Diocesi di Cassano All`Ionio

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Diocesi di Cassano All’Ionio
Piazza S. Eusebio, 1
87011 Cassano all’Ionio (CS)
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Omelia in onore del Beato Francesco Spoto
Raffadali
30 maggio 2007
Care sorelle e cari fratelli,
le letture della Parola di Dio che abbiamo
appena ascoltato ci presentano Gesù come agnello sgozzato e come il buon
pastore.
L’immagine del Buon Pastore risale ai tempi più remoti. Dio è stato
invocato come pastore, per esempio in Genesi (48,15). “…il Dio che fu il mio
pastore (da) quando esisto fino ad oggi…”.
C’è il salmo di David (il 23 [22]), che abbiamo ascoltato, che si chiama
proprio “Il buon pastore”: “Dio è il mio pastore, nulla mi potrà mancare! In
verdi pascoli mi fa riposare ad acque tranquille mi guida…”.
Ma Gesù aggiunge qualcosa di originale: la capacità, la vocazione, la
propensione a svolgere il proprio compito “per amore,”al punto da donare la
propria vita per difendere tutte e ciascuna la sua pecora. Il pastore non solo
protegge il gregge dal lupo ma, sorretto dall’amore, è pronto a sacrificarsi per
esse contro il “lupo”. Ecco l’originalità: in Gesù pastore non v’è nulla del
mercenario, che nella tenuta delle pecore considera solo l’aspetto lucrativo e,
come dice Ezechiele, satisfattorio: “… guai ai pastori di Israele che hanno
pasciuto se stessi […]. [Le pecore] sono disperse, mancano di pastore…” (Ez
34,2,5).
L’immagine dell’agnello sgozzato del brano dell’Apocalisse ispira la
nostra riflessione. È un’ immagine paradossale, come molte altre presenti nella
Sacra Scrittura. Il paradosso serve a catturare l’attenzione e stimolare la
meditazione: com’è possibile che un agnello sia a capo del gregge? È vero
piuttosto il contrario: nella realtà è sempre una vecchia pecora o un montone
adulto a capeggiare un gregge. Gli agnelli solitamente arrancano dietro le
madri, opportunamente protetti in cerchio da altri membri adulti del gregge.
Quello dell’Apocalisse è un agnello, per di più sgozzato, adagiato su di un
trono, che poi è il trono di Dio. Anzi, l’Agnello è Dio. Altro paradosso, che ad
orecchie profane, può sembrare una nuova edizione del vitello d’oro degli
Israeliti, una nuova forma di idolatria. Non è così. L’agnello dell’Apocalisse è
chiaramente un’allegoria, come d’altra parte le altre numerosissime che
caratterizzano l’ultimo libro della Scrittura. Le allegorie sono le immagini e le
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figure con cui Giovanni esprime il suo pensiero. Si tratta di comunicare
un’esperienza divina e quando le parole sono insufficienti, l’immagine riesce a
dire molto di più della parola.
L’Agnello di Giovanni rimanda certamente all’agnello della Pasqua, il cui
sangue fu lo strumento per salvare il popolo di Israele schiavo in Egitto
dall’angelo della morte, inviato a punire gli egiziani.
L’allegoria è riferita a Cristo, agnello senza macchia e senza difetti
(proprio come doveva essere quello della celebrazione della Pasqua) il cui
sangue è la salvezza. I salvati sono coloro «che hanno lavato le loro vesti … col
sangue dell’agnello». Essi portano vesti candide e palme nelle mani: le vesti di
candido lino sono le opere di bene mentre la palma è segno della perseveranza e
della testimonianza (martirio) del vangelo. L’allegoria è finalmente completa: la
salvezza consiste nel rendere testimonianza al vangelo dell’amore che Cristo ha
testimoniato fino all’effusione del sangue. Il vero popolo di Dio è costituito da
coloro che non hanno solo ammirato o esaltato l’amore di Cristo, ma lo hanno
imitato. Se il sangue è la vita donata per amore e le vesti le opere di bene, il
lavare le vesti nel sangue indica che le opere dell’amore cristiano non devono
essere un’attività filantropica, qualcosa che la persona fa, ma il dono della
stessa vita, qualcosa che esprime l’essenza della persona stessa, disposta al
dono della vita come Gesù.
Ed all’amore si associa il dolore. La parola «dolore» sgomenta tutti.
Non si sa bene perché all’amore si accompagna sempre il dolore: “A voler
far bene, non si potrà non soffrire: bisogna, dunque allorquando si voglia
veramente compiere un’opera buona, mettere nel preventivo la sofferenza che
essa certamente ci costerà, nella carne e nello spirito” (G. De Luca, Commenti
al Vangelo festivo, I, Roma 1968, 537).
Oggi il mondo vuole tanto sentir parlar d’amore, ma storce il naso di
fronte al dolore. Eppure il Vangelo ci insegna che non c’è amore senza dolore.
L’amore, quello autentico, quello che non sia inteso e frainteso come passione o
ardore dell’attimo, o impeto della carne, s’accompagna sempre al dolore. Esso è
entrato con il peccato nel quotidiano dell’uomo ed estirparlo è sofferenza come
estirpare un dente ben radicato nella mascella, o un’unghia ben compatta nella
carne. Le opere di bene, in quanto contrastano il peccato, finiscono per costare
sofferenza: sarà la sofferenza dell’incomprensione o dell’ingratitudine, sarà il
dolore del rifiuto o dell’indifferenza, o la spina dello sbeffeggio o la piaga
dell’insulto e della derisione. Ecco cosa rappresenta l’agnello immolato: è il
segno dell’amore fino all’annientamento di sé. Sant’Agostino parlerà dell’amor
Dei usque ad contemptum sui in perenne lotta con l’amor sui usque ad
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contemptum Dei. L’amore per le creature e per noi stessi ci distrae da Dio: in
questo consiste il peccato. La salvezza, invece, consiste nel moto contrario:
distrarci da noi stessi, dalle cose e dal diletto che l’uso del mondo ci procura per
volgere lo sguardo a Dio.
Quell’Agnello che siede sul trono di Dio ci ricorda che la salvezza è una
realtà umana e divina insieme, un appello di Dio alla libertà dell’uomo, un
invito che l’uomo può seguire o rifiutare. E ci ricorda anche che ciò non
avviene senza l’adesione obbediente della fede.
L’obbedienza della fede nasce dall’ascolto: fides ex auditu! Ecco perché
nel Vangelo è sempre Giovanni che ci indica la necessità dell’ascolto e
dell’obbedienza. E lo fa ricorrendo all’immagine del gregge. Non c’è vero
gregge senza l’ascolto della voce del pastore. Nei recinti comuni usati dai
pastori palestinesi, è fondamentale che le pecore riconoscano la voce del
proprio pastore che le chiama per riunirle. Gesù parte da questo costume della
quotidianità del suo tempo per sottolineare la necessità che il gregge di Cristo
impari a conoscere la voce del pastore per essere riunito in un unico gregge. Per
appartenere al gregge di Cristo, alla Chiesa, per essere vero ed autentico
discepolo di Cristo, occorrono due cose: la prima, la capacità di riconoscere la
Sua voce tra molte altre: “Le mie pecore ascoltano la mia voce. Io le conosco,
ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna, ed esse non moriranno mai” (Gv
10, 27,28) Gesù non solo riafferma la grandezza e la santità di Dio. Quindi, non
solo parla, ma agisce, e lo dimostrerà come tutti sappiamo con i fatti. Poi, la
volontà di seguirlo nei pascoli che lui indicherà. Volontà e libertà umane sono
ambedue coinvolte nel cammino della salvezza. E il discepolo che segue il
cammino di Gesù non può non calcare lo stesso sentiero di Gesù, quello
dell’obbedienza e dell’amore. Un’obbedienza che si spinge fino alla morte,
nella quale si rivela l’Amore incondizionato di Cristo. Ed in esso si rivela
l’essenza di Dio Padre, che è Amore.
Gesù, l’Agnello immolato, è il vero Pastore del gregge dei suoi discepoli,
che conduce tutti quelli che lo vorranno seguire alle fonti delle acque della vita.
Ma che significa obbedire a Dio? Significa piegare le ginocchia di fronte
al solo nome di Gesù (Fil 2, 9-11), ovvero prostrarsi davanti all’Agnello e
proclamare ad alta voce che solo a lui devono andare lode, onore, gloria e
potenza (Ap 5,13). Perché l’gnello, pur essendo stato immolato (cfr. Ap 5,9s),
ha vinto e ha riscattato con il suo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e
nazione.
Nella sequela di Cristo non deve escludersi a priori un’obbedienza tale da
portare al martirio se si è partecipi della sua vittoria. In lui siamo più che
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vincitori, benché siamo messi a morte ogni giorno (cfr. Rom 8, 36 e ss) e,
dunque, il cuore di chi lo riconosce è colmo di gioia e di gratitudine verso di
Lui e non è più schiavo per la paura della morte.
Quando il persecutore brama il sangue della vittima, che deve subire la
violenza estrema in odium fidei, allora c’è il martirio, nel quale la vittima rivela
l’amore incondizionato a Cristo.
Questa rivelazione e questo amore supremo rifulsero in padre Francesco
Spoto, non solo nel momento supremo del martirio, ma durante tutta la sua vita.
Anzi, si potrebbe dire che lo furono nel momento della morte proprio perché
erano stati sempre presenti in lui.
Il Signore ha voluto gratificare padre Spoto dell’esperienza di Pietro, che
si è compiuta alle pendici del Gianicolo, lontano dalla sua natia Galilea. Anche
Padre Spoto negli ultimi mesi di vita fu letteralmente chiamato da una terra
d’oltremare e, dopo essere stato abbattuto come un giovane mandorlo in fiore,
portato su una lettiga di fortuna attraverso luoghi che non erano la sua Sicilia e
parevano essergli ostili, giacché non gli offrivano che dolore e sapore di morte.
Anche lui fu chiamato per un dono particolarissimo ad amare il Signore più dei
suoi fratelli (dopo averli accuditi con amoroso servizio come giovanissimo loro
superiore generale). Quei tre confratelli della Missione, in particolare ebbero
salva la vita in cambio della sua offerta sacrificale suprema.
Come la terra del Mons Vaticanus fu l’ultima casa del pescatore di
Galilea, così la terra del Congo fu la bara di Padre Spoto (in senso letterale fu
sepolto nella nuda terra vicino alla capanna del buon Agatone, un cristiano
congolese che portava il nome di un antico papa siciliano, 678-681). La vera
casa, quella destinata dall’amore, l’ aspettava nel Regno in quel 27 dicembre
1964.
Proprio perché non si appartiene più a se stessi ci si fa tutto a tutti.
Proprio perché la nostra patria è nel cielo, ogni luogo può diventare la nostra
patria su questa terra fino a bagnarla per amore col nostro sangue. Un grumo di
quel sangue fu per Padre Spoto il distintivo più importante. Sacerdoti come lui
sono davvero seguaci del Buon Pastore e sono una proiezione celeste della
chiesa terrena.
Padre Spoto incarna la dolce figura del Buon Pastore e dell’Agnello
immolato e gode eternamente della visione del Signore. Preti come lui sono
davvero seguaci del Pastore, che poi è anche Agnello.
Padre Spoto è un testimone di Cristo nel senso che ha consegnato e
affidato tutto a Dio una volta per sempre. Gesù ha bisogno di testimoni per la
Chiesa. Ha bisogno di uomini che dimenticano e perdono se stessi, ma ritrovano
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Dio, e aiutano gli uomini ad essere testimoni di Cristo, perché capaci di
«stimare tutto come sterco, per guadagnare Cristo ed esser trovati in Lui (...) e
sperimentare la forza della sua Risurrezione e la partecipazione alla sua
Passione» (Fil 3,8-10). Se l’esistenza del cristiano non testimonia la verità del
cristianesimo, e cioè che Cristo, Dio e uomo, è morto e risorto per noi peccatori,
a che cosa servono prediche e catechismi e tutte le biblioteche teologiche? Il
cristianesimo non vuole essere vero in sé, (perché ciò non basta) ma vuole
essere vero in noi, nella nostra vita, nella nostra fede, speranza e carità, nella
nostra sofferenza e vittoria.
È così che si è testimoni del Signore. L’unica cosa necessaria è che gli
uomini testimonino la gloria dell’amore di Dio verso il mondo. Testimoniando
adorino e adorando testimonino e lascino trasparire il Cristo in cui hanno
creduto. Ed è ciò che fece Padre Francesco. Spoto, oggi beato martire.
Signore, continua a darci dei santi preti e rendici degni di meritarli!
Amen.
? Vincenzo, vescovo
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