
quale vera e propria estinzione della società.
(23) Vedi R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), in Dig. disc. priv.
sez. comm., Torino, XIV, 1997, p. 150. Sul non venir meno, ricorrendo le condizioni indicate nell’art. 25
dall’introduzione dell’art. 20-bis t.u.i.r., che prevede una disciplina autonoma degli effetti
tributari del trasferimento di sede, senza cioè rinviare a quella prevista per la
liquidazione di società.
Passando ora al secondo corno del dilemma, e dunque sul versante dello Stato
di destinazione, alla dialettica tra principio del “place of incorporation” e principio del
“seat of management” si ricollega anche il problema del riconoscimento in detto Stato del
soggetto che si trasferisce.
E’ infatti possibile che lo Stato di destinazione non riconosca la “personalità
giuridica” (o, al limite, neanche la “soggettività”) attribuita dallo Stato di partenza e in
questo mantenuta nonostante il trasferimento della sede, né che esso proceda
all’attribuzione di una propria “soggettività” (o, in aggiunta, di “personalità giuridica”)
alla società straniera indipendentemente da una nuova costituzione ai sensi delle
proprie leggi, determinandosi così conseguenze quali l’incapacità a contrattare,
l’incapacità processuale, la responsabilità illimitata dei soci e via dicendo.
Mentre per quanto riguarda gli Stati che adottano il principio
dell’incorporazione vi è una tendenza a “riconoscere” il soggetto estero se, e proprio in
quanto, validamente costituito ai sensi della legislazione di un altro Stato – prevedendosi
a suo carico il mero obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (24) – una tendenza
contraria si registra per quanto attiene agli Stati che adottano il criterio della “sede
reale” (25). In Austria, ad esempio, il trasferimento della sede legale e della sede
dell’amministrazione obbliga la società straniera al c.d. “re-establishment”; altrettanto
co. 3, della continuità del soggetto giuridico società, vedi F. MOSCONI, Diritto internazionale privato e
processuale. Parte speciale, cit., p. 34. Sottolinea come la nuova norma non apporti sostanziali novità, se non
nel fatto che il trasferimento deve riguardare la sede statutaria (potendosi prima ritenere che fosse
sufficiente quella amministrativa), T. BALLARINO, Diritto internazionale privato e processuale, cit., p. 161. Sul
fatto che il trasferimento debba riguardare la sede statutaria, senza che rimangano in Italia né la sede
dell’amministrazione, né l’oggetto principale dell’impresa, vedi A. SANTA MARIA, Spunti di riflessione sulla
nuova norma di diritto internazionale privato in materia di società ed altri enti, in Riv. soc., 1996, p. 1102.
(24) Lo Stato che adotta il principio della incorporazione, dunque, da un lato ritiene di imporre le
proprie norme alle società che ivi si sono costituite, ovunque queste esercitino la loro attività e ovunque
sia situata la sede amministrativa, ma dall’altro accetta il rischio di “importare” il diritto di un altro Stato
per le società che esercitino in esso la propria attività, ma si siano costituite altrove. Si richiede, tuttavia,
che le società mantengano un qualche legame con il proprio Stato di origine e che non si tratti pertanto di
mere “pseudo foreign corporations”: si pensi ad esempio alla prassi danese dichiarata incompatibile con il
principio di libertà di stabilimento nel caso Centros che tra breve esamineremo. In Italia, una difesa contro
le “pseudo foreign corporations” si rinviene in quelle tesi che affermano che le società che sono state sì
validamente costituite in un altro paese, ma che in esso non hanno mai operato, sicché sin dall’inizio si
sarebbero dovute costituire secondo l’ordinamento italiano, dovrebbero essere considerate italiane a tutti
gli effetti e non riconosciute in quanto invalidamente costituite. Esprime dubbi sulla compatibilità di tale
soluzione con i principi espressi nella sentenza Centros, F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento
comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, in Giur. comm., 2000, II, p. 573.
(25) Sul punto, vedi T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit.,
p. 23, il quale evidenza che la competenza della “sede” fa sostanzialmente dipendere l’insediamento delle
società commerciali da una specie di concessione dell’autorità locale, così impedendo alle società
costituite all’estero di stabilire nel paese il centro di direzione dell’impresa.
accade in Francia, dove la mancanza di una regolamentazione ad hoc sulle società che
ivi si trasferiscono è stata interpretata come impossibilità di un loro riconoscimento,
con conseguente necessità di doversi procedere ad una “ricostituzione” in Francia del
soggetto straniero (26); in Germania, infine, la società costituita altrove che sposti la
sede in Germania viene talvolta considerata come priva di soggettività (“nicht
existierende Person”), altre volte riqualificata come “società di persone di fatto”,
negandosi dunque la sola “personalità giuridica” (27). In Belgio, al contrario, la Corte
di cassazione ha ritenuto nel caso Lamot (28) che al trasferimento in Belgio della sede
reale del soggetto estero non consegua la sua liquidazione laddove lo Stato di partenza
riconosca anch’esso la continuità del soggetto stesso.
In Italia, dove il criterio-base adottato dall’art. 25 L. n. 218/95 è quello
dell’incorporazione “temperata”, si riconosce invece la possibilità che un ente
incorporato all’estero possa trasferire in un momento successivo la propria sede in
Italia e mantenere il suo carattere straniero, purché il paese di origine consenta una
simile eventualità, ossia non imponga lo scioglimento della società in questione (29),
nel qual caso non sarebbe infatti più possibile parlare di un soggetto “straniero”. Una
siffatta impostazione, come è stato rilevato (30), sembra infatti potersi desumere da un
(26) Rép. Min. 19 febbraio 1972 (in JOAN, mai 1972, p. 1701), Rép. Min. 26 gennaio 1987 (in
JOAN, 6 aprile 1987, p. 2000). Vedi M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 34.
(27) Sul punto, vedi F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra
ordinamenti societari, cit., p. 564, nota 20. In giurisprudenza, vedi Corte di Appello della Baviera, 18 luglio
1985, richiamata da T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 23,
che ha rifiutato di riconoscere capacità giuridica ad una società costituita a Londra in una forma
associativa inglese, ma avente la propria sede in Germania.
(28) Cass., 12 novembre 1965, R.W. 1965-1966, p. 911, che ha accolto la “reality theory” e
respinto la “fiction theory”. In particolare, in base alla “fiction theory” la “personalità giuridica” della
società si considera una finzione, con l’effetto che il distacco dall’ordinamento che a tale finzione ha dato
luogo si risolve nello scioglimento di tale società; in base alla “reality theory”, invece, la persona giuridica
si considera una entità “reale”, con la conseguenza che la continuità del soggetto che si trasferisce non
può venire in tal caso meno. Sul punto, ampiamente, M. MENJUCQ, Droit international et européen des
sociétés, cit., p. 284 ss. e K. DEBRIER, Tax Treatment of Migration of Companies to Belgium, in Bulletin of IBFD,
1998, p. 77 ss. Problema diverso è quello delle eventuali modifiche statutarie che il soggetto estero, così
riconosciuto, è tenuto a porre in essere, eventualmente al fine di adeguarsi alle norme imperative dello
Stato di destinazione.
(29) Vedi R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 150.
(30) Vedi R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 150 ss.
Sulle diverse soluzioni adottate anteriormente alla L. n. 218/95, vedi M.V. BENEDETTELLI, La legge
regolatrice delle persone giuridiche dopo la riforma del diritto internazionale privato, in Riv. soc., 1997, p. 40 ss. e T.
BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 34 ss. In giurisprudenza, vedi
Trib. Pordenone, 28 settembre 1990, in Foro pad., 1991, I, p. 187, che si è pronunziato in favore di un
trasferimento di sede legale dall’estero (Lussemburgo) in Italia (con assunzione della forma di spa e
adozione di uno statuto conforme alla legislazione vigente in Italia) riconoscendo all’ente la sua origine
straniera (“non trattandosi della costituzione ex novo di una società, ma solo del trasferimento e
trasformazione di un soggetto già esistente anche per l’ordinamento italiano (…) non è necessario il
versamento di tre decimi di capitale…”).
lato dal riferimento contenuto nell’art. 25 co. 1 L. n. 218/95 alla legge del luogo di
incorporazione – presupponendo esso appunto il riconoscimento del soggetto straniero
e la non necessità di una nuova costituzione – e dall’altro dalla precisazione contenuta
nel successivo comma 3, che riconosce efficacia ai trasferimenti della sede statutaria in
un altro Stato “soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati
interessati”, ponendo in evidenza la relazione tra continuità del soggetto e legge
(anche) dello Stato di partenza, con la conseguenza che il riconoscimento della
continuità del soggetto sarà condizionato all’ammissibilità del trasferimento (anche) in
tale ultimo Stato (31). Solo dunque in presenza di condizioni di ammissibilità in
ambedue gli ordinamenti sarà possibile parlare correttamente di “trasferimento” di
sede, risolvendosi in tal caso il tutto in una mera modificazione statutaria da operare in
base alla legge richiamata dall’art. 25 co. 1 (32).
Le questioni sin qui esaminate hanno formato oggetto di attenzione in ambito
sia internazionale, sia comunitario, senza tuttavia mai approdare a risultati concreti.
Da un lato, infatti, né la Convenzione dell’Aia del 1° giugno 1956 sul
riconoscimento delle società straniere, né la Convenzione di Bruxelles del 29 febbraio
1968 attinente al reciproco riconoscimento delle società e persone giuridiche, sono
mai entrate in vigore (33). Dall’altro, l’attenzione dedicata nel Trattato di Roma a tale
questione, tramite la previsione contenuta nell’art. 293 sull’avvio da parte degli Stati
membri di negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini, il reciproco
riconoscimento delle società, il mantenimento della personalità giuridica in caso di
trasferimento della sede da un paese ad un altro e la possibilità di fusione di società
(31) Dunque, se i due ordinamenti in rilievo (o anche uno solo di essi) non consentono il
trasferimento della sede sociale, l’operazione, ove posta in essere, potrà dar luogo alternativamente: a) allo
scioglimento dell’ente originario e all’incorporazione di una nuova fattispecie societaria nel paese
ospitante; b) all’esistenza di due enti distinti nel caso in cui non venga imposta l’estinzione della società
preesistente nell’ordinamento di partenza, ma si richieda una costituzione ex novo nel paese di
destinazione: sul punto, R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 154.
Vedi anche G. PETRELLI, Lo stabilimento delle società comunitarie in Italia, cit., p. 122 ss., per il quale il
trasferimento della sede in Italia è disciplinato dalla legge regolatrice della società straniera, che potrebbe
anche non ammettere tale trasferimento.
(32) Sul fatto che di trasferimento di sede abbia senso parlare soltanto allorché la società prosegua
la propria vita nel passaggio da uno Stato ad un altro, vedi T. BALLARINO, Diritto internazionale privato, II
ed., Padova, 1996, p. 357.
(33) La Convenzione di Bruxelles (in Boll. C.E., Suppl., n. 2/1969, p. 2 ss.) non è mai entrata in
vigore a causa della mancata ratifica da parte dei Paesi Bassi. Infatti, il progetto accoglieva sì in linea di
principio la teoria dell’incorporazione, ma conteneva altresì una clausola di riserva che consentiva a
ciascuno Stato di applicare alle società di altri paesi membri con sede sul suo territorio le proprie norme,
vale a dire tanto la disciplina imperativa quanto quella dispositiva. Per tale motivo i Paesi Bassi, fautori di
un’applicazione estrema della teoria dell’incorporazione al fine di attirare investimenti esteri, non hanno
ritenuto di ratificare la Convenzione.
soggette a legislazioni nazionali diverse, non si è mai concretizzata in provvedimenti ad
hoc (34).
In tempi recenti è tuttavia emerso un rinnovato interesse per le questioni
relative ai problemi giuridici connessi alla mobilità delle società in ambito comunitario,
espressosi ora in ambito giurisprudenziale (nei casi Centros e Überseering), ora in ambito
legislativo.
Nel caso Centros una società costituita nel Regno Unito aveva chiesto di aprire
una branch in Danimarca (35). L’autorità danese aveva tuttavia rifiutato la registrazione
di tale branch, ritenendo che la società, non svolgendo alcuna attività nel Regno Unito,
fosse stata costituita dai due soci danesi al solo fine di eludere la legislazione danese
sul capitale minimo e beneficiare del più favorevole diritto inglese che tale dotazione
minima di capitale non prevedeva. La Corte di Giustizia ha ritenuto che la fattispecie
rientrasse nella tutela della libertà di stabilimento secondaria – in quanto relativa alla
creazione di una succursale (36) – assicurata dal Trattato alle società aventi scopo di
lucro “costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede
sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della
comunità”, e che la ricerca di un diritto societario più favorevole non costituisse un
abuso del Trattato medesimo. Si sancisce dunque il diritto di un cittadino di uno Stato
membro ad incardinare giuridicamente una società in un determinato ordinamento, in
quanto ritenuto più vantaggioso sotto il profilo della lex societatis, e di esercitare la
proprie attività, anche in via esclusiva, in un diverso ordinamento.
La sentenza appena richiamato ha dato vita ad un ampio dibattito se con essa la
Corte abbia voluto affermare la sostanziale incompatibilità fra libertà di stabilimento e
(34) Esistono peraltro taluni accordi bilaterali che prevedono il mutuo riconoscimento: sul punto,
vedi T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 92 ss.; M.
MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 67 ss.
(35) Corte di giustizia, 9 marzo 1999, C-212/97, Centros Ltd. C. Ehrvers-og Selskabsstyrelsen, in Racc.,
1999, I, p. 1459 ss. Spunti di questo orientamento si rinvengono anche nella meno nota Corte di giustizia,
10 luglio 1986, C-79/85, Segers c. Bedriifsfereinigung, in Racc., 1985, I, p. 2375, relativa alla incompatibilità con
l’art. 43 del rifiuto all’amministratore di una società di fruire di un regime nazionale di assicurazione per la
malattia per il solo fatto che la società è stata costituita secondo le leggi di un altro Stato membro nel
quale essa ha del pari la sede sociale, anche se non vi svolge attività commerciale. Per un commento alla sentenza
Centros vedi F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, cit.,
p. 559 ss.; S. MECHELLI, Libertà di stabilimento per le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea,
cit., p. 83 ss.; A. PERRONE, Dalla libertà di stabilimento alla competizione fra gli ordinamenti? Riflessioni sul “caso
Centros”, in Riv. soc., 2001, p. 1298 ss.; M. GESTRI, Mutuo riconoscimento delle società comunitarie, norme di
conflitto nazionali e frode alla legge: il caso Centros, in Riv. dir. int., 2000, p. 76 ss.
(36) Anche se, a ben guardare, di sede secondaria vi era ben poco, stante l’inesistenza di una
attività principale nel Regno Unito. Vedi ad riguardo le osservazioni dell’Avvocato generale nel caso
Überseering BV, punto 36 e quelle della – al riguardo unanime – dottrina che si è occupata della sentenza
Centros.
il criterio internazional-privatistico della “sede reale” (37). La discussione non si è
posta tuttavia tanto nella prospettiva dello Stato di partenza, dove permane il problema
degli eventuali effetti “liquidatori” conseguenti allo spostamento della sede reale da
uno Stato che tale criterio adotta ai fini dell’assoggettamento alla lex societatis, quanto
piuttosto nella prospettiva dello Stato di destinazione, avendo di mira il problema se lo
spostamento in uno Stato nel quale vige il criterio della sede reale (dunque,
diversamente dalla Danimarca) possa legittimare l’assoggettamento della società alla
legge nazionale, comprese le disposizioni sul capitale minimo (38). In altri termini, il
problema sollevato è soprattutto quello della legittimità della eventuale pretesa dello
Stato del foro di disconoscere il carattere straniero di un ente così da assoggettarlo alla
legge vigente nel suo ambito territoriale, in luogo della legge dello Stato di origine. In
questa ottica il problema non deve essere sopravvalutato ai nostri fini, perché il
problema dell’applicabilità delle leggi tributarie è come noto svincolato dalla natura
“nazionale” oppure “straniera” del soggetto di imposta (39).
Più interessante è il caso Überseering BV (40), dove viene affrontato il problema
della continuità del soggetto nel passaggio da uno Stato retto dal principio della
“incorporation” ad uno Stato retto dal principio del “real seat”. Su di esso occorre
brevemente soffermarsi in quanto, come si vedrà, nella sentenza Daily Mail – con la
(37) Vedi A. PERRONE, Dalla libertà di stabilimento alla competizione fra gli ordinamenti? Riflessioni sul
“caso Centros”, cit., p. 1298, il quale ritiene che pur non contenendo la sentenza in esame riferimenti
espliciti al problema – impediti dalle caratteristiche della fattispecie concreta per l’impiego prevalente da
parte della norma di conflitto danese del diverso criterio del luogo di incorporazione (come già rilevato da
M. GESTRI, Mutuo riconoscimento delle società comunitarie, norme di conflitto nazionali e frode alla legge: il caso
Centros, cit., p. 76) – essa si ponga ciò non di meno in rotta di collisione con il criterio della sede reale.
Un ulteriore problema che si è sollevato è se l’art. 48 del Trattato contenga una norma di conflitto
“occulta”: sul punto, vedi F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra
ordinamenti societari, cit., p. 565 ss.
(38) Si pensi alle norme che tutelano i creditori o a quelle che prevedono la Mitbestimmung. Vedi
M. GESTRI, Mutuo riconoscimento delle società comunitarie, norme di conflitto nazionali e frode alla legge: il caso
Centros, cit., p. 76.
(39) Evidenzia tuttavia F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra
ordinamenti societari, cit., p. 566 ss., che la Sitztheorie potrebbe risultare incompatibile con la libertà di
stabilimento sotto due aspetti. In primo luogo, essa potrebbe violare il principio di non discriminazione,
poiché solamente le società costituite sul territorio potrebbero impiantarvi la sede amministrativa
principale, avvenendo così una discriminazione tra queste e le società costituite altrove (si tratta, dunque,
del problema del mancato riconoscimento del soggetto estero). In secondo luogo, il sostanziale divieto di
impiantare la sede amministrativa in un altro Paese sarebbe una restrizione dell’ambito di applicazione
dell’art. 48, non giustificata dalla necessità di proteggere alcun interesse preminente (si tratta, dunque, del
problema degli effetti “liquidatori” connessi al trasferimento di residenza dallo Stato che adotta il principio
della sede reale). Ad avviso di P. BEHRENS, Das internationale Gesellschaftsrecht nach dem Centros-Urteil des
EuGH, richiamato da F.M. MUCCIARELLI, op. ult. cit., p. 567, la sentenza Centros dovrebbe essere letta
anche nel senso dell’obbligo per lo Stato che adotta il principio della “sede reale” di riconoscere una
società validamente costituita in un altro Stato della UE. Si veda infra, par. 7, quando si discuteranno
contenuti ed effetti della sentenza Daily Mail.
(40) CGCE, 5 novembre 2002, C-208/00, in Racc., 2002, p. 9919 ss.
quale la Corte ha ritenuto legittima la normativa inglese che subordinava il
trasferimento della sede amministrativa (ergo, della residenza fiscale) in un altro Stato
alla preventiva autorizzazione del governo inglese – l’argomento principale utilizzato
dalla Corte per riconoscere la legittimità di tale normativa ha consistito proprio nella
non omogeneità delle norme interne di diritto internazional-privatistico e commerciale
e dunque della non censurabilità delle conseguenze (anche tributarie) di tale
disomogeneità sino al momento dell’attuazione di quanto previsto dal già menzionato
art. 293 del Trattato.
Nel caso di specie, la Überseering BV – società di diritto olandese le cui quote
erano state acquistate da due soggetti tedeschi, con ciò ritenendosi da parte della
legislazione tedesca aver essa stabilito il proprio “place of management” in Germania
(41) – aveva convenuto dinanzi ad un tribunale tedesco la società NCC, a motivo di
opere difettose da essa realizzate in Germania per suo conto. La sua azione era stata
tuttavia dichiarata improcedibile in quanto, dovendo la capacità processuale essere
determinata in base alla legge del luogo della sede dell’amministrazione dell’attore, la
legge tedesca, nella specie applicabile, riconosceva capacità processuale alle sole
società costituite in Germania.
La Corte ha questa volta respinto l’argomento avanzato dal governo tedesco
sulla necessità di una previa attuazione dell’art. 293 del Trattato, ritenendo l’esercizio
della libertà di stabilimento indipendente dall’adozione di convenzioni sul mutuo
riconoscimento. Essa ha invero affermato l’inapplicabilità delle conclusioni raggiunte
nel caso Daily Mail, poiché mentre in tal caso venivano in rilievo i rapporti tra società e
Stato di partenza – intendendo la società trasferire la sede dell’amministrazione in un
altro Stato senza perdere la qualità di società “nazionale” – nel caso Überseering BV
emergeva una diversa prospettiva, quella in particolare dello Stato di destinazione, che
non può ignorare – a pena di violazione della libertà di stabilimento – la “personalità”
conferita dall’ordinamento di provenienza e da questi mai messa in discussione. In
altri termini, un conto è ritenere che gli ordinamenti interni possano determinare – in
assenza di norme ad hoc – la perdita di “nazionalità” del soggetto che si trasferisce (42),
altro è ammettere che lo Stato di destinazione possa disconoscere la “capacità”
riconosciuta da un altro ordinamento comunitario ed obbligare la società ad un “reestablishment” (43).
(41) La società olandese non aveva infatti trasferito la sede reale in Germania, essendo questa
rimasta nei Paesi Bassi. Tuttavia, poiché la società era stata acquistata da due azionisti tedeschi, la
legislazione tedesca riteneva tale circostanza sufficiente per rinvenire in Germania la sede reale della
società olandese.
(42) Il che peraltro, come si vedrà successivamente, non accadeva neanche nel caso Daily Mail.
(43) Né la Corte ha ritenuto esistere una giustificazione al riguardo poiché gli interessi di ordine
generale (interessi dei creditori, degli azionisti, dei dipendenti, delle autorità fiscali) non potrebbero
giustificare in alcun caso il diniego della capacità giuridica del soggetto estero.
Appare in tale modo possibile rinvenire una soluzione ad uno dei numerosi
aspetti in cui si concretizza il problema della continuità “giuridica” del soggetto che si
trasferisce, restandone tuttavia irrisolti altri, in primis quello del trasferimento da uno
Stato che adotta il criterio della “sede reale” e degli effetti di “scioglimento” che esso
può recare con sé.
Una soluzione di carattere generale è stata peraltro recentemente individuata a
livello comunitario con il Regolamento 8 ottobre 2001, n. 2157 sulla Società Europea
(SE), tra i cui principali obiettivi risiede proprio quello di consentire finalmente alcune
operazioni assai difficili per le società nazionali, tra cui il trasferimento di sede
all’estero (44).
L’art. 8 del Regolamento prevede in particolare che la sede sociale della SE
possa essere trasferita – sia pure in esito ad un articolato procedimento – in un altro
Stato membro senza che con ciò si realizzi lo scioglimento o la costituzione di una
nuova persona giuridica. E’ peraltro interessante notare che l’art. 7 del regolamento
prevede, a pena di gravi sanzioni (45), la necessaria coincidenza tra stato della sede
sociale e stato della amministrazione centrale, sicché ogni trasferimento della sede
sociale dovrà essere necessariamente accompagnato da un trasferimento della sede
amministrativa.
La disciplina del trasferimento di sede contenuta nel regolamento, nel sancire la
continuità del soggetto che si trasferisce, potrebbe dunque rivelarsi decisiva proprio
nell’ipotesi del trasferimento da uno Stato che adotta il criterio della “sede reale”.
Sennonché, l’art. 14 co. 8 del regolamento consente agli Stati membri di prevedere, per
le società europee in esso registrate, l’inefficacia del trasferimento di sede comportante
un cambiamento della legge applicabile nel caso di opposizione spiegata per motivi di
“interesse pubblico” da un’autorità competente del suddetto Stato, con il rischio di far
(44) Sul punto, vedi A. MALATESTA, Prime osservazioni sul regolamento CE n. 2157/2001 sulla
società europea, in GUCE., 10.11.2001. Ad esso si aggiunge il progetto della Commissione di XIV direttiva
in materia societaria (in Dir. comm. int., 1999, p. 415 ss.). Si tratta in particolare del “Projet de directive
concernant le transfert du siège réel d’un état membre dans un autre état membre sans dissolution (la
société restant soumise au droit de l’état de constitution)” e del “Projet de directive concernant le
transfert du siège social d’un état membre dans un autre état membre sans dissolution (avec changement
de la loi applicable)”. In base al primo progetto, si prevede tra l’altro che “chaque Etat membre prévoit,
pour les sociétés relevant de son droit national, des règles conformes à la présente directive, organisant le
transfert du siège réel vers ou dehors dudit Etat, sans dissolution” (art. 3 par. 1) e che “Un Etat membre
ne peut considérer qu’une société a été radiée ou dissoute du simple fait que elle a transféré son siège réel
dans un Etat membre autre que l’Etat de constitution” (art. 3 par. 5); in base al secondo progetto,
“Chaque Etat membre définit, conformément à la présente directive, pour les sociétés relevant de son
droit national, les règles régissant le transfert du siège social à l’interieur ou à l’exterieur dudit Etat, sans
dissolution ” (art. 4 par. 1).
(45) In particolare, l’art. 64 co. 2 del regolamento stabilisce che in caso di omessa regolarizzazione
– mediante il ripristino della propria amministrazione centrale nello Stato membro della sede sociale
oppure procedendo al trasferimento della sede sociale mediante la procedura di cui all’art. 8 – di una
situazione non conforme all’art. 7 (coincidenza tra sede sociale e sede dell’amministrazione centrale), lo
Stato della sede sociale adotti le misure necessarie a garantire che la stessa sia liquidata.
rientrare “dalla finestra” quegli ostacoli di natura fiscale, sui quali ora ci soffermeremo,
che sembravano usciti dalla porta (46).
3. Le exit taxes “societarie” nella UE: un’ipotesi di classificazione. – Chiarite le
possibili interrelazioni tra diritto internazionale privato delle società e diritto tributario
nella disciplina del trasferimento della “sede”, possiamo ora consapevolmente passare
all’esame delle discipline delle exit taxes presenti negli Stati comunitari, il quale ne
mette in evidenza la notevole eterogeneità di contenuti.
Ai fini classificatori occorre in particolare distinguere tra ordinamenti che
adottano il principio della sede reale e ordinamenti che adottano il principio
dell’incorporazione.
Per quanto riguarda i primi, emergono tre diverse ipotesi.
In una prima ipotesi, gli effetti del trasferimento di residenza vengono assimilati
dal punto di vista tributario, per espressa disposizione normativa e come necessaria
conseguenza della perdita di “nazionalità”, alla liquidazione di società. Ciò accade, in
particolare, in Germania e in Francia. Nell’ordinamento tedesco quanto sopra è
disposto dal § 12 KStG, che disciplina gli effetti della perdita della soggettività
tributaria illimitata per effetto del trasferimento della sede dell’amministrazione e della
sede legale all’estero mediante mero rinvio al § 11 KStG, il quale regolamenta appunto
gli effetti tributari della liquidazione, con la precisazione dell’adozione del criterio del
“fair value” in luogo del criterio dell’avanzo di liquidazione (47). Quanto alla Francia,
l’art. 221-2 CGI richiama anch’esso la perdita di nazionalità e la cessazione
dell’impresa (cessation d’activité), determinando l’applicazione di tutte le regole previste
per la “cessazione” d’impresa tout court, in particolare l’imposizione delle plusvalenze
latenti (al netto delle minusvalenze latenti), l’immediata imponibilità degli utili relativi
al periodo di imposta precedente (se non ancora tassati) e a quello in corso, nonché il
venir meno delle eventuali sospensioni di imposta concesse in precedenza.
In una seconda ipotesi, pur non determinando – nonostante l’adozione del
criterio della “sede reale” – il trasferimento all’estero degli elementi costitutivi della
residenza fiscale lo scioglimento della società, ciò nondimeno il legislatore tributario
sancisce sic et simpliciter l’applicazione del regime fiscale della liquidazione. Ciò accade
in particolare in Belgio, dove l’art. 210 § 1 4° dell’Income Tax Code 1992 prevede che il
trasferimento della sede sociale, del c.d. “most important establishment” e della sede
(46) Sottolinea peraltro M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 135, che sul
piano del diritto tributario francese la disposizione si rivela di notevole importanza, in quanto
l’applicazione dell’art. 221 CGI (del quale si dirà tra breve) non ha luogo in presenza di convenzioni che
assicurino il mantenimento della personalità giuridica in caso di trasferimento di sede.
(47) “Verlegt eine unbeschränkt steuerpflichtige Körperschaft (...) ihre Geschäftsleistung und
ihren Sitz oder eines von beiden ins Ausland und scheidet sie dadurch aus der unbeschränkten
Steuerpflicht aus, so ist § 11 entsprechend anzuwenden“.
dell’amministrazione – presupposti per l’acquisizione della residenza fiscale in Belgio –
determina ai fini tributari l’applicazione della disciplina della liquidazione, prevista agli
artt. 208 e 209 dell’I.T.C. 1992, con riferimento al valore normale degli assets societari
ovunque situati (salve al riguardo eventuali convenzioni contro la doppia
imposizione).
In una terza ed ultima ipotesi, nonostante l’adozione del principio della “sede
reale” né si rinvia alla disciplina della liquidazione, né si prevede una disciplina
specifica delle exit taxes. Così ad esempio accade in Austria, dove la mancata
riproduzione da parte del KStG 1988 del § 20 KStG 1966 – che regolava le
conseguenze della perdita di residenza stabilendo che ove una società avesse spostato
la sua sede dell’amministrazione o la sua sede legale in un altro Stato, perdendo la sua
qualità di soggetto tassabile per i redditi ovunque prodotti, avrebbe trovato
applicazione il §18 KStG 1966 disciplinante gli effetti tributari della liquidazione di
società e l’emersione delle plusvalenze latenti in base al criterio del valore normale –
ha dato origine ad una serie di variegate posizioni interpretative in ordine alla rilevanza
ai fini impositivi del trasferimento di residenza fiscale, ora affermandosene la
riconducibilità alla disciplina della liquidazione, con conseguente applicabilità del § 19
KStG, ora ritenendolo disciplinato dal §6(6) EStG 1988, riguardante il trasferimento
all’estero di elementi dell’attivo dell’impresa o di complessi aziendali avente come
destinatario un soggetto collegato (o una stabile organizzazione appartenente) al
soggetto che pone in essere il trasferimento (48).
Venendo ora agli ordinamenti che adottano il principio dell’incorporazione, si
assiste qui alla previsione in ciascuno di essi di una specifica disciplina di tassazione
delle plusvalenze latenti diversa da quella propria della liquidazione, quale corollario
della normale non determinazione da parte del trasferimento della sede all’estero di
effetti qualificabili in termini di scioglimento della società.
Così avviene nei Paesi Bassi, il cui art. 15C CITA rende imponibili le
plusvalenze latenti, le riserve in sospensione d’imposta e l’avviamento delle imprese,
anche in forma societaria, che trasferiscono la propria residenza fiscale in un altro
Stato (49); nel Regno Unito, dove le sect. 185 e 187 del TCGA 1992 (Taxation of Capital
Gains Act) stabiliscono che laddove una società cessi di essere residente nel Regno
Unito, gli elementi dell’attivo si presumono realizzati al loro valore normale; infine in
(48) In ogni caso, tale disciplina si riferirebbe al solo trasferimento all’estero del “place of
management”, stante l’assimilazione, ai sensi del § 29 BAO, del “place of management” alla “stabile
organizzazione”.
(49) Sul punto, vedi M.A. DE LOUW, Netherlands. Lower Courts decides on Taxation on Hidden
Reserves upon the Emigration of a Dutch Company, in European Taxation, 1999, p. 488 ss.
Svezia, dove la cessazione della soggettività tributaria illimitata dà luogo alla tassazione
delle plusvalenze latenti in base ad una disciplina ad hoc (50).
E’ interessante osservare che l’applicazione del criterio del place of incorporation si
estende in tali Stati anche alla residenza fiscale, la quale può essere dunque perduta nel
solo caso di trasferimento in uno Stato con il quale sia stata stipulata una convenzione
contro le doppie imposizioni, in particolare per effetto dell’applicazione della c.d. tiebreaker rule ivi prevista. La “perdita” di residenza si esplica peraltro nei soli confronti
dello Stato convenzionato, sicché il soggetto resterà residente nello Stato di partenza,
sia ai fini interni, sia ai fini dell’applicazione di convenzioni internazionali con Stati
terzi.
Per quanto riguarda l’Italia, essa si pone in una posizione intermedia. Se infatti il
criterio base adottato a seguito della riforma del diritto internazionale privato è quello
della “incorporazione”, abbiamo anche visto come esso non rifugga dal riferimento
alla sede reale. Si è peraltro visto come il dubbio se il trasferimento di sede comporti o
meno la liquidazione della società sia ormai stato risolto in senso negativo, anche in
virtù dell’adozione da parte del legislatore fiscale di una disciplina fiscale ad hoc quale è
l’art. 20-bis (ora 166) t.u.i.r. che chiaramente prescinde dalle vicende operanti sul piano
internazional-privatistico (51).
E’ peraltro interessante notare che alle discipline sostanziali appena richiamate
si accompagnano talvolta discipline procedimentali ad hoc. Così accade ad esempio nel
Regno Unito, ove è previsto un obbligo di comunicazione (“advance warning”)
all’autorità fiscale della data del trasferimento, degli importi dovuti a titolo di imposte
e delle garanzie offerte per il pagamento di dette imposte (52).
4. Altri profili tecnico-giuridici rilevanti sul piano interno. – I limiti che caratterizzano
questo studio non consentono, come già rilevato, di approfondire tutti gli aspetti
tecnico-giuridici che caratterizzano la disciplina delle exit taxes negli Stati interessati.
(50) Vedi P. BRANDT, Sweden. Fundamental freedoms for citizens, fundamental restrictions on national tax
law, in European Taxation, 2000, p. 77 ss.
(51) E’ peraltro interessante notare che anteriormente all’introduzione dell’art. 20-bis, i possibili
effetti di tassazione delle plusvalenze latenti venivano anche ricondotti a vicende diverse da quelle
operanti sul piano internazional-privatistico. Intendiamo in particolare riferirci a quelle tesi che
rinvenivano un appiglio nella norma sull’imponibilità delle plusvalenze dei beni destinati a “finalità
estranee all’esercizio dell’impresa” di cui all’art. 54 t.u.i.r., ritenuta norma di “chiusura” atta a
ricomprendere qualunque ipotesi di oggettiva sottrazione del bene all’impresa e al suo regime. Sul punto,
vedi R. LUPI, Primi appunti in tema di fusioni, scissioni e conferimenti “transnazionali”, in Boll. trib., 1992, p. 1299
(nota 5); ID., Profili tributari della fusione di società, Padova, 1988, p. 60 ss.; M. MICCINESI, Le plusvalenze
d’impresa, Milano, 1993, p. 160 ss.; A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione
transnazionale in ambito CEE, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1996, p. 452 e 487. Contra, M. NUSSI, Trasferimento della
sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, cit., p.
1359, che sostiene l’inesistenza della necessità logica che i beni assoggettati al regime dei beni di impresa
possano uscirne solo comportando l’emersione di plusvalenze o minusvalenze.
(52) Finance Act 1998, sect. 130. Non è invece più richiesto il consenso del Tesoro.
Alcuni di essi meritano tuttavia di essere segnalati.
Innanzitutto, con particolare riferimento a quegli Stati nei quali vige il sistema
del credito di imposta, il legislatore disciplina talvolta l’ulteriore questione
dell’integrazione tra l’imposta pagata dalla società in sede di exit tax e quella dovuta
dagli azionisti. In Francia, ad esempio, l’avanzo “da liquidazione” viene attribuito ai
soci, cui spetta tuttavia un credito d’imposta (avoir fiscal) sulla parte di esso che eccede i
conferimenti e il prezzo di acquisto della partecipazione. In Italia, invece, l’art. 166 tuir
regola, nel caso di società di capitali, esclusivamente ciò che accade a livello societario,
senza curarsi dei successivi effetti sui soci i quali, se residenti, percepiranno in futuro
dividendi provenienti da soggetti non residenti. Tale circostanza, fortemente
penalizzante nel regime dei dividendi vigente sino al 31.12.2003 per la mancata
spettanza del credito di imposta sui dividendi provenienti da soggetti non residenti
(che in effetti avevano scontato l’Irpeg anteriormente al trasferimento di residenza),
risulta ora non più rilevante per effetto dell’abrogazione del meccanismo del credito di
imposta nei rapporti tra società ed azionisti residenti in Italia e la sostanziale
equiparazione nella tassazione tra dividendi interni e dividendi esteri.
In secondo luogo, non sempre il mantenimento dei beni in capo ad una stabile
organizzazione dello Stato che si lascia consente di evitare la tassazione a valore
normale dei beni relativi alla impresa o società che si trasferisce (53). Mentre nel
(53) Problema ulteriore è se possano “confluire” nella stabile organizzazione italiana anche beni
non direttamente connessi con l’attività svolta dalla stabile organizzazione (ad esempio, immobili situati
sul territorio dello Stato o partecipazioni di minoranza non riconducibili all’attività svolta mediante la
stabile organizzazione): sul punto, con riferimento all’art. 20-bis t.u.i.r., F. VARAZI, Reddito d’impresa e
trasferimento di sede all’estero, in Rass. trib., 1995, p. 692, che risolve il problema affermativamente sulla base
del criterio della c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione, e G. ZIZZO, Il trasferimento della
sede all’estero, cit., p. 212, che precisa come la “confluenza” nella stabile organizzazione sia generalmente
intesa come semplice aggregazione contabile, dovendosi considerare “confluiti” nella stabile
organizzazione tutti i cespiti che risultano iscritti nella sua contabilità, ancorché meramente patrimoniali
ovvero situati all’estero. Tale lettura troverebbe conferma in quella parte del co. 1 dell’art. 20-bis nella
quale si assegna alla vicenda considerata la capacità di provocare in ogni caso il realizzo, a valore normale,
delle plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero; regola ritenuta inutile ove i beni all’estero
dovessero comunque sottostare al prelievo in caso di trasferimento della residenza. Ritiene invece A.
LOVISOLO, Profili fiscali della fusione transfrontaliera di società, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar,
Padova, 1997, II, p. 789 che mentre per i beni detenuti per finalità di investimento situati in Italia la
“effettiva connessione” ben potrebbe intendersi quale correlazione contabile al bilancio fiscale della
stabile organizzazione, nel caso di beni situati all’estero e non costituenti stabile organizzazione sarebbe
necessaria l’esistenza di un collegamento con il funzionamento della stabile organizzazione (una
“relazione operativa”), non essendo sufficiente la semplice esposizione dei beni nel bilancio della stessa.
Ora, l’alternativa interpretativa tra “mero collegamento contabile” e “criteri di effettiva connessione
economica” sconta la diversa impostazione data al problema, la prima tesi essendo sostanzialmente
riconducibile alla ratio di ammettere in modo selettivo l’applicazione del principio di neutralità fiscale, la
seconda tesi risentendo invece maggiormente del carattere “produttivo” della stabile organizzazione e
quindi della necessità di un collegamento “strumentale” del bene con la stabile organizzazione medesima.
A ciò si aggiunge il profilo della “forza di attrazione” della stabile organizzazione, come possibilità di
attribuire alla stabile organizzazione anche redditi che non trovano la propria fonte effettiva nella stabile
organizzazione. In tale ultima prospettiva si colloca, ad esempio, l’art. 151 co. 2 t.u.i.r., che localizza in
Italia anche le plusvalenze o minusvalenze “dei beni destinati o comunque relativi alle attività commerciali
esercitate nel territorio dello Stato, ancorché non conseguite attraverso le stabili organizzazioni, nonché
gli utili distribuiti da società ed enti di cui alle lettere a) e b) dell’art. 73”. Si tratta di una previsione che ha
Regno Unito, in Italia, nei Paesi Bassi e in Svezia, ad esempio, la tassazione delle
plusvalenze latenti sui beni relativi alla società che si trasferisce non si verifica laddove
detti beni confluiscano in una stabile organizzazione nel territorio dello Stato che si
lascia (sect. 185, sub 4 TCGA; art. 166 t.u.i.r.; art. 15C CITA; sect. 22(1b) KL)) –
venendone sostanzialmente a costituire il c.d. “fondo di dotazione” – in Germania dal
mero riferimento alla perdita della soggettività tributaria illimitata contenuto nella
legislazione interna, e quale necessaria conseguenza dell’applicazione della disciplina
della liquidazione societaria, si deduce la tassazione anche degli elementi dell’attivo
mantenuti nell’ambito di una stabile organizzazione tedesca (54).
Altri aspetti importanti emergono con riferimento alla determinazione della
base imponibile.
formato oggetto di discordanti vedute, ora ritenendosi che essa intenda riferirsi a plusvalenze o
minusvalenze di beni pertinenti ad altre attività commerciali esercitate senza stabile organizzazione nel
territorio dello stato da parte di un soggetto che svolga, sempre, in Italia una diversa attività commerciale
mediante una stabile organizzazione (C. GARBARINO, Forza di attrazione della stabile organizzazione e
trattamento isolato dei redditi, in Rass. trib., 1990, p. 438; G. ZIZZO, Reddito delle persone giuridiche (imposta sul),
in Riv. dir. trib., 1994, p. 664; S. MAYR, Le società commerciali non residenti con o senza stabile organizzazione in
Italia, in Boll. trib., 2003, p. 1221, che evidenzia che l’effetto di tale tesi sarebbe quello di attribuire alla
norma non solo una funzione di “localizzazione” bensì anche di “attrazione” delle plus- e minusvalenze
in capo alla stabile organizzazione, il che non sarebbe del tutto compatibile con il tenore letterale della
norma); ora invece sostenendosi che essa attribuirebbe rilevanza alla plusvalenze o minusvalenze di beni
che, pur non appartenenti alla stabile organizzazione ma direttamente al soggetto non residente, siano
tuttavia “correlati” all’attività commerciale esercitata nel territorio dello Stato mediante la stabile
organizzazione (L. PERRONE, L’imposizione sul reddito delle società ed enti non residenti, in Rass. trib., 1989, p.
497 ss.; ID., Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione sul reddito delle società e degli enti non residenti, in Rass.
trib., 2001, p. 1227). Non intendiamo prendere posizione su tale controversia, ma solo limitarci a due
osservazioni. Da un lato, la seconda tesi appare preferibile in un’ottica di effettività, essendo difficilmente
ipotizzabile lo svolgimento in Italia di attività commerciali con beni strumentali plus- o minusvalenti
(anch’essi in Italia) senza che ciò dia luogo ad una stabile organizzazione: l’ipotesi di utilizzo di
installazioni materiali per lo svolgimento di attività “preparatorie” o “ausiliarie” difficilmente può infatti
dar luogo allo svolgimento in Italia di attività “d’impresa”. Dall’altro, la seconda tesi mette in evidenza la
possibilità di un collegamento “funzionale” tra stabile organizzazione e beni “non strumentali” che è
interessante ai nostri fini. A tale riguardo deve infatti osservarsi che le ipotesi applicative derivanti
dall’accoglimento della seconda tesi sono state individuate sia con riferimento a beni “plusvalenti” situati
nel territorio dello Stato (ad esempio, l’edificio ad uso abitativo destinato ad accogliere le maestranze dello
stabilimento italiano, le cui plusvalenze da cessione verrebbero ad essere qualificate come redditi
d’impresa anziché come redditi diversi), sia in relazione a beni “plusvalenti” situati all’estero (ad esempio,
un locale destinato a magazzino per merci vendute in Italia). Potrebbe peraltro essere anche ipotizzato il
caso di collegamento con beni non strumentali, anche se ciò non appare di rilievo ai fini dell’applicazione
della norma sul trasferimento di residenza: si pensi ad un “magazzino” prodotti finiti situato in un altro
Stato che venga fatto rientrare in Italia per servire il mercato locale: sul punto, A. SILVESTRI, Il regime
tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito CEE, cit., p. 453. Conclusivamente, il
criterio della “connessione effettiva” rischia di apparire eccessivamente complesso: il criterio della
iscrizione in bilancio (rectius, nella situazione patrimoniale) della stabile organizzazione – che peraltro già
caratterizza la lettura della norma interna, ritenendosi che ai fini dell’applicazione dell’art. 151 co. 2 debba
comunque trattarsi di beni iscritti nel bilancio della casa-madre, poiché ove iscritti nel bilancio della stabile
organizzazione una tale norma non sarebbe necessaria (vedi L. PERRONE, L’imposizione sul reddito delle
società ed enti non residenti, cit., p. 498, che attribuisce rilevanza a tal fine alla contabilità della stabile
organizzazione, da una parte, e dell’ente non residente, dall’altra) – appare dunque probabilmente quello
più equilibrato sotto il profilo operativo.
(54) Vedi KNOBBE-KEUK, Der Wechsel von der beschränkten
Körperschaftsteuerpflicht und vice versa, in Steuer und Wirtschaft, 1990, p. 378 ss.
zur
unbeschränkten
Non è sempre chiaro, innanzitutto, se l’emersione delle plusvalenze latenti
comporti anche la tassazione dell’avviamento. In Germania, ad esempio, dal
riferimento al regime della “liquidazione” la dottrina ne deduce la non tassabilità, sia in
base all’argomento che la liquidazione comporta “per definizione” la perdita
dell’avviamento, sia sulla pretesa disparità di trattamento che si verificherebbe rispetto
ad una vera e propria “messa in liquidazione”; l’amministrazione finanziaria e altra
parte della dottrina ne sostengono al contrario la tassabilità, ritenendo che la ratio del §
12 KStG sia quella di far emergere l’intero valore dell’azienda relativa alla società
trasferita, come se questa dovesse essere ceduta e proseguita all’estero da un nuovo
soggetto, a nulla rilevando la pretesa disparità di trattamento con la liquidazione vera e
propria, poiché con essa viene meno qualsiasi possibilità di generare un futuro reddito.
Lo stesso accade per la disciplina italiana, dove non sussistono certezze né sulla
tassabilità dell’avviamento, né sull’attrazione a tassazione dei beni non facenti parte di
un complesso aziendale, come un immobile o una partecipazione societaria (55).
Situazione, questa, che appare ancor più sorprendente se si pensa che il decreto del
(55) Con riferimento all’avviamento, vedi S. MAYR, Effetti del trasferimento della sede all’estero, cit., p.
2708, per il quale il realizzo a valore normale dovrebbe riguardare esclusivamente i beni iscritti nella
contabilità dell’impresa individuale, con l’esclusione, quindi, del realizzo di un eventuale avviamento. Ciò
sia in virtù del tenore letterale della norma, sia a motivo dell’inesistenza di un’operazione tipicamente
connessa al realizzo dell’avviamento, sia infine per l’impossibilità di iscrizione di un tale bene nel bilancio
della stabile organizzazione al fine di non determinarne l’immediata imponibilità. Contrario alla tassabilità
dell’avviamento è anche S. FIORENTINI, Effetti del trasferimento all’estero della sede sociale, in Corr. trib., 1995,
p. 1669, mentre sottolineano le possibili contrastanti chiavi di lettura relative alla sua tassabilità G.
BERNONI – M. COLACICCO, Il trasferimento all’estero della sede di una società di capitali, in Il Fisco, 1996, p.
10068 ss. Per quanto riguarda i beni non inquadrabili nel concetto di azienda (in assenza di stabile
organizzazione in Italia: altrimenti vedi supra a nota 53), si esprimono a favore della loro rilevanza ai fini
impositivi, a motivo delle “finalità della norma”, M. LEO – F. MONACCHI – M. SCHIAVO, Le imposte
sui redditi nel testo unico, cit., p. 389, mentre di contrario avviso sono S. MAYR, Effetti del trasferimento della
sede all’estero, cit., p. 2711 e G. BERNONI – M. COLACICCO, Il trasferimento all’estero della sede di una società
di capitali, cit., p. 10071, i quali sottolineano tuttavia il rischio di una riconducibilità di tale ipotesi alla
“destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa” di cui all’art. 54, co. 1 lett. d) t.u.i.r. Ci sembra
tuttavia da un lato che tale ultimo rischio sia ormai superato, in quanto l’emanazione dell’art. 20-bis può
essere ora letta come confermativa dell’inapplicabilità alla fattispecie del trasferimento della residenza
all’estero della norma sulla destinazione “a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”; dall’altro, che
l’argomentazione basata sulle presunte finalità della norma appaia piuttosto debole al cospetto del
puntuale riferimento operato ai “componenti dell’azienda o del complesso aziendale” e non già ai beni
“relativi all’impresa”. Non v’è tuttavia dubbio alcuno che si tratti di una lacuna meritevole di essere
colmata, essendo indubbia per i beni “isolati” la potenzialità elusiva del trasferimento di residenza
all’estero, posto che il decorso il quinquennio previsto dall’ex art. 81 t.u.i.r. farebbe legittimamente
sfuggire le plusvalenze dall’imposizione. I problemi appena richiamati riguardano ovviamente anche la
tassazione dei beni “isolati” situati all’estero e delle stabili organizzazioni estere. Ci si potrebbe peraltro
chiedere se i beni “esteri” possano “confluire” in una stabile organizzazione italiana al fine di evitare la
tassazione (dubbia per i beni “isolati”; certa per le stabili organizzazioni estere) delle plusvalenze latenti:
l’utilizzo della locuzione “in ogni caso” per le plusvalenze relative a stabili organizzazioni estere, nel
contrapporsi alla previsione della non tassabilità in caso di confluenza dei beni in una stabile
organizzazione nazionale, sembrerebbe escludere tale possibilità per i beni relativi alla stabile
organizzazione estera (osserva peraltro A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione
transnazionale in ambito CEE, cit., p. 487, che i beni facenti parte di una stabile organizzazione estera non
possano di per sé confluire, dopo l’operazione, in una stabile organizzazione italiana del soggetto non
residente).
Ministro delle finanze che avrebbe dovuto – ai sensi dell’art. 30, comma 2 d.l. 23
febbraio 1995, n. 41 – prevedere le modalità di attuazione dell’art. 20-bis mediante
l’approvazione di appositi modelli ed allegati indicanti i beni e gli altri elementi
reddituali relativi all’impresa e quelli relativi alla stabile organizzazione, non è stato ad
oggi ancora emanato.
Sempre in tema di base imponibile, altro aspetto di notevole importanza
riguarda il destino delle “minusvalenze” latenti. Al riguardo, l’art. 166 t.u.i.r. ancora
una volta non brilla per chiarezza: se è infatti vero che la norma fa genericamente
riferimento al “realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del
complesso aziendale”, utilizzando una espressione astrattamente idonea a
comprendere plusvalenze e minusvalenze, essa precisa successivamente che “si
considerano in ogni caso realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili
organizzazioni all’estero”. Tale elemento di ambiguità semantica può tuttavia superarsi
in base alla constatazione della inesistenza di una “plusvalenza normale”, venendo così
necessariamente in rilievo la differenza tra valore normale della stabile organizzazione
estera nel suo complesso e il suo costo fiscalmente riconosciuto ai fini delle imposte
sui redditi italiane (56). E’ interessante peraltro notare che numerosi Stati europei
consentono la compensazione tra plusvalenze e minusvalenze “latenti” in occasione
del prelievo della exit tax.
Un ultimo aspetto interessante – anch’esso non chiarito dalla disposizione
italiana – è se le exit taxes trovino applicazione anche nell’ipotesi in cui la società
mantenga nello Stato di partenza uno o più dei criteri costitutivi della residenza fiscale,
perdendo tuttavia la residenza fiscale nei rapporti con un altro Stato a motivo
dell’applicazione di una convenzione internazionale contro la doppia imposizione con
esso stipulata (57). Tale problema viene ovviamente risolto affermativamente negli
Stati che adottano il principio della “incorporazione” ai fini della determinazione della
residenza fiscale, posto che solo in presenza di una convenzione contro la doppia
imposizione è possibile perdere la residenza fiscale (58) (59).
(56) Vedi A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito
CEE, cit., p. 488.
(57) Vedi G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, cit., p. 210, che ritiene rilevante ai fini
dell’applicazione dell’art. 20-bis anche la perdita di residenza per effetto dell’applicazione delle
convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. Vedi anche L. MONTECAMOZZO,
Trasferimento della residenza all’estero: la manovra Dini risolve i dubbi in merito alla sua rilevanza fiscale, in Boll. trib.,
1994, p. 337.
(58) Così, ad esempio, accade in Svezia: vedi P. BRANDT, Sweden. Fundamental freedoms for citizens,
fundamental restrictions on national tax law, cit., p. 80.
(59) Di notevole importanza è infine il trattamento fiscale delle riserve di bilancio. Per alcuni
profili relativi alla tassazione delle riserve in caso di società che trasferiscono la sede in Belgio, vedi K.
DEBRIER, Tax Treatment of Migration of Companies to Belgium, cit., p. 78 ss.
5. Exit taxes e doppia imposizione internazionale. – La presenza di exit taxes può
dare luogo a rilevanti fenomeni di doppia imposizione.
Può infatti accadere che in caso di realizzo effettivo nello Stato B delle
plusvalenze su beni già tassati con le exit taxes nello Stato A, il valore “di carico” dei
beni nello Stato B non incorpori anche quella parte di plusvalenze già tassate al
momento dell’applicazione delle exit taxes e che, inoltre, le exit taxes pagate nello Stato
A non vengano riconosciute “a credito” dalle imposte dovute nello Stato B sulle
plusvalenze realizzate.
Infatti, se vi è coincidenza tra valore “di carico” dei beni nello Stato B e valore
in “uscita” dallo Stato A assunto ai fini della determinazione della base imponibile
delle exit taxes, nulla quaestio. Se invece il primo valore è inferiore al secondo, si ha una
sovrapposizione di basi imponibili che può condurre a fenomeni di doppia
imposizione se lo Stato B non riconosce un credito per l’imposta già pagata su tali
plusvalenze nello Stato A (60).
Gli Stati hanno diverse opzioni per risolvere il problema della doppia
imposizione determinato dalle exit taxes.
Innanzitutto, essi possono risolverlo attraverso il c.d. “step-up-value”, nel senso
che la tassazione delle plusvalenze latenti è accompagnata da un adeguato sistema di
valorizzazione dei beni cui tali plusvalenze si riferiscono, al fine di evitare che la futura
tassazione delle plusvalenze finisca per colpire anche quelle plusvalenze maturate sui
beni quando il relativo possessore era non residente. Esso consiste alternativamente nel
valorizzare i beni secondo il criterio del “valore normale” o altro analogo oppure
nell’assumere direttamente il valore “in uscita” come valore “in ingresso”.
Misure di questo tipo si trovano sia a livello unilaterale che bilaterale, talvolta
per le partecipazioni appartenenti a soggetti non imprenditori, altre volte per gli assets
appartenenti a soggetti imprenditori.
Per quanto riguarda le partecipazioni appartenenti a soggetti non imprenditori,
misure unilaterali si ritrovano sia in Austria che in Olanda, dove viene assunto come
valore iniziale il valore di mercato al momento del mutamento dello status del
possessore della partecipazione (61); in altri ordinamenti, come quello tedesco, è
invece espressamente previsto che il valore di ingresso è rappresentato dal costo
(60) Di converso, la mancata presenza di exit taxes può dar luogo a fenomeni di “salti di imposta”,
laddove lo Stato di destinazione accolga quale valore “di ingresso” dei beni il rispettivo valore normale,
con la conseguenza che la differenza tra valore fiscalmente riconosciuto e valore normale non formerà
mai oggetto di tassazione. Peraltro, un “salto di imposta” si verificherebbe anche nell’ipotesi in cui lo
Stato di destinazione accolga “valori di bilancio”, ma questi non siano espressione di valori fiscalmente
riconosciuti, ad esempio per la presenza di plusvalenze iscritte non tassate.
(61) Per l’Austria, vedi G. TOIFL, Report per l’Austria sul tema The Tax Treatment of Transfer of
Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 166 ss. Per i Paesi
Bassi, vedi R. BETTEN, Report per l’Austria sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals,
Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 419.
storico del bene, tranne che agli effetti della futura exit tax, nel qual caso sarà concesso
lo “step-up”. A livello bilaterale, si può ricordare l’art. 13, par. 5 del trattato tra
Germania e Svizzera del 11 agosto 1971, in base al quale in caso di alienazione di
partecipazioni sulle quali sia stata prelevata una exit tax lo Stato di destinazione
assumerà come valore di partenza per la determinazione della plusvalenza tassabile il
valore attribuito alla partecipazione al momento dell’uscita dall’altro Stato; oppure
l’art. 13 della convenzione tra Germania ed Austria, per la quale in caso di tassazione
da parte di uno Stato delle plusvalenze su partecipazioni maturate sino al momento del
trasferimento, l’altro Stato sarà obbligato ad attribuire alla partecipazione un valore in
entrata pari a quello in uscita (confermando a livello convenzionale il criterio dello
“step-up-value” già previsto dalla legislazione austriaca, ma non da quella tedesca,
subordinandone tuttavia l’applicazione all’effettivo assoggettamento ad exit tax
nell’altro Stato con l’effetto di ovviare ad eventuali problemi di doppia non imposizione);
infine, il punto 12 del Protocollo alla Convenzione tra Italia e Germania, che stabilisce
che il costo di acquisto in caso di ulteriore cessione della partecipazione già sottoposta
ad exit tax sarà pari “all’ammontare che il primo Stato avrà concordato come valore
teorico della partecipazione al momento della partenza della persona fisica” (62).
Per quanto riguarda le exit taxes prelevate in capo a soggetti imprenditori, uno
“step-up” a livello unilaterale si rinviene in Austria – dove il §6(6) EStG 1988 lo
prevede anche se per i soli per i beni materiali fisicamente trasferiti in Austria e per i
beni immateriali – nonché nei Paesi Bassi, sia pure in via di elaborazione
giurisprudenziale (63); nel Regno Unito, invece, viene negato lo “step up” nel caso di
trasferimento verso tali Stati (64). Mancano disposizioni bilaterali in tal senso per le
exit taxes prelevate in capo a soggetti imprenditori.
Un secondo criterio per tenere conto della doppia imposizione consiste nel
concedere un credito d’imposta nello Stato di destinazione. Il valore di carico nello Stato
(62) Per una rassegna delle clausole contenute nelle convenzioni stipulate dall’Italia, vedi G.
MARINO, Report per l’Italia sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA
2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 364 ss.
(63) Corte cass., 21 novembre 1990 (in BNB, 1991/90).
(64) Per quanto riguarda l’Italia, il problema della valutazione dei beni che entrano nel regime del
reddito d’impresa a seguito del trasferimento di residenza ha formato oggetto di valutazioni contrastanti
in dottrina, da taluno ritenendosi che l’assenza di aspetti traslativi giustifichi il mantenimento del costo
originario conformemente alla soluzione adottata, per i beni strumentali dell’imprenditore individuale,
dall’art. 77 co. 3-bis (D. STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, p. 97,
in particolare, nota 118); da altri invece ritenendosi fondatamente sostenibile la presa in carico dei beni al
loro “valore normale”, non potendo ragioni di cautela fiscale spingersi sino al punto di scaricare sul
reddito d’impresa plusvalori formatisi prima dell’inserimento del bene nel relativo regime o di precludere
congrui ammortamenti (M. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, cit., p. 151 ss.; A. FIORELLI – A.
SANTI, L’individuazione del valore fiscalmente riconosciuto per il patrimonio estero dell’impresa trasferito in Italia, in
Rass. trib., 1997, p. 668 ss.). Vedi, per ulteriori richiami, G. PETRELLI, Lo stabilimento delle società
comunitarie in Italia, cit., p. 125.
di destinazione coincide con il costo di acquisto sostenuto nello Stato di partenza,
sicché il correttivo agisce non più a livello di base imponibile, bensì di imposta.
Esempi – sia a livello unilaterale che bilaterale – si ritrovano tuttavia solo per
soggetti non imprenditori. Nel Regno Unito è ad esempio riconosciuto un foreign tax
credit per le imposte estere (comprese eventuali exit taxes) da scomputare dalle imposte
dovute in relazione alle plusvalenze sulle partecipazioni cedute in caso di riacquisto
della residenza entro cinque anni dal trasferimento, nel caso in cui il contribuente
provenga da uno Stato nel quale sia in vigore una exit tax. In Francia, invece,
l’Amministrazione finanziaria ha espressamente escluso che il credito d’imposta possa
avere ad oggetto le exit taxes pagate nello Stato di provenienza. A livello bilaterale va
ricordato il trattato tra Germania e Svezia del 14 luglio 1992, che prevede che i
contribuenti trasferitisi dalla Germania in Svezia hanno diritto ad un credito per la exit
tax tedesca laddove la plusvalenza venga realizzata entro dieci anni dal trasferimento
della residenza.
Una terza misura contro le doppie imposizioni consiste infine nell’accordare
nello Stato di partenza un credito per l’imposta che verrà prelevata nello Stato di
destinazione, per la parte ovviamente riferibile alla plusvalenza maturata anteriormente
al trasferimento. A livello unilaterale un simile sistema si trova nei Paesi Bassi, mentre
a livello convenzionale occorre ricordare la Convenzione tra Paesi Bassi e Danimarca
del 1° luglio 1996, in virtù della quale la Danimarca concede un credito per le imposte
pagate nei Paesi Bassi sulla cessione delle partecipazioni da parte di un ex residente
danese da scomputare dalla propria exit tax.
6. Convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito ed exit taxes. –
Dobbiamo ora esaminare se l’istituzione o la permanenza di exit taxes “societarie” sia
compatibile con le convenzioni contro le doppie imposizioni, sia per quanto riguarda
la tassazione degli assets situati nello Stato di partenza non confluiti in una stabile
organizzazione, sia in relazione alle stabili organizzazioni estere, situate ora nello Stato
di destinazione ora in uno Stato terzo rispetto a quello di destinazione.
Occorre preliminarmente osservare che nessun dubbio sussiste relativamente
alla possibilità di comprendere le exit taxes nell’ambito oggettivo delle convenzioni. La
definizione convenzionale delle “imposte sul reddito” quali imposte “prelevate sul
reddito complessivo (…) o su elementi del reddito o del patrimonio, comprese le
imposte sugli utili derivanti dall’alienazione di beni mobili o immobili” (65), rende
infatti tale inclusione evidente, operando la exit tax sul mero momento di emersione a
tassazione delle plusvalenze latenti.
Ciò posto, le disposizioni che vengono in rilievo sono due.
(65) Non si tratta, è bene precisarlo, di un’imposta sul patrimonio, sicché non troverà certamente
applicazione l’art. 22 del Modello riguardante l’imposizione del patrimonio.
Da un lato, l’art. 7, che sancisce come noto la tassabilità dei redditi di impresa
nel solo Stato di residenza della casa-madre, a meno che questa non disponga nello
Stato della fonte di una stabile organizzazione, nel qual caso gli utili attribuibili alla
stabile organizzazione saranno tassabili in tale ultimo Stato. Dall’altro, l’art. 13,
rubricato agli “utili di capitale”, che assegna il diritto di tassare le plusvalenze derivanti
dalla alienazione di beni immobili allo Stato in cui questi sono situati (par. 1), il diritto
di tassare le plusvalenze derivanti dall’alienazione di beni mobili facenti parte
dell’attivo di una stabile organizzazione (comprese le plusvalenze derivanti
dall’alienazione di detta stabile organizzazione, da sola od in uno con l’intera impresa)
allo Stato in cui è situata la stabile organizzazione (par. 2) e, infine, il diritto di tassare
le residue plusvalenze allo Stato in cui l’alienante è residente (par. 4). Nei casi previsti
dall’art. 7 par. 1 (in presenza di stabile organizzazione) e dall’art. 13 par. 1 e par. 2, la
tassazione sarà di tipo concorrente; nei casi previsti dall’art. 7 par. 1 (in assenza di stabile
organizzazione) e dall’art. 13 par. 4, essa sarà invece di tipo esclusivo (nello Stato di
residenza).
Ora, per gli assets situati nello Stato di partenza e non confluiti in una stabile
organizzazione, nulla quaestio. Il prelievo avviene prima del trasferimento della residenza
e quindi quando il diritto di tassazione ancora non è passato al nuovo Stato di
residenza. I beni tassati sono appartenenti ad una società residente nello Stato di
partenza e non ad una società non residente senza stabile organizzazione nel territorio
dello Stato.
Per gli assets della stabile organizzazione estera, l’art. 13 si riferisce, quale
momento di emersione delle plusvalenze, alla alienazione, e non ne prevede ulteriori.
Nel caso delle exit taxes, come visto, il presupposto è anticipato, venendo in rilievo la
mera “fuoriuscita” del soggetto (e conseguentemente dei beni ad esso relativi) dal
regime della tassazione illimitata, indipendentemente dal realizzo effettivo delle
plusvalenze latenti.
Appare allora difficile poter rinvenire nell’art. 13 un limite alla potestà
impositiva che si esercita per mezzo delle exit taxes. Esse sono invero espressione di un
principio diverso, venendo meno quel criterio di collegamento (la residenza)
necessario per poterne consentire la tassazione al momento dell’effettivo realizzo;
tassazione, peraltro, che la convenzione internazionale comunque non vieta allo Stato
di (ex) residenza, stabilendo soltanto un diritto “concorrente” con conseguente
eliminazione della doppia imposizione nello Stato della residenza. Vi è quindi un
presupposto diverso da quello considerato nell’art. 13, il quale, nel rispetto della
tradizionale funzione di ripartizione della potestà impositiva tipica delle convenzioni
contro le doppie imposizioni, non si rivela idoneo a rendere giuridicamente irrilevante
il presupposto previsto nella norma interna, ma solo a ripartire la materia imponibile
tra gli Stati una volta verificatosi il presupposto medesimo.
Posto dunque che le convenzioni contro le doppie imposizioni non sono in
grado di risolvere il problema al momento del trasferimento della residenza, il problema si
sposta al momento successivo dell’effettiva alienazione dei beni, in cui la potestà
impositiva spetterà al nuovo Stato di residenza (sia per i beni già appartenenti alla
stabile organizzazione ivi situata, sia per gli altri beni non confluiti in una stabile
organizzazione situata nello Stato di ex residenza, sia per i beni appartenenti a stabili
organizzazioni situate in uno Stato terzo).
In questo caso ci si dovrà chiedere se la potestà impositiva del nuovo Stato di
residenza possa estendersi, per quanto riguarda i beni diversi da quelli già appartenenti
alla stabile organizzazione ivi situata, anche alle plusvalenze maturate anteriormente al
trasferimento della residenza e, in caso affermativo, se possa rinvenirsi un obbligo per
il nuovo Stato di residenza di concedere un credito per le imposte pagate nell’ex Stato
di residenza.
Per quanto riguarda il primo problema – che si pone ovviamente se il nuovo
Stato di residenza non abbia adeguato il valore di ingresso a quello in uscita con le
modalità prima descritte – il Modello OCSE si rivela ancora una volta carente.
Limitandosi a ripartire la potestà impositiva sulle plusvalenze, esso potrebbe esplicare
la propria efficacia solo in relazione a quella parte di plusvalenze maturate
successivamente al trasferimento di residenza sulle quali lo Stato di ex-residenza dovesse
ancora pretendere in via unilaterale il pagamento delle imposte ordinarie, ad esempio
trattandosi di partecipazioni relative a società ivi residenti. La tesi che fa derivare dal
trattato comunque una limitazione, nei confronti del nuovo Stato di residenza, a non
tassare le plusvalenze maturate anteriormente al trasferimento (66) appare invece debole,
in quanto argomentata su un “principio” di incerta ricostruzione.
Per la quota maturata anteriormente e oggetto di tassazione per mezzo della exit
tax, si pone del resto l’ulteriore ostacolo della “non identità” tra i periodi di imposta
nei quali avviene la doppia imposizione. Si determina invero un problema di “timing”
a motivo della non coincidenza tra i periodi di imposta nei quali si esplica la
concorrenza impositiva (67), che solleva certamente dubbi circa la conformità di tale
doppia imposizione all’art. 23 che tale doppia imposizione ha il fine di eliminare.
Alcune convenzioni risolvono direttamente la questione, anche qui tuttavia solo
per le partecipazioni detenute da soggetti non imprenditori. Si possono ricordare, ad
esempio, l’art. 13 par. 5 della Convenzione tra Austria e Regno Unito, che prevede che
le plusvalenze su partecipazioni possono essere tassate nel precedente Stato di
residenza se tra il trasferimento della residenza e la cessione della partecipazione è
decorso meno di un triennio e se nello Stato di destinazione non è prevista la
tassazione di queste plusvalenze; l’art. 13 par. 6 della Convenzione tra Austria e
(66) Questa tesi è stata proposta da B. KNOBBE-KEUK, Bilanz- und Unternehmensteuerrecht, Köln,
1993, p. 925, ma è stata rigettata dal BFH, con sentenza del 19 marzo 1996, VIII R 15/94.
(67) Sul punto, vedi J. M. ULMER, Treaty issues, in AA. VV., Cross-border Effects of Restructuring
Including Change of Legal Form, IFA Congress 2000, Vol. 25d, 2001, p. 100 ss.
Canada, che prevede che l’ex Stato di residenza mantiene il diritto di tassare le
plusvalenze se il cedente ne è cittadino o ne è stato residente per almeno dieci anni e
se nel quinquennio precedente la cessione è stato residente di tale Stato (anche per un
solo giorno); l’art. 13 della nuova convenzione tra Germania ed Austria, che stabilisce
che se un soggetto che è stato residente di uno dei due Stati per almeno cinque anni
trasferisce la residenza nell’altro Stato, il primo Stato ha il diritto di tassare le
plusvalenze su partecipazioni maturate sino al momento del trasferimento (68); la
convenzione tra Svezia e i Paesi Bassi, che riserva alla Svezia il diritto di tassare le
plusvalenze su partecipazioni realizzate entro un periodo di cinque anni dalla data del
trasferimento. Nella convenzione tra Italia e Svezia il diritto in oggetto è peraltro
concesso soltanto a condizione che si tratti di un cittadino di uno Stato contraente che
sia stato residente in quel medesimo Stato nel quinquennio precedente il trasferimento
e che si tratti di una partecipazione in una società i cui beni sono costituiti da beni
immobili situati in quello stesso Stato e nella quale il contribuente, anche insieme ad
un familiare, eserciti una “influenza dominante”.
Conclusivamente, in mancanza di clausole espresse, nessun ostacolo deriva
dalle convenzioni internazionali né al diritto dello Stato di ex residenza a prelevare le
exit taxes sulle plusvalenze maturate, né alla possibilità di esigere queste imposte
immediatamente; al tempo stesso, nessun diritto deriva da esse al contribuente a
vedersi riconosciuto un valore di ingresso pari al valore di uscita o, in alternativa, ad
ottenere un credito per le imposte pagate nello Stato di uscita (69).
Con specifico riferimento alle stabili organizzazioni estere, ci si potrebbe infine
chiedere se a conclusioni diverse possa pervenirsi in caso di introduzione di una “exit
tax” successivamente alla conclusione di una convenzione internazionale contro la doppia
imposizione. In particolare, se si possa ritenere che, proprio a motivo
dell’introduzione di un diverso presupposto impositivo delle plusvalenze situate in capo
alla stabile organizzazione estera, l’introduzione di una exit tax finisca sostanzialmente
per modificare ex post i criteri di localizzazione previsti dagli artt. 7 e 13. Sul piano
formale, se è vero che il principale soggetto legittimato a sollevare il problema di
“treaty overriding”, vale a dire lo Stato di destinazione, non ha interesse in tal senso, in
quanto non risulta in effetti danneggiato dalla modifica normativa, rimanendo pur
(68) Abbiamo visto in precedenza che il periodo minimo di residenza per la norma interna
tedesca è pari a dieci anni, mentre nessun requisito temporale è richiesto dalla normativa austriaca. Così,
se un soggetto trasferisse la propria residenza dall’Austria in Germania prima dei cinque anni previsti dalla
norma convenzionale, e poi dalla Germania in uno Stato terzo prima del maturarsi dei dieci anni previsti
dalla norma interna, sfuggirebbe ad imposizione in ambedue gli Stati.
(69) Osserva A. VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is
Compatible with the Freedom of Establishment, in European Taxation, 2002, p. 197, che proprio per questo
motivo gli Stati preferiscono ricorrere a exit taxes anziché a forme di ampliamento dei criteri di
localizzazione dei redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti che si trasferiscono all’estero (c.d.
“limited extended tax liability”). Queste ultime, infatti, rischiano di entrare in collisione frontale con le
norme di localizzazione contenute nelle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione.
sempre la stabile organizzazione nel suo territorio, è anche vero che una violazione del
trattato potrebbe essere avanzata dal contribuente e fatta valere sulla base del principio
della specialità “sui generis” che regola il rapporto tra diritto interno e diritto
internazionale, facendo valere in tal senso la mancanza di una espressa volontà di
derogare al trattato. Sul piano sostanziale, se è vero che potrebbe sostenersi che lo
Stato di partenza si limita ad anticipare il presupposto per la tassazione delle
plusvalenze senza incidere sulla ripartizione convenzionale del reddito, appare tuttavia
rilevante la circostanza che una tale anticipazione finisce sostanzialmente per
vanificare la convenzione internazionale, il cui fine è proprio quello di determinare,
attraverso una ripartizione della base imponibile, la debenza di una sola imposta da
parte del contribuente; finalità, questa, che viene come visto frustrata
dall’anticipazione del presupposto, il cui mismatching temporale finisce per determinare
un “doppio d’imposta”. In altri termini, ci pare che le norme che ripartiscano il
reddito tra Stati, obbligando uno tra essi a rinunziare (parzialmente o interamente) alla
propria tassazione, non possano essere applicate disgiuntamente da quelle norme che
prevedono espressamente le modalità con le quali eliminare la doppia imposizione
(70).
In tale prospettiva, una soluzione normativa a livello convenzionale finalizzata
alla eliminazione della doppia imposizione dovrebbe ispirarsi a quanto disposto dal d.
lgs. 30 dicembre 1992, n. 544 che, nello stabilire che “si considerano in ogni caso
realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alla stabile organizzazione
all’estero”, prevede un credito d’imposta fittizio se la stabile organizzazione è situata in
un altro Stato UE. Credito d’imposta che, invece, manca in tutte le exit taxes interne,
prevedendosi la tassazione delle plusvalenze latenti senza possibilità di accredito
dell’imposta estera. Dall’imposta relativa alle plusvalenze dovrebbe pertanto essere
scomputabile, sino al suo totale assorbimento, l’imposta che lo Stato della stabile
organizzazione avrebbe prelevato sui plusvalori latenti dei beni appartenenti alla
stabile organizzazione ivi situata, al fine di scongiurare la doppia imposizione che
altrimenti si determinerebbe.
(70) Ritiene assai dubbia la compatibilità della introduzione di exit taxes in presenza di
convenzioni già stipulate, L. DE BROE, General Report sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by
Individuals, cit., p. 65 ss. Osserva peraltro De Broe che se è vero che l’emigrazione in un altro Stato al solo
fine di localizzare la plusvalenza in detto altro Stato può costituire un abuso del trattato, è anche vero che
queste misure interne sono introdotte senza curarsi dell’effettivo prelievo estero. Inoltre, si tende ad
affermare che l’applicazione delle disposizioni interne antielusive dovrebbe essere consentita
espressamente dal Trattato tramite una specifica norma di salvaguardia, mentre solo poche convenzioni
internazionali fanno salve le exit taxes (in particolare, circa quindici convenzioni stipulate dalla Danimarca
tre convenzioni stipulate dalla Germania). Sul punto, vedi F. GALLO – G. MELIS, L’elusione fiscale
internazionale nei processi di integrazione tra Stati: l’esperienza della Comunità Europea, in Justica Tributaria, Atti del
1° Congresso Internazionale di Diritto Tributario, Max Limonad, San Paolo del Brasile, 1998, p. 184 ss.
7. Exit taxes e diritto comunitario: profili generali. – L’ultimo profilo che intendiamo
esaminare attiene alla compatibilità delle exit taxes con il diritto comunitario.
Si tratta di un argomento di grande attualità, avendo formato oggetto di una
recentissima sentenza della Corte di giustizia CE la questione relativa alla
“compatibilità” con il principio di libertà di stabilimento (71) della exit tax francese
prelevata sulle partecipazioni detenute da soggetti non imprenditori (72).
Un primo aspetto che va indagato è se il problema debba essere affrontato dal
punto di vista del principio di libertà di stabilimento o del principio di “non
discriminazione”.
E’ infatti noto che il collegamento esistente tra i due richiamati principi non è
biunivoco. Se infatti la Corte di Giustizia ha ricondotto il principio di non
discriminazione a quello di libertà di stabilimento – affermando ad esempio, nel caso
avoir fiscal, che la società che gode in forza dell’art. 48 del Trattato CE del diritto di
stabilimento nel territorio di un altro Stato membro può accedervi, ai sensi dell’art. 43,
in forma di agenzia, di succursale o di filiale, sicché discriminando la stabile
organizzazione appartenente a una società situata in altro Stato membro nella
concessione del credito di imposta si disincentiva la localizzazione in Francia tramite una
stabile organizzazione, obbligando le società straniere a costituirvi società figlie e
svuotando così di contenuto l’art. 43 del Trattato – altre volte essa ha sottolineato la
posizione autonoma che il principio di libertà di stabilimento assume rispetto al
principio di non discriminazione. E’ il caso ad esempio della vicenda ICI (73) – avente
ad oggetto la compatibilità con l’art. 43 della disposizione contenuta nella legislazione
inglese che subordinava il beneficio della tassazione di gruppo, con il conseguente
consolidamento delle perdite, alla condizione che l’attività della holding consistesse
esclusivamente o principalmente nel detenere partecipazioni in società aventi sede nel Regno
Unito – in cui la Corte ha ritenuto che la normativa inglese costituisse un ostacolo alla
libertà della ICI di costituire proprie consociate in altri Stati membri, poiché in tale
ipotesi essa avrebbe perso il beneficio della tassazione consolidata accordato dalla
(71) Si tratta, come noto, non già di un giudizio di “compatibilità”, bensì di “interpretazione
pregiudiziale” delle norme comunitarie. Il fine sostanziale in questo caso è tuttavia quello di appurare la
“compatibilità” con il Trattato della norma interna. Sul punto, vedi R. MICELI – G. MELIS, Le sentenze
interpretative della Corte di giustizia delle Comunità europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle
direttive sulla “imposta sui conferimenti” e sull’Iva, in Riv. dir. trib., 2003, p. 111 ss.
(72) Si tratta della sentenza 11 marzo 2004, C-09/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant c. Ministère de
l’Economie, des Finances et de l’Industrie, che ha dichiarato il regime francese incompatibile con il principio di
libertà di stabilimento. Si vedano anche le interessanti conclusioni dell’Avvocato generale Jean Mischo
depositate in data 13.3.2003. Vedi A. VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the
French Exit Tax is Compatible with the Freedom of Establishment, cit., p. 195 ss.
(73) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, in Rass. trib., 1999, p. 1805 ss., con nota di
E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali. Anche in Dir. prat. trib., 1999, II, p. 313 ss., con nota di G.
BIZIOLI, Il rapporto tra libertà di stabilimento e principio di non discriminazione in materia fiscale: una applicazione nel
recente caso Imperial Chemical Industries.
legislazione interna. Il principio di libertà di stabilimento non ha dunque la sola
conseguenza dell’illegittimità delle disposizioni interne che discriminano, direttamente
o indirettamente, tra cittadini e stranieri, ma anche quella di vietare quelle disposizioni
di uno Stato membro che abbiano l’effetto di ostacolare l’esercizio del diritto di
stabilimento in un altro Stato membro. In questo senso la non discriminazione
costituisce species rispetto al genus libertà di stabilimento, rappresenta cioè una forma di
quelle restrizioni cui l’art. 43 opera riferimento (74).
Ora, nel caso delle exit taxes è difficile rinvenire una forma di discriminazione.
Non si ha innanzitutto una forma di discriminazione diretta (“overt
discrimination”), poiché nel caso delle exit taxes le norme nazionali non stabiliscono un
trattamento discriminatorio basato direttamente sull’elemento che la norma che vieta
la discriminazione assume a proprio oggetto di tutela, rappresentato per le persone
fisiche dalla nazionalità o cittadinanza di uno Stato membro e per le persone
giuridiche dalla “sede” (75); né si ha discriminazione “a rovescio” (“reversed
discrimination”), la cui caratteristica fondamentale è che la controversia viene
instaurata nei confronti dello Stato membro del quale il ricorrente è cittadino, talché la
norma che si assume discriminatoria è quella che, ovviamente, non distingue già tra
cittadini e stranieri, bensì tra residenti e non residenti (76). Nel caso delle exit taxes,
tuttavia, la disposizione che la prevede appartiene allo Stato della residenza del
soggetto che si trasferisce, sia esso o meno cittadino, sicché il problema non si pone.
Più delicato è verificare se si abbia una forma di discriminazione indiretta. Come
è noto, si ha discriminazione indiretta (“covert discrimination”), quando le disposizioni
interne disciplinano in modo discriminatorio due situazioni sulla base di un elemento
diverso da quello oggetto di tutela diretta. Ciò nonostante, la discriminazione basata su
tale diverso elemento si risolve indirettamente in una discriminazione basata
sull’elemento direttamente tutelato. La rilevanza di tale forma di discriminazione è
stata affermata dalla Corte in una risalente sentenza (77), nella quale essa ha chiarito
che il principio della parità di trattamento vieta non solo le discriminazioni palesi in
base alla cittadinanza, o in base alla sede per quanto riguarda le società, ma altresì
qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di distinzione,
pervenga in effetti al medesimo risultato.
(74) E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali, cit., p. 1826.
(75) Vedi però per una ipotesi di applicazione della exit tax ai soli cittadini olandesi in forza della
convenzione tra Paesi Bassi e Belgio, R. BETTEN, Taxation of Capital Gains after Emigration to Belgium Only
from Netherlands Nationals Not Discriminatory, in European Taxation, 1997, p. 142 ss.
(76) Il contribuente è dunque cittadino dello Stato che discrimina, ma residente in un altro Stato
membro.
(77) Corte di giustizia, 12 febbraio 1974, C-152/73, Sotgiu, in Raccolta, 1974, p. 153, punto 11.
Tale diverso elemento, in ambito fiscale, è di regola rappresentato dalla
residenza, essendo vero che i non residenti sono il più delle volte cittadini “non
nazionali”, ma il trattamento discriminatorio può in realtà avere ad oggetto qualsiasi
disposizione che, secondo l’id quod plerumque accidit, si presti di fatto a discriminare i
cittadini di un altro Stato membro. Con specifico riferimento alla residenza, che è
l’elemento portante delle exit taxes, è interessante richiamare il caso Biehl (78), dove la
Corte ha ravvisato l’illegittimità di una disposizione della legislazione lussemburghese
che non consentiva il rimborso delle ritenute alla fonte versate in eccesso rispetto
all’imposta dovuta nel caso di trasferimento della residenza dal Lussemburgo,
ravvisando in essa una norma soprattutto applicabile ai contribuenti cittadini di altri
Stati, in quanto saranno spesso questi ultimi a lasciare il paese. Nel caso delle exit taxes
si potrebbe allora sostenere che la tassazione delle plusvalenze latenti applicata ai
soggetti residenti che si trasferiscono in un altro Stato si risolva indirettamente in una
violazione basata sulla cittadinanza, atteso che saranno di regola i cittadini di un altro
Stato a dover nuovamente fissare la residenza in tale ultimo Stato.
Si potrebbero tuttavia muovere alcune considerazioni in senso contrario.
Innanzitutto, va ricordato con riferimento alla discriminazione indiretta basata sulla
residenza che il binomio “residente - non residente” non costituisce di per sé, almeno
per le persone fisiche, una situazione immediatamente comparabile in termini di
discriminazione. Tra residenti e non residenti sussistono infatti situazioni obiettive di
regola differenti, prima tra tutte la personalità dell’imposizione che caratterizza i
residenti che, a fronte dell’imponibilità dei redditi prodotti su base mondiale, consente
la deduzione di determinati oneri. In questo caso, si potrebbe allora osservare che la
tassazione delle plusvalenze latenti serve per ricostruire la “capacità contributiva
complessiva” del soggetto. In secondo luogo, le discipline delle exit taxes richiedono in
molti casi (soprattutto quelle applicate nei confronti delle persone fisiche) una
permanenza da molti anni nello Stato che le applica, con la conseguenza di attenuare il
collegamento in termini di id quod plerumque accidit tra la cittadinanza del soggetto che si
trasferisce e lo Stato nel quale esso si trasferisce. Infine, resterebbero comunque fuori
le società, per le quali sarebbe impensabile ipotizzare una discriminazione indiretta
basata sulla residenza utilizzando la ragionevole presunzione del “fisiologico” ritorno
nel proprio ordinamento giuridico invocata dalla Corte per le persone fisiche.
Tanto precisato, il problema va dunque affrontato dal punto di vista della
libertà di stabilimento.
Il primo aspetto problematico che tale punto di vista solleva attiene all’estensione
della libertà di stabilimento. Se infatti essa si estende certamente alla costituzione di
agenzie, di succursali o di affiliate da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti
nel territorio di un altro Stato membro (libertà di stabilimento c.d. “secondaria”), la
(78) Corte di giustizia, 8 maggio 1990, C-175/88, Biehl, in Raccolta, 1990, p. 1779 ss.
Corte ne ha tuttavia negato l’applicabilità nel caso di trasferimento della sede di
direzione effettiva o amministrativa di un società in un altro Stato membro
conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione essa è
stata costituita (libertà di stabilimento c.d. “primaria”) (79).
Il caso cui ci si riferisce è il Daily Mail. Nel caso di specie, la Daily Mail
contestava la legittimità della disposizione della legge britannica del 1970 sull’imposta
sul reddito e sulle società che subordinava il trasferimento della residenza fiscale in un
altro Stato alla autorizzazione del Tesoro. La Daily Mail intendeva infatti trasferire la
propria sede di direzione effettiva nei Paesi Bassi – e dunque la propria residenza
fiscale – mantenendovi tuttavia la propria sede legale, così conservando personalità
giuridica e qualità di società di diritto britannico. Ciò al fine di cedere una quota
importante dei titoli detenuti in portafoglio e riscattare, grazie al ricavato di tale
vendita, parte delle proprie azioni senza dover pagare le imposte cui dette operazioni
sarebbero state soggette in forza della legislazione fiscale britannica. Il Tesoro
subordinava invece l’autorizzazione al trasferimento al pagamento delle plusvalenze
latenti sui titoli in portafoglio alla Daily Mail. Non si trattava dunque di una exit tax in
senso sostanziale, ma di una exit tax per così dire “procedurale”, con effetto tuttavia
sostanzialmente analogo (80).
La Corte di Giustizia viene dunque investita della questione pregiudiziale se gli
artt. 43 e 48 del Trattato “precludano ad uno Stato membro di proibire ad una
persona giuridica con direzione e controllo centrali in tale Stato membro di trasferire
senza previo consenso o approvazione tale direzione e controllo centrali in un altro
Stato membro in presenza di una o di entrambe le seguenti circostanze, e cioè ove: a)
possa essere evitato il pagamento di imposte sui profitti o sugli utili già realizzati; b)
mediante il trasferimento della direzione e del controllo centrali della società, sia
evitata un’imposta che sarebbe stata a suo carico se la società stessa avesse mantenuto
la direzione e controllo centrali in tale Stato membro”.
La Corte di Giustizia, dopo aver ricordato a) che “come regola generale, una
società esercita il diritto di stabilimento aprendo agenzie o succursali o costituendo
affiliate, come espressamente previsto dall’art. 52, 1° comma, secondo periodo”, b)
che la legislazione britannica “non pone alcuna restrizione ad operazioni come quelle
sopra descritte”, c) che “diversamente dalle persone fisiche, le società sono enti creati
da un ordinamento giuridico nazionale” e che pertanto esse “esistono solo in forza
delle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano costituzione e funzionamento”,
d) che “le legislazioni degli Stati membri presentano notevoli differenze relative sia al
criterio di collegamento al territorio nazionale richiesto per la costituzione di una
(79) Corte di giustizia, 27 settembre 1988, C-81/98, Daily Mail, cit.
(80) Come osserva J. VAN HOORN JR., Il trasferimento di sede di società alla luce del diritto comunitario,
in Dir. prat. trib., 1989, II, p. 383.
società, sia alla facoltà di una società costituita secondo tale legislazione di modificare
in seguito detto criterio di collegamento”, conclude affermando che “la diversità delle
legislazioni nazionali sul criterio di collegamento previsto per le loro società nonché
sulla facoltà, ed eventualmente le modalità, di un trasferimento della sede, legale o
reale, di una società di diritto nazionale da uno Stato membro all’altro, costituisce un
problema la cui soluzione non si trova nelle norme sul diritto di stabilimento, dovendo
invece essere affidata ad iniziative legislative o pattizie, tuttavia non ancora
realizzatesi”.
Per la Corte “dall’interpretazione degli artt. 52 e 58 del Trattato non può
dunque evincersi l’attribuzione alle società di diritto nazionale di un diritto a trasferire
la direzione e l’amministrazione centrale in altro Stato membro pur conservando la
qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione sono state costituite”
(81).
La pronunzia non è peraltro priva di ambiguità. Invero, essa sembra arrendersi
dinanzi alle difformità esistenti relativamente alle norme di conflitto, laddove afferma
che “talune legislazioni esigono che non solo la sede legale ma anche la sede reale, cioè
l’amministrazione centrale della società, siano ubicate sul loro territorio, ragion per cui
lo spostamento dell’amministrazione centrale da tale territorio presuppone lo scioglimento
della società con tutte le conseguenze che ne discendono sotto il profilo del diritto
delle società e del diritto fiscale (82). Altre legislazioni riconoscono alle società il
diritto di trasferire all’estero la loro amministrazione centrale, ma alcune, come nel
Regno Unito, sottopongono detto diritto ad alcuni limiti e gli effetti giuridici del
trasferimento variano da uno Stato membro all’altro, in special modo sul piano
fiscale”. Inoltre, essa ribadisce tale concetto sostenendo che “l’art. 220 (ora 293) del
trattato ha previsto, ove necessaria, la conclusione di convenzioni fra gli Stati membri,
(81) Il problema se a diverse conclusioni possa pervenirsi a seguito del caso Centros è affrontato
da S. MECHELLI, Libertà di stabilimento per le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea, cit., p.
109 ss., il quale ritiene che la possibile conciliazione delle due pronunzie non possa giocarsi sul piano delle
diverse prospettive assunte – nel caso Daily Mail quello dello Stato di partenza, nel caso Centros quello dello
Stato di destinazione – stante l’inscindibile connessione tra il diritto ad essere accolti da uno Stato membro
e quello ad essere autorizzati a lasciare il proprio Stato membro di origine che è implicita nello stesso
riconoscimento della libertà di stabilimento. Ad avviso dell’autore, la sentenza Daily Mail dovrebbe
pertanto limitarsi esclusivamente alle restrizioni di natura fiscale. Ci pare tuttavia che una simile
conclusione, sia pure condivisibile sotto il profilo sistematico, non sia ancora giustificabile alla luce delle
affermazioni della Corte di giustizia nel caso Centros, stante la mancanza di un sia pur minimo richiamo
alla sentenza Daily Mail e alle nette affermazioni ivi contenute sul problema degli effetti “liquidatori”
derivanti dalla normative internazional-privatistiche interne. Del resto, la chiara distinzione che di tale
diversa prospettiva viene fatta nel caso Uberseering BV ci pare avvalorare ulteriormente la nostra ipotesi
ricostruttiva. Nella linea interpretativa da noi prospettata si colloca anche D. WEBER, Exit Taxes on the
Transfer of Seat and the Applicability of the Freedom of Establishment after Uberseering, in European Taxation, 2003,
p. 352..
(82) Corsivo nostro. Vedi al riguardo anche le conclusioni dell’Avvocato generale, che afferma
che “Difatti, è generalmente riconosciuto che lo scioglimento imposto dai diritti nazionali come
condizione preliminare per l’emigrazione della società, non è contrario al diritto comunitario” (punto 13).
in particolare per garantire la conservazione della personalità giuridica in caso di
trasferimento della sede da un paese all’altro. Ebbene, si deve constatare che nessuna
convenzione in materia è sinora entrata in vigore”. Viene dunque rimessa la questione
agli ordinamenti interessati dal trasferimento, con una soluzione che sembrerebbe
essere quella accolta dall’art. 25 co. 3 L. n. 218/95 (83).
Sennonché, un conto è che gli effetti fiscali sfavorevoli discendano dal diritto
internazionale privato e societario, che diventano mero presupposto per l’operatività
delle norme fiscali previste per la liquidazione, altro è che essi siano autonomi da esso.
Nel primo caso soltanto si potrebbe infatti fare leva su fattori esterni al diritto tributario
per giustificare le restrizioni, mentre nel secondo caso si tratterebbe di misure
svincolate dagli esiti internazional-privatistici sull’esistenza della società che si
trasferisce. Ebbene, nel caso della legislazione inglese, nulla ostava dal punto di vista
societario al trasferimento della sede effettiva (84), sicché l’autorizzazione si risolveva
in una restrizione avente la sua causa esclusiva nel sistema tributario.
Pertanto, se così stanno le cose, l’affermazione sulla esistenza di divergenti
sistemi nazionali si rivela del tutto inconferente nel caso di specie, se non per
giustificare, in modo assai vago, la presunta volontà dei redattori del trattato di non
tutelare ancora la libertà di stabilimento primario, con tutti gli effetti pregiudizievoli di
una tale opinione sul piano extra-fiscale.
Fatto sta che in base ai principi enunciati nella esaminata sentenza, la
ricostruzione in termini di “liquidazione” del trasferimento di sede in applicazione
delle norme internazional-privatististiche, costituirebbe legittima conseguenza della
non armonizzazione delle norme di diritto internazionale privato.
Non sfuggirà tuttavia la chiara contraddizione che con ciò si determina. Se la
società che trasferisce la propria residenza fiscale appartiene ad uno Stato nel quale
vige il principio del “real seat”, non c’è infatti “restrizione” ai sensi dell’art. 43 del
Trattato, in quanto di regola in presenza di una “liquidazione” del soggetto che si
trasferisce. Ciò, peraltro, con l’eccezione di Belgio ed Austria, le quali ammettono,
come visto, la continuità del soggetto che si trasferisce in uno Stato che adotta il
principio del “place of incorporation”. Se invece la società che trasferisce la propria
residenza fiscale appartiene ad uno Stato nel quale vige il principio del “place of
(83) R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 154.
(84) Vedi anche F. CAPELLI, Trasferimento della sede amministrativa di società nella CEE: diritto di
stabilimento e problematiche fiscali, in Dir. comm. sc. int., 1990, p. 50, che riconosce la confusione operata dalla
Corte di giustizia tra norme internazional-privatistiche e norme fiscali, con l’effetto di pregiudicare
l’applicazione per il futuro del principio di libertà di stabilimento per far salva una pretesa impositiva del
Regno Unito che avrebbe potuto probabilmente trovare una semplice giustificazione da parte della Corte
sul piano degli interessi erariali da salvaguardare.
incorporation”, non c’è di regola perdita di soggettività, sicché sarà in tal caso possibile
rinvenire una “restrizione” ai sensi dell’art. 43 del Trattato (85).
Naturalmente, resta ferma l’applicabilità della libertà di stabilimento primaria
per le persone fisiche esercenti una attività di impresa. Da questo ultimo punto di
vista, le exit taxes sono dunque suscettibili di violare tale principio in quanto idonee a
“dissuadere” un cittadino di uno Stato membro dal far uso di tale libertà (86), sia che
si concretizzino nella richiesta immediata dell’imposta sulle plusvalenze, sia che
prevedano l’apprestamento da parte del soggetto che si trasferisce di un sistema di
garanzie destinate ad operare al momento del successivo realizzo delle plusvalenze
(87).
Non dobbiamo infine dimenticare quanto affermato nella sentenza Bosman in
ordine alla configurabilità di un diritto di circolazione soltanto nel caso in cui un
individuo intenda trasferirsi nell’altro Stato per svolgere ivi un’attività economica (88).
(85) Questa contraddizione è colta anche dall’Avvocato generale nelle conclusioni della sentenza
Daily Mail, anche se però per farne derivare effetti opposti a quelli da noi auspicati. In particolare, si legge
(punto 13) che “sarebbe paradossale che uno Stato che non esige lo scioglimento sia posto dal diritto
comunitario in una situazione fiscale di disfavore, proprio quando la sua legislazione in materia di società
è più vicina agli obiettivi comunitari in materia di libertà di stabilimento (….). Per le ragioni sopraindicate,
allo stato attuale del diritto comunitario, non ritengo che detta circostanza (il fatto di non esigere lo
scioglimento, n.d.a.) possa escludere il diritto delle autorità nazionali a farne conseguire sul piano fiscale
effetti analoghi a quelli altrove prodotti da uno scioglimento”.
(86) Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, in Raccolta, 2000, p. 2787.
(87) Vedi le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punti 24 ss.,
dove si precisa che le disposizioni francesi in tema di exit taxes procurano al contribuente che intenda
lasciare il territorio “svantaggi notevoli” rispetto ai soggetti che mantengono la loro residenza in Francia,
prevedendosi al riguardo oneri particolarmente gravosi (presentazione di dichiarazione relativa alle
plusvalenze latenti, anticipazione del presupposto di tassazione di tali plusvalenze, condizioni
particolarmente gravose per l’ottenimento del differimento dell’imposizione – domanda specifica di
rinvio, nomina di un rappresentante fiscale, rendiconto annuale delle plusvalenze anche se non ancora
realizzate, costituzione di una garanzia idonea – il tutto peraltro a pena di decadenza dal beneficio del
rinvio), a nulla rilevando il fatto che, decorsi cinque anni, al contribuente che non abbia alienato le
partecipazioni spetti uno sgravio di imposta e il rimborso dei costi sopportati per l’apprestamento delle
garanzie. La Corte di giustizia, nella sentenza 11 marzo 2004, cit., rileva che “il contribuente desideroso di
trasferire il domicilio fuori dal territorio francese (…) è soggetto ad un trattamento sfavorevole rispetto
ad una persona che conserva la sua residenza in Francia”, sicché “tale disparità di trattamento (…) è di
natura tale da scoraggiare un contribuente ad effettuare un trasferimento di questo tipo”. La Corte rileva
inoltre che anche la costituzione di garanzie per beneficiare di un rinvio del pagamento costituisce una
misura restrittiva, in quanto dette garanzie “privano il contribuente della disponibilità del patrimonio dato
in garanzia” (punti 45-46-47).
(88) Corte di giustizia, 15 dicembre 1995, Bosman, in Raccolta, 1995, p. 4921 ss. Nel caso Hughes de
Lasteyrie du Saillant il problema è stato sollevato dai governi tedesco e olandese, ritenendosi non precisato
dall’ordinanza di rinvio se il ricorrente nella causa principale avesse traslocato per motivi privati o
professionali. L’avvocato generale, nelle sue conclusioni, prende tuttavia atto che nelle deduzioni
depositate presso la Corte, non contraddette in sentenza, l’attore aveva dichiarato di aver trasferito il
proprio domicilio in Belgio per svolgere in tale paese la propria attività professionale. Al riguardo, la
Corte si limita a rilevare che “nella fattispecie, il giudice del rinvio sembra aver concluso per l’applicabilità
dell’art. 52 del Trattato alla controversia principale” (punto 41). Vedi anche A. VALAT, Preliminary Ruling
Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is Compatible with the Freedom of Establishment, cit., p.
8. Segue: le cause di giustificazione. – Ciò precisato, occorre ora esaminare le
possibili giustificazioni che lo Stato che applica la exit tax potrebbe offrire per
affermarne la compatibilità con il diritto comunitario, anche alla luce della c.d. “rule of
reason” affermata nei casi Kraus (89) e Gebhard (90). Occorre dunque chiedersi,
nell’ordine: a) se le misure siano di per sé discriminatorie; b) se siano giustificate da
ragioni imperative di interesse generale; c) e d) se siano “adeguate” e “proporzionate”
allo scopo stabilito.
Sul primo punto – se le misure siano di per sé discriminatorie – ci siamo
soffermati in precedenza, sicché possiamo immediatamente passare al profilo della
loro possibile giustificazione in chiave di “ragioni imperative di interesse generale”.
Ora, a tale riguardo, pare che strade diverse possano essere percorse a seconda
che si qualifichino le exit taxes come misure “strutturali” oppure come misure
“antielusive” (91).
Se infatti si qualifica la norma che la prevede come “strutturale”, viene in rilievo
l’argomento della coerenza dei regimi fiscali interni quale possibile giustificazione al
trattamento discriminatorio o alla restrizione alla libertà di stabilimento, potendo gli
Stati sostenere che la exit tax trovi una propria giustificazione nel fatto che la
tassazione di un reddito comunque maturato consente di assicurare la coerenza del
sistema garantendo la eguaglianza tra contribuenti e la “personalità” dell’imposizione;
oppure – ovviamente per le sole exit taxes rivolte ai soggetti svolgenti attività di
impresa – la trovi nell’esistenza di un principio generale del sistema del reddito di
198, il quale osserva che le libertà fondamentali del Trattato “have always been construed by the ECJ as
economic freedoms and never as general public freedoms”.
(89) Corte di giustizia, 31 marzo 1993, C-19/92, Kraus, in Raccolta, 1993, p. 1663, punto 32.
(90) Corte di giustizia, 30 novembre 1995, C-55/94, Gebhard, in Raccolta, 1995, p. 4165, punto 37.
(91) Una qualificazione in tal senso non appare in verità agevole, emergendo talvolta elementi a
favore della relativa qualificazione in termini di norma “strutturale”, altre volte a favore della relativa
natura “antielusiva”. A questo ultimo riguardo, è sufficiente pensare: a) alle vicende normative sul piano
interno: ad esempio, la disciplina dell’art. 20-bis era contenuta della sezione IV del d.l. 23.02.1995, n. 41,
rubricato alle norme “antielusive”; b) alle prospettazioni dei governi nella causa Hughes de Lasteyrie du
Saillant, dove le eccezioni ora riguardano la natura “antielusiva” della norma, ora la sua natura
“strutturale” (coinvolgendo dunque la “coerenza” del sistema fiscale); c) agli indizi derivanti dalla relativa
disciplina: ad esempio, il fatto di rinunziare all’imposizione – in via unilaterale oppure in virtù di
convenzioni internazionali – all’imposizione decorso un certo periodo, fa propendere a favore di una
qualificazione in termini “anti-elusivi” della norma; d) alla necessità di ricostruire i principi del diritto
tributario interno, al fine di comprendere l’esatta collocazione di una tale disciplina: basta pensare alle
opposte tesi di chi anteriormente all’introduzione dell’art. 20-bis rinveniva un appiglio nella norma
sull’imponibilità delle plusvalenze nei beni destinati a “finalità estranee all’esercizio dell’impresa” quale
espressione di un principio generale di imponibilità dei beni fuoriusciti dal regime di impresa e di chi ha
sostenuto, al contrario, l’inesistenza della necessità logica che i beni assoggettati al regime dei beni di
impresa possano uscirne solo comportando l’emersione di plusvalenze o minusvalenze.
impresa che impone la tassazione dei plusvalori maturati nel caso in cui i beni
fuoriescono dal regime di impresa (92).
La giurisprudenza della Corte di giustizia è tuttavia orientata in senso piuttosto
restrittivo sul principio di “coerenza”.
Invero, in un primo momento e con riferimento al caso Bachmann (93), la
giustificazione alla deduzione limitata ai contributi corrisposti a imprese belghe era
stata ravvisata dalla Corte nel legame tra la deducibilità dei contributi e l’imponibilità
delle somme dovute dagli assicuratori in esecuzione di contratti d’assicurazione contro
la vecchiaia e la morte. La perdita di gettito fiscale dovuta alla deduzione dei contributi
d’assicurazione dal reddito totale veniva quindi ad essere compensata dall’imposta
applicata sulle pensioni, rendite e capitali dovuti dagli assicuratori. Analoga era stata la
giustificazione adottata dalla Corte ai fini della violazione della libera prestazione di
servizi, costituendo la coerenza fiscale quell’obiettivo d’interesse generale per il cui
perseguimento la disposizione belga rappresentava condizione indispensabile.
Tale impostazione è stata tuttavia superata nel caso Wielockx (94). Dinanzi al
richiamo difensivo al principio di coerenza enunciato nel caso Bachmann operato dal
governo olandese e volto ad affermare la mancata correlazione tra le somme dedotte
dalla base imponibile e quelle soggette ad imposta – atteso che la costituzione di una
riserva di vecchiaia nei Paesi Bassi non avrebbe consentito la successiva tassazione
della pensione, essendo tale reddito tassabile in Belgio in virtù della convenzione in
vigore tra i due Stati – la Corte ha rivisto la propria posizione, inquadrando tale
principio nell’ambito degli accordi internazionali, la cui reciprocità consente di
superare l’argomentazione fondata sulla specifica correlazione tra deduzione e
tassazione per guardare al fenomeno complessivamente considerato: l’esistenza della
convenzione bilaterale consente quindi di assicurare quella coerenza fiscale altrimenti
pregiudicata da una visione operata da una prospettiva meramente interna (95).
L’argomento della coerenza fiscale risulta anche invocato nei casi SvenssonGustavvson (96), Asscher (97), ICI (98), Baars (99), Verkooijnen (100) e Metallgesellschaft
(92) Su tale principio, vedi M. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, cit., p. 158 ss., per il quale il
reddito ascrivibile all’impresa è tutto ciò che concorre ad aumentarne il patrimonio iniziale, ivi compresi i
mutamenti di valore delle sue componenti; sicché al più tardi in concomitanza della loro uscita da tale
sfera questi (mutamenti) devono essere indefettibilmente inseriti nel circuito imponibile. Si pensi anche
all’Entstrickungsprinzip dei Paesi di lingua tedesca.
(93) Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90, Bachmann, in Raccolta, 1992, p. 281 ss.
(94) Corte di giustizia, 11 agosto 1995, C-80/94, Wielockx, in Raccolta, 1995, p. 2493 ss.
(95) Sull’importanza di una considerazione della coerenza anche sulla base dei trattati contro la
doppia imposizione stipulati dallo Stato cui appartiene la norma controversa, vedi anche Corte di
giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, in Raccolta, 2002, p. 10829 ss. (punti 53-56).
(96) Corte di giustizia, 14 novembre 1995, C-484/93, Svensson-Gustavsson, in Raccolta, 1995, p. 3955
ss.
(101). In tutti i casi citati, tuttavia, la Corte ha respinto tale argomento, ravvisando la
mancanza di un collegamento rispettivamente tra: 1) il rimborso al contribuente degli
interessi pagati ad istituzioni creditizie lussemburghesi e la tassazione degli utili in capo
a tali istituzioni; 2) l’applicazione di un’aliquota d’imposta maggiorata al reddito di
taluni non residenti che percepiscono meno nel 90% del loro reddito globale nei Paesi
Bassi e la mancata riscossione di contributi sociali di cui beneficia la parte del reddito
di questi non residenti prodotta nei Paesi Bassi; 3) il consolidamento delle perdite delle
consociate estere da un lato e la tassazione degli utili realizzati da queste ultime
dall’altro; 4) l’esenzione da imposizione patrimoniale delle partecipazioni e la doppia
imposizione economica dei redditi delle società partecipate; 5) la concessione agli
azionisti residenti nei Paesi Bassi di un’esenzione in materia di imposta sul reddito per
i dividendi riscossi e l’assoggettamento ad imposta degli utili delle società aventi sede
in altri Stati membri; 6) l’esenzione dall’imposta sulle società di cui gode la società
capogruppo sui dividendi ricevuti dalla sua controllata e l’assoggettamento all’ACT di
tale controllata al momento del versamento degli stessi dividendi.
Anche nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant è stato invocato l’argomento della
“coerenza”, affermando che la contropartita risiederebbe nel fatto che la exit tax
compenserebbe l’esonero temporaneo da imposta “dell’accrescimento del patrimonio
costituito dalle plusvalenze” (102).
Una tale tesi implica tuttavia almeno due corollari. Innanzitutto, che la
normativa interna preveda la tassazione delle plusvalenze quale misura generale, e
questa non sia dunque applicata soltanto in caso di trasferimento all’estero. Si pensi,
ad esempio, al caso in cui lo Stato che applica la exit tax preveda quale regola generale
la tassazione su base territoriale dei redditi di impresa, mentre proceda alla tassazione
delle plusvalenze latenti relative a stabili organizzazioni estere nel solo caso di
trasferimento della residenza fiscale all’estero. In secondo luogo, essa implica che la
tassazione con una exit tax non sia subordinata alla permanenza per un certo periodo
di tempo nell’altro Stato senza che si sia proceduto alla cessione dei beni cui essa si
riferisce. Se infatti la tassazione venisse meno decorso un congruo periodo di tempo
dal trasferimento, verrebbe minata alla radice la giustificazione in termini di
(97) Corte di giustizia, 27 giugno 1996, C-107/94, Asscher, in Raccolta, 1996, p. 3091 ss.
(98) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, cit.
(99) Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, cit.
(100) Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijnen, in Raccolta, 2000, p. 4071 ss.
(101) Corte di giustizia, 8 marzo 2001, C-397/98 e 410/98, Metallgesellschaft, in Impresa, 2001, p.
805 ss.
(102) Così il governo olandese: vedi le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de
Lasteyrie du Saillant, punto 72.
“coerenza”, poiché la tassazione dipenderebbe da un fattore – la durata del soggiorno
all’estero – inidoneo ad assicurare di per sé la coerenza del sistema (103).
Peraltro, anche laddove la tassazione delle plusvalenze fosse principio generale
dell’ordinamento dello Stato di partenza e le exit taxes fossero concepite quali misure
“strutturali” e non già anti-elusive, si potrebbe ulteriormente eccepire come la
“coerenza” del sistema non venga necessariamente compromessa. Ad esempio, la exit
tax potrebbe applicarsi anche a beni che comunque permarrebbero nella sfera
impositiva dello Stato di partenza, come nel caso della tassazione degli elementi
dell’attivo confluiti in una stabile organizzazione in esso situato (si pensi alla
Germania, che ritiene di assoggettare a tassazione anche queste plusvalenze (104))
oppure nel caso in cui gli assets consistano esclusivamente in beni immobili situati nel
territorio dello Stato che si abbandona, il cui diritto di imposizione rimarrebbe in capo
allo Stato di ex-residenza in base alle convenzioni contro la doppia imposizione.
Sembra tuttavia che nel caso delle società si possa addurre a sostegno della
“coerenza” delle exit taxes un argomento assai forte, in quanto dotato di rango
“comunitario”. Si può infatti osservare che le exit taxes societarie si modellano, per
molti versi, proprio sulla direttiva n. 434/90, che prevede la neutralità fiscale delle
operazioni di fusione transnazionale – cui il trasferimento di sede è certamente
assimilabile – a condizione che gli assets rimangano, appunto, in una stabile
organizzazione, proprio per preservare gli interessi finanziari dello Stato che si è
astenuto dall’imposizione (105). Se la “coerenza” della tassazione degli assets interni
non confluiti in una stabile organizzazione trova un importante argomento proprio nel
diritto comunitario, non altrettanto può dirsi tuttavia per quanto riguarda le stabili
organizzazioni estere, alla cui tassazione – conseguenza della perdita della potestà
impositiva – la direttiva n. 434/90 accompagna la concessione di un credito di imposta
“fittizio” di regola assente nelle discipline delle exit taxes (106).
(103) Vedi le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 75,
che afferma che poiché il contribuente che lascia il territorio per più di cinque anni senza procedere alla
alienazione della partecipazione non è comunque più assoggettabile ad imposta, non si potrebbe ritenere
che egli sia stato oggetto di un semplice “anticipo” dell’imposizione. Respinge l’argomento della
“coerenza” anche la Corte (punti da 61 a 67).
(104) Ritiene tale ipotesi contraria al principio di libertà di stabilimento, B. KNOBBE KEUK,
Wegzug und Einbringung von Unternehmen zwischen Niederlassungsfreiheit, Fusionsrichtlinien und nationalem
Steuerrecht, in Der Betrieb, 1991, p. 300. Osserva peraltro L. DE BROE, General Report sul tema The Tax
Treatment of Transfer of Residence by Individuals, cit., p. 76, che tutti gli Stati (con l’eccezione dell’Austria)
applicano le exit taxes individuali indipendentemente dalla circostanza che il loro potere impositivo venga
effettivamente meno.
(105) Evidenzia i punti di contatto tra la disciplina contenuta nell’art. 20-bis e la direttiva n.
434/90, G. MARINO, Report per l’Italia sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, cit.,
p. 368.
(106) Sul punto, vedi A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione
transnazionale in ambito CEE, cit., p. 487.
Veniamo ora alla prospettiva della giustificazione della misura in chiave
“antielusiva”. Lo Stato della residenza potrebbe infatti affermare che la exit tax si
giustificherebbe per la sua finalità di evitare che un soggetto residente possa trasferire
la propria residenza in uno Stato al solo fine di alienare i beni appartenenti all’impresa,
avvalendosi eventualmente delle norme di ripartizione contenute nelle convenzioni
contro le doppie imposizioni (107).
In questo senso la norma sarebbe antielusiva in quanto destinata ad impedire lo
sfruttamento di una “asimmetria” esistente nell’ordinamento tra “maturazione” del
reddito e sua tassazione in caso di realizzo effettivo, che consentirebbe, tramite il
semplice spostamento della residenza, di realizzare le plusvalenze in qualità di
residente di uno Stato che, per la non idoneità – anche per effetto di una convenzione
contro la doppia imposizione – dei criteri di collegamento previsti dall’ex Stato di
residenza a conservare il diritto di tassare tali redditi anche in quanto prodotti da un
soggetto non residente, divenga titolare del potere impositivo su tali plusvalenze (108).
Sino ad ora, tuttavia, finalità antielusive o comunque dettate da esigenze di
controlli fiscali della normativa interna, pur essendo astrattamente riconosciute come
ragioni imperative idonee a giustificare una restrizione (109), non hanno mai prevalso
sulla libertà di stabilimento nella giurisprudenza della Corte.
Talvolta infatti tali giustificazioni non sono state accolte in quanto, in relazione
al generale principio di proporzionalità, la misura prevista è stata ritenuta eccessiva rispetto
allo scopo che si proponeva di raggiungere: questo è quanto ad esempio accaduto nel
(107) Questo ad esempio ha costituito uno degli argomenti invocati dalla Francia nel caso Hughes
de Lasteyrie du Saillant per giustificare la propria exit tax, che sarebbe appunto volta ad evitare che un
contribuente trasferisca temporaneamente il proprio domicilio fiscale al di fuori della Francia prima di
cedere titoli mobiliari, al solo scopo di eludere il pagamento dell’imposta sulle plusvalenze dovuta in
Francia. E’ interessante notare che la qualificazione in termini “antielusivi” delle exit taxes aprirebbe a sua
volta nuovi problemi. Ad esempio, con riferimento all’ordinamento italiano, si potrebbe discutere se essa
possa rientrare nell’art. 37-bis co. 8 d.p.r. n. 600/73, che consente la disapplicazione di talune norme
tributarie “che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti
d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse nell’ordinamento tributario” laddove il
contribuente dimostri “che nella particolare fattispecie tali effetti non potevano verificarsi”. In realtà, la
norma, così come è formulata, escluderebbe dal proprio ambito di applicazione l’art. 20-bis, in quanto in
questo non si limitano posizioni soggettive, bensì si ampliano fattispecie impositive. Sull’ambito di
applicazione dell’art. 37-bis co. 8, sia consentito rinviare a G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario,
Padova, 2003, p. 557 ss.
(108) E, ovviamente, tassi tali plusvalenze in modo assai lieve o non le tassi affatto.
(109) Si veda, per i controlli fiscali, la sentenza Corte di giustizia, 15 maggio 1997, C-250/95,
Futura Participations SA – Singer, in Raccolta, 1997, p. 2492 ss. (punto 31) e in Riv. dir. trib., 1998, II, p. 15
ss., con nota di chi scrive (Stabili organizzazioni, obblighi contabili e riporto delle perdite: un’occasione perduta). Per
l’evasione fiscale, Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst, in Il Fisco, 2003, 1, p.
911 (punto 37). Si noti che la Corte di giustizia raramente utilizza l’espressione “elusione fiscale”,
avvalendosi quasi esclusivamente di quella di “evasione fiscale” o di “abuso del diritto”. Si tratta tuttavia
in ambedue i casi di espressioni inadatte alle fattispecie che è stata chiamata ad esaminare, le quali
configurano tipici casi di “elusione fiscale”. Sul punto, sia consentito rinviare a G. MELIS, L’interpretazione
nel diritto tributario, cit., p. 219 ss.
caso Futura e Singer, dove si è ritenuto che l’ammontare effettivo delle perdite subite
avrebbe potuto essere dimostrato anche mediante mezzi diversi da quella regolare
contabilità alla cui tenuta la legislazione lussemburghese subordinava il riporto; oppure
quanto accaduto nel caso Leur-Bloem, in cui la norma nazionale è stata censurata per
aver di fatto determinato una “presunzione inconfutabile di frode fiscale”, dovendosi
invece valutare i comportamenti “abusivi” del contribuente “caso per caso” (110).
Altre volte, le eccezioni sollevate dai Governi chiamati in causa e argomentate
sulla presunta finalità antielusiva delle disposizioni incriminate, non sono state ritenute
fondate a motivo della relativa inidoneità a perseguire detta finalità. Nel caso ICI, ad
esempio, il rischio di elusione insito in una normativa che avesse accordato il
consolidamento delle perdite delle consociate estere anche ove residenti al di fuori del
Regno Unito, non avrebbe potuto essere escluso neanche dalla vigente formulazione
legislativa la quale, richiedendo soltanto che la maggioranza (e non la totalità) delle
controllate fosse residente nel Regno Unito, non escludeva comunque il rischio
paventato dal Fisco inglese (111).
Ebbene, nel caso delle exit taxes la loro proporzionalità appare certamente
dubbia ove inquadrate quali norme “antielusive”. Innanzitutto, il pagamento
immediato delle exit taxes non tiene conto delle effettive finalità del trasferimento della
residenza, ben potendo mancare nel caso concreto finalità “elusive”. Un conto è
infatti che il soggetto si trasferisca in uno Stato nel quale le plusvalenze non sono
tassate, sfuggendo – eventualmente avvalendosi di una convenzione internazionale –
alla normativa dello Stato di partenza che prevede la tassazione delle plusvalenze su
partecipazioni o sui beni di impresa al momento del loro realizzo effettivo, altro è che
lo Stato di trasferimento preveda una imposizione ragionevole sui capital gains o sulle
plusvalenze d’impresa. Il ragionamento andrebbe dunque invertito, consentendo
all’amministrazione finanziaria di provare, caso per caso, le finalità elusive (112). In
secondo luogo, le exit taxes non tengono conto della durata della eventuale
(110) Corte di giustizia, 17 luglio 1997, C-28/95, Leur-Bloem, in Raccolta, 1997, p. 4161 ss. Vedi
anche Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit. (punti 42 e 62); Corte di giustizia, 12
dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst, cit., p. 911 (punto 37) dove si legge che “la normativa
controversa non ha l’obiettivo specifico di escludere da un vantaggio fiscale le costruzioni puramente
artificiose il cui scopo sia quello di eludere la normativa fiscale tedesca, ma ricomprende, in via generale,
qualunque situazione in cui (…). Ora, tale situazione non comporta, di per sé, un rischio di evasione
fiscale (…)”. In questo senso, l’inclusione dell’art. 20-bis tra le fattispecie suscettibili di disapplicazione ex
art. 37-bis co. 8 potrebbe servire a rendere la misura più “proporzionale”. V’è tuttavia da dire che la
sostanziale discrezionalità che tale norma lascia all’amministrazione finanziaria, e le caratteristiche del
provvedimento da questa adottato, che sembrerebbero precludere un successivo intervento
giurisdizionale sull’eventuale pronunzia sfavorevole, difficilmente consentirebbero di reggere ad un esame
di compatibilità comunitaria.
(111) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, cit., p. 1812, punto 27.
(112) Vedi anche le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant,
punto 60, e la sentenza della Corte, punti 51, 52 e 53.
permanenza del contribuente nello Stato di destinazione, che ben potrebbe dimostrare
che il trasferimento della residenza non era finalizzato alla cessione della quota (che
potrebbe peraltro ben essere nel frattempo avvenuta) o al realizzo delle plusvalenze
sui beni di impresa, bensì (anche) ad una effettiva permanenza in tale altro Stato (113).
Inoltre, potrebbero esistere misure meno restrittive, quali ad esempio la tassazione
del soggetto trasferitosi al momento del suo “rientro”, avvenuto per ipotesi poco
dopo la vendita dei beni durante un breve soggiorno in un altro Stato membro (114).
Peraltro, l’anticipazione dell’imposizione indipendentemente dal realizzo
effettivo della plusvalenza determina seri problemi di liquidità in capo al contribuente.
Nel caso di trasferimento in ambito comunitario, la Corte potrebbe allora invocare
ancora una volta la Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, n. 77/799, relativa alla
reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle
imposte dirette (115), anche se sulla effettività di funzionamento di questo strumento
potrebbero essere sollevati non pochi dubbi e perplessità, e stabilire che quest’ultima,
al limite accompagnata da un adeguato sistema di garanzie, possa essere sufficiente per
rinviare la tassazione al momento dell’effettiva alienazione della partecipazione o dei
beni aziendali. Del resto, in alcuni paesi è già concessa la possibilità di un
“postponement” della tassazione, sia pure non generalizzato, destinato a far venire
meno la exit tax decorso un certo periodo dal trasferimento (116); mentre in altri viene
addirittura previsto un sistema “misto” che, nell’ammettere esplicitamente a livello
legislativo la possibilità di una tassazione differita e talvolta solo eventuale, non fa che
alimentare ulteriormente i dubbi sulla effettiva necessità di procedere ad una
tassazione immediata: nei Paesi Bassi, ad esempio, vi è un final assessment per le
(113) Vedi anche le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant,
punto 61, che osserva che la cessione dopo breve tempo della partecipazione potrebbe ad esempio essere
dovuta alla necessità di procurarsi entrate per le spese da sostenere nel nuovo Stato di destinazione.
Conseguentemente, più che guardare alla rapidità della cessione delle partecipazioni occorrerebbe
guardare alla rapidità del ritorno nello Stato di partenza.
(114) Corte di giustizia, 11 marzo 2004, C-09/02, cit., punto 54.
(115) Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90, Bachmann, cit., p. 281, punto 18
(informazioni sull’avvenuto pagamento dei premi assicurativi nell’altro Stato); Corte di giustizia, 12 aprile
1994, C-1/93, Halliburton, p. 1157, punto 22 (informazioni riguardanti le caratteristiche delle forme
societarie degli altri Stati membri); Corte di giustizia, 7 agosto 1999, C-254/97, Baxter, punto 17
(informazioni riguardanti le spese di ricerca sostenute all’estero); Corte di giustizia, 14 febbraio 1995, C279/93, Schumacher, in Raccolta, 1995, p. 262, punto 45 (informazioni sulla situazione personale e familiare
del contribuente). Solleva seri dubbi circa l’effettività dell’assistenza in materia di imposte dirette, A.
VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is Compatible with the
Freedom of Establishment, cit., p. 197.
(116) Così la sect. 187 del Finance Act 1988 nel Regno Unito, che prevede un periodo di sei anni
dalla data del trasferimento decorso il quale non si renderà dovuta più alcuna exit tax laddove i beni
“trasferiti” non abbiano formato oggetto di atti di disposizione.
plusvalenze latenti d’impresa e un preserving assessment per le plusvalenze su
partecipazioni detenute da persone fisiche (117).
Sennonché, anche la previsione di un sistema di “garanzie” presenta qualche
dubbio. Ad esempio, la Corte ne ha riconosciuto nel caso X e Y (118) la legittimità
proprio in quanto misura “meno restrittiva” per assicurare il pagamento dell’imposta
in una ipotesi di sostanziale elusione della exit tax svedese mediante cessione
“sottoprezzo” delle azioni detenute in una società svedese ad una società straniera in
qualche modo ricollegabile al cedente e successivo trasferimento definitivo del cedente
all’estero. Nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, l’Avvocato generale ha invece
ritenuto che le affermazioni della Corte nel caso X e Y fossero state rese in un
contesto diverso, nel quale non si discuteva della necessità di prevedere una misura
proporzionata all’ipotesi di un breve soggiorno di un contribuente in un altro Stato
membro e del suo rientro (119).
(117) Sul punto, vedi R. BETTEN, Report per l’Austria sul tema The Tax Treatment of Transfer of
Residence by Individuals, cit., p. 413 ss. Conclusivamente, questo potrebbe essere un possibile testo della
norma italiana relativa al trasferimento della residenza fiscale all’estero. “Art. 166. 1. Il trasferimento
all’estero di uno o più elementi costitutivi della residenza ai fini delle imposte sui redditi dei soggetti che
esercitano imprese commerciali, che comporti, anche per effetto dell’applicazione di una convenzione
contro la doppia imposizione, la perdita di detta residenza fiscale, costituisce realizzo, al valore normale,
dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale, compreso il valore di avviamento, salvo che non
siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato. La disposizione si applica
anche nei confronti di beni non riconducibili all’azienda o al complesso aziendale, salvo che il soggetto
che si trasferisce abbia fatto confluire detti beni nella stabile organizzazione mantenuta nel territorio dello
Stato. La stessa disposizione si applica se successivamente i componenti o beni confluiti nella stabile
organizzazione situata nel territorio dello Stato ne vengano distolti. Si considerano in ogni caso realizzate,
al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero. Per le imprese individuali si
applica l’art. 17, comma 1, lettera g). 2. I fondi in sospensione d’imposta, inclusi quelli tassabili in caso di
distribuzione, iscritti nell’ultimo bilancio prima del trasferimento della residenza o della sede, sono
assoggettati a tassazione nella misura in cui non siano stati ricostituiti nel patrimonio contabile della
predetta stabile organizzazione. 3. In caso di trasferimento della residenza fiscale verso l’Italia, ai soli fini
dell’eventuale successiva applicazione del comma 1, il valore iniziale dei beni trasferiti è determinato in
base al loro valore normale al momento del trasferimento della residenza fiscale in Italia”. Per quanto
riguarda i rapporti con Stati CE potrebbe valutarsi alternativamente: a) la non applicazione tout court della
norma nei confronti dei trasferimenti di residenza fiscale in Paesi comunitari, almeno nei riguardi di
persone fisiche svolgenti attività di impresa; b) la possibile “disapplicazione” dell’art. 166 – case by case –
per i trasferimenti in Paesi comunitari, laddove il contribuente dimostri l’impossibilità che si verifichino
effetti elusivi; c) il differimento della tassazione sino al momento dell’effettivo realizzo dei beni
subordinato all’apprestamento di idonee garanzie e, eventualmente, il venir meno di qualsiasi imposizione
decorso un congruo numero di anni senza che i beni abbiano formato oggetto di atti di disposizione (con
il rimborso da parte dell’amministrazione finanziaria dei costi sopportati per le garanzie fornite). Per
quanto riguarda, infine, le stabili organizzazioni estere, si potrebbe direttamente prevedere l’applicazione
del meccanismo di cui all’art. 10 della direttiva n. 434/90.
(118) Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit.
(119) Conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 65.
Ricordiamo infatti che per l’Avvocato generale la norma francese sulle exit taxes dovrebbe incentrarsi
sull’immediato ritorno del contribuente in Francia a seguito della cessione delle azioni e non anche sulla
circostanza, giudicata irrilevante, della cessione delle azioni subito dopo il trasferimento, dal momento
che il contribuente ben potrebbe successivamente permanere nell’altro Stato, così dimostrando anche (o
solo) finalità diverse da quelle elusive. Ci pare, tuttavia, che la situazione delle exit taxes societarie sia
Per mera completezza, occorre infine ricordare che a nulla varrebbero
generiche giustificazioni di impedire la riduzione delle entrate fiscali dello Stato
membro interessato, evitando che i contribuenti traggano vantaggio dalle disparità
esistenti tra i regimi fiscali dei vari Stati membri. A tale proposito la Corte di giustizia
ha infatti ripetutamente affermato che non costituiscono motivo di giustificazione ai
sensi dell’art. 46 del Trattato le perdite di gettito fiscale che si determinerebbero a
seguito dell’eliminazione della clausola discriminatoria o della “restrizione”, trattandosi
di obiettivi di natura meramente economica (120).
9. Conclusioni. – Dalle considerazioni che precedono appare evidente che una
soluzione ai numerosi problemi derivanti dall’adozione delle exit taxes debba
necessariamente ricercarsi in una prospettiva comunitaria.
Dal punto di vista dello strumento da utilizzare, l’adozione di una direttiva appare
certamente quello più idoneo, bastando al riguardo osservare che le operazioni
societarie e i flussi di reddito transnazionali costituiscono la materia privilegiata delle
Direttive sinora adottate in materia di imposte dirette (regime tributario dei dividendi,
interessi e royalties, operazioni societarie intracomunitarie). Anzi, non solo l’adozione di
queste Direttive conferma la validità dello strumento che si potrebbe adottare, ma la
mancanza di una disciplina del trasferimento di sede appare alla luce di esse ancor più
sorprendente, sol che si pensi che la fusione transnazionale produce effetti
sostanzialmente equivalenti a quelli del trasferimento della sede (121).
Dal punto di vista del contenuto, il punto di riferimento è ovviamente dato dalla
Direttiva n. 434/90, la quale potrebbe essere estesa – e questo è l’indirizzo che la
Commissione ha manifestato con la recente proposta COM (2003) 613, sia pure
soltanto per la “società europea” e la “società cooperativa europea” (122) – al
trasferimento di sede, prevedendo la continuità nei valori fiscali e il congelamento
delle plusvalenze ove le stesse confluiscano in una stabile organizzazione situata nello
Stato della società che trasferisce la propria sede – come peraltro già indicato nello
maggiormente assimilabile alla fattispecie esaminata nel caso X e Y, dal momento che il “ritrasferimento”
di una persona fisica è cosa ben diversa dal “ritrasferimento” di una società.
(120) Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijnen, cit., punto 59; Corte di giustizia, 21
novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit., punto 50; Corte di giustizia, 21 settembre 1999, C-307/97, Saint
Gobain, in Il Fisco, 1999, p. 13004, punto 50, sulla quale vedi C. ROMANO, La stabile organizzazione si
avvicina ai soggetti residenti nel diritto tributario internazionale di origine convenzionale: il caso Saint-Gobain, in Boll.
trib., 2000, p. 328 ss. Vedi anche le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du
Saillant.
(121) Come evidenzia G. MARINO, Brevi note sul trasferimento di sede all’estero, cit., p. 1037.
(122) E’ la Proposta di “Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva n. 90/434/CEE, del 23
luglio 1990, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti
d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi”, presentata dalla
Commissione in data 17 ottobre 2003. La proposta inserisce un titolo “IV bis” rubricato alle “Norme
applicabili al trasferimento della sede sociale”, composto dagli articoli 10-bis, ter e quater.
studio della Commissione Europea (doc. n. XV/B/220/91) riguardante la proposta
modificata di regolamento del Consiglio relativo allo Statuto della “società europea” –
nonché la concessione del credito fittizio per le stabili organizzazioni estere.
In alternativa, si potrebbe ricorrere allo strumento della Convenzione
multilaterale, già adottato per la procedura arbitrale in materia di prezzi di
trasferimento, che consentirebbe agli Stati membri di non vincolarsi definitivamente e
di “testare” il funzionamento della disciplina nel periodo di vigenza della convenzione,
oppure “agganciarsi” – inserendovi una “postilla fiscale” per la regolamentazione dei
profili tributari del trasferimento di sede all’estero – al Regolamento sulla c.d. “società
europea”, riservato alle grandi imprese, o al già richiamato Progetto della 14a
Direttiva, applicabile invece ad ogni tipo di società, i quali consentono entrambi, come
visto, il trasferimento della sede senza subire le drastiche conseguenze dello
scioglimento e della costituzione di una nuova persona giuridica.
Sennonché ci sembra che la natura della materia da un lato – in particolare
riguardante un fenomeno, quello dello status delle società trasferite e dei relativi beni
ad essi appartenenti, destinato a perdurare nel tempo – che mal si attaglia alla natura
tipicamente “provvisoria” della Convenzione multilaterale comunitaria, e la duplice
circostanza della già avvenuta emanazione del Regolamento e dello “stallo” in cui è
caduta la 14° Direttiva dall’altro, giustifichino la via intrapresa a Bruxelles di ricorrere
allo strumento della modifica della direttiva n. 434/90.
E’ tuttavia un vero peccato che l’estensione della Direttiva n. 434/90 al
trasferimento della sede sociale all’estero sia stata prevista soltanto per la “società
europea” e per la “società cooperativa europea”, eludendo ancora una volta i veri
problemi di fondo del trasferimento della residenza fiscale delle società.
GIUSEPPE MELIS
Professore Associato di Diritto Tributario
nella Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi del Molise