Primo premio della giuria per la classe 3 B per il lavoro”Fatti e

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Primo premio della giuria per la classe 3 B per il lavoro”Fatti e
Nel corrente a.s. 2015/16 gli allievi della scuola media classe III B dell’ I.C. Sulmona- Leone Di
Pomigliano D’Arco, guidati dalla prof.ssa Incoronata Nigro, vincono il primo premio della giuria
per il concorso “SOCIAL PER DAVVERO” della Feltrinelli con il libro ” FATTI E MISFATTI
DELLA III B” . Nel testo si evidenziano doti di originalità e creatività; le tematiche trattate sono,
naturalmente, le esperienze adolescenziali e gli accadimenti personali di ciascun allievo. Tutti gli
allievi sono stati bravi per l’impegno profuso e la dimensione narrativa raggiunta.
Nell’antologia dei racconti scritti è stato scelto, fra gli altri altrettanto validi, quello incentrato sulla
figura di una ragazza extracomunitaria, inserita nella nostra realtà scolastica, in questo particolare
momento storico, perché invita alla solidarietà ed alla riflessione.
CHADOR
Mi chiamo Zahira, ho 13 anni e vengo da Kojo nell’area Sinjar. Vivo in Italia, a Pomigliano D’Arco
in provincia di Napoli, solo da pochi mesi ma conosco bene la lingua, eppure nonostante questo,
comunicare davvero con i miei coetanei mi sembra impossibile. Siamo così diversi. I miei
compagni di classe mi sembrano simpatici e glielo direi anche se me ne dessero l’occasione solo
che, dopo tutti gli attacchi terroristici avvenuti ultimamente ho la sensazione che pensino che anche
io mi possa far saltare in aria da un momento all’altro. Ma loro non sanno che ho paura, ed è
proprio per questo che me ne sono andata dalla mia amata Kojo. Una volta, pochi anni fa anche io
avevo tanti amici e come ogni bambina di dieci, undici anni andavo a scuola, facevo i compiti,
giocavo al parco, piccoli atti quotidiani che si fanno in modo meccanico e ai quali non si dà troppa
importanza. Purtroppo, quella quotidianità che tanto mi annoiava e che davo per scontato col
passare dei giorni, dei mesi, diventava sempre di più un sogno. Un normalissimo giorno come gli
altri, il mio baba come sempre venne a controllare se avessi fatto i servizi che mi aveva ordinato. Se
li avessi fatti avrei avuto il permesso di andare a mangiare il mio misero ‘ghada, se invece avessi
lasciato qualcosa in sospeso, mi sarei potuta scordare di mangiare almeno per quel giorno. A volte
capitava però, che nonostante avessi fatto tutte le faccende di casa, il piatto fosse vuoto ma questo
dipendeva dalla povertà della mia famiglia e di molte altre famiglie. A partire dal 2011 infatti, l’Iraq
stava combattendo una terribile e sanguinosa guerra che aveva provocato la morte di molte persone,
e aveva affossato l’economia del paese. Quel giorno, comunque stavo per mangiare il primo “vero”
pasto dopo quasi una settimana, alkhubz kusa, ovvero del pane con poche zucchine come contorno.
Era tutto ciò che potevamo permetterci essendo poveri ma tutto sommato avere una famiglia era più
che sufficiente. Basti pensare a tutti i miei amici rimasti orfani e affidati a famiglie occidentali. I
miei genitori davano la colpa di tutti i nostri problemi all’Occidente. Dicevano che in quelle terre ci
fossero solo peccatori. Un giorno, vidi un documentario sulla Francia, e mi innamorai di quel paese.
Tutto era quasi fiabesco, la gente sorrideva, i bambini andavano a scuola e le donne sembravano
così libere ed indipendenti. Il mio sogno sarebbe stato quello di trasferirmi in quei paesi, per
costruirmi un futuro migliore. Così, lo dissi a mia madre, ma mi mise in punizione per aver pensato
di ripudiare le mie tradizioni, il mio paese e la mia religione. Non riuscivo a capire che male ci
fosse a sognare di essere libera, o magari anche solo di poter andare a scuola… una scuola vera con
delle mura, dei servizi igienici e quelle lavagne così tecnologiche. Io a scuola non ci andavo
nemmeno più, perché la guerra era diventata sempre più feroce e stare all’ aperto, raggruppati, con
un pericolo così incombente era davvero troppo rischioso. Tornando a ciò che successe quel famoso
giorno, come ho detto, stavo per mangiare, quando alla porta bussò un uomo. Un uomo misterioso,
che mi provocava inquietudine e che da quanto capii cercava di barattare qualcosa con il mio baba,
qualcosa di molto costoso dato che gli offrì 50.000 lire arabe, pari a 2.000 euro. Solo dopo capii che
stava barattando una cosa molto più importante di un oggetto, perché stava cercando di vendere me
come schiava. Inutile dire che non mi sentivo più un essere umano con una dignità ed un’anima. Il
mio ‘io’ era stato completamente azzerato. Tutto ciò mi rendeva un oggetto, un qualcosa senza
alcuna vita o sentimenti, ero quindi la solita donna islamica. Pertanto il mio destino era già scritto
dalla nascita, facendo di me una persona che non ha la possibilità di ricercare il senso e il modo di
vivere la propria vita oppure l’opportunità di sperare e credere di avere il potere di poter essere
padrona della propria sorte. Il mio baba, non aveva venduto in questa tratta degli orrori solo me, ma
anche mia madre per “un bottino” maggiore. Ci caricarono su un camion, senza finestrini, insieme
ad altre 150 ragazze. Solo dopo un paio d’ore che parvero essere interminabili, ci depositarono in
una casa di Raabia una città irachena in prossimità del confine con la Siria. Per venti giorni, fummo
trattate peggio di animali, messe in una sottospecie di prigione e costrette alla continua sorveglianza
armata da parte dei nostri rapitori. Solo dopo questo terrificante periodo condiviso con mia madre
dalla quale per fortuna non mi separarono mai, il telefono squillò a uno dei rapitori e per la prima
volta i cinque uomini armati che ci tenevano sotto controllo da così tanto tempo, si precipitarono
fuori, lasciandoci finalmente libere. Quando i militanti uscirono, fui presa dal panico, non sapevo
cosa fare, ma mia madre pensò che la cosa migliore sarebbe stata chiedere informazioni in una casa
vicina per andare al confine dove i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan stavano
lottando contro l’isis. Lì avremmo trovato la salvezza. Io e mia madre, volemmo sfidare la sorte e
con il cuore in gola, le gambe che ci tremavano e la paura di poter essere uccise per questo
bussammo alla porta di una casa vicina e ottenemmo le indicazioni. Corremmo, senza mai guardare
indietro, per due ore, e all’improvviso sentimmo degli spari. Di fronte ci trovammo un gruppo di
guerriglieri del Pkk, non sapevo se piangere o ridere. Eravamo finalmente libere. La vera salvezza
ce la offrì l’Italia, facendoci prendere per la prima volta un areo, un areo che ci avrebbe portate
lontane da tutta quella cattiveria, lontane da quella che non era più la mia amata terra. Ad aspettarci
ci sarebbe stato l’Occidente che visto in questo momento, era il regalo più bello che Alllah potesse
farci. Io e mia madre avremmo ricominciato, c’era stata data finalmente la possibilità di essere
apprezzate non solo come parte della società ma anche come essere umani. Ma torniamo alla
scuola, devo dire che i primi tempi furono davvero insopportabili, mi sentivo un pesce fuor d’acqua.
Le mie compagne portavano i capelli sciolti sulle spalle, mentre io indossavo il burka, su cui loro
scherzarono paragonandolo al nome di un cane. Per loro era molto più facile studiare, conoscendo
bene l’italiano. Un giorno, e non lo scorderò mai, in classe venne a parlare con la Professoressa il
padre di una ragazza. Ammetto che mi rattristai al ricordo del mio che non sapevo nemmeno dove si
trovasse, ma soprattutto mi stupii di come quel signore facesse trasparire tutto l’amore che provava
per la propria figlia. Il mio baba non era affatto così, aveva due occhi di ghiaccio, e probabilmente
era fatto di pietra, non ho mai avuto il coraggio abbracciarlo. Mi chiesi se anche lui mi amasse come
quel padre ma poi, mi ricordai che lui era il baba, il tipico padre islamico capace di vendere la
propria figlia o la propria moglie per beni materiali come i soldi. Tutti prima o poi moriremo e non
importa se da ricchi o poveri, penso che la cosa importante sia avere una famiglia accanto, dove
poter continuare a vivere nel loro ricordo. Ma il mio baba non avrebbe mai capito tutto ciò, perché
del resto non ha mai avuto l’onore di provare cos’è reamente l’amore. Tutto ciò che ha fatto fu
deciso da altri, il matrimonio con mia madre per esempio, un po' come tutti i matrimoni islamici, fu
un cosiddetto matrimonio combinato, ossia la prova che ancora una volta la donna per la società
non è nemmeno in grado di scegliere la persona con cui passare il resto della vita. Ad ogni modo,
farmi conoscere per ciò che ero veramente dai miei compagni, di una realtà così distante dalla mia,
era più difficile del previsto. La cosa più complicata, fu integrarsi nella classe, dove bene o male
tutti si conoscevano da tre anni ed io avevo solo un quadrimestre per poter fare amicizia con loro.
Tutto sommato, pur avendo usi, costumi e tradizioni totalmente diverse dalle mie, erano sempre dei
ragazzi della mia età. In quel periodo di “ambientamento” io e mia madre andammo a vivere nelle
case popolari che però, venivano chiamate “Palazzine” e che probabilmente non venivano viste di
buon occhio dalle persone della città dato che quando i professori mi chiesero dove risiedessi e gli
indicai il luogo, ottenni dalla classe un coro da stadio con altrettante parole in dialetto davvero
incomprensibili. E poi si permettono anche di dire che la lingua strana è quella araba! Comunque,
era tutto ciò che potevamo permetterci grazie anche all’aiuto che ci davano le cooperative del posto.
Mia madre per fortuna, iniziò a lavorare come badante ma nonostante ciò lo stipendio non riusciva a
soddisfare tutti i nostri bisogni. Così dovetti iniziare a lavorare anche io, in un bar proprio vicino
alla mia scuola, frequentato spesso e volentieri da gente poco perbene. Ed è lì che conobbi la mia
pima amica italiana, Caterina. Infatti, il mio primo giorno di lavoro se non fosse stato per lei mi
avrebbero di sicuro licenziato. Scoprii di non avere un grande spirito di adattamento! Già era
difficile comprendere cosa dicevano le persone che parlavano italiano in modo coretto, figuriamoci
una banda di ragazzi urlanti che cercava di ordinare dettando le cose più veloce di Eminem, in una
lingua che era un misto tra il bengalese e l’azerbaigiano; o almeno era quello che capivo. Se non ci
fosse stata Caterina a prendere gli ordini, al posto mio forse me ne sarei scappata urlando frasi in
arabo, anche se credo non fosse molto adeguato. Così vedendomi in difficoltà, Caterina si avvicinò
a me e con una disinvoltura tipica dei napoletani mi disse: -Staj scetat?- credo che la mia faccia
divenne un grosso punto interrogativo, dato che lei replicò e questa volta in italiano: -Sei sveglia?continuavo a ripete dentro di me “soggetto, predicato, complemento oggetto”. Sarebbe stata la mia
prima conversazione al di fuori della scuola, con una ragazza della mia età e non avevo intenzione
di fare qualche brutta figura, sbagliando termini o forme verbali! Così, parola dopo parola iniziai a
costruire quella che posso definire un’amicizia più forte del distacco culturale quale quello tra
Oriente e Occidente. Ho anche scoperto di avere molte cose in comune a lei che ci legarono in un
qualcosa che va oltre l‘appartenenza religiosa e la lingua diversa che anzi divennero motivo di
curiosità che ci avvicinarono e ci resero diversamente uguali. Caterina è una ragazza totalmente
diversa da come si era posta a me all’inizio. Si rivelò essere molto più timida e chiusa di quanto
pensassi, e con il tempo imparai a conoscerla e forse questo successe anche a lei che divenne
sempre più aperta e confidenziale con me. Peraltro scoprii, che anche lei a casa non se la passava
tanto bene e perciò doveva lavorare al bar per poter aiutare i suoi genitori e i suoi 4 fratellini.
Adesso a distanza di pochi mesi posso dire di essere riuscita ad integrarmi nella classe, dove vengo
apprezzata per ciò che sono e non per il mio colore della pelle, o per il semplice fatto di essere una
donna. Per quanto riguarda la lingua, ho ancora qualche lieve problema nel comprendere le
ordinazioni ma Caterina mi ha spiegato che quando arrivano così tanti ragazzi in modo caotico
posso fare una cosa sola per farli calmare: accendere la Tv sulla partita del Napoli che attira
l’attenzione peggio del miele con gli orsi! Ovviamente nonostante mia sia integrata con le abitudini
italiane, nel mio cuore ci sarà sempre il ricordo dell’Iraq. Continuerò comunque, a professare la mia
religione e a vivere nelle tradizioni del mio Paese d’origine pur essendo a conoscenza di dover
lottare contro i numerosi pregiudizi del mondo odierno che a mio modesto parere sono frutto solo di
una sana ignoranza. Spero di continuare gli studi per dare qualche soddisfazione a mia madre e
casomai un giorno mi piacerebbe anche laurearmi. Il mio sogno sarebbe proprio quello di laurearmi
nella facoltà di scienze politiche per aiutare le donne de mio Paese e di tutti i paesi in cui vengono
ancora poste in una condizione di inferiorità.
-FLAVIA PICONE 3B
Anno scolastico: 2015/2016