L`Altra Libertà - Comune di Piombino

Transcript

L`Altra Libertà - Comune di Piombino
L’ALTRA LIBERTÀ
Premio letterario nazionale
“Emanuele Casalini”
11ª edizione 2012
Il Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini”
è promosso da Università delle Tre Età - Unitre
di Porto Azzurro e di Volterra, Salone internazionale
del libro di Torino, Presìdi del libro Piemonte
PRESÌDI DEL
LIBRO
PIEMONTE
con il patrocinio di:
Regione Piemonte
Provincia di Cuneo
Comune
di Saluzzo
Regione Toscana
Provincia di Livorno
Provincia di Pisa
Comune
di Piombino
Comune
di Porto Azzurro
Segreteria del Premio
Lucia Casalini
Via L. da Vinci 30 57025 Piombino
Tel. 0565.221079
www.premiocasalini.it
Redazione e impaginazione: Presìdi del Libro Piemonte e Blu Edizioni
Copertina: Laura Caratti
Stampa: Centro Stampa Provincia di Livorno
Il Premio letterario “Emanuele Casalini”
Nel 2002 ricorreva il cinquantenario de La Grande Promessa, la
prima rivista carceraria italiana, nata a Porto Azzurro per iniziativa dei detenuti. In quell’occasione, la Società di San Vincenzo De Paoli e l’Università delle Tre Età - Unitre, che da
decenni svolgono attività di volontariato nel carcere elbano,
hanno ritenuto opportuno sottolineare il valore della ricorrenza con un’iniziativa significativa: l’istituzione di un premio letterario nazionale riservato ai detenuti e dedicato a Emanuele
Casalini, attento lettore, collaboratore ed estimatore de La
Grande Promessa, oltre che fondatore, presidente e docente dell’Unitre di Porto Azzurro.
L’iniziativa nasceva anche da una motivazione più profonda: il proposito di offrire nuove occasioni, nuovi incentivi a
quelle prove di scrittura che da sempre sono presenti nel
mondo carcerario come tentativo di rappresentare se stessi e
il proprio rapporto con il mondo.
Anche in carcere si scrive per ripensare il proprio percorso
esistenziale, per liberarsi, oggettivandoli, dai fantasmi dell’isolamento e dall’angoscia di essere confinati in luoghi tanto
remoti dalla comprensione degli altri uomini, per ritrovare la
propria identità, per tentare un dialogo con gli altri. È la ricerca di un ordine interiore che possa dare un senso al proprio
vissuto, e renderlo condivisibile con altri, attraverso la grammatica della scrittura, sia che si scelga la forma del racconto
sia che si scelga quella della poesia. È proprio così che si può
raggiungere una nuova consapevolezza, offrire nuove occasioni alla costruzione di sé, e al tempo stesso coinvolgere il lettore, facendogli conoscere storie, sentimenti, ambienti, situazioni che altrimenti non avrebbe occasione di approfondire.
Si tratta insomma di costruire un piccolo ponte che metta in
contatto il carcere con il mondo esterno, e che trasformi la
segregazione in un momento di incontro e di dialogo, di approfondimento reciproco, invitando il lettore all’ascolto.
Nei primi due anni la premiazione dei vincitori si è tenuta nel
penitenziario di Porto Azzurro. Poi, anche per le difficoltà di
trasferimento e comunicazione che presenta un’isola, dal 2004
la cerimonia di premiazione è diventata itinerante, ed è stata
ospitata, grazie alla sensibilità e alla collaborazione delle istituzioni, nel carcere di “Rebibbia” a Roma, nel “Lorusso e Cutugno” di Torino, al “Montorio” di Verona, al “San Vittore” di
Milano, poi nuovamente a Torino, a Volterra, a Brescia, a Firenze e infine, nel 2012, nel carcere “Rodolfo Morandi” di Saluzzo.
Fin dalla prima edizione, dirigenti e operatori del mondo
carcerario hanno apprezzato e incoraggiato l’iniziativa, che
ha ottenuto il patrocinio della Presidenza della Repubblica,
della Presidenza della Regione Toscana e della Provincia di
Livorno, del Comune di Piombino e delle amministrazioni
degli enti locali e regionali e delle città che hanno ospitato le
premiazioni.
I giurati del premio, variamente impegnati nell’editoria,
nell’organizzazione culturale, nell’insegnamento e nelle arti,
hanno avuto il piacere e l’onore di avere con loro Anna Maria
Rimoaldi, studiosa di storia, regista, già attiva collaboratrice di
Maria Bellonci, poi direttore della Fondazione Bellonci, che
promuove il Premio Strega, il maggior riconoscimento letterario italiano. Anna Maria ha speso generosamente la sua vita
nella promozione del libro e della lettura, e ci ha lasciati il
2 agosto 2007, a Poggio nell’Elba, mentre a pochi passi dalla
sua casa si teneva una riunione della Giuria del Premio Casalini. A lei il nostro ricordo più grato e più affettuoso.
Possiamo concludere queste poche note con le parole che
lei stessa aveva dettato: “Ogni premio letterario è una ricchezza che deve essere perseguita e valorizzata. Il Premio letterario ‘Emanuele Casalini’ ha una valenza sociale e umana che lo
rende particolarmente importante”.
Chi era Emanuele Casalini
Tutti coloro che l’hanno conosciuto ricordano di Emanuele
Casalini il carattere mite, l’affabilità nel conversare, l’elegante
compostezza del comportamento. Quelli che hanno avuto con
lui più stretti rapporti di lavoro, sia nello spazio della scuola,
in cui lui è stato per molti anni professore di letteratura italiana e poi preside, sia in quello più movimentato dell’attività
sociale e politica, che lo ha visto a lungo attivissimo consigliere comunale, hanno avuto agio di apprezzare in lui da un lato
la raffinata sensibilità estetica, maturata in un lungo, vivo e
sistematico rapporto con la grande poesia, dall’altro l’illimitata disponibilità per i problemi umani, fossero quelli del giovane studente angustiato da un inserimento non del tutto agevole nell’ambiente scolastico, o quelli del comune cittadino alle
prese con le esigenze del vivere quotidiano, o, ancora, quelli
del recluso afflitto dalla sua esistenza solitaria, atomistica,
senza grazia di cielo, di libertà e di amore.
Questo strenuo impegno sociale era in lui informato alla
più genuina sostanza dell’insegnamento evangelico. Uno degli atti più rispondenti al suo carattere e ai suoi principi è stata
l’istituzione, all’interno della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, di una sezione dell’Università delle Tre Età - Unitre,
non certo con lo scopo di elargire cultura, di cui del resto
molti reclusi sono tutt’altro che privi, ma con quello, molto
più alto anche se meno appariscente, di creare un rapporto
umano, un tramite fra la solitudine e la socialità. Emanuele
Casalini avrebbe potuto far sua la grande frase che un commediografo romano, Terenzio, pose in bocca a un suo personaggio. Homo sum: humani nil a me alienum puto (“Sono un uomo:
niente di umano considero estraneo a me”).
Luigi Alberto Mascia
4
5
Comitato d’onore
GIANNI ANSELMI
Sindaco di Piombino
S. E. Monsignor GIUSEPPE GUERRINI
Vescovo di Saluzzo
LUCA SIMONI
Sindaco di Porto Azzurro
S. E. Monsignor CARLO CIATTINI
Vescovo di Massa Marittima, Piombino ed Elba
FRANCA LEOSINI
Giornalista Rai
GIOVANNI TAMBURINO
Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria
IRMA MARIA RE
Presidente Nazionale Università delle Tre Età
ENRICO SBRIGLIA
Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria
Piemonte e Valle d’Aosta
ROLANDO PICCHIONI
Presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura
GIORGIO LEGGIERI
Direttore della Casa di reclusione di Saluzzo
ROBERTO COTA
Presidente della Regione Piemonte
ERNESTO FERRERO
Scrittore, direttore del Salone internazionale del libro di Torino
CARLA SACCHI FERRERO
Collaboratrice editoriale, presidente dei Presìdi del libro Piemonte
ENRICO ROSSI
Presidente della Regione Toscana
MICHELE COPPOLA
Assessore alla Cultura, al Patrimonio linguistico e alle Politiche
giovanili della Regione Piemonte
GIOVANNA GANCIA
Presidente della Provincia di Cuneo
GIORGIO KUTUFÀ
Presidente della Provincia di Livorno
ANDREA PIERONI
Presidente della Provincia di Pisa
LICIA VISCUSI
Assessore alla Cultura e Decentramento universitario, all’Istruzione
e Formazione professionale della Provincia di Cuneo
Anna Maria Rimoaldi, membro della giuria direttrice della Fondazione Bellonci.
Il Premio Casalini la ricorda con affetto.
PAOLO ALLEMANO
Sindaco di Saluzzo
6
7
Giuria
Introduzione del Presidente
della Provincia di Livorno
ERNESTO FERRERO (PRESIDENTE)
Scrittore, direttore del Salone internazionale del libro di Torino
GIUSEPPE BENELLI
Professore di Filosofia del Linguaggio all’Università di Genova,
presidente della Fondazione “Città del libro” di Pontremoli
FABIO CANESSA
Docente di materie letterarie al Liceo scientifico di Piombino,
critico cinematografico
MIMMA CUFFARO
Pittrice
RAFFAELLA D’ESPOSITO
Docente al Conservatorio di Santa Cecilia, Roma
PAOLO FERRUZZI
Direttore Vicario dell’Accademia di Belle Arti, Roma
PABLO GORINI
Docente di materie letterarie al Liceo classico di Piombino
MARCO PAUTASSO
Direttore eventi della Fondazione per il libro, la musica e la cultura
CARLA SACCHI FERRERO
Collaboratrice editoriale, presidente dei Presìdi del libro Piemonte
8
Compiuti nel 2011 i primi dieci anni a Firenze, dove il 30 novembre 1786, per opera del granduca Pietro Leopoldo veniva abolita, per la prima volta al mondo, la pena di morte, il Premio
“Emanuele Casalini” trova quest’anno accoglienza a Saluzzo, in
Piemonte. Una rassegna affermata e autorevole, guidata con
passione da persone che hanno fatto della cultura e del volontariato ragioni indispensabili per vivere ancorati a solidi valori.
Portare un messaggio di speranza, di ascolto vero, di attenzione fraterna secondo il detto evangelico “ero carcerato e siete
venuti a trovarmi”: questa è la vera missione del Premio Casalini. Migliaia di testi ricevuti, sia di poesia sia di prosa, molti
dei quali hanno trovato accoglienza nel volume L’altra libertà,
pubblicato dalla Provincia di Livorno per dare ospitalità alle
molteplici voci dei “detenuti scrittori”.
Il Premio rappresenta un’occasione di dialogo con il mondo
carcerario e aiuta a prendere maggiore coscienza di quanto sia
fondamentale un percorso culturale ed educativo per i detenuti e di quanto sia indispensabile il lavoro quotidiano del volontariato. Un’occasione che il Premio Casalini affronta con impegno e professionalità. Ogni anno, pur tra le difficoltà purtroppo sempre più comuni a tutti, crescono la sua rilevanza e il suo
prestigio a livello nazionale. I riconoscimenti fino a oggi ricevuti e la partecipazione di personalità autorevoli alle premiazioni
rappresentano altrettanti attestati di stima e di gratitudine a
Lucia Casalini, vera anima del Premio, al suo presidente Ernesto Ferrero e ai giurati.
Già da alcuni anni apprezziamo la partecipazione alla premiazione di tanti studenti che hanno potuto constatare quanto
sia importante la scrittura quale strumento per intraprendere
un percorso di riflessione e di rinascita. A quanti si sono adoperati per realizzare questi momenti di incontro va il mio personale ringraziamento e l’invito a proseguire sulla stessa strada.
9
Attraverso queste occasioni culturali il carcere offre una
reale possibilità di crescita. Occorre un impegno sempre maggiore perché “la società faccia del carcere un luogo di redenzione e non un ergastolo di deformazione”, come sottolineava
monsignor Alberto Ablondi, caro amico del Premio Casalini.
Ricevere un riconoscimento, avere l’opportunità di trasmettere ad altri riflessioni personali attraverso uno scritto pubblicato in un libro, sono piccoli passi per riconquistare fiducia, per
sentirsi meno soli, per offrire ai propri cari dei valori positivi,
nel segno (appunto) di un’altra libertà.
Questa iniziativa conferma inoltre l’importanza della scrittura quale strumento indispensabile per una migliore comprensione di noi stessi e del mondo, per trasformare l’io in un noi,
per creare percorsi condivisibili. A quanti si avvicineranno alle
pagine di questo libro l’augurio di essere, ciascuno secondo la
propria vocazione e missione, portatore di ascolto e di dialogo.
Alle autorità civili, militari e religiose, agli operatori delle carceri, ai detenuti “poeti e scrittori” e a tutti gli amici del Premio
Casalini rivolgo il mio personale ringraziamento per il loro
impegno, unito a quello della comunità della Provincia di Livorno che mi onoro di rappresentare.
Giorgio Kutufà
Presidente della Provincia di Livorno
10
Presentazione
“Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul
foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che
corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre mi venga
incontro, dal fondo di una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare.” Così dice un personaggio del Cavaliere inesistente di Italo Calvino, la guerriera Bradamante, che fino all’ultima pagina finge di essere una suor Teodora rinchiusa in un
remoto convento per raccontare una storia di paladini del
tempo di Carlomagno. Bradamante scrive e scrive, e si interroga su cosa la spinga a tanto, in che cosa esattamente consista
l’atto della scrittura, che consente di inventare mondi paralleli da opporre a quelli veramente esistenti. Conosce anche lei
momenti di dubbio e di stanchezza, quando tutto quel raccontare le sembra un inutile atto di superbia, o un riflesso troppo
pallido della vita vera: “Ci si mette a scrivere di lena, ma c’è
un’ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e
non vi scorre più una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori
dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai più potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il
salto”. Due cose ha capito, tuttavia: che l’immaginazione porta
più lontano di un cavallo alato, e che “l’arte di scrivere storie
sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita
tutto il resto”.
Nel poco o nulla che riusciamo a capire siamo compresi noi
stessi, e tuttavia questa fatica di Sisifo, questo inseguire qualcosa che sempre ci sfugge e non si lascia acchiappare è quello
che ci fa uomini, perché tenta di dare un senso al nostro effimero passare sulla terra, mettendo in collegamento la nostra
piccola vicenda individuale con quella degli altri, sottraendole alla servitù del tempo. La scrittura e la lettura, sua sorella
gemella, fondano la relazione, trasformano l’io in un noi, ci
11
consentono di vivere più vite. Ha scritto Gianni Rodari: “Tutti
gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti ma perché nessuno sia schiavo”.
È dunque la ricerca di un’altra libertà, dentro o fuori del
carcere, quella che ci chiama tutti. “Sono felice che almeno la
mia anima in qualche modo possa uscire fuori di qui”, scrive
Marco Corradini, uno delle centinaia di concorrenti dell’edizione 2012 del Premio Casalini. Possiamo interpretare la frase
“uscire di qui” nel senso più ampio di “uscire allo scoperto”,
intraprendere un viaggio all’interno di noi stessi, che è la condizione prima per poter intraprendere altri viaggi nel mondo
che ci circonda: complesso, labirintico, spesso impenetrabile.
In questo viaggio disponiamo di una vela potente, la parola.
Viviamo immersi nella civiltà delle immagini, ma le immagini
tendono a schiacciarci, a imporci la loro verità, che ha fatalmente due sole dimensioni, e il più delle volte risulta ingannevole, illusoria, perché siamo diventati bravissimi a manipolare
immagini, a creare gli “effetti speciali” che convengono a noi.
La parola invece ha tre dimensioni, e la terza dimensione è
quella della sua profondità anche storica e cronologica, della
sua ricchezza, persino della sua ambiguità. Le immagini tendono a renderci schiavi, cioè docili consumatori; le parole ci
liberano. Vengono di lontano, e ognuna si porta dietro una
lunga storia e la contiene miniaturizzata al proprio interno.
Sono la nostra vera famiglia, e come ci accade con le persone
più vicine, spesso ci capita di non comprenderle o di tradirle,
ma rappresentano la nostra identità e la nostra risorsa. La
parola, che è così vicina alla musica, chiede la nostra interpretazione, ci trasforma da semplici utenti passivi in coautori attivi, in interpreti nel senso musicale. Ogni testo comporta una
pluralità di interpretazioni, ed è proprio questa pluralità a
fare la ricchezza della scrittura, la sua necessità, specialmente
oggi, che una realtà estremamente complessa ci viene restituita in modi rozzamente semplificati, che non ci aiutano a capire, ma semmai ad alimentare i nostri pregiudizi, i luoghi
comuni cui restiamo attaccati per pigrizia.
Come ogni attività umana, anche la scrittura è in primo
luogo un artigianato, una lunga pazienza, un difficile apprendistato. Ogni risultato, quale che sia, è frutto di un lavoro, di
una messa a punto insoddisfatta di sé. Chi scrive non opera
diversamente da un falegname o da un fabbro: deve conoscere bene i materiali su cui lavora, e maturare l’esperienza che
gli consentirà di arrivare a realizzare il progetto che si porta
dentro.
La scrittura è scoperta di cose che non sapevamo di avere
dentro di noi. In questo ci modifica continuamente, ci fa
ripartire ogni volta da un gradino un po’ più alto di consapevolezza. Credo che su questo siano d’accordo anche tutti coloro che hanno partecipato all’edizione 2012 del Premio Casalini. Come ogni anno, non sono mancate le belle sorprese,
anche se il senso vero del Premio credo stia nell’allestimento
di una sorta di laboratorio collettivo in cui sarebbe bello avere
il tempo e lo spazio per confrontare tutti insieme i risultati che
ognuno ha già raggiunto: non per stabilire classifiche, ma per
capire meglio, insieme, il “come si fa”. Il libro che presentiamo va nella stessa direzione, vuole essere un’occasione di ripensare questo comune viaggio di scoperta.
Nella sezione Prosa, abbiamo apprezzato il racconto di
Francesco Antonio Garaffoni, che riprende con molto garbo
e umorismo il tema dell’innocente incarcerato ingiustamente,
che ha avuto nel caso di Enzo Tortora uno dei suoi episodi più
clamorosi e intollerabili, ma purtroppo non certamente l’unico. Il moderno apologo di Garaffoni vede entrare in carcere
nientemeno che il professor Mario Monti, qui chiamato chiaramente a prestare le sue fattezze e i suoi modi gentili (oltreché le sue ottime letture presunte: lo scrittore cileno Bolaño e
lo scrittore russo Grossman, autore di un vero Guerra e pace dei
gulag sovietici) a un emblematico personaggio d’invenzione,
un illustre esponente delle più alte cariche istituzionali.
Massimiliano Maiocchetti, secondo classificato, ci riporta
all’interno di un io che analizza efficacemente tutte le tensioni, le attese e le emozioni che precedono la telefonata periodica di seicento secondi cui ha diritto. Non racconta la telefonata, ma appunto la paura di non riuscire a dire tutto, di non
12
13
riuscire a collegarsi almeno per quel poco tempo con una vita
altra. Specie se, come in questo caso, chi doveva rispondere
non si fa trovare. Santi Pullarà, che divide con Maiocchetti il
secondo posto, ha scritto un racconto che avrebbe incuriosito
Leonardo Sciascia. Dove corre il confine tra buoni e cattivi?
Giacomo, segretario municipale e fascista convinto, mette in
salvo l’amico dottore ebreo e lo affida alla protezione di un
boss mafioso, che si dimostra benefico e, a precisa domanda,
gli spiega le ragioni storiche della mafia, da lui interpretata
come rivolta contro il potere statale, dei Borboni prima e
dell’Italia unita poi, che in sostanza perpetra un sistema di privilegi e sfruttamento a favore dei potenti. Se non c’è giustizia
politica, sociale e giudiziaria, argomenta il boss, l’unica è farsela da soli con l’antico ed efficiente metodo del terrore. Il
boss è consapevole dei limiti di questa concezione, che in realtà lo consegna a una spirale di violenza senza fine, ma si ritiene troppo compromesso e troppo poco acculturato per interromperla. Pullarà scrive in una lingua dalla lieve patina arcaica, espressiva e immaginifica, in cui il dialetto è bene integrato nell’italiano, ennesima dimostrazione, nella terra di Camilleri, di quanto possa produrre la tensione linguistica tra
lingua e dialetto.
Il testo di Gavino Chessa è la dimostrazione esemplare di
come e quanto si possa arrivare lontano proprio dandosi delle
gabbie strettissime, quale quella di scrivere un pezzo utilizzando soltanto parole che cominciano con la stessa lettera. Questo genere di esperimenti ha reso famoso, nella Parigi degli
anni ’60 e ’70, il Laboratorio di letteratura potenziale frequentato da Calvino, da Georges Perec (La vita, istruzioni per
l’uso), da Raymond Queneau (il padre di Zazie nel metrò) e da
tanti altri funamboli che come altrettanti maghi Houdini si
divertivano ad avvolgersi in metaforiche catene per liberarsene grazie alla bravura della loro arte combinatoria. Qui si
dimostra come il gioco sia una faccenda molto seria, in cui il
divertimento produce risultati molto più efficaci e sorprendenti dei procedimenti tradizionali.
Si parla spesso della letteratura come di un viaggio in terri-
tori inesplorati, in cui sappiamo da quale porto partiamo, ma
non dove e quando arriveremo. È un vero viaggio per mare
verso Malta quello che racconta Carmelo La Licata utilizzando il linguaggio professionale dei naviganti e abbondando in
notazioni naturalistiche e felici descrizioni paesaggistiche, in
cui si intrecciano gli incanti della terra e “il respiro del mare
profondo”.
Tra le opere segnalate, Emanuele Aletta ci consegna un
bozzetto di vita siciliana, che deve essere una di quelle storie
gustose che si raccontano e si tramandano in famiglia. Walid
Ben Tahar racconta una tragedia che si consuma in treno,
durante il suo ritorno a casa da un lungo viaggio, e affronta
così il tema dell’indicibilità e incomprensibilità del male. Sebastiano Bontempo affronta di petto un duro bilancio esistenziale, all’insegna del rimorso. Stefano Diana passa a una sua
sarcastica moviola la giornata del “detenuto medio”. Su un
tema analogo si misura Riccardo Seppia, con un tono più saggistico che narrativo, con cui tocca vari aspetti di vita carceraria, dal sovraffollamento alla ricerca di Dio, alla ricostruzione
della propria personalità.
L’esperienza di un collettivo teatrale fa scoprire ad Alberto
Guarino il senso del diventare squadra e del confrontarsi con
la storia nazionale, per ampliarsi a riflessioni più ambiziose.
È una durissima esperienza esistenziale quella raccontata da
Luana Merosi, una storia di affetti mancati, di scelte sbagliate, ma anche di consapevolezza e riscatto. Antonio Russo ci fa
sorridere con un quadretto di vita carceraria in cui irrompe
un ospite imprevedibile, un ghiro. George Daniel Stepanov
assume un punto di vista “ingenuo”, dando voce alla sbarra
di una grata, che osserva, registra e riflette. Dal fondo di una
“fetida galera sudamericana”, Mario Tonini ripercorre la propria lunga discesa nella devastante spirale della droga, per
approdare al riconoscimento che la sola salvezza che si può
dare sta nell’amore per gli altri, e che “il coraggio può nascere solo dalla paura”. Massimo Trifarò ragiona sul libero arbitrio, sulle scelte primarie che decidono una vita, per arrivare
a spiccioli di saggezza, come l’importanza di godersi il più
14
15
semplice ed essenziale degli istanti di una giornata, un raggio di sole.
La sezione dedicata alla Poesia vede vincitore Vittorio Mantovani. La giuria ha apprezzato il suo originale poemetto ciclistico, dove le fatiche disumane della Parigi-Roubaix sui ciottoli del pavé, nella polvere nera di una regione mineraria, assurgono a una loro dignità epica e diventano l’emblema della
fatica del vivere. Ma è apprezzabile anche Piazzale Aquileia, che
ricorda che bisogna “avere la pedalata del passista / per capire se gli oggetti sono davvero utili / oppure solo pensati all’uso”; e si interroga con tenera malinconia sulla “senile ossessione” di chi ogni martedì attende su una panca che una donna
scenda dal tram numero ventinove, “così minuta assomiglia a
lei”. Né meno efficace è La rosa purpurea, che irride scherzosamente il romanzo di Umberto Eco e afferma la predilezione
dell’autore per ben altre rose.
“Non è l’ignoto che spaventa / né gorghi né flutti perigliosi, / ma un giorno conosciuto / che corre all’infinito”. Ormai
da anni abbiamo imparato a riconoscere la voce di Aral Gabriele, il suo misurarsi con l’immobilità del tempo nei modi di
un dettato poetico che risolve l’angoscia nella cantabilità del
verso, in immagini di una loro araldica, stoica eleganza.
Al terzo posto, Carlo Rao e Christian Calderulo con una
filastrocca, Nel giardino dei matti, che ricorda un po’ Gianni
Rodari, ma anche certe fortunate canzoni di Sergio Endrigo o
Giorgio Gaber, evocando il felice paradosso poetico di un
mondo alla rovescia in cui i veri valori si nascondono in quella che viene catalogata come follia, e che in realtà è un modo
per opporre all’insensatezza del mondo altro una dimensione
in cui “tutto ciò che è diverso / qui diventa normale”. Con
loro divide l’ex aequo Luca Denti, con i suoi versi che tendono all’efficace concisione dell’aforisma: “Avevo anch’io /
trenta monete / più che altro / per tradire me stesso”. I “sogni
spicci” comperati nell’infanzia “verso sera / tra gli ulivi / penzolavano impiccati”. In un altro suo testo troviamo quella che
16
potrebbe essere una buona definizione della poesia, e più in
generale la capacità di riscatto degli uomini: “Dove l’inverno
posa / una carezza lieve / di neve sporca / anche una pozzanghera / sa raccontare / un angolo di cielo”.
Tra le opere segnalate non mancano testi di sicura originalità. Così i toni epici con cui Marian Balauca rievoca una battaglia; i silenzi assordanti delle risposte disattese di cui parla
Enrico Benetti; la “disperata emozione” di chi nel nulla cerca
la vita (Massimiliano Bernabei); la ballata popolare in siciliano di Sebastiano Cannizzaro, in cui ancora una volta un dialetto dà prova della sua forza espressiva; le liriche di Moez
Chaibi, in cui echeggiano i modi classici della poesia araba; la
ricerca della parola, “quel suono che invade / le vene e delinea i contorni / del tempo”, cara ad Alessandro Crisafulli, che
seppellisce il dolore nella nudità del verso; le rime da Corriere
dei piccoli cui resta fedele Ezio Di Rosa nell’evocare la vita delle
api; la provocazione che Antonio Gueli rivolge a Cristo; i ricordi di Carmelo Impusino, così remoti da non poter essere nemmeno sognati; le atmosfere di tregenda gotica evocate da
Martin Lazri o la cupa rassegnazione di Sebastiano Milazzo
abitato da frammenti “di un tempo già morto / e di un futuro
/ che non diventerà mai vita”; le illusioni di Massimiliano
Paggetti, che mandano “bagliori di latta”, in un ultimo tentativo di seduzione; e infine il pianto del mondo che, secondo
Antonino Penna, si può sentire soltanto in carcere di notte.
Per iniziativa di Lucia Casalini, da qualche anno il Premio si è
opportunamente aperto ai minori. Sono proprio loro ad avere
un maggior bisogno della scrittura come di una bussola per
orientare i propri pensieri e aprirsi a una migliore conoscenza di sé. Dall’Istituto Penale Minorile di Torino ci giungono le
testimonianze più drammatiche. Raccontano due viaggi della
speranza dall’Africa in Italia sulle solite carrette del mare, nel
buio e nel freddo delle notti: “Vorrei dimenticare per sempre
/ il mare, la paura, il buio, il blu”, scrive D.S. Non meno penosa la vicenda del giovane nomade R.M. posto anzitempo
17
davanti a responsabilità troppo più grandi di lui, costretto a
imparare a proprie spese quanto sia difficile arrivare alla
maturità, specie se si parte dalle condizioni più disagiate.
Da segnalare anche i ragazzi dell’Istituto bolognese, cui
qualche bravo educatore ha insegnato a ispirarsi liberamente
ai coinvolgenti testi poetici di Erri De Luca, Guillaume Apollinaire, Bertolt Brecht, Wisława Szymborska e Peter Handke.
Ripercorrere le orme dei grandi è il modo migliore per avvicinarsi alla poesia, per impararne i segreti, per aprirsi alle ricchezze del linguaggio, al dono della parola. A tutti l’augurio
che la loro crescita passi sempre di più e sempre meglio attraverso gli strumenti della scrittura e della lettura.
Ernesto Ferrero
18
Sezione prosa
Opere premiate
1° classificato
Francesco Antonio Garaffoni
Il giorno che la Terra prese un altro giro
La premiazione del 2011 a Firenze con Oreste Cacurri, Lucia Casalini,
Zeffiro Ciuffoletti, Franco Ionta, Maria Pia Giuffrida, Ernesto Ferrero,
Paolo Ferruzzi e Carla Sacchi Ferrero.
Era passata ormai oltre mezz’ora dall’inizio del brusio
quando Miki Lo Falco decise che era arrivato il momento
di accendere il televisore.
Si era svegliato di ottimo umore, aveva messo la moka sul
fornelletto e, mentre guardava i suoi compagni di cella continuare nel loro sonno del mattino, aveva cominciato a sentire quelle voci insistenti a cui non poteva davvero credere.
Poi, quasi sfiduciato, e convinto che presto avrebbe potuto gridare a tutti che si erano bevuti una panzana colossale,
schiacciò il tasto 3 del telecomando.
Rai Tre gli apparve subito nell’edizione straordinaria.
Parlavano della carriera di Mario Monti, delle sue esperienze come professore, dell’approdo alla Commissione Europea e, infine, della nomina a senatore a vita e poi a capo
del Governo; cominciò a incuriosirsi mentre, nel frattempo, i rumori dal corridoio parevano essersi tranquillizzati.
Poi l’inquadratura cambiò, si vide l’uomo che parlava da
studio e che confermò ciò che ormai Lo Falco aveva capito
essere vero: Mario Monti era stato arrestato.
La notizia lo frastornò così tanto che il caffè cominciò a
uscire prima che lui facesse in tempo a spegnere il fornelletto. Cominciò a imprecare, contro il caffè, contro Monti,
e contro quel mondo che ormai non riusciva più a capire
in che senso girasse. I compagni di cella si svegliarono
intorpiditi, ma data la tensione che si respirava si scossero
21
in fretta e fissarono Lo Falco, che li informò subito dell’accaduto aggiungendo di testa sua particolari che non erano
stati detti. Tutti e tre si fissarono agli sgabelli con gli occhi
attaccati al televisore, le notizie però erano frammentarie,
si parlava di un omicidio, di prove inconfutabili, di testimoni chiave.
Lo Falco cominciò a versare il caffè ai compagni, Francis
Caffarotti e Bob Valletta; quelli lo bevvero senza mai togliere gli occhi dalla televisione e senza notare che aveva preso
un deciso sapore di bruciato. Fu mentre Lo Falco cominciava a bere il suo caffè che l’assistente arrivò, aprì la cella
e gli disse: “Lo Falco, si vesta e scenda da Guzzi”.
Filippo Guzzi era il capo educatore del carcere, temuto e
rispettato da tutti i detenuti per la professionalità, ma
anche per la severità: dalle decisioni di Guzzi dipendevano
il tenore di vita all’interno del carcere e gli eventuali benefici come i permessi premio e la possibilità di accesso al
lavoro esterno, insomma tutto ciò che rendeva la carcerazione più tollerabile.
Lo Falco si preparò in fretta con il cuore che gli batteva
forte; Caffarotti lo caricava preannunciandogli che era arrivato il suo primo perrnesso dopo tanta detenzione, Valletta
girava emozionato per la cella: tutto in poche ore, Monti
arrestato e Lo Falco chiamato con urgenza da Guzzi…
Forse qualcosa cambiava, forse il mondo, dopo una capriola tesa e decisa, aveva cominciato a girare al contrario.
Guzzi fece accomodare Lo Falco e lo guardò con un sorriso strano: “Lo Falco, quando scatterebbe la sua possibilità
di avere permessi premio?”, “Dotto’ se lei e il Magistrato di
sorveglianza sarete così cortesi da sostenermelo, io per
Pasqua potrei passare un giorno a casa”. Guzzi annuì, fingendo di non ricordarselo. Poi lo guardò intensamente,
convinto di avere avuto una delle migliori idee della sua
carriera di educatore di detenuti. “Lo Falco, io ho bisogno
di lei. Sta arrivando qui un detenuto, diciamo, speciale…
ecco, un detenuto che va un po’ aiutato… Insomma, biso-
gna riuscire a farlo integrare un po’ nel nostro mondo
prima che succedano cose che… Insomma, abbiamo gli
occhi puntati addosso. Lo Falco, tra un’ora le arriva in cella
il Prof. Monti, conto su di lei.”
Mentre tornava in cella ripercorreva i suoi 30 anni di carriera da detenuto, 52 carceri, 27 anni da uomo libero, compresi quelli in cui era bambino, e adesso, a due passi dalla
libertà, questa grana, il Prof. Monti! Grana o opportunità?
Dopo pochi minuti Miki era sicuro: questa era l’opportunità della sua vita, quell’occasione che non gli era mai capitata! Cazzo, il mondo aveva davvero cominciato a girare al
contrario.
Alle 12.30 Lo Falco venne ancora chiamato. Doveva scendere al pian terreno ad aspettare il nuovo compagno di
cella.
ll Prof. Monti apparve in fondo al corridoio. Indossava il
suo loden blu e teneva abbracciato al petto il sacchetto
nero con gli effetti personali che avevano superato la perquisizione. Si guardava in giro come se stesse usando ogni
istante, ogni dettaglio, per far lavorare la sua immensa
esperienza della vita e la sua straordinaria intelligenza in
modo da risolvere questa imprevista situazione nel modo
migliore possibile.
L’assistente lo seguiva con aria intensa, sapeva che avrebbe raccontato per tutta la vita ai suoi parenti e amici quella
giornata. Quando arrivarono all’inizio della scalinata l’assistente indicò a Monti Lo Falco e gli disse: “Professore,
segua questo detenuto che le mostrerà la sua cella”. Lo
Falco guardò Monti e scelse il modo per rompere il ghiaccio: “Tu sei musulmano?” “No” rispose Monti, “cattolico,
non molto praticante, ma cattolico.” “Bene, allora vieni in
cella con me, che io non è che ce l’ho con i musulmani, ma
poi creano complicazioni per la preghiera, il cibo…
Insomma, meglio così”.
Appena arrivati in cella Lo Falco presentò a Monti gli
altri due: Caffarotti lo salutò con l’aria di chi ha trovato
22
23
finalmente un interlocutore con cui parlare di economia;
Valletta, senza staccarsi dal suo iPod, gli chiese: “Che musica le piace?” “ Vivaldi” rispose Monti. “Acc… non c’è niente di Vivaldi nel mio iPod, però se vuole chiedo ad altri.” Lo
Falco interruppe Vallelta e gli disse di fare subito il caffè
per il Professore, poi lo fermò e chiese a Monti se avesse
fame. Quello lo guardò come se mangiare fosse la cosa che
al mondo gli interessasse di meno, allora con un cenno Lo
Falco autorizzò Valletta a fare il caffè.
Monti era seduto e guardava la televisione, parlavano
solo di lui, su ogni canale imperversavano le immagini dei
PM che avevano chiesto il suo arresto, le loro dichiarazioni
rimbombavano nella testa del Professore: “Elementi di
prova fortissimi, concordanze stupefacenti, decisione inevitabile”. Poi sembrava che tutti facessero a gara a rendere
credibile ciò che lui sapeva pazzesco e incredibile; già c’era
chi aveva cominciato ad accennare al delirio di onnipotenza che può dare il potere, psicologi spiegavano le ragioni
recondite dell’inconscio, erano iniziati anche i paragoni
con fatti e persone del passato. Ma Lo Falco guardava
Monti con attenzione, sapeva cosa rappresenta l’impatto
con il carcere e lo stava esaminando come un medico che
visita il paziente. Il Professore non era entrato in cella in
compagnia della sua celebrità, delle sue lauree, del suo
sapere, cioè dell’odore della vittoria: era un uomo umile,
cordiale ed educato. Lo Falco aveva un’idea di quello che
Monti stava provando: rabbia. Rabbia impotente. Rabbia
che non puoi utilizzare, non puoi mettere in atto. È impotenza, perciò la rabbia è una tempesta interna, il che naturalmente crea ancora più rabbia e sconforto. Ma sapeva
anche che il carcere è un killer spietato, un torturatore abilissimo che ti toglie vitalità e forza attimo dopo attimo.
Perciò continuava a dare disposizioni: caffè nella tazzina
buona, altro che bicchierino di carta. Cambiare disposizione delle brande per lasciare al Professore quella con la luce
sopra, perché “il Professore è uno che legge, mica guarda
Santoro o ’sti cazzo di Famosi”. Lenzuola di casa per il
Professore, che dentro quelle ruvide non ci dorme mica.
Alle nove di sera, mentre Monti leggeva il libro che si era
preso con un ultimo gesto da casa, 2666 di Roberto Bolaño,
arrivò l’infermiere con le terapie della sera: tranquillanti
per Valletta, prodotti per la gotta di Caffarotti, anti ipertensivi per Lo Falco. Lo Falco chiese al Professore se gli servissero dei medicinali, Monti lo guardò con tenerezza e gratitudine poi, un po’ imbarazzato, disse: “Mah, forse un tranquillante mi sarebbe utile, altrimenti rischio di passare la
notte in bianco”. Lo Falco chiamò l’infermiere: “Uè, infermiere, dacci pure una pastiglia per dormire”. “Lo Falco, lei
dovrebbe saperlo, per i tranquillanti ci vuole la prescrizione, sarebbe dovuto andare in infermeria oggi pomeriggio.”
“Ma non è per me! È per lui, per il Professore, è appena
arrivato, come faceva ad andare in infermeria. E poi un
tranquillante che sarà mai?” “Lo Falco, ma lei che mestiere
fa?” “Io? Rapinatore.” “E allora cosa ne vuole sapere di farmaci?” Però il tranquillante glielo diede, il Professore lo
prese e dormì una notte serena. Si svegliò alle nove del
giorno dopo, con il cappuccino caldo che fumava sul comodino.
Da ormai un mese il Prof. Monti si trovava in carcere con
l’accusa di omicidio. Lui si professava innocente, ma contro
di lui c’erano un testimone che lo aveva visto sul luogo del
delitto e la cellula telefonica che confermava la sua presenza in zona. Non c’era movente, non c’era conoscenza tra lui
e la vittima, si parlava di delitto d’impeto per futili motivi.
L’arma del delitto, probabilmente un oggetto affilato, non
si era trovata.
Monti leggeva, giocava a carte con Lo Falco, parlava con
Caffarotti di truffe e bancarotte, di truffatori, di evasione
fiscale contro lo Stato e sembrava che giocassero a chi ne
sapeva di più e a chi avrebbe vinto se tutti e due avessero
24
25
potuto fare il lavoro che più gli piaceva. Aiutava Valletta a
scrivere lettere e a cercare di farlo tornare insieme alla
moglie e al giovane figlio.
Aveva anche cominciato a frequentare l’ora d’aria dove
tutti i detenuti vollero farsi fotografare con lui, e lui si fece
fare copia della foto con Lo Falco. Negli ultimi giorni poi
era stato inserito come correttore di bozze nella redazione
del giornale carcerario e poteva frequentare la biblioteca.
Il giorno di Pasqua Lo Falco aveva finalmente avuto il
permesso di andare a casa. Cominciò a prepararsi fin dalle
sei del mattino, tutta la cella era emozionata per lui. Chiese
in prestito un po’ a tutti capi d’abbigliamento, poi annusò
fuori dalle grate, era una giornata fredda. Guardò il
Professore: “Professo’, me lo presterebbe il suo loden?” Lo
Falco era vestito come mai gli era capitato nella vita; quando la guardia venne a prenderlo per scortarlo all’uscita lo
squadrò con sospetto, pensando che un simile abbigliamento nascondesse qualche furbata. Poi uscì, respirò l’aria
di libertà, guardò il loden del Professore e pensò che forse
la sua vita non era stata del tutto inutile.
Fuori si festeggiava la Pasqua, Monti era in biblioteca
dove stava leggendo Vita e destino di Vasilij Grossman, 1200
pagine appena cominciate. Una guardia lo avvertì che lo
aspettavano in reparto, lui continuò a leggere pensando
che non fosse nulla di urgente. Poi la guardia tornò:
“Professore, ma vuole restare qui o se ne torna a casa?”
Avevano chiesto la sua scarcerazione. Si tolse gli occhiali, si
passò le mani sugli occhi e asciugò un accenno di lacrime,
poi ripose Grossman sullo scaffale ripromettendosi di comprarne una copia il giorno stesso. Tornò in cella e diede la
notizia a Valletta (gli altri erano a casa in permesso).
Valletta cominciò a piangere e a stringerlo forte, si tolse
l’iPod e cominciò ad aiutarlo a mettere in una borsa tutte
le sue cose. Poi gli disse che avrebbe dovuto fare il “Caffè
del liberante” e che, per l’occasione, sarebbe stato contento di bere il suo caffè annacquato. Poi si baciarono, si pro-
misero di rivedersi da liberi, Monti lo guardò e gli disse:
“Lo so che sei una brava persona”.
Scese all’ufficio matricola, dove gli consegnarono il
decreto di liberazione, poche scarne parole: “Essendo
emersi fatti inequivocabili circa le responsabilità di altro
soggetto nell’omicidio… si chiede il proscioglimento e il
conseguente rilascio del Prof. Monti Mario”. Gli consegnarono ciò che gli avevano trattenuto all’ingresso, l’orologio,
il portafoglio e la valigia.
Si sedette su una panca e cominciò a mettere in ordine i
suoi abiti, i suoi libri, e ciò che aveva raccolto in un mese di
detenzione.
Gli capitò in mano la foto con Lo Falco, la baciò, se la
mise in tasca. Pensò al suo cappotto finissimo sulle grosse
spalle di Miki e sorrise, ma dentro di sé un pensiero aveva
preso corpo: la consapevolezza che da libero o ristretto
qualsiasi essere umano rappresenta una risorsa, e gli sembrò che la sua vita dovesse cominciare da lì.
26
27
I fatti, le circostanze e i personaggi di questo racconto sono frutto di fantasia, chiunque vi si potesse ritrovare lo farebbe per un improbabile capriccio del destino. Il Prof. Mario Monti è stato usato a solo scopo letterario
come esempio di uomo delle istituzioni, ma non è ovviamente in alcun
modo identificabile con il protagonista del racconto.
Questo racconto è dedicato a Enzo Tortora e a tutti quelli che pur essendo passati da un carcere senza colpa alcuna sono usciti più uomini di
prima.
Motivazione
2° classificato ex aequo
Massimiliano Maiocchetti
Questo bel racconto di Francesco Garaffoni è un riuscito apologo
sul mondo del carcere. Con un inconsueto sguardo narrativo riesce
a proiettare il lettore nella dimensione più intima e ignota della
reclusione, descrivendone con efficacia i riti quotidiani, l’ossessione del tempo e dello spazio, la rabbia impotente, il desiderio di non
disimparare a vivere. Ma ci restituisce anche un’umanità, pur
provata dalla detenzione, sempre e autenticamente generosa, sensibile, solidale. E lo fa con un’ingegnosa e ardita invenzione letteraria, immettendo nella vicenda nientemeno che Mario Monti,
incarcerato perché accusato, si scoprirà ingiustamente, di omicidio.
Circostanza infausta, ma che ci propone il professore in una veste
inedita e divertente. Emblematicamente protagonista di un mondo
più giusto, più umano, e forse più vero. Davvero alla rovescia
rispetto a come, malauguratamente, oggi ci appare.
600 secondi
* Le motivazioni sono state redatte da Marco Pautasso (Garaffoni e
Pullarà) e Fabio Canessa.
Te ne stai mollemente adagiato alla cancellata della tua
sezione. Con lo sguardo perso nel vuoto fai finta di niente cercando di farti notare il meno possibile da chi ti passa
accanto. Ma le gambe nervose che non riescono a star
ferme nemmeno un momento tradiscono quell’apparenza tranquilla che hai indossato, nell’attesa che quello
davanti a te finalmente esaurisca il tempo della sua telefonata. Il cuore batte così forte che sembra volerti uscire dal
petto, fa così ogni volta, prima di un colloquio o di una
telefonata a casa. Di solito inizia a farsi sentire prima che
il sole faccia la sua comparsa illuminando quei sette metri
quadrati in cui vivi, qualche volta inizia anche molto,
molto prima, risvegliando di colpo tutti i tuoi pensieri, i
tuoi bisogni. La necessità di sentire il suono della sua
voce, di sentirla raccontare come vive nel mondo lì fuori,
da sola senza il tuo aiuto, è cosi forte che non riesci a pensare a nient’altro. Questa è una di quelle settimane dove
quei dieci minuti appesi a un filo sono l’unica cosa che
t’importa, l’unico contatto possibile in un mondo separato da un muro.
Ieri notte ti sei addormentato assaporando il momento
in cui avresti digitato il numero di casa tua, l’hai immaginato con talmente tanta forza che potevi quasi sentire la pressione della tastiera sui polpastrelli delle dita, l’apprensione
avvolgente degli istanti che precedono la voce dal tono un
28
29
po’ distratto di un assistente di servizio al centralino che
attraverso la cornetta, finalmente ti dice: “Puoi parlare…”
Ci sono così tante cose che vorresti dirle che non sai
nemmeno come ti ci possano stare tutte insieme nel cuore
e nella testa. Un giorno d’assenza dopo l’altro le hai pensate, organizzate e memorizzate pronte per venir dette, sperando che per l’emozione e la fretta non te ne dimenticherai nessuna. In particolar modo in questo momento della
tua vita dove, forse, la paura che il tempo possa darti il
colpo di grazia è più forte che mai, confrontarti solamente
con la ragione dei tuoi pensieri non basta più. Ti serve, per
sentirti ancora completo, specchiarti nell’altra metà del
tuo universo, lì dove la sua voce come una carezza può
ancora sfiorarti il viso e farti tornare il sorriso. Ma l’unico
problema è che adesso sei così facile all’emozione che non
sempre riesci a dominare le tue sensazioni, lasciandoti così
travolgere dal fiume in piena delle parole in attesa.
Il telefono l’hai sempre detestato un po’, più un fastidio
che altro, così capace anche solo con uno squillo di entrare nel tuo mondo senza chiedere il permesso. Comunque
oggi è la tua unica risorsa, una cruna d’ago di dieci minuti, da cui far passare sentimenti, insicurezze e conferme.
Vorresti che il tuo sguardo potesse seguire la linea di quel
filo per raggiungerla e perderti nel verde dei suoi occhi,
anche per un solo momento.
Tra poco finalmente le tue dita potranno toccare sul
serio quella tastiera, si muoveranno lentamente, un numero dopo l’altro, facendo attenzione a non sbagliare, e ti
avvicineranno alla sua voce. Ti concentri solo su quello, un
poco alla volta fai uscire la confusione del mondo che ti circonda dalla tua mente. Nella cabina il tuo sguardo non può
non notare l’agitazione di chi sta per esaurire il suo tempo,
siamo tutti uguali…! A un certo punto ci si rende conto di
non aver detto e ascoltato abbastanza, che quei seicento
secondi si sono consumati senza che la nostra sete si sia
smorzata almeno un po’. Quei dieci minuti sono la nostra
felicità e la nostra dannazione. Per un solo momento di
normalità, il prezzo da pagare è fatto di giorni e giorni in
cui il senso di solitudine è a malapena sopportabile; magari fingiamo che tutto sia in ordine, che le cose vadano bene,
ma appena restiamo soli, chiusi nel nostro mondo, la sentiamo scorrerci con forza sotto la pelle. Tuttavia per un batter di ciglia, in uno di quei seicento secondi torniamo
indietro nel tempo, alla nostra vita normale, fatta di piccole cose vissute insieme, e il sereno di quell’istante vale pienamente il prezzo che pagheremo.
Ce lo ricordiamo bene, ognuno ha il suo istante di felicità, e immancabilmente lo ricerchiamo ogni volta nella telefonata successiva. La porta della cabina con il suo cigolio da
film horror ti avvisa che finalmente è arrivato il tuo turno.
Il tempo di un veloce scambio di saluti con chi ti ha preceduto e sei in posizione, la scheda telefonica stretta tra le
dita. Segui, anche se ormai le hai mandate a memoria, le
istruzioni che una voce robotizzata t’impartisce, prima di
poter comporre il tuo numero seguito dal cancelletto.
Aspetti con il cuore in gola che questa volta tutto vada per
il verso giusto, che non ci siano impedimenti, uno squillo
dopo l’altro, sei, sette, otto…
La voce di un assistente al centralino interrompe lo stato
di concentrazione in cui ti sei isolato per non farti distrarre: “Provi più tardi, non c’è linea, il telefono sembra staccato…” Non ha funzionato! In testa ti esplode un universo di
possibilità, in gran parte negative: non riesci ad arginarle,
sembra che l’isolamento imposto da queste mura sia capace, sfuggendo a ogni tua difesa, di dilatarle a dismisura, cercando di farti perdere quell’equilibrio che hai saputo conquistarti un poco alla volta. È un fastidio che ti rende
impossibile concentrarti su qualcosa di diverso, la mente
cerca un motivo, uno solo che possa spiegarti, che possa
tranquillizzarti.
Riproverai più tardi, ma questo era il vostro appuntamento, l’avevate deciso insieme, occhi negli occhi. Quel
30
31
bancone nella sala colloqui che vi divideva nemmeno lo
sentivate più, è anche per questo che vorresti provare a salvarlo, lo sai che lei ti sta aspettando dall’altra parte del filo,
ma non puoi farci niente, devi rinviare, adattarti. Gli strumenti per andare da lei non ti appartengono più, li hai
dovuti lasciare fuori, alla porta. Un giorno torneranno,
potrai scegliere anche quale usare, ci saranno decine di
numeri da contattare. Potrai, se lo vorrai, anche andarle
incontro a piedi o di corsa come ti sta urlando di fare il
cuore in questo istante, ma oggi devi provare più tardi, non
puoi ascoltarlo, puoi fare soltanto questo.
32
Motivazione
La telefonata alla donna amata come oasi della vita carcerata,
baricentro del proprio equilibrio e unica meta desiderata capace di
dare valore all’esistenza. Oggetto del racconto non sono però quei
“dieci minuti appesi a un filo”, ma tutto il resto: dilatando il
tempo, la scrittura riesce a tracciare con febbrile lucidità le altalenanti suggestioni dell’attesa, assaporata con gusto, l’impazienza
del contatto, l’ansia di sintetizzare il bagaglio di emozioni da condividere, la nostalgia di una quotidianità in cui tutto ciò sarebbe
routine, fino allo smacco del fallimento, a una rassegnazione vissuta intensamente sottopelle.
33
2° classificato ex aequo
“Prepara l’indispensabile, domattina verrò a prendervi.
Ti raccomando poca roba, non dovremo dare l’impressione di una fuga.”
Santi Pullarà
Era il vespro di un giorno d’autunno palermitano. Una
calma surreale fiaccava via Roma. Fresche correnti montane defluivano verso il mare ripulendo l’aria dalle esalazioni provenienti dai cumuli di macerie. Il silenzio fu molestato dal procedere di passi veloci che echeggiavano dal
Cassero. Un uomo, protetto dal suo impermeabile e dallo
scuro incombente, si fermò dinnanzi al portone di uno dei
tanti edifici borghesi ancora non disgregati dai bombardamenti e, dopo averlo spintonato, s’infilò dentro.
“Chi è?” chiese una voce femminile.
“Apri, Rebecca, Giacomo sono.”
La donna aprì e con un cenno della mano invitò l’uomo
a entrare.
“È in casa Elia?”
Elia arrivò sul ciglio dell’ingresso: “Giacomo, quale vicenda ti porta da queste parti?”
“Non è una visita di cortesia. Ascoltami, Elia, al Comune
è arrivato l’ordine di compilare una lista di tutte le famiglie
ebree della provincia e di farla pervenire ai tedeschi.”
“Va bene, calmati adesso, che vorrà significare…”
“Non sono fascisti, non fingere di non sapere. Stanno iniziando anche qui con le deportazioni e solo Dio sa quel che
succederà dopo.”
“Ma… cosa posso fare, dove andare con Rebecca e le
bambine?”
Elia Davì era un medico. A causa delle leggi razziali era stato
allontanato dall’ospedale e doveva praticare la professione
clandestinamente. Con Giacomo erano amici sin dai tempi
del liceo. Giacomo Scalia era, invece, figlio di un ricco farmacista di provincia. Dopo essersi iscritto al partito fascista,
era stato assunto presso l’archivio comunale. Nel volgere di
pochi anni aveva scalato le gerarchie sino alla nomina di
segretario del municipio. Aveva partecipato all’identificazione delle famiglie ebree che vivevano nella provincia di
Palermo. Giacomo non si era lasciato vincere dai fanatismi,
dai pregiudizi razziali e religiosi, non era un violento, soprattutto non considerava Elia un diverso. Dopo aver trascorso
una giornata a meditare, in lui erano svaniti tutti i dubbi:
avrebbe assistito il suo amico. “Dove ci stai portando?” chiese Elia intanto che caricava nella Balilla famiglia e valigie.
“Fuori da questo fuoco. Stamane le strade sono colme di
tedeschi e fascisti.”
Avevano quasi attraversato l’ultimo isolato della città
quando un’automobile sbucò dall’angolo e si piantò di traverso. Dal mezzo scesero due militari e si avviarono, con
passo deciso, su entrambi i lati dell’auto.
“Buongiorno” disse quello che esibiva più gradi, “se i
signori sono così cortesi da fornirci i documenti e notizie
sulla loro destinazione…”
“Buongiorno a voi, camerata” l’incalzò Giacomo sollevando il braccio e, ostentando autorità, presentò la tessera
del partito. “Tenga… per i documenti dei miei amici
rispondo io, hanno perso tutto nel bombardamento della
scorsa notte e stanno sfollando in provincia.”
“Tutto a posto, ci scusi segretario, può andare” fece il
fascista dopo avergli reso i documenti.
34
35
Elia Davì
Varcato il limite della città, Giacomo tirò un sospiro di
sollievo e commentò: “Per fortuna che ci hanno fermato i
locali, fossero stati i tedeschi chissà cosa ci sarebbe capitato. Sai cosa hanno collaudato quando gli salta la mosca del
sospetto? Fanno calare i calzoni per controllare se l’attrezzo è integro o modificato come è abitudine vostra”.
Alle porte del convento di Santa Maria del Gesù Giacomo invitò Elia a scendere dall’auto: “Siamo arrivati,
quel frate sull’uscio è padre Lorenzino, sta aspettando
voi. Vi sistemerà provvisoriamente. Cercate di riposare:
stanotte lascerete Palermo con i contrabbandieri mezzagnoti”.
“Ma qui… lo sanno chi siamo? Dobbiamo pagare questa
gente?” chiese Elia titubante.
“Stai sempre a interrogare. Per una volta fa’ il siciliano e
stai muto. Non devi pagare nessuno, attieniti solo a quel
che ti diranno: sei in mani sicure. Ora devo correre in Comune, proprio oggi non vorrei portare ritardo.”
arida, avvezza alla successione di padroni, accompagnò i
proscritti sino al paese di Giacomo.
Roccalupa era poco più che un villaggio agricolo posato
su una collina tra Palermo e Agrigento. Tutto si raccoglieva attorno alla piazza: la chiesa della Matrice, il municipio,
le case dei burgisi e a ridosso le stamberghe, disposte l’una
sull’altra, senza alcun criterio urbanistico e prive di ogni
norma igienica.
Approdati nella villa degli Scalia, appena fuori il paese,
Giacomo prese in disparte Elia: “Qui potrai stare tranquillo, avvertirò mio padre della vostra presenza: avrà cura
delle vostre necessità, poi ripartirò per Palermo”.
Quella notte il buio non faceva intravvedere nemmeno la
trama del sentiero. I contrabbandieri lo transitavano senza
la necessità di lumi che avrebbero destato la curiosità di
sbirri e tedeschi. Rebecca e le bambine erano in groppa ai
muli, Elia si voltò e, della città, scorse solo luci piazzate in
mare per ingannare i bombardieri. All’alba giunsero in
una masseria che sembrava abbandonata. Trascorsero lì
due giorni. La domenica, di primo mattino, si presentò
l’uomo che doveva portarli via da quel luogo.
Giacomo aspettava dietro la chiesetta di San Giovanni.
Aveva parcheggiato l’automobile in modo che nessuno,
dalla strada, potesse scorgerla. Quando il piccolo corteo
sbucò dal boschetto gli andò incontro con la macchina e
dopo aver fatto salire Elia e la sua famiglia partì.
Quel tratto di strada nazionale, non integralmente asfaltata, che penetrava tacita nel cuore di una terra arcana,
Cosimo Scalia, inteso il dottore, non appena il figlio lo
informò della presenza degli ospiti montò in escandescenza: “Tu hai la predisposizione a crearmi sempre imbarazzi.
Hai aderito al fascismo pur sapendo quale considerazione
ci haio di ’sti corvi neri. Ora fai il dissidente portandomi a
casa lì persecutati: dovrò adesso preoccuparmi per gli spiani del podestà”.
“Papà, Vossia dice cose esatte… mi rammarico dei dispiaceri chi vi ho arrecato, a Elia pure voi gli volete bene e lo
stimate più di me.”
“Giusto, più di te… sai anche che non nutro pregiudizi,
quel che mi manda in bestia è che tu agisci senza ponderare le conseguenze. I tuoi sodali conosceranno l’amicizia
che vi lega: sarà a Roccalupa che verranno a cercarlo quando non lo avranno trovato a Palermo.”
“Reputo giusto il vostro ragionamento, cosa fare allora…
sarebbe il caso di consultare don Liborio? È pure amico
vostro.”
“Ora pure familiare dei mafiusa mi facesti diventare, tu
confondi la paura e la cautela con l’amicizia.”
“Me l’ha fatto intendere Vossia raccomandandomelo. M’avete fatto scomodare le alte gerarchie quando era in galera.”
36
37
“Non erano iniziative mie, sono stato costretto. Liborio
Quartara a Roccalupa è l’unica autorità che si rispetti… se
io non l’avessi omaggiato, una luparata non me l’avrebbe
scansata nessuno. A ogni modo, oggi è meglio don Liborio
che i nazisti, saprà trovare una soluzione. Rammenta che
stai per contrarre un debito che sarai tenuto a saldare in
qualsiasi momento.”
“Dottore, Giacomino mi portò?” esclamò compiaciuto
Liborio Quartara intanto che gli Scalia si approssimavano a
lui “È sempre un onore ricevere la visita di una persona
accussì importante.”
“Ci siamo permessi di disturbarlo” disse il farmacista “…
mio figlio chiede il vostro intervento” e fece cenno al figlio
di spiegare la natura della sua urgenza.
Giacomo, senza tergiversare, espose immediatamente lo
stato delle cose: “Vi resteremo obbligati se Vossia potesse
accettare sotto la vostra protezione questa famiglia e tenerla nascosta”.
Senza esprimere alcun commento don Liborio chiamò
uno dei suoi attendenti, Ciccia Machì, e s’appartò a discorrere con lui. Qualche minuto appresso Ciccia saltò sul
mulo e partì, intanto Liborio tornò dagli Scalia: “Stasera,
come scurerà, farò accompagnare i vostri amici a
Donnasecata… è posto sicuro, lì potranno stare tutto il
tempo che vorrete. Ciccio è andato ad avvisare Turi
Massaro: sovraintende quella zona ed è persona fidata.”
il sostegno dei contadini grazie alle qualità di medico e
umane che dimostrò con la stessa vocazione che l’aveva
fatto apprezzare dai suoi pazienti di città. Anche Turi
Massaro, che aveva accolto senza entusiasmo l’arrivo degli
scampati, cominciò a gradire la presenza di Elia. Qualche
tempo appresso, sentendolo lamentarsi della mancanza di
medicine, Turi gli chiese: “Mi scrivesse tutto chiddu che
occorre a Voscenza”.
“Se nemmeno il farmacista ha più niente, dove potrà
reperire, di questi tempi, le medicine che mi bisognano?”
“Voscenza pensasse a scrivere, il resto non è competenza
vostra.”
Pochi giorni dopo Turi Massaro arrivò al baglio con due
muli con le some cariche di tutto il materiale che Elia aveva
elencato sul foglio. Dove l’avesse reperito il medico non lo
seppe mai, intuì che non doveva fare domande sulla provenienza e non ne fece.
L’arrivo dei Davì, per i contadini del baglio di Donnasecata, fu un avvenimento. Nessuno faceva domande, ma
in tutti loro vi era la consapevolezza che signori così stessero in quel posto solo per circostanze sospette. I Davì furono allocati in una delle piccole abitazioni disposte torno
torno al baglio. Ben presto Elia riuscì a suscitare l’affetto e
Quella sera Rebecca e le bambine erano già andate a letto.
Elia stava leggendo al chiaro di un lume a olio quando
sentì bussare. Dietro la porta c’erano Turi Massaro e Ciccio
Machì con tre cavalli.
“Pigliasse la borsa con i ferri e delle bende e venisse con
noi” gli ordinò perentorio Turi.
Senza indugiare Elia prese l’occorrente, indossò il cappotto e seguì i due. Due ore di cavalcata li portarono in un
capanno illuminato da torce. All’ingresso c’era don
Liborio che discuteva con un altro uomo. Non appena Elia
scese da cavallo, Quartara lo prese sotto braccio:
“Dottore, scusasse se l’abbiamo scomodato a questa ora,
lì dentro c’è un picciotto che necessita della vostra perizia.”
“Bene” rispose Elia, “mi faccia vedere.”
I due entrarono nel capanno. Don Liborio gli mostrò un
giovane con una ferita alla spalla disteso su una lettiga di
canne e se ne uscì.
38
39
Trascorsero tre ore e il medico raggiunse gli altri all’esterno: “Se la caverà, non è una ferita grave; come se l’è
procurata?”
“Incidente di caccia fu” ribatté sardonico Turi Massaro.
“Considerato che la nostra presenza non è più necessaria
possiamo sciogliere ’sta compagnia. Dottore, se sarà di
vostro favore potrà approfittare di un passaggio sul mio
calesse” ingiunse Liborio Quartara.
“Volentieri” espresse Elia.
La notte era ancora robusta. La luna rendeva più sicura
la via. Il carrozzino procedeva lento tra le buche di una
strada sterrata.
Fu il medico che diede il via alla conversazione: “Don
Liborio, mi consente di esprimerle una considerazione?”
“Prego” rispose a tono il mafioso.
“Francamente non riesco a capire. Dai tempi in cui venivo a trascorrere le estati a Roccalupa, il suo nome è sinonimo di paura. Ora ho l’impressione che lei sia tutt’altro
che un bruto incolto. Il mio è un giudizio sommario, non
ho elementi qualificati per poterlo affermare con persuasione. Di fatto non ha esitato ad aiutarci mettendo a
repentaglio la sua vita e quella dei suoi amici. Eppure, talvolta, mi sembra di scorgere nei suoi occhi il piglio del
demonio. Mi perdoni se adotto questi termini, ma vorrei
essere contraddetto.”
Don Liborio fermò il calesse, sollevò la coppola sopra la
fronte e, dopo un meditato silenzio, ribatté: “Io non devo
contraddire niente, però se vuole capire… l’aiuto. Vossia,
dottore, vede il diavolo e io le dico che c’è l’inferno: il
fuoco di secoli di angherie. L’assistenza che le sto favorendo non è una questione di coscienza, bensì di oltraggio a
Mussolini e al suo padrone tedesco. Io non riconosco questo Stato che agisce come fosse proprietario delle cose e
dell’omini. Siamo entrambi storicamente oppressi. A voi
hanno tolto la terra e ogni pretesto è stato legittimo per
perseguirvi. A noi, la Sicilia ce l’hanno lasciata, ma senza
diritti. Siamo stati sfruttati e mantenuti come animali.
Quando qualcuno ha mosso opposizione hanno cominciato con lì stermini. E lì baruni che hanno fatto? S’hanno
calato le brache ogni volta che uno spagnolo, un francese
o un tedesco c’è presa la voglia di fare legge in Sicilia. E
che feste gli facevano. Mai, a ’st’imparruccati senza onore
c’è venuto l’orgoglio di dire: la Sicilia è cosa nostra, armiamoci, difendiamola; facciamone uno Stato dove possiamo
essere padroni del nostro destino. La loro priorità è stata
quella di mantenere integri i loro privilegi, torcendo lì sottostanti nei loro feudi, e sperperare le rendite in ville,
feste, carrozze e lacchè. Quando ero picciotto sentivo
lamentare gli anziani che, in nome di Vittorio Emanuele e
dell’Italia, avevano sperato nel cambiamento. Invece
abusi, corruzione, privilegi e miseria rimasero uguali
come ai tempi dei Borboni. Quindi se non c’è giustizia
politica, sociale, giudiziaria, il solo metodo per guadagnarla è farsela da sé con l’unico criterio che in questa terra è
legge: lu terrore. Dottore, io non amo la violenza, o per lo
meno quella gratuita che è artificio dei potenti, ma la
tengo da conto perché è strumento capace a far valere le
mie ragioni e a irrobustire un effetto occulto che, in quanto tale, fa orrore”.
“Voi, don Liborio, sollevate giuste opposizioni, ma se si
ragiona con la sola logica della violenza si finisce in una spirale senza fuga. Chi detiene un potere deve adoperarlo…”
“Non mi parli da idealista. Ho la consapevolezza che questo potere, che nasce per avversare le ingiustizie, è finito
per farsene complice dove non è diventato vessatorio.”
“Allora se vi è questa coscienza perché…”
“Perché la Sicilia è terra senza futuro. Ci sono sempre
stati oppressori e oppressi. Tra gli oppressori ci stanno
quelli per lignaggio e quelli, come me, angariati, i quali si
reputano custodi di potere vero, ma sono inconsapevole
artificio dei primi. Siamo utili al sistema e ci permettono di
coltivare questa illusione.”
40
41
“Quando finirà la guerra voi, se vorrete, potrete adoperavi affinché la legalità possa affrancarsi da questa condizione.”
“Non ho l’integrità morale, i mezzi né la cultura per propormi come uomo nuovo; sono compromesso con le azioni del mio trascorso: quel che rimane sono solo parole… e
oggi ne ho liberate oltre quanto sono solito pensarne, perciò basta chiacchierare, fa male alla salute.”
L’afa di luglio aveva riarso tutta la vegetazione. Solo le cicale avevano lena per intonare il loro coro. Elia s’era appisolato sotto la sagoma di mandorlo. Era annoiato. Da qualche
giorno Turi Massaro sembrava sparito. Non si era visto
neanche don Liborio. Un vago presentimento lo inquietava. Il fragore di un motore lo sollevò dalle sue riflessioni.
Qualche minuto dopo un camion si fermò nell’aia. Dalla
cabina scesero don Liborio e Turi Massaro, questi era
armato di mitra, accennò un saluto mentre si avviava presso la sua abitazione nella parte centrale del baglio. Don
Liborio si accorse di Elia e si approssimò verso di lui.
“Don Liborio, cos’è...?”
“Sono venuto a prenderla” disse Quartara senza lasciare
che Elia finisse la domanda. “Avverta la sua signora di prepararsi: devo portarvi nella casa degli Scalia.”
“Che significa ciò?” chiese turbato il medico.
“Significa che finì. Stanotte hanno ammazzato il podestà
di Roccalupa. Fascisti e tedeschi hanno capitolato. La
Sicilia ora è in mano degli americani.”
“Di Giacomo che ne è stato?”
“Non tema per il suo amico. Da qualche tempo è sfollato al paese, tra poco lo incontrerà: sta aspettandovi.”
“Allora è finita questa clandestinità, quindi d’ora in poi,
amico mio, potremo…”
“Dottore, da lei pretendo un impegno. Pretendo la sua
parola che si scorderà di me e che non racconterà a nessu42
no questo episodio della sua vita. Non potrà mai esserci
amicizia tra me e lei.”
“Voi state chiedendo di ferire i miei sentimenti. Come
potrei obliare quello che ha fatto per la mia famiglia.
Negate il vostro concetto della solidarietà facendovi del
torto. Io non credo che ci abbiate aiutato solo per avversione all’autorità. Fosse stato così non vi sareste preoccupato
di venirmi a trovare, di procurarmi, di vostra iniziativa,
libri, di trascorrere le serate ad argomentare con me. In voi
c’è molto di buono, mi creda, mediti su quanto le dissi una
volta. Il prossimo futuro potrà essere il tempo delle verità.”
“Lei sta delirando: simula di non capire. Cosa vuole che
mediti, vuole forse che rinneghi il mio operato per lasciarmi sopraffare dalle emotività? No. Queste cose sono come i
governi: non li riconosco. Poi di quali verità mi parla? La
verità è così offuscata e la menzogna così bene affermata
che non si è capaci di conoscerla. Ora adempia al trasferimento: Turi vi accompagnerà a Roccalupa.”
43
Motivazione
3° classificato ex aequo
Gavino Chessa
Una vicenda dove sembra poter prevalere la pietà umana sulla
logica della violenza e della sopraffazione, cui una scrittura precisa e matura, impreziosita da un uso sapiente e misurato di termini dialettali, conferisce vivacità e pienezza espressiva.
Le leggi razziali sono la cornice storica del racconto ambientato a
Palermo e dintorni, che vede protagonista un medico ebreo, costretto ad abbandonare il lavoro in ospedale e la propria abitazione.
Ma a organizzare la fuga e a proteggerlo dall’arresto e dalla deportazione intervengono persone dalla diversa appartenenza e reputazione sociale (un segretario fascista locale, un monaco, un maggiorente mafioso) che non si lasciano vincere dal fanatismo, da pregiudizi razziali o religiosi, da interessi di parte o semplicemente
dalla paura, e che insieme riescono a tessere una rete di solidarietà. Cui non si sottrarrà nemmeno il medico stesso, quando verrà
chiamato a curare un picciotto ferito.
A come… attesa
Appassionatamente attesi Amanda, attraverso aspettative
apparentemente apatiche. Andai all’aeroporto ad attenderla. Arrivò all’alba; ansiosa agitava alcune azalee alternate ad
accalorati abbracci. All’abito avorio abbinava antiche
acquemarine azzurrognole. Altera appariva: adoravo amarla, adoravo ascoltarla, anelavo averla. Andiamo amore
accompagnami all’aurea alcova, annunciò audace aggiogandomi all’avance avidamente attesa.
B come… Boccaccio
Bazzicando balere beccai Boccaccio ballando beguine. Ballava, beveva, baciava bellissime ballerine bionde. Bischerando brontolai, bisogna batterti bevendo, ballando,
baciando bellissime ballerine.
Boicottai Boccaccio baciando Belen, bevendo Bordeaux,
ballando boogie-boogie.
Bla, bla, bla bisbigliò Boccaccio; balbettava blaterando
boccaccesche boiate.
Benedetta barrage, bissai Boccaccio barcamenandomi
bene. Ballavo boogie-boogie brandendo balalaiche, balzando banchi, baciando Belen battei Boccaccio.
44
45
Buon Boccaccio, benché battagliammo bellicose battaglie brindiamo: beviamo Barolo, banchettiamo braciole
baciando Belen.
C come… cerco casa
Confinati cieli contemplammo con Carla. Caduche comete
come cadeaux comparvero, compiendo cadute cadenzate.
Cenammo consumando caviale con champagne Cristal.
Cenando cogitavo cose carine: come conquistarla, come
coglierle camelie, come comprare casa.
Civettuola con charme chiese: “Cosa cerchi, Ciro, cosa
chiedi?” “Cerco castelli, cerco cascine, cerco casamenti,
cerco casa, cerco come colui che compie cerchi concentrici.”
Casualmente camminando conobbi casa. Carissima
casetta, cuore confortevole, comoda concubina. Coccoli
colui che conosci come cachemire caldo, come caminetto
cocente. Concedi calma, comodi canapè; cose concrete che
confortano. Chiacchierando chiudemmo consumando
caffè caldo; così chiesi: “Cara Carla, caloroso cuore, come
convincerti, come chiederti che cerco connubio!?” “Caro
Ciro” chiosò Carla, “compra casa così convoleremo come
candidi colombi.”
46
Motivazione
Gioco letterario di acrobatico virtuosismo, nel quale si racconta, in
modo divertente e divertito, l’attesa all’aeroporto dell’amata
Amanda, fino agli abbracci e all’alcova, utilizzando esclusivamente lessemi che iniziano con la lettera A, una balzana baraonda di
bagordi solo con la B e una civettuola conquista casalinga solo con
la C, come abbiamo cercato goffamente di fare noi con questo breve
riassunto. Con grazia e senza forzature, un’operazione originale e
riuscita, che riscatta ogni sospetto di gratuità grazie al felice ritmo
compositivo. Sarebbe piaciuta a Perec e a Calvino.
47
3° classificato ex aequo
Con Roberta le uscite in barca erano ormai frequenti. Il
nostro sloop, un Holliday ’27 dotato di un motore entrobordo, era un cabinato con quattro cuccette in un unico
ambiente e cucinino basculante. In cabina, nonostante le
dimensioni, si poteva tenere la posizione eretta, grande
comodità che lo rendeva prezioso a confronto con le barche della stessa dimensione. Una linea marina che lo faceva filare a otto nodi con drifter, randa e un filo di vento.
Ci appassionammo al mare e spesso ci restavamo a dormire. Nella stagione delle vacanze io e Roberta ci facevamo
casa. L’armamento era efficace nella sua semplicità e mi
pareva di sentire il legno come lo avessi sempre posseduto.
Siracusa-isola di Malta, un progetto che era costato parecchi mesi di allenamento affinché si potesse lavorare in due
con serio margine di sicurezza. Roberta era un gran marinaio, puntiglioso, capace e paziente; soprattutto paziente.
La sera prima di partire ordinammo le scorte, tutto il
necessario per una traversata confortevole, non senza eccitazione. In cabina l’ultima programmazione, poi sistemammo le assi che formano un letto delle due cuccette centrali. Non si trattava più di uscire e tornare in giornata, ma di
un vero viaggio, con approdi e incontri di genti. Sessanta
chilometri a Capo Passero e novanta per Malta in dieci ore,
con otto nodi; importante arrivare prima di sera. L’ansia,
certo, non mancava. Alle quattro, con l’aurora incipiente e
un fresco pungente, iniziarono le attività a bordo. Si ricompose il piccolo quadrato, riponendo le assi, piegando il
sacco e liberando il vano da tutto il superfluo. Non si vedeva arrivare nessuno e uscimmo per un caffè. Nel piazzale
delle poste, per via del traffico delle corriere che facevano
capolinea, il bar era già brulicante di gente venuta a preparare il mercato.
Di ritorno a bordo, si muoveva qualcuno. Annina e
Campa erano puntuali, con un thermos di caffè caldo che
decidemmo di goderci più tardi, perché era tanta la voglia
di salpare il cavo di prua al corpo morto e mollare gli
ormeggi. A motore verso “isola” e preparammo l’armo al
Plemmyrion. A cinque miglia da “murro di porco” issammo
randa e genoa con rotta sud per tenerci lontani dalla riva
che rientrava a ovest. Un maestro leggero di 5-6 nodi ci
gonfiava le vele a deriva dai rischi sotto costa. Ognuno lavorava in silenzio. Ordinammo le scotte per levare intralci.
Calammo berrette sui capelli e serrammo i giacconi: il
freddo e l’umido, per ancora tre ore. Il mare, piatto, sembrava dormisse. Erano da poco passate le cinque e alla
piena andatura saremmo arrivati tra le diciassette e le
diciotto. In lontananza la costa e le creste Iblee. Ci sedemmo in pozzetto a conversare mentre Annina distribuiva
caffè caldo, maritozzi e iris alla crema.
Parlammo di Malta e Dom Mintoff.
“Lingua ufficiale l’inglese e il maltese” leggevo da una
guida “… unico dialetto arabo, scritto con caratteri latini e
forte di numerose locuzioni in italiano e in particolare siciliano. Tre isole, Malta, Gozo, Comino. Importante centro
commerciale fenicio, cartaginese, uhm… greco, romano,
bizantino. Gli arabi per duecento anni… Ruggero II d’Altavilla l’annette alla Sicilia, altri duecento anni… Cavalieri
di San Giovanni, poi di Malta… croce bianca a otto punte
su campo rosso… angioini, aragonesi, Napoleone, inglesi a
tutt’oggi.” So tutto!, dobbiamo andare a vedere le opere di
Caravaggio, che è riuscito a farsi cacciare anche da lì…
48
49
Carmelo La Licata
Ricordi di Ortigia, l’isola delle quaglie
Speriamo che non ce l’abbiano ancora con noi… Alle otto
e trenta eravamo al traguardo di Capo Passero.
“Ancora un’ora e diamo rotta sud-sudovest…”
“Potremmo farlo anche subito” disse Roberta, “perché
poi avremo corrente contraria che arriva dall’Atlantico e
risalirla può essere un problema. Meglio evitare smotorate.”
Aspettiamo ancora un po’” emerse Campa con una
carta, “meglio non avvicinarci… scapoliamo bene il capo e
ci diamo a sudovest così, se la corrente ci provoca scarroccio, arriviamo alti sull’isola piuttosto che risicati.” Fummo
tutti d’accordo.
Il sole si alzava, il caldo ci induceva a spogliarci come
cespi di cipolla, uno strato dopo l’altro. “È meglio lasciare
indosso qualcosa di leggero o stasera avremo piaghe da
scottatura. Questo venticello rende sopportabile la calura,
ma il sole picchia e a sera si sentirà…”
Roberta e Annina scomparvero sottocoperta per preparare lo spuntino.
Alla mezza, barchette di sedano bianco e zola, astine di
pecorino col pepe, frasette di ricotta, olive e peperoni arrostiti fecero la loro comparsa e ci allietarono con l’aiuto del
Cerasuolo di Vittoria, che mai navigante potrà tralasciare.
“Se facciamo il giro del mondo la barca deve avere quattro serbatoi: acqua, gasolio e due più grandi per il vino e
l’olio…”
La piattaforma sottomarina si innalza nel canale di
Sicilia e ha una mala fama. Pare che quando fa brutto qui
sia proprio da scansare. Sotto, i vulcani lavorano incessantemente e l’ultima eruzione, nell’Ottocento, fece emergere un’isola. I francesi l’avvistarono per primi, gli inglesi vi sbarcarono che era ancora fumante e i Borboni, nel
far notare che era in acque di loro possesso, la chiamarono Isola Fernandina. Una diatriba che valeva una crisi
diplomatica, quando improvvisamente la terra sprofondò
così come era emersa. Con questi discorsi nel cuore, vedere la costa allontanarsi, e con essa il capo, creava un
senso d’attesa e la pausa sarebbe durata sino a vista di
nuova terra.
Al vespro le isole maltesi si traguardavano a sud-sudovest,
vicine. Lascammo le vele per prendere il vento al lasco,
un’andatura per cui la barca soffriva, sbilanciata, con fremiti a volte trattenuti, e traversava l’acqua tra spruzzi e onde
fastidiose, che interruppero il piacevole scorrere di cui avevamo goduto sin lì.
La costa alta e scoscesa si presentava nera e rotta da fratture e calanchi. Con i “piani” di cui era dotata la barca fu
scuola studiare fondali, secche, scogli e isobare. Il porto sul
lato opposto era meglio accostarlo da ovest, così da tenere
la direzione della corrente per l’avvicinamento. A un
miglio o poco più, in vista dei fanali, con un senso di “cosa
fatta” nel cuore, mettevamo a secco di vele non prima di
avere avviato il motore. E accostammo: una manovra perfetta, da consumati marinai, nervi e muscoli sciolti, senza
alcun aiuto dalla terra, che pure ci veniva offerto da passanti e pescatori. Ore diciotto e venti… of course!
La sera couscous con salsa di pesce e un vino chiaro e
profumato che non sappiamo se prodotto sull’isola: forse
viene dal mare, da un’isola greca che con questa incrocia
storie e commerci; o è figlio di terra d’Africa che da qui è
vicina e che, ormai, ci pare di toccare.
Due giorni trascorsi sull’isola. A Gozo un posto migliore
e meno affollato in un mandracchio per pescatori. La
Valletta tutta fortificata, segni di bastioni ovunque che narrano la paura del passato. Per secoli dal mare arrivavano
merci, ma più spesso le brutte notizie e torme di predoni.
Marinaio e pirata era la stessa cosa, l’attitudine determinata dall’opportunità.
Era curioso vedere tanta Inghilterra in questa gente così
poco english. Le cabine del telefono, bandierine dappertutto e certe insegne di pub si faceva fatica a collocarle tra queste strade arabe con queste facce turche.
Alle barche da diporto in partenza augurammo “good
50
51
wind”, vergognandoci un poco quando scoprimmo che il
nostro grido d’augurio “buon vento” gli inglesi lo rivolgono, scherzosamente, ai bambini che emettono peti. “Che
provinciali…” ci biasimammo.
Era piacevole la compagnia di Campa e Annina.
Un’amicizia priva di invadenza che dava un senso di rilassatezza. Soggiornare con loro sulla banchina davanti agli
ormeggi, conversando, cercando pescatori nelle lunghe
passeggiate, e osservare il mare e gli usi del mare, ficcanasare tra esche e pasture e controllare il pescato nel riempire i meriggi sino al tramonto. Allora il sole infiammava i
tufi delle case e diffondeva quella luce giallastra che allungava le ombre sul porfido nero del selciato.
Campa eseguiva disegni con mano sicura, matita e pastello, talvolta a carboncino. Vedute e scorci tra case di pescatori. Roberta e Annina, con un pennello di un dito, tracciavano rapide linee di grasso colore per ottenere figure di barche, mentre io, sdraiato su un muretto di pietra calda, come
una lucertola tardiva, leggevo gli autori che più amavo.
Frammenti di musica ci arrivano. A ogni salto d’aria un
tema diverso. Che direttore d’orchestra è il vento, le porta
e le interrompe, le musiche della balera, l’orchestra del
teatro, le melodie del lido. Mentre avvolti in un sacco, dolcemente, dormiamo, sotto lo sguardo severo di un occhio
di cubìa.
Sulla spiaggia, la sera, un vento di scirocco spinge l’acqua,
come una mano ridotta a coppino. E la fa suonare, quella
sabbia di granelli a miliardi di miliardi di miliardi. Sfregano,
saltano, per poco si inabissano, rimontano tanti su altri, per
chilometri e chilometri, e fanno sentire questa voce potente e mormorante, che ti riempie i sensi. La risacca.
Un merletto di spuma. Lunga e sottile come asta di telaio
che pettina la tela, infinita, come quella famosa che sospinge il mare a tratti visibile, quasi sempre udibile, nel buio.
Non c’è storia che ti spaventi più dei mostri del mare,
che si fanno sentire nelle notti di fine stagione. Ti incalzano l’ansia, mentre fissi la distesa ne senti la voce e ne respiri l’alito. Portano animo e paura, gioia e tristezza, cura e
speranza per un futuro sottile che s’appressa. Come al giorno di fine della festa.
Sistemare le attrezzature era cosa di tutte le mattine, un
breve controllo tutt’uno col prendere aria in coperta nelle
prime ore del giorno. Il sole era già ben presente, anche se
basso sull’orizzonte, e ondine stizzose si infrangevano su
Gioia Gioiosa, facendo danzare la barca con leggerezza, ritmicamente. A questa occupazione mi dedicavo ogni mattina mentre giravo sulla tolda con gli occhi ancora impiastricciati dalla nottata e i capelli arruffati dal cuscino.
Gabbiani lanciavano i loro “cocai” e lunghe strida sulle planate degli altri; picchiate vertiginose, si spingevano, arruffavano e combattevano intorno ai resti di una cena che la
barca vicina svuotava in mare. La contrada è deserta e il
molo, che è stato militare, abbandonato.
Poco lontano, una turgida brocca di pungitopo respinge
un colpo d’aria e attira l’attenzione. Forse un giro vale una
cena; così, di cespuglio in rovo, sono in cima alla collina e
ho raccolto un mazzetto di germogli spontanei. A pranzo
frittata con brocche di asparagi, luppolo e pungitopo. La
vista è magnifica sulla piccola insenatura, stretta e profonda verso l’entroterra; le pareti, scisti grigi a strapiombo;
l’acqua turchina, increspata da piccoli banchi di minuscoli pesci che nella foga di sfuggire a un predatore si spingono fuori, mostrando il ventre argenteo al sole e producendo fremiti veloci e convulsi per sprofondare ancora e tornare a vibrare in superficie. A ogni emersione manca qualcuno, ma la corsa alla vita è fine a se stessa e continua
senza interruzione.
Uno sbuffo d’aria si insinua tra i capelli e mi dice che è
52
53
ora di tornare. Il sole sta scaldando la terra e prepara il
vento per le vele. Roberta mi aspetta con in mano una tazza
di caffè e una fetta di torta. Facciamo colazione su uno specchio di prato tra le rocce e aspettiamo gli altri. Parliamo
delle cose lontane che ognuno di noi si porta dietro.
La barca è leggera, tolti gli ormeggi è bastata una spinta
dal molo per spostarne la prua. Nessuno saprà mai di questi giorni di mare. Il capitano sta ritto sul ponte, quando
naviga, guarda fisso a cercare qualcosa che non vede, ma
deve essere sicuro che c’è, forse esiste nella sua mente,
come un castello di fate nella memoria di un bambino.
Ogni partenza è un’avventura e al timone c’è tutta la tua
vita… Forze invisibili di vento e respiro del mare profondo,
le tempeste che rendono nero un cielo lontano, ti dicono
di ponderare e una volta partito, col suono spaventoso
delle sirene nelle orecchie, gli occhi attenti ai pericoli, i
sensi ai salti di vento, veleggi come mercante, pirata, marinaio, che la vita non è mai cambiata. E pare di dare volta al
cabestano, filare cime, spiegare fiocchi, coltellacci e vele
maestre, con ordini gridati a gran voce, come su grandi
velieri diretti ai mari del sud. Ogni volta che muovi dal
molo e vai verso il largo, mentre la costa si allontana e la
tua barca piccola e vigorosa prende moto, spinge la prua
nell’acqua, si avventa veloce tra le onde per una corsa di
rotazione che potrebbe non avere mai fine.
I delfini ingaggiano la ruota di prua e il baffo d’acqua
che solleva a ogni affondo. Finché, stabilizzata, messe a
segno le vele per il destino del giorno, questa casa di legno,
zona franca, territorio libero, restituisce la pace e il gusto
di navigare.
Cormorani, neri puntini lontani, si tuffano per la pesca,
innumerevoli: per tanti che spariscono sott’onda tanti ne
ricompaiono.
Al ritorno, vento di nordest. Lasciavamo le case, i porti e
gli scogli alle nostre spalle in una scia spumosa. Una piccola flotta di pescherecci incrociava, mentre la gente del posto
dormiva nelle case. Ancora accesi i lampioni sui pontili e
acceso il faro come unico occhio di ciclope amico: irradiava
la sua lama lucente, come a dirci la strada. Dispiegammo le
vele a bolina e con il legno inclinato ma stabile sentivamo la
barca risalire con andatura solida e sicura.
Il giorno volgeva alla fine come la nostra vacanza.
54
55
Motivazione
Il racconto di una vacanza in barca sulla costa siciliana diventa
il pretesto per uno scandaglio dettagliato e incantato sulla fascinazione del mare, tra il gusto di navigare e quello di approdare, che
comprende una narrazione del paesaggio e del clima, degli uccelli
e delle piante, delle onde e del vento, mai piattamente descrittiva,
ma sempre abilmente fusa con le riflessioni e le emozioni, mescolata a echi mitologici, fino a farsi riflessione esistenziale di ampio
respiro. Merito di una scrittura sensibile ed efficace, in grado di
suggerire il piacere e i turbamenti, la speranza e la paura di quel
viaggio che è la vita.
56
Opere segnalate
Emanuele Aletta
Catina
La premiazione del 2011 a Firenze.
In una tranquilla cittadina abitata da poche anime, vivono
u zù Turiddu e a za Maria con la loro bellissima figlia
Catina.
Con i suoi capelli dorati, gli occhi azzurri e un corpo da
fare invidia alle dee dell’Olimpo, strega i cuori di tanti giovani che desiderano ardentemente sposarla. Molti sono i
litigi tra loro per contendersela. Alla fine la spunta un giovane studente di buona famiglia. Cuciuzzu, così si chiama,
decide di andare da zù Turiddu per chiedere la mano della
figlia. U zù Turiddu prende molto bene le parole del giovane, dà la sua benedizione e lo invita unitamente ai suoi
genitori a cena per formalizzare il fidanzamento. Giunta la
sera, Cuciuzzu e i suoi genitori si presentano all’invito e,
superato quel sottile velo di imbarazzo, si siedono a tavola
per cenare. Nel frattempo Cuciuzzu chiede con molta educazione a Catina di passargli il pane e lei con stizza gli
risponde: “Io nun ti pigghiu nenti, chi sugnu a to serva? Ca tu
nun ci l’ai i manu? Pirchi nun ta pigghi tu u pani, senti ca, a
mia lassimi perdiri!” Questa reazione fa ammutolire i presenti, le facce dei suoi genitori si riempiono di vergogna. Poco
dopo Cuciuzzu, forse per semplice curiosità o per provocazione, fa un’altra richiesta simile alla prima e Catina reagisce in maniera ancora più isterica. A quel punto Cuciuzzu,
intimorito dall’atteggiamento di Catina, decide di non
volerla più sposare e lo fa presente allo zù Turiddu. La mattina dopo alcuni ragazzi pensano che il fidanzamento si sia
concluso, ma informati da Cuciuzzu di quanto è accaduto
rinunciano anche loro ad averla in sposa. Loro malgrado
59
dicono di non volerla più a causa di ciò che è successo;
tutti, quindi, decidono di ritirarsi, tranne uno, che pur
conoscendo la reazione che ha avuto Catina decide di
andare lo stesso da zù Turiddu a chiedere la mano della
figlia. Così questo ragazzo, ossia Serafino, si reca da zù
Turiddu a chiedere in sposa la figlia. Egli gli dice subito di
sì, anche perché, conoscendo il carattere di Catina, ha il
timore che nessuno, nonostante la bellezza, la voglia in
sposa. A questo punto u zù Turiddu, come di consueto,
invita Serafino e i suoi genitori a cena, per formalizzare il
fidanzamento.
Durante la cena, Serafino assiste a una sfuriata di Catina
e si rende conto che non è proprio il caso di maritarsi con
lei. U zù Turiddu e a za Maria sono disperati, non sanno
più come fare, ormai si sentono rassegnati.
Nei giorni a seguire, le gente del paese è tutta raccolta in
piazza a causa di una festa locale. Catina è più bella che
mai, si aggira curiosando tra una bancarella e l’altra. Dalle
montagne arriva in paese, per assistere alla festa, un giovane pastore di nome Carmelo, alto, biondo e muscoloso:
insomma, un bel ragazzo. Mentre si aggira per la piazza,
vede da lontano Catina; lui non la conosce, non l’ha mai
vista. Al primo sguardo si innamora. Quando scopre che è
la figlia di zù Turiddu, non perde tempo a chiedergli di
averla in sposa.
U zù Turiddu, all’udire quelle parole, si rianima, perché
vede in Carmelo un barlume di speranza per sposare finalmente la figlia. Come aveva fatto con gli altri due giovani,
invita Carmelo a cena per formalizzare il fidanzamento.
Giunto il giorno fatidico, Carmelo si reca a casa di zù
Turiddu portando in dono tumazzu e ricotta. Quando iniziano a cenare, Carmelo chiede a Catina di prendergli una
forchetta pulita, perché la sua gli è caduta a terra. Catina,
invece di fare quanto le era stato richiesto, si abbandona a
un’altra delle sue sfuriate e dice: “Chi vi mittistuvo da testa,
tutti chidri chi siti, Catina i ca Catina i drà, pìgghitilla tu a for-
chetta e si nun ta va pigghiari mangi chi manu”. Carmelo, abituato a tutto, non si intimorisce e quindi accetta di seguire
il consiglio di Catina e inizia a mangiare con le mani.
Nel frattempo Carmelo chiede a zù Turiddu di poter
sposare il prima possibile Catina, poiché non si può permettere il lusso di scendere spesso in paese per vederla: “Le
pecore hanno bisogno di essere accudite e non possono
stare incustodite per troppo tempo”. U zù Turiddu non
crede alle proprie orecchie. Fissata la data del matrimonio,
i due giovani si sposano e vanno a vivere in montagna.
Carmelo, come di consueto, verso le quattro del mattino
porta le pecore a pascolare e mentre è in giro per le campagne raccoglie della verdura. Al rientro chiede a Catina di
cucinarla, e lei, come suo solito, dice a Carmelo di non
avere intenzione di cucinare un bel niente. A quel punto
Carmelo si rimbocca le maniche e prepara la cena. La stessa cosa si ripete il giorno successivo. Il terzo giorno
Carmelo non va a lavorare e dice a Catina di prepararsi per
andare in paese. Lei, entusiasta della proposta, non perde
tempo e in un attimo è bella e pronta. Anche Carmelo si
prepara per l’occasione e porta con sé un fucile, il cane e
la giumenta. Durante il viaggio Carmelo scorge un coniglio
e con il fucile prende la mira e spara all’animale, che resta
a terra. Carmelo ordina al cane di andare a prenderlo, ma
il cane non ubbidisce al comando del padrone. A quel
punto Carmelo dà un ultimatum al cane dicendo: “Va’ pigghialu, ed è uno; va’ pigghialu, e su dui; va’ pigghialu e su tri”.
A questo punto Carmelo imbraccia il fucile e spara al cane.
Proseguendo il cammino, a un tratto si trovano davanti a
un guado che spaventa la giumenta, che non vuole attraversarlo. Carmelo le dà le tre possibilità che aveva dato al cane:
“Passa, ed è unu; passa, e su dui; passa, e su tri”. Alla terza intimazione, Carmelo spara. Sulla bestia vi era la sella e
Carmelo chiede a Catina di scioglierla e mettersela sulle
spalle. Lei, come al solito, si fa prendere dall’ira e non
ubbidisce. Carmelo, però, questa volta non ci sta e usa lo
60
61
stesso sistema utilizzato per il cane e la giumenta. Rivoltosi
a Catina le ordina: “Sciogghi a varda, ed è unu, sciogghi a
varda, e su dui…” Catina, pensando alla sorte del cane e
della giumenta, scioglie la varda e se la mette sulle spalle.
Siccome non vuole farsi vedere dalle gente del paese con la
varda sulle spalle, chiede a Carmelo di prendere una strada secondaria, ma Carmelo ancora una volta le urla: “Pigghia sta strata, ed è unu; pigghia sta strata, e su dui…” Catina
non lo fa arrivare al tre e prende la strada principale come
voleva Carmelo. Entrati in paese, la gente non crede ai propri occhi, cosi chiamano zù Turiddu per informarlo di
quanto hanno visto; u zù Turiddu va subito sulla strada e
constata che è tutto vero. Curioso di sapere come ha fatto
Carmelo a domare la figlia, chiede spiegazioni al ragazzo, e
siccome Carmelo non gli vuole dire niente, u zù Turiddu
comincia: “Dimmelo ed è uno; dimmelo e su dui…”
62
Walid Ben Tahar
Binari
C’è l’immortalità… così, a due pollici circa da noi. Eppure
irraggiungibile persino nell’arte.
Certe storie ti rimangono nella mente e nel corpo. Ci sono
storie che cominciano bene e finiscono male. Ce ne sono
altre che cominciano in un modo romantico, ma finiscono
male. E ci sono poi storie inventate, di fantasia, di quelle
che sembrano fiabe. Questa che sto per raccontare è vera
ed è anche piena di emozione, di dolore, di sofferenza;
insomma si può dire che è una storia drammatica, dove la
tragedia non conosce la pietà.
Era un inverno freddo quello del mio ritorno a casa da
un lungo viaggio. Sono in piedi, contro un muretto, che
cerco di ripararmi dalla pioggia fine e incessante. In mezzo
alle gambe ho la valigia, intorno a me tanta gente intirizzita, ansiosa, che aspetta lo stesso treno. C’è chi fuma annoiato, passeggiando lentamente avanti e indietro, chi si copre
la testa con la borsa; una coppia di giovani si scalda tenendosi abbracciata, donne anziane si lamentano del ritardo
del treno. Tutti guardano nella stessa direzione, e proprio
là in fondo c’è una donna sola con due valigie. Indossa
vestiti strani, variopinti e singolari; una bella donna indiana: capelli lunghissimi, pantaloni larghi e leggeri, la pelle
scura e il puntino rosso sulla fronte. Me ne sto lì, appoggiato al muretto, osservando tutto e guardando ogni tanto l’orologio. A un certo momento mi accorgo che molte persone fanno qualche passo verso i binari, mentre l’altoparlan63
te vomita parole incomprensibili. Capisco solo “signore e
signori, attenzione”, mi abbasso per prendere la valigia e
sono investito dalla folla mentre il treno arriva rallentando
e tutti corrono verso gli sportelli. La confusione è enorme.
Guardo verso il fondo del treno mentre anch’io cerco lo
sportello migliore per salire e vedo la donna indiana in difficoltà: sta cercando di trascinare le valigie molto pesanti.
Mi avvicino a lei a passi veloci e le chiedo se ha bisogno di
una mano. Mi risponde “Sì, grazie” e io mi sforzo di caricare le tre valigie cercando nel contempo di aiutarla. In questo momento mi accorgo che è incinta e ha un bel pancione. Riesco a farla sedere e mi siedo anch’io, mentre il treno
comincia a muoversi lentamente.
Il treno è il peggiore del mondo, sporco, freddo, scomodo. Io tornavo dopo aver portato a termine un lavoro per
una ditta di ascensori e non vedevo l’ora di uscire da quel
paese per entrare nel mio e sentirmi così più vicino a casa.
E quello su cui viaggiavo era l’unico treno che passava su
quel binario, attraversando il deserto.
Stavo lì a guardare dal finestrino e ogni tanto vedevo delle palme, qualche cammello che camminava sotto la pioggia contro lo schermo grigio del deserto. Un paesaggio
insolito, diverso dal deserto tutto sole accecante, sabbia e
dune dei turisti. Questa volta era tutto così diverso, così triste che non mi andava più di guardare fuori. Mi giro verso
l’interno del treno: c’è chi dorme, chi legge il giornale, chi
ascolta la radio con le cuffie. Tutto mi sembra molto noioso ed eguale: il viaggio più lungo della mia vita.
A un certo punto mi giro verso la donna indiana e vedo
la sua faccia così sofferente e sudata che le chiedo se si sente
bene. Mi risponde di sì e accetta, ringraziandomi, una bottiglietta d’acqua che le offro. Mi giro e piego la testa cercando di prendere sonno, ma non riesco. Anche i turisti che
sono a bordo si sono addormentati. Di solito un turista sta
sempre a guardare fuori, curioso di cose nuove, di ammirare il deserto, o di fare qualche foto. Quel giorno non c’era
niente da ammirare, né fuori né dentro il treno. Appoggio
la testa sul duro schienale e vago tra fluidi, indistinti pensieri, immersi nel mare della nostalgia.
A un certo punto sento un urlo che ferma il respiro di
tutti. Mi si gela il cuore a queste urla selvagge e continue.
Attorno a me vedo facce preoccupate e spaventate come la
mia. È la donna indiana che grida così, e quando cerchiamo di avvicinarci un’anziana signora ci allontana con voce
tremante: “Sta per partorire” ci dice. All’epoca avevo
diciassette anni, capivo a malapena cosa succedeva e non
avevo mai assistito a una scena del genere. L’anziana continua a ripetere: “C’è un dottore, c’è qualcuno con esperienza?”, ma nessuno si fa avanti. Due donne sorreggono
la testa dell’indiana e le dicono di prendere un respiro
profondo e soffiare forte, ma lei, mezzo svenuta, continua
solo a strillare sofferente. Alcuni passeggeri entrano nel
panico: dentro un vecchio treno che corre in mezzo al
deserto una donna sta per partorire, ma nessuno sa cosa
fare per aiutarla.
L’anziana ci fa allontanare ancora di più da quella zona,
ma continuiamo a sentire quelle grida che non si placano
e anzi diventano più forti e disperate. Dopo quasi un’ora,
si fa un attimo di silenzio quasi assoluto, poi dalla cabina
esce la vocina squillante di un neonato. Noi uomini eravamo contenti, curiosi, emozionati; ci sentivamo come se il
neonato fosse nostro figlio e quella donna nostra moglie.
Poco dopo la donna anziana esce dallo scompartimento e
viene verso di noi con le mani sporche di sangue, ma con
la faccia seria seria e con le lacrime agli occhi. Entra nella
toilette per lavarsi le mani e quando esce piange forte.
“Grande disgrazia, signori! Nati due gemelli, uno sta bene,
l’altro purtroppo non ce l’ha fatta, è morto.”
Rimaniamo tutti bloccati dalla brutta notizia, delusi, dispiaciuti. La mamma è quasi svenuta sia per la sofferenza
che per la morte del neonato. Ognuno cerca un modo per
consolarla. Il viaggio è ancora lungo e non abbiamo la pos-
64
65
sibilità di comunicare con un ospedale per qualsiasi tipo di
aiuto o per la ricerca di un mezzo di trasporto più veloce.
Lentamente la mamma si riprende e piange con quieta
disperazione, tenendo in braccio i due neonati. Uno dorme inconsapevole accanto al fratellino morto, in un’immagine drammatica che avvicina sonno e morte. Ma la cosa
più tragica avviene poco dopo ed è condensata nel gesto
della madre che prende una decisione incredibile. Si alza
lentamente, sempre guardando i neonati, si affaccia al finestrino dopo averlo aperto e con un gesto velocissimo prende un neonato e lo lancia dalla finestra.
Cosa dire, cosa pensare, noi che lo abbiamo visto, di
quel gesto che racchiude tutta la disperazione, l’amore, il
senso di colpa, la ribellione, l’odio, la volontà di distruggere e autodistruggersi di cui è capace una madre, una
donna che ha appena dato alla luce una vita? E non due
vite. Poteva il MIO cuore in quel momento provare solo
sgomento ed esprimere solamente condanna? E allora
come entrare dentro il SUO cuore e aiutarla a portare il
peso di quella decisione? Mi sono chiesto, ripensando
molto tempo dopo a quel fatto, che cosa ho veramente
provato in quei lunghi momenti. Che cosa ho provato
poco dopo quando, in un crescendo di tragedia, lei si è
accorta che aveva lanciato fuori il bambino addormentato
e non quello morto. Ha cominciato allora a strillare e a
strapparsi i capelli così che sembrava impazzita. A noi non
è rimasto altro che le lacrime, l’angoscia e il deserto che
scorreva indifferente fuori dal finestrino. Dentro di me
questa storia non è mai finita e vivo ancora con il dolore di
quelle immagini e di quel treno che non è mai arrivato al
binario dove dovevo scendere.
da fondo al segreto col segreto, solo noi siamo il pensiero, lo
spavento, la paura. Giacché davvero non il sole, né l’inverno
vietano all’ombra quello che al corpo umano hanno permesso. Siamo nella sofferenza, ma crediamo nella speranza.
… Egli è perso in mezzo al deserto, la sabbia con la sabbia.
Nella creazione la sofferenza dell’essere umano non è senza
speranza. Così solo noi, sebbene chiunque in noi tenti di far
66
67
Ciao Biagio, ciao Sebastiano, è la prima volta che mi rivolgo a voi. Fino a oggi vi ho sempre visti come un processo da
vincere e basta, ma non è stato per superficialità nei confronti di ciò che ci è capitato, è solo che vedevo la mia condizione di imputato e non vedevo ciò che ci ha uniti per
sempre quel due maggio. Erano circa le otto di sera in quella stradina stretta che percorrevate a bordo della vostra
macchina, una Uno turbo di colore rosso, ed è proprio in
questo che il destino vi ha giocato il suo macabro scherzo:
l’auto era del tutto simile a quella di chi doveva essere il
vero bersaglio di una mano armata, accecata e determinata
a compiere la sua missione di morte, nel nome del dio dell’odio, in quella strada avvolgente come una spirale e resa
cupa da quel fitto noccioleto che avrebbe dovuto riportarvi
a casa, ma anche luogo ideale per chi deve incontrarsi con
una morte simile; ottima per continue accelerazioni che
andavano a trasmettere qualcosa di unico, irripetibile, e fra
un’emozione e l’altra, un cambio di marcia e l’altro… Tra
una curva affrontata e l’altra, una fucilata e un’altra e un’altra ancora e ancora, l’auto finisce incastrata tra gli alberi di
nocciole con voi dentro, chi privo di vita chi ancora tra la
vita e la morte… per spegnersi qualche giorno dopo.
Con auto del tutto simile, ma di colore grigio, che scattava a ogni mia sollecitazione, la strada era avvolgente, tortuosa, con numerosi tornanti, ma più comoda da percorrere anche se secondaria, dal mio fondo mi portava al vicino
centro e tra una accelerazione e un cambio di marcia emozioni nuove e uniche creavo dove mi immergevo con tutto
me stesso… sono le otto e dieci minuti di sera… breve sosta
dal barbiere e tra un colpo di forbice su di me, un colpo di
fucile su di voi… alle otto e mezza riprendo la mia strada e
tra una accelerazione e un cambio di marcia l’emozione
mista alla gioia per un appuntamento con lei… un binario
di centodieci chilometri ci aveva già uniti; anche se per strade e luoghi diversi, stesse emozioni vissute con un finale
drammatico, ma che ci ha condotto verso il nostro destino,
voi in morte, io in agonia.
In questi anni non mi sono arreso e ancora oggi mi batto
per il riconoscimento delle mie ragioni e certamente non
sarà il fine pena, ormai prossimo, a limitarmi, anzi credo
che avrò ancora più stimoli a proseguire su questa strada…
anche se a me è toccata la condizione meno amara, ma
voglio continuare a battermi per togliermi questo marchio
di dosso e riscattare un po’ anche voi, perché pochi sanno
che siete vittime innocenti di una faida fratricida.
Per tutti siamo colpevoli, voi perché se vi hanno ucciso
un motivo c’era, noi perché se ci hanno condannati qualcosa c’era! Nessuno sa che quella sera siamo caduti quattro
innocenti in un solo colpo, e certamente dei quattro, se
non altro per le scelte fatte, il più colpevole ero io. Ma a me
è toccata la vita, a voi la morte, io forse un giorno rivedrò i
miei cari fuori di qui, voi i vostri no, voi siete morti improvvisamente senza neanche il tempo di guardarvi dentro,
senza avere l’occasione per un ultimo saluto, di chiedere
perdono o abbracciare i vostri cari per un’ultima volta,
baciare la donna amata. Io forse un giorno potrò dire “ti
amo” a qualcuno, voi no. Nessuno merita di morire in quel
modo e non lo meritano gli innocenti e voi lo siete, non era
giusto neanche per me, ma quando ho creato un’aridità in
me stesso chiudendo tutti i rubinetti degli affetti, lasciando
solo quelli dei famigliari, mi sono reso conto di avermi ucciso, condannandomi… e con mascelle serrate dalla rabbia e
labbra inaridite dall’amarezza, ho parlato a me stesso e mi
sono detto:
68
69
Sebastiano Bontempo
Na na… Na na… Na na
A denti stretti ho rinunciato a chi mi amava, rinunciando così a vivere.
Vorrei amare di nuovo, più non ci riesco.
Ho lottato e ho perso.
Ho cercato di ricostruire, non ci sono riuscito.
Nel futuro ho sperato, non ci ho mai creduto.
Ho sprecato l’oggi, lottando per il domani.
Dei miei cari, non ho ascoltato il pianto di ieri.
Ho perso il senso della vita…
Di fronte alla mortificazione con fare vigliacco ho cercato di mollare, non ci sono riuscito.
Ponendomi così a carnefice della mia vita, armato da
una mente cieca, con anima pietrificata dalla povertà di
emozioni e animato da un profondo dolore.
Sai, Sebastiano, i tuoi famigliari sembra che abbiano sempre saputo della mia innocenza o almeno così si dice…
invece con i tuoi, Biagio, non è cosi semplice. Durante il
processo, a cui hanno partecipato, ho recepito molto rancore ed era evidente che sentivano il bisogno di toglierselo di dosso per alleggerirsi di quell’angoscia che li opprimeva. Io non l’ho mai recepito come odio, ma come
un’immensa sofferenza… anche quando l’hanno riversata
su chi non c’entrava niente, sacrificando sull’altare del
dolore due innocenti solo perché miei nipoti, “e siamo a
sei”. Loro non odiano, soffrono e basta… e io li ho sempre
compresi, i loro pensieri sono rivolti a chi gli ha ucciso il
figlio, spinti dal vuoto che si è creato nella loro vita e in
quella gabbia c’ero io!
In questi anni ho cercato memorie che ci unissero, non
riuscivo ad accettare il fatto che non ci fosse nulla che ci
legasse. Allora ho scavato, ho scavato nei miei ricordi e ho
trovato solo poche immagini lontane, sbiadite; per te,
Biagio, è stato più facile, ho ancora forti i ricordi della
scuola: qualche partita a pallone, a dire il vero non è che
eri poi tanto bravo, anzi… ricordo ancora le partite a biliardino, ci giocavamo “a puntata” e lì devo riconoscere che
ci sapevi fare…
Invece di te, Sebastiano, niente, nei miei ricordi il vuoto,
non fosse altro che per un’immagine catturata mentre con
altri ti accingevi a tornare a casa nella tua borgata
Sciortino, almeno credo, vista la vicinanza di una borgata
all’altra. Nella mia memoria emerge un’istantanea, era un
sabato… lo deduco dalle molte persone presenti, quindi
era giorno di mercato… avevi lo sportello della macchina
aperto mentre facevi salire altri amici o parenti, sono riuscito a ricostruire ogni movimento, ogni gesto fatto in quei
pochi secondi, una busta di plastica da sistemare di dietro,
il sedile della macchina alzato mentre con l’altra mano
tenevi ferma la portiera dell’auto. Sono riuscito a ricostruire tutto di quell’immagine, ogni volta la ricostruivo come se
cercassi qualcosa di nuovo, di diverso, ma non riuscivo a
capire, non comprendevo che ciò che cercavo era sempre
stato lì, non capivo perché ero accecato e non volevo accettare; adesso ho capito che quella sera è nato qualcosa di
molto forte che ci legherà per sempre. Io non vedevo ciò
che di supremo si era incontrato nella morte, che cosa
potesse nascere nel più profondo dolore; quando quella
sera del 10 ottobre 2011 siete apparsi nella mia mente e nell’animo ho sentito qualcosa di forte, di vero, voi avete posto
un sigillo di amicizia e mi avete detto: “Noi siamo tuoi
amici”; allora ho capito, voi siete sempre stati con me e
come due amici mi avete lasciato libero anche di provare
rancore per non so cosa, perché sapevate che era solo per
un po’; così fanno gli amici, ti stanno vicino e basta, senza
giudicarti, se sei triste ti sorridono per rallegrarti, se sei nell’angoscia ti rallegrano l’animo, se sei a terra ti aiutano a
rialzarti, il tutto con semplicità e delicatezza. E quando toccherà a me, io so che voi sarete con me ad accompagnarmi
all’ultima profonda e intensa esperienza, che con modo
rapido e repentino non avete potuto affrontare… e io tra
70
71
una partita a calcio e una corsa, tra una pizza e una birra
mi accingo ad affrontarla aspettando l’ultimo tocco di campana, cercando di immaginarla con il viso limpido, pulito,
sereno, reso raggiante dal bianco vestito, con un corpo sensuale, eccitante, dai seni rosa resi visibili dalle candide vesti;
con lucidità di mente e animo sereno, canticchiando un
semplice “Na na… Na na… Na na”, voglio abbandonarmi
al suo abbraccio per l’eternità. Non importa quando o
dove, conta solo il come, e se ad attenderci ci sarà un
uomo… beh, pazienza, vorrà dire che ne trarranno piacere le donne. E quando ci rincontreremo potremo scherzarci sopra e raccontarci tutto, anche quello che già si sa… e
intanto tra un caffè e una sigaretta non fumata, tra il sì e il
no di una donna, tra un tornante affrontato e un cambio
di marcia, tra una accelerazione e una sbandata, vorrei
tanto ritrovare l’amore che più non ho…
72
Stefano Diana
Giornata tipo del detenuto medio ad Alghero
Signori e soprattutto signore della giuria. Appena sono
nato mi hanno dato il nome di Stefano, che in greco vuol
dire corona, che bello! Ma anagrammando questo bel
nome viene fuori nefasto! Se è vero, come dice qualche
scienziato pazzo, che dal nome si può capire il futuro di un
individuo, mi viene il dubbio: stai a vedere che ’sto pazzo
con me ci ha preso in pieno ?
Di cognome faccio Diana, immaginate come sono cresciuto dai tempi della scuola con questo benedetto cognome e con tutti gli sfottò a seguire: la marca delle sigarette, la
moglie di Carlo, la vecchia 2CV, la dea della caccia e altro.
Sono da oltre dieci anni in carcere, e da otto stabilmente qui ad Alghero, quindi ho vissuto i massimi livelli raggiunti dal carcere e i minimi intesi come condizioni buone
e pietose di vita. Sono un attento osservatore di tutto ciò
che accade, nonostante la miopia, e non è una battuta ma
la realtà; alcuni mi chiamano dottore per la mia laurea e
per prendermi per il culo (si può dire culo?), altri topo di
biblioteca, e non solo perché sono il bibliotecario del carcere, ma anche a causa dei miei incisivi.
Detto questo, vi racconterò le stranezze del carcere di
Alghero e la giornata tipo del detenuto medio. Attenzione,
sono cose verissime, ma raccontate, spero, con un pizzico
di sano sarcasmo, perché a mio parere potrebbe risultare
patetico parlare di carcere in maniera irrazionale come
fanno sempre i media.
Ah! Un’altra cosa, certo sarebbe il colmo se fra i giurati
ci fosse qualche giornalista! E pensare, un altro paradosso,
73
che se Dio vuole a breve lo sarò anch’io. Com’è strana la
vita!
La giornata tipo del carcerato medio nel carcere di Alghero inizia circa alle sei del mattino. Appena apre gli
occhi, la mano come per incanto vola al telecomando, e
inizia la kermesse dei telegiornali: senza sapere che sono
gli stessi della sera prima. Il carcerato medio è iperinformato su quello che accade nel mondo esterno. Peraltro
tengo a precisare che la comprensione è quasi nulla, che le
notizie vengono tritate dal cervello del carcerato medio e
poi vengono riferite in modo completamente diverso agli
altri ospiti dell’hôtel!
A questo punto la cella si zittisce completamente: “C’è
l’oroscopo!” In un silenzio quasi mistico si ascolta questa
sorta di oracolo divino che viene sciorinato segno per
segno: da lì dipenderà l’orientamento giornaliero. Dio non
voglia che possa predire incontri femminili, verrebbero
attesi con spasmodica trepidazione per tutte le 24 ore.
Adesso arriva il meteo. Anche questo viene ascoltato in
religioso silenzio, perché credo che ogni detenuto sia
meteoropatico. Che piova o che splenda il sole qua dentro
non cambia proprio nulla, ma il carcerato medio discute
almeno per una sessantina di minuti su quello che sarà il
tempo odierno. Attenzione! Vi potreste imbattere nell’esperto di turno, e allora ci saranno prove e controprove
sullo spirare dei venti, sullo schiarirsi del cielo e altro.
Iniziano le pulizie.
Non sono vere e proprie pulizie, sembrano più che altro
la pulizia post tornado. Dovete sapere che all’interno di
questi hôtel disseminati in tutta la penisola le pulizie non si
fanno in maniera normale, ma si allaga tutto, e solo quando una schiuma bianca inizia a vaporizzarsi ci si può ritenere soddisfatti, si raccoglie l’acqua e si asciuga. È come essere in una sala operatoria perfettamente asettica. Ah,
dimenticavo: il tutto non si effettua con i normali detersivi
ma con una sorta di miscela di dentifrici, saponette e quant’altro, per conferire un odore gradevole.
È chiaro che l’ingresso nella sopraccitata sala operatoria
asettica è rigorosamente vietato per almeno un’oretta!
Tengo a precisare che il trillo del telefono è onnipresente: ad ogni minuto, trilla e ritrilla senza sosta. È arrivata
l’ora dell’aria. Come un sol uomo ci si ammassa al cancello
della sezione – neanche alla corrida di Pamplona c’è una
ressa simile – all’urlo di quel signore vestito di blu, che poi
è quello dotato di fascio laser che per tutta la notte ti ha
inondato i bulbi oculari. Correndo e calpestandosi gli uni
con gli altri, è già iniziata la lotta per la conquista della
sedia e del tavolo. Nel contempo venti gladiatori entrano
all’interno di una sorta di gabbia completamente chiusa.
L’attività fisica del carcerato medio è iniziata. Rischia di
essere una sorta di prova di resistenza tipo quelle a cui i
marine americani venivano sottoposti prima di partire per
le giungle vietnamite: chi corre vorticosamente intorno al
campo, chi si solleva con fare scimmiesco appeso a una
sbarra, chi fa serie interminabili di flessioni, rischiando un
collasso cardiocircolatorio.
Nell’altra gabbia più grande si sono già scatenate delle
regolar tenzoni al gioco delle carte, perché qua dentro una
partita a carte non è una partita a carte, di modo che il
tempo possa scorrere veloce: è una sfida all’ultimo sangue
da cui dopo dipenderà il ludibrio pubblico del perdente.
Ore 11.00, scatta il rientro.
I gladiatori dell’arena, stanchi e affaticati, trascinano le
gambe, i perdenti delle sfide a carte vengono derisi e additati come avversari di poca consistenza.
Si mangia.
Il pranzo non è importantissimo come la cena, che come
in ogni famiglia patriarcale dev’essere consumata tutti assieme. Ma andiamo alle ore 13.00, la solita scena della ressa si
ripete, ma invece di avere a che fare con venti gladiatori
74
75
desiderosi di un fisico asciutto e muscoloso abbiamo di
fronte venti pseudogiocatori di calcetto. Non fatevi ingannare dal loro abbigliamento: indossano magliette di ogni
sorta, “Messi”, “Ronaldo”, “Borriello”, “Buffon”, “Totti”, per
poi rappresentare quello che è la pochezza calcistica. Messi
che sbaglia un tiro al volo elementare, Buffon che viene trafitto in mezzo alle gambe, Totti che sbaglia elementarmente uno stop, dalla gabbia più grande fischia e urla arrivano
grevi. Sono gli spettatori. Dovete sapere che il carceratospettatore calcistico medio è una sorta di guru del calcio a
cui non sfugge nulla, che con pillole di saggezza urlate a
trecentomila decibel fa scattare i suoi pupilli sulle fasce o al
centro, e a ogni gol segnato si pasce come un castoro nell’acqua, o meglio gongola come una donnola che ha appena affondato i denti nel collo della sua vittima.
Nel frattempo le prime urla di dolore vengono dai feriti
dell’arena, guaiti che gli ippopotami del Serengeti cacciati
da orde di cacciatori non riuscirebbero a produrre. La kermesse dura fino alle ore 15.00.
C’è una risalita alquanto lenta, durante la quale i feriti
dell’arena vengono sostenuti a braccia dai loro compagni e
i guru dispensano ultime pillole di saggezza calcistica al cui
cospetto Mourinho impallidirebbe, ma la trasformazione
sta per avvenire. Il guru sopraccitato si trasforma in una
sorta di fisioterapista consumato, e pretende di lenire ogni
dolore; allora entrano in gioco i più antichi e rudimentali
metodi di massaggio muscolare. La cosa più oscena è che
non è permesso fare la doccia immediatamente, ma devi stagnare nel tuo sudore per circa un’oretta per poter essere
ben macerato e consumato dall’odore ascellare. C’è anche
chi per ovviare a questo problema si mette in mezzo alla corrente, rischiando una broncopolmonite fulminante!
Alle 16.00 si aprono i cancelli della stanza adibita alle
docce. Armati di asciugamani, secchi e saponi ci si riversa
tutti all’interno; nel giro di qualche secondo un vapore
denso e bianco avvolge la stanza. Finita questa delicata ope76
razione di lavaggio personale si rientra candidi e puliti
come pulcini.
Se normalmente all’esterno una giornata di 24 ore è vissuta in ogni ora, in questo tipo di hôtel si accorcia sensibilmente. Dopo le 17.00 è come se si fosse in una sorta di
limbo oscuro che avvolge ogni cosa nelle sue nere spirali. Si
chiude tutto, c’è chi è convinto che mangiando alle 17.00
si digerisca più facilmente, senza però contare il fatto che
alle 21.00 la noia ti fa tornare fame.
Dopo aver cenato con molta cura e attenzione, arrivano
i programmi in prima serata. Non è strano che spesso si litighi per accalappiarsi il telecomando o per decidere cosa
guardare, ma fra i carcerati medi c’è anche del buon senso.
Chi vince a carte decide il programma in prima serata.
Tutti sono d’accordo, la sfida inizia alle 21.00 per terminare alle 23.15. Avete letto bene, la sfida per chi decide che
cosa guardare in TV termina nello stesso istante della fine
della programmazione della prima serata!
Di notte si sentono i gemiti più strani da chi dorme nelle
camere, ma non siamo solamente noi a occupare l’hôtel
alle due di notte, no, ci sono anche degli strani signori:
sono gli stessi che ci aprono e ci chiudono le porte, e per
puro spirito buonista a ogni ora della notte controllano con
la loro pila che tutto vada bene, accertandosi che il fascio
laser sia diretto verso le orbite oculari.
Spero di avervi non dico divertito, ma almeno fatto sorridere su una realtà triste come quella del carcere, e non perché sono un cinico spietato, ma semplicemente perché
credo che il sale della vita sia appunto quello di cercare
anche nelle situazioni più disperate qualcosa che perlomeno ti faccia sorridere. Ve lo dice chi in carcere ha buttato
via i migliori anni della sua vita.
77
Alberto Guarino
Il Teatro (l’abbraccio di ferro)
Siamo nella sala polivalente, Enrico e la coordinatrice
già sono qui, entusiasti, pronti ad avere ulteriori conferme.
Noto gli sguardi di Enrico che comprendono il mio malessere senza però sapere da dove venga, quindi attende con
discrezione che gli confidi la fonte. Lo evito, so per certo
che riuscirebbe a mediare una qualsiasi soluzione, ma io
non ho bisogno di un ripiego. Il mio interesse è che si
metta l’accento sul mio pensiero, io voglio parlare di dignità ed è per questo che il secondo atto è tutto imperniato
sulla lettura dei primi dodici articoli della Costituzione.
Voglio far comprendere come anche in un posto come
questo ci siano dignità e amor patrio, quindi non posso
permettere che una qualsiasi derisione inconscia infici
questi concetti.
Arriva finalmente Andrea, partiamo con le prove, giunge
il momento topico e alle prime risate chiamo lo stop. Investo Andrea, Enrico e la coordinatrice con le mie motivazioni, denuncio il disagio, ma quale grande professionista
fosse Andrea, questo non l’avevo ancora capito. Mi ascolta
e con la semplicità che è figlia di grossa competenza ed
esperienza mi dice: “Sei tu l’autore, fai quello che vuoi”.
Siamo diventati una squadra!
Siamo agli sgoccioli, il 1º giugno ci sarà la rappresentazione. Il cast è quasi pronto, siamo riusciti a mettere in scena
una tipica situazione storica italiana, con rappresentanti di
tutti i Paesi: moldavi, albanesi, argentini, marocchini e logicamente italiani. Sembrava un’impresa impossibile, ma ci
siamo! C’è solo una pecca: uno dei personaggi deve rappresentare un ubriacone che confrontandosi con un intellettuale deride un articolo della Costituzione. Quelle risate mi
infastidiscono. Enrico e la coordinatrice tentano di salvaguardare la struttura organizzativa, pensando che un ulteriore cambiamento, dopo tante prove, possa mettere in discussione la riuscita dell’opera, forti anche dell’entusiasmo
di Andrea.
Non ci riesco. Quella risata offende la Carta Costituzionale. Gli attori non sanno, in quanto stranieri, io lo so cosa
vuol dire quel dettato.
Conosco bene da dove nasce, la sua saggezza è figlia di
sofferenze, secoli di storia vissuti alla ricerca del risultato
finale, benessere e democrazia. Guerre, dittature, leggi razziali, despoti goffi che hanno ferito la nostra Italia hanno
creato la memoria, ed è su quella memoria e su quella cultura che è nata la Costituzione… E io non posso accettare
che ci si rida sopra, anche se inconsapevolmente.
Domani ne parlerò con Andrea e dovrà trovare una soluzione, costi quel che costi.
Stamani è la penultima prova: sono decisamente arrabbiato per questa situazione e voglio cambiare ancora una
volta il testo.
Il fatidico giorno è arrivato.
Gli interpreti vengono chiamati prima per recarsi nella
sala polivalente, la compagnia è formata da quattordici
attori, Enrico e la professoressa Brosio sono arrivati prima
di tutti. L’emozione si taglia a fette tanto è intensa.
Qualcuno mi chiede se sia il caso o meno di effettuare
un’ultima prova, mi oppongo categoricamente poiché è
bene sfruttare l’adrenalina dell’emozione per ottenere il
massimo. Faccio avanti e indietro sul palcoscenico a sipario
chiuso cercando di trovare la concentrazione, frattanto le
poltrone cominciano a essere occupate e per non farci intimidire nessuno sbircia attraverso i due teloni del sipario.
78
79
Finalmente completato il parterre, gli agenti danno il
via. Esco sulla ribalta a telone chiuso e inizio: “La celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia ci ha visti
tutti coinvolti in commemorazioni, ricordi e sublimazioni
di quei valori che hanno fatto del nostro Paese uno Stato
unitario, ma, come sempre accade, ideologia e pratica si
manifestano con volti differenti e cioè i sogni, trasformatisi in realtà, contengono il sapore amaro del risveglio in circostanze mai prese in considerazione. La parabola storica
che meglio traccia il sentiero da come eravamo a come
siamo diventati è disegnata da personaggi sui generis come
Giolitti, che nulla aveva a che fare con il Risorgimento, al
quale non aveva partecipato, né con la Carta Costituzionale, nata in un’epoca in cui il futuro non era ipotizzabile in quanto era tutto da ricostruire. Questa rappresentazione offre lo spunto a riflessioni su come eravamo e che
cosa è dovuto succedere per raggiungere i traguardi di
democrazia e libertà tanto agognati, ma anche su come un
seme piantato in un terreno malato abbia portato conseguenze tanto deleterie. E su questa evidenza siamo portati
a chiederci come si possano superare i problemi di crisi
economica e politica dei nostri giorni. Chiediamolo a chi li
ha superati in un momento più difficile e meno moderno.
Nel ringraziare gli astanti per la partecipazione e nella
sicurezza per le emozioni che scaturiranno dai ricordi della
nostra Storia, ci auguriamo che la messa in scena sia di
vostro gradimento e, se sì, raccontatelo a tutti. Se invece
no, raccontatelo ugualmente. Farete in modo di annoiare
un pubblico più vasto e di non essere i soli a dover subire
questa punizione!”
Applauso, si apre il sipario e tutto ha inizio. L’applauso
che chiude il primo atto è strepitoso, gli occhi della prima
fila, formata da importanti cariche dello Stato – procuratore della Repubblica, sindaco, direttore dell’Istituto, ufficiali di Marina, Finanza e Carabinieri, manca solo il magistrato di sorveglianza –, sono fra lo stupefatto e l’entusiasta. Nel
retropalco prepariamo la scena per il secondo atto. Srotoliamo il lenzuolo con il frontespizio di Montecitorio disegnato nelle settimane precedenti con pastelli a cera, ci posizioniamo alla rinfusa, come alla rinfusa saranno citati gli
articoli della Costituzione. A uno a uno gli attori componenti il global-cast incominciano a declamarli. L’emozione
è straordinaria, l’inflessione linguistica denuncia la loro
provenienza, ma è tale e tanto l’impegno con cui vengono
citati a memoria che a ogni finale d’articolo il pubblico
applaude entusiasta.
Inizia il dodicesimo articolo, quello che definisce la bandiera italiana. Alla fine della declamazione uno dei due
agenti preposti alla cerimonia dell’alzabandiera ordina l’attenti; Enrico, che ha curato con cura le colonne sonore
della rappresentazione, fa partire anche l’inno di Mameli e
si inizia così la cerimonia.
Tutti, anche in platea, si alzano in piedi per rispetto.
Le note dell’inno accompagnano il lento incedere della
bandiera sull’asta e brividi di commozione e orgoglio pervadono tutti i presenti. All’ordine del riposo l’applauso è
delirante.
La chiosa l’ho destinata a me e, raggiungendo la ribalta,
inizio: “Ho fatto il militare e simili cerimonie hanno un
peso emotivo tale da avere la capacità di influire sull’animo
umano anche dopo tanto tempo.
Questa bandiera è stata il vessillo di tante guerre, di tanti
atti eroici. È l’emblema di una storia pluricentenaria che oggi
ci offre un’identità, e questa non è oggettiva: è straordinariamente presente in ognuno di noi e quei brividi emozionali
che al saluto della bandiera ci hanno pervaso sono testimonianza dell’esistenza in noi della dignità, che dovremo sicuramente riconquistare all’interno della società civile, ma che
esiste. Era solo nascosta. È sulla scia di questa dignità fatta di
amor patrio e sentimenti di unità che è nata la Costituzione”.
80
81
•
•
•
Il monologo prosegue con citazioni storiche e riconoscenza
nei confronti di un’epoca speciale e di gente speciale che
con la sua cultura, esperienza e consapevolezza della serietà
del compito assegnatole ha costruito le basi del Dettato
Costituzionale. Concludo con una battuta quasi di rito e
affermo: “È straordinario pensare che all’interno di un carcere si parli di morale, etica, Costituzione e dignità, mentre
a Montecitorio hanno dimenticato di che cosa si tratti”.
La sala polivalente è venuta giù!
Il successo di questa messa in scena è il frutto degli sforzi e della volontà di gente che è capace di abbattere qualsiasi pregiudizio, evidenziando come sia possibile collaborare
e realizzare un’opera, comprendendo che non è la capacità del singolo l’indispensabile ingrediente per il successo,
bensì la compartecipazione, dove ognuno si assume la paternità di ciò che sta facendo. A mio modesto avviso, alla
luce anche delle innumerevoli attività che ho gestito entro
le quali ho formato la mia esperienza imprenditoriale, il
teatro, visto sotto un altro aspetto e cioè quello produttivo,
è l’unico lavoro che offre la possibilità di esprimere al
meglio il concetto di coesione. Spesso nelle locandine pubblicitarie o nei titoli di coda si leggono elenchi di partecipanti, ebbene io credo che dal primo all’ultimo lavorino
indispensabilmente per la riuscita di quel mosaico che lo
spettacolo offre in tutta la sua mirabilia.
Ma... siamo in carcere, siamo carcerati, siamo gli ultimi!
Cosa accade nella psiche dell’uomo?
Per quale inspiegabile, divino, trascendentale naturale
input si possono spiegare questi eventi?
Vorrei parlare con lo straordinario dottor Morelli, per
capire qual è questa magia. Sicuramente mi parlerebbe di
libero arbitrio, di immagine segreta, di maschere che ognuno di noi continua a indossare, di una forza originaria e
sconosciuta che ci guida (vedi Puoi fidarti di te).
A questo punto potrei allora sostenere che è l’ambiente
che, non offrendoci percorsi riconosciuti, ci indirizza a
scelte intellettuali deleterie, oppure potrebbe essere l’ignoranza, o ancora potrebbero essere quelle barriere che costituiscono naturalmente le differenze fra gli uomini e che la
nostra Carta Costituzionale ordina alla Cosa Pubblica di
abbattere.
No, non è un disegno, non è neanche conseguenza, bensì paura. Paura di prevaricazione, di miseria, di inettitudine, di non riuscire a essere bravo. L’emarginazione terrorizza le classi sociali, l’élite sicuramente non ha colpa, ma
certamente non ha voglia di globalizzazione, di comprensione, di solidarietà, troppo attenta a conservare il proprio
status piuttosto che a migliorarlo.
Sì, si migliora. Si cresce ponendo l’orecchio a chi chiede
aiuto e soprattutto a chi non lo chiede.
Leggendo di natura, apprendiamo che la vita si articola
su leggi di sopravvivenza e di selezione naturale: ma noi?
Siamo esseri intelligenti, abbiamo il dono del pensiero ed è
su quello che dovrebbe essere esercitato l’essere: Cogito, ergo
sum, penso quindi sono. Penso di voler essere un tassello di
un mosaico della società e se i miei spigoli, la mia struttura,
non si collocano in nessuno spazio, bisogna che la levigatrice della conoscenza, dell’esperienza, me ne offra uno.
A volte raggiungo la convinzione che certi luoghi di coercizione possano diventare officine dove l’essere umano,
attraverso la costruzione di viaggi che ne realizzano l’indole, può e deve offrire a ognuno la possibilità di riconoscersi. Non siamo macchine che uscendo dalla catena di montaggio difettate debbono essere rottamate. Siamo uomini
che hanno smarrito il senso, per paura, per bisogno, per
una qualsiasi causa efficiente. Quindi abbiamo bisogno di
chi ci viene incontro e ci offre la possibilità di riconquistare la dignità. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per
seguir virtute e canoscenza.”
82
83
Luana Merosi
A mia madre
Vorrei poter ricordare ciò che sembra non essere mai esistito, perché i miei ricordi più lontani sono quelli in cui tu
ormai non ci sei più.
Ricordo una signora che si faceva chiamare mamma, ma
che non sapeva neanche lontanamente cosa volesse dire
esserlo. Una donna che mi adottò non per il bene della
bambina che ero, ma per il solo desiderio egoistico di apparire una brava persona agli occhi della gente.
Vorrei poter dire che mi manchi, ma non puoi sentire la
mancanza di una persona mai conosciuta; però mi manca
poter parlare con una madre.
Le parole più sentite nella mia infanzia sono state: sei e
sarai come tua madre, una povera drogata e puttana, perché chi mi ha cresciuta ha fatto sì che non scordassi mai le
mie origini.
Ti ho odiata, giudicata e schifata come madre e a ogni
errore commesso ho dato la colpa a te, come se la mia
infanzia potesse giustificare ogni mia scelta.
Avevo all’incirca dieci anni e tuttora porto con me la
paura del buio, perché ogni volta che mi trovo nell’oscurità, risento i passi di quell’uomo che di notte veniva a prendermi per portarmi nel suo letto. Tenevo tutto dentro, perché pensavo di meritare ciò che mi veniva fatto, solo per
essere figlia di ciò che eri.
Ho guardato per anni gli altri bambini senza mai invidiare i loro giocattoli, ma solo le carezze e i baci a loro dati,
perché ciò che volevo era solo sentirmi amata come una
figlia da una madre.
84
Ho sognato per tutta la vita una famiglia tutta mia, giurando a me stessa che i miei figli non avrebbero passato ciò
che ho vissuto io… e ora? Ora sono io a dover essere giudicata, giudice di me stessa per aver commesso le tue stesse
colpe. Ho condiviso la vita con uomini sbagliati, consapevole che non erano uomini, ma bestie… uomini per cui ero
solo un oggetto. Mi sono fatta umiliare, menare, sempre
con la certezza di non meritare al mio fianco una persona
migliore. Ho sbagliato tante volte, nascondendomi sempre
dietro la scusa di non essere amata da nessuno.
Ora che mi trovo qui, tra queste quattro mura che mi
separano da tutto il resto, ora che anch’io sono madre e ho
dato in adozione la mia bambina, mi rendo conto di ciò
che hai sofferto e di quanto ti è costata quella scelta.
Non è stata tua la colpa di un’infanzia così sofferta, ma
della sfortuna di aver trovato una seconda madre non
degna di me, perché solo ora capisco di non essere mai
stata amata perché ero io la prima a non amare me stessa.
L’unica cosa che ora prego è che la storia non si ripeta, la
tua vita è stata la mia, i tuoi errori sono stati i miei, ma
spero che la mia bambina non sappia mai niente, che non
conosca mai le sue origini, perché il dolore più grande
sarebbe essere giudicata da lei.
Questa detenzione inizialmente sembrava essere la fine
della mia vita, ma posso dire che in realtà è ciò che ha cambiato e salvato la mia esistenza. Mi ha insegnato ad amare
me stessa e a farmi capire che né io né nessun’altra persona siamo in grado di giudicare le scelte altrui… E a chiunque come me abbia passato un’infanzia difficile per poi crescere in un mondo sbagliato ma voluto, posso dire che
niente e nessuno può stabilire o incidere il corso della
nostra vita, perché niente è scritto e non esiste un destino,
ma esistono le nostre scelte con le loro conseguenze…
85
Il 22 agosto 2011 ho vissuto un’esperienza che, considerato
il contesto in cui si è verificata, ha reso questa data memorabile. Quello che sto per raccontarvi è avvenuto dove, a
tutt’oggi, sono ancora recluso: il carcere di Volterra. Una
notte, mentre dormivo nella mia cella singola, ho avvertito
una strana sensazione: sembrava come se qualcosa mi stesse camminando sul corpo, o come se una mano mi toccasse, e non mi rendevo conto se stavo sognando o era realtà.
A un certo punto mi sono svegliato e subito ho cercato di
realizzare cosa fosse successo. Sicuramente non potevo
incolpare un compagno di avermi toccato, l’essere solo in
cella escludeva questa possibilità; l’incredulità e l’incertezza m’impedirono di riprendere sonno. Rimasi nel letto ma
ero molto turbato. Volevo assolutamente capire cosa mi era
capitato. Guardai l’orologio: erano le tre. Cercai di riaddormentarmi coprendomi il viso come di solito uso fare. Dopo
una ventina di minuti ho sentito un rumore e visto che mi
trovavo in uno stato di dormiveglia mi sono detto: no, stavolta non sto sognando, qui qualcosa non va. Dal letto guardavo tutta la cella, quando il mio sguardo si volse verso una
tenda che funge da divisore con il piccolo bagno. Mi sembrava che la tenda si muovesse, ma essendo buio non ne
ero sicuro; il rumore aumentava e, trascorsi pochi secondi,
vidi una massa grigia che volò dalla tenda e finì su un piccolo piano di marmo vicino al lavandino. Il volo si arrestò
in una fruttiera che vi era appoggiata. Era buio, ma qualcosa si riusciva a intravvedere perché un piccolo spiraglio di
luce filtrava dal corridoio della sezione; quindi era vero che
avevo visto volare qualcosa! I miei occhi erano fissi sul
marmo per capire cosa fosse, anche perché dopo quel volo
si era rifatto un silenzio tombale. Dopo un po’, con quel
filo di luce che penetrava dal corridoio, riuscii a vedere una
testolina che usciva dalla fruttiera, ma non mi rendevo
conto di cosa potesse trattarsi. Mi dava l’impressione di
essere uno scoiattolo, ma nello stesso tempo mi chiedevo:
com’è possibile che uno scoiattolo possa essere entrato in
una cella tutta chiusa? La cella e la finestra, oltre alle sbarre, hanno anche una rete di ferro dove a malapena ci passa
una zanzara. Nella mia testa c’era tanta confusione, almeno
fino a quando questo animaletto, uscito per intero dalla
fruttiera, tra mele e arance, cominciò a fissarmi, e io fissavo lui, e tutto questo durò una manciata di secondi. A quel
punto mi sono alzato dal letto e ho acceso la luce, ma sarebbe stato meglio se non mi fossi alzato perché, appena fatti
due passi, lo scoiattolo si spaventò e iniziò a saltellare sulle
pareti, sulle mensole e sugli stipetti di legno, facendo molto
rumore. Confesso che tra il sonno interrotto e la vista di
quell’animale che saltellava per tutta la cella mi sentivo un
po’ frastornato. Tuttavia mi armai di un bastone di legno,
anche perché non ero in grado di stabilire se l’animale che
si trovava al mio cospetto fosse velenoso o meno, e quindi
temevo per la mia incolumità. Superfluo aggiungere che
nella confusione generale i rumori aumentavano a dismisura. Nella cella di fianco alla mia c’era mio fratello, il quale
bussò alla parete e sottovoce mi disse: “Antonio, ma cosa
stai facendo a quest’ora di notte, non vorrai svegliare tutta
la sezione?” Risposi che avevo uno scoiattolo in cella, al che
lui ribadì che non era possibile e mi invitò a tornare a letto,
dato che lo scoiattolo sicuramente me l’ero sognato. Era
ovvio che nessuno ci credesse, ma era la verità. Dopo pochi
minuti arrivò l’agente che avevo chiamato, il quale mi chiese cosa potevo mai volere alle tre di notte. Quando gli dissi
dello scoiattolo in cella, lui, stupito di quanto asserivo, mi
rispose: “Ma non è che avete sognato o avete avuto un incu-
86
87
Antonio Russo
Una notte con il ghiro
bo?” Indubbiamente la sua meraviglia era dovuta alla consapevolezza che, essendo la porta della cella chiusa e blindata, era praticamente impossibile accedervi; da dove
sarebbe potuto entrare uno scoiattolo? E me lo ripeté più
di una volta, ma io replicavo che era tutto vero e che stava
nascosto sotto il letto. “Ora le faccio vedere” dissi all’agente e con il bastone della scopa cominciai a battere sotto il
letto per farlo uscire; ma lo scoiattolo non usciva. Dopo
aver constatato l’insuccesso del mio tentativo di stanarlo,
l’agente mi disse che avrebbe chiamato la sorveglianza.
Dopo un po’ ritornò comunicandomi che gli era stato chiesto se lui aveva visto lo scoiattolo. Ricevuta una risposta
negativa, anche l’addetto alla sorveglianza aveva ritenuto
che io avessi sognato. Per evitare di essere considerato un
visionario, cominciai con insistenza a battere forte sotto il
letto, finché di colpo lo scoiattolo uscì fuori e saltò sulla
tavola. Alla vista dello scoiattolo l’agente sobbalzò, chiuse
lo spioncino del blindato e si avviò nel corridoio per andare ad avvisare la sorveglianza. E mentre procedeva, forse
perché stupito da quanto aveva visto, urlava dicendo: “ È un
ghiro, è un ghiro!” A distanza di poco tempo l’agente ritornò e mi disse che aveva riferito alla sorveglianza di aver
visto l’animale, però si poneva un problema: a quell’ora di
notte le chiavi della cella erano custodite nell’ufficio sicurezza, ragion per cui avrei dovuto convivere con il ghiro
fino alle ore 7.30, poiché prima non era possibile intervenire. Iniziò cosi la mia lotta con il ghiro. Lui scappava per
la cella e io, anche se un po’ mi dispiaceva spaventarlo,
volevo prenderlo. Dopo più di due ore di battaglia escogitai uno stratagemma che mi permise di bloccarlo in un
angolo; infine mi avvicinai a lui con un secchio in una
mano e il coperchio nell’altra. Il ghiro nel tentare la fuga
entrò nel secchio, che provvidi subito a richiudere; dopodiché appoggiai il secchio sul tavolo e vi posi sopra una cassa
d’acqua per non farlo uscire. L’averlo neutralizzato mi
tranquillizzò e quindi cercai di recuperare un po’ di sonno
in attesa che arrivasse l’ora stabilita. Alle 7.30 si presentò
davanti alla mia cella l’agente con un suo superiore in
grado e mi chiesero dov’era il ghiro. Risposi loro: “È qui nel
secchio”. Aprirono la cella per farmi uscire con il secchio.
Il mio vicino di cella, incuriosito, volle vedere l’animale
che aveva provocato tutto quel trambusto. Spostando con
cautela il coperchio del secchio glielo feci vedere e lui
meravigliato esclamò: “ Mamma mia com’è bello, com’è
curioso”. Io – che indossavo ancora il pigiama ed ero in
ciabatte – e l’agente ci recammo in fondo al corridoio
dove c’era una finestra. Mi accorsi che, oltre ad avere le
classiche sbarre, era munita di una grata molto stretta, e
dissi: “Agente, questo da qui non può uscire”. Infatti nel
tentativo di farlo il ghiro scappò per il corridoio e per rincorrerlo persi una ciabatta e dietro di me c’era l’agente
che correva, e correvamo dietro al ghiro che, impaurito, si
stava dirigendo verso un ragazzo che era addetto alla pulizia del corridoio. Questi, vedendolo, si impaurì a tal punto
che, lasciati per terra tutti gli attrezzi, si lanciò di corsa
verso la sua cella.
88
89
Scoprendo un nuovo ambiente, aprendo lo sguardo verso
la realtà del carcere, insieme al bagaglio di apprensioni,
dubbi e paure ci si pone alla ricerca, sia per trovare il proprio spazio sia per scoprire la realtà che ti circonda.
L’occhio si ferma su alcune forme geometriche di varia
grandezza: il quadrato, il rettangolo, l’angolo retto… Tutto
richiama queste figure: le finestre, la porta blindata, il passeggio, la cella, i lunghi corridoi, il muro di cinta, la struttura stessa nella sua ferma, statica presenza.
Quante volte ci si ferma a guardare il cielo con le nubi
continuamente in movimento in uno spazio libero, l’ondulato presentarsi dei monti con la vegetazione piegata dal
vento, il librarsi di un gabbiano che disegna ampi cerchi o
resta immobile sostenuto dalle correnti, e subito dopo si
mette a fuoco che il tutto è spezzettato dalla fredda geometria delle sbarre?
Camminando durante l’ora d’aria, per non lasciarsi sopraffare dalla spigolosità dell’angolo, si inventano percorsi
nuovi, forse ripensando a quelle scelte che nella crudezza
della vita o nella debolezza della natura ci hanno portato a
essere anche noi così duri e spezzati nell’intimo. Cerchiamo
passo dopo passo la curva che addolcisce, la pausa che ci
ristora, il cerchio dei compagni che ci distrae e rasserena.
I rapporti umani sono mediati anch’essi da questa geometria attraverso l’arrivo della posta tanto attesa e desiderata, la consegna della spesa (a volte frutto dei nostri risparmi e dei sacrifici dei nostri cari), il carrello del pranzo; passano tutti attraverso quel rettangolo della porta blindata,
piccolo spazio dal quale penetrano i rumori e le voci della
sezione e dal quale si comunicano bisogni e desideri.
Nei momenti di riposo o durante la notte, mentre lo
sguardo è rivolto verso l’alto, per un pensiero o una preghiera, incontra l’angolo del soffitto e della parete e sembra quasi cercare un piccolo spiraglio interiore per intravvedere quella novità di vita che ci aspetta. Allora paure e
ansie, ma soprattutto speranze e progetti modificano gli
spazi e riescono ad addolcire quei punti acuminati che
spesso trafiggono l’anima.
Non solo la maggior parte delle cose comuni rispecchia
questa geometria, ma spesso ne risente anche il corpo.
Nell’angusto spazio della cella quanti colpi negli spigoli del
tavolo o gomitate nelle porte, i quadrati di legno delle ante
degli armadietti ti aspettano quasi in agguato per aggredirti alle spalle!
Gli sgabelli privi di schienali, che richiamano piccole
piramidi atzeche, fanno rimpiangere le comuni sedie di
casa dopo soli cinque minuti!
Dalla geometria che osserviamo intorno a noi ci accorgiamo che tutto è una “storia”, un susseguirsi di avvenimenti personali inseriti in un contesto ben preciso di tempi e
luoghi diversi.
Queste storie che si intersecano con altre lasciano tracce
o ferite, a volte profonde a volte quasi impercettibili, nella
grande storia dell’umanità, ma hanno tutte un comune
denominatore, quello di essere vere.
Le vicende personali fanno mettere in secondo piano
quelle degli altri, ma se ciascuno di noi fosse così sciocco da
credere che si può vivere senza chi ci circonda, la storia di
ognuno non solo sarebbe riduttiva, ma perderebbe anche
il proprio valore.
Ecco perché è importante vivere e condividere in carcere, costruire e non subire, essere parte attiva e non solo passivi testimoni di un tempo che inesorabilmente trascorre e
sembra volerci dominare con il suo peso. Occorre non
90
91
Riccardo Seppia
Impressioni sulla vita carceraria
stare seduti a guardare con apatia, sentirsi presi dallo sconforto e ripetere “è finita”!
La nostra storia non è alienazione ma costruzione, non è
sconfitta ma riscatto perché è fatta da protagonisti e non da
succubi. Se questo vale per i grandi avvenimenti ancora di
più deve valere per le persone che dignità, forza, capacità
e valori rendono soggetto fondamentale e non oggetto da
usare nei sistemi economici o politici.
Quante volte anche in carcere siamo impegnati a fare le
mille piccole cose del nostro quotidiano, presi come tante
formiche che si affannano e accumulano senza mai alzare
un poco la testa per vedere “oltre”.
Ci scontriamo ovviamente con le difficoltà e le problematiche del giorno per giorno, soprattutto in questo luogo di
sofferenza e dolore, di redenzione e riscatto, ma questa è
una sfida che ci interpella perché siamo Uomini e non semplici corpi senz’anima, costruttori di esistenza e non solo
squallidi consumatori di noi stessi o del nostro prossimo.
La prima riconquista della libertà non parte dal momento
in cui mettiamo il piede al di là del cancello, ma da quando
riusciamo ad aprire uno spiraglio di luce nel nostro intimo.
Ecco perché dobbiamo scoprire la nostra spiritualità,
che ci porta in due direzioni: una ci spinge verso il nostro
intimo, l’altra verso l’infinito, una fa guardare “dentro” e
l’altra “in alto”.
Il nostro sguardo si spinge a volte nello spazio della cella,
a volte oltre le sbarre, ma riusciamo a vedere chiudendo gli
occhi?
La visione spirituale non esclude la scienza, anzi concilia,
e questo ci porta alla chimica del carcere: esperimenti straordinari, scoperte nell’infinitamente piccolo o nel macrocosmo, reazioni che scatenano energie più o meno pulite, non
siamo in un film di fantascienza ma nella concreta quotidianità di un laboratorio dove si effettuano ricerche a volte
utili e a volte distruttive per noi e tutta l’umanità.
La chimica influisce direttamente su quello che viviamo
e non si tratta solo di boccette di liquidi colorati o di fumi
che escono da strani alambicchi; noi comunichiamo, recepiamo, scambiamo informazioni e sensazioni tramite le
emanazioni del nostro essere.
Possiamo dire che in carcere vengono naturalmente generati e immessi nella nostra persona dei ricettori e trasmettitori speciali che amplificano e stimolano il vissuto.
Tutte le formule risultano complesse, ma se abbiamo la
padronanza della materia riusciamo a comprenderle e spiegarle, ed è quello che cercherò di fare in questo speciale
“laboratorio” che si chiama casa circondariale di Sanremo.
Occorrono vari elementi che miscelati tra loro interagiscono: il nostro carattere, le esperienze vissute, le persone
che hanno condiviso con noi un cammino, la società, le difficoltà, le paure, i successi e le conquiste, gli errori e gli
eventi imprevisti.
Queste miscele, che non sono altro che il nostro reale
essere, diventano formule; ogni singola sostanza crea combinazioni uniche e a volte irripetibili o essenze capaci di
modificarci la vita.
Come lo studio della chimica permette all’umanità di
compiere grandi progressi per migliorarne l’esistenza, così
può far scoprire mezzi capaci di distruggerla!
Noi piccoli scienzati pazzi, non abbiamo forse fatto lo
stesso?
Quante volte abbiamo detto “se avessi fatto così…” oppure “sarebbe bastato che…” e infine “se mi fossi fermato
prima…”?
Continuando la riflessione estemporanea sulle “materie
scolastiche” applicate alla nostra vita constatiamo quanta
importanza rivesta l’aspetto economico e con quante angolazioni nuove si ponga nel quotidiano. Non parlo qui dei
grandi sistemi economici postcapitalistici o dell’involuzione
e impoverimento dovuti alla globalizzazione e all’imposizione di poteri forti, ma della capacità di noi, piccoli e poveri
uomini, di confrontarci con il quotidiano tirare a campare.
92
93
L’economia del carcere si sintetizza in bisogni primari
senza le assurde influenze e sovrastrutture della vita in libertà, quasi un recupero del necessario e una riscoperta della
solidarietà umana.
Chi non ha mai condiviso la spesa settimanale con i compagni in difficoltà, offerto una sigaretta o prestato un capo
di abbigliamento?
Si pone attenzione a non sciupare tutto quello che l’amministrazione penitenziaria ci offre e a rispettare gli spazi
comuni anche distribuendo equamente il carrello del
pranzo, spegnendo le luci, mettendo il nostro impegno per
servizi come la biblioteca, il giornalino, la cura dei giardini
e molto altro.
Quanta cura si mette nel compilare il quaderno della
spesa per essere equi e parsimoniosi! Sembra di rivedere
i nostri nonni che contavano il centesimo e non sprecavano nulla, insegnando molto tempo prima dei dibattiti
televisivi un intelligente riciclo e un’attenta distribuzione
dei beni.
Si aspetta il fogliettino del conto corrente per vedere
cosa resta, se è sufficiente ad andare avanti con la paura di
non farcela, di dover chiedere ad altri o di non poter aiutare l’amico.
Ci troviamo a fare continui conti e salti mortali per raggiungere anche noi un “pareggio di bilancio”, una tranquillità economica, un vivere sereno.
Sicuramente questi problemi sono importantissimi, qualcuno dirà che non si mangia con le belle parole o i grandi
principi, ma vi sono delle domande alle quali dobbiamo
rispondere: ci accontentiamo del materiale o vogliamo cercare un nuovo equilibrio e la dignità personale? Ci ricordiamo di un’economia del nostro essere e non solo del
nostro dare e avere? Riusciamo a redigere un bilancio interiore mettendo in chiaro le cifre delle perdite o i profitti
della nostra esistenza?
Non dobbiamo dimenticare che il termine “educazione”
comprende anche il fisico, in quanto qualsiasi allenamento
del nostro corpo esige una disciplina, un autocontrollo e
una costanza che sono propri della natura umana.
Il tempo da dedicare allo sport “dentro il muro” è molto
importante, sia per non lasciarci andare fisicamente, vista
l’impossibilità di movimento, sia per mantenere un equilibrio psichico attraverso le valvole di sfogo della palestra e
della partita di calcio.
Un corpo sano aiuta la nostra parte cerebrale a rimanere
in un giusto equilibrio, corroborandola, e una mente allenata, pronta e reattiva ci invoglia a portare lo stesso equilibrio nel nostro fisico.
Se viene a mancare questa giusta miscela si assiste a un
deperimento che trasforma le persone in morti viventi.
Questa situazione genera un’apatia anche intellettuale e
spesso si perde la voglia di una bella e sana lettura, che
oltre a distrarre e liberare la mente permette di usare dei
grandi doni che si chiamano fantasia e immaginazione.
Entrando per la prima volta all’interno di queste mura
ho fatto una scoperta che mi ha scioccato, erano decenni
che non scrivevo una lettera a mano!
Mi sono accorto che ho sempre usato la penna per piccoli appunti o firme, mentre i miei pensieri, come ora, li ho
sempre portati direttamente sulla tastiera del computer. La
cosa mi ha dato da riflettere, riportandomi a prendere possesso della mia scrittura e all’impegno di costruire e scoprire una letteratura carceraria.
Il primo esempio è stato quello dei graffiti nelle celle di
attesa, dove tra frasi in molte lingue ed epiteti “coloriti” traspaiono rabbia e sofferenza, scherno e rivalità, preghiera e
ribellione: un vero libro aperto sul mistero della natura
umana e sul suo modo di manifestarsi.
Non so se queste frasi, comuni a molte celle visitate nel
passato in tutta Italia, diventeranno storia come nelle segrete dei palazzi o nei fondi di qualche castello medievale, ma
sicuramente sono storia vissuta, forse un giorno ricoperta
94
95
da uno strato di pittura per lasciare un foglio bianco che
diventi una nuova pagina da comporre.
Strumento privilegiato della nostra letteratura sono i
block notes: 60 fogli con 35 righe da riempire scrupolosamente fronte e retro giorno dopo giorno, fogli che come
magici tappeti volanti portano fuori di qui sentimenti e
amore, desideri e speranze, richieste di aiuto e disperazione, pagine spesso bagnate di lacrime o di baci, legame invisibile e concreto con i nostri cari.
In questa piccola biblioteca personale troviamo le cartelle con gli atti della nostra vita giudiziaria: mandati, istanze,
comunicazioni, richieste… Tutto burocraticamente perfetto, con timbri, bolli e controbolli, firme e controfirme,
pagine e pagine minuziose, resoconti a volte veri e a volte
forse no.
Seguono i quaderni o i fogli sui quali trascriviamo noi stessi, con un’alternanza di stati d’animo causati dal quotidiano
vivere e convivere, diari di vita o comunicazioni di sopravvivenza, sfoghi di paure e rabbie, inchiostro tracciato con
forza, tanto da voler imprimere non lettere ma noi stessi.
Ovviamente è importante vedere anche i libri reali che
circolano. Un aspetto interessante sono i prestiti della biblioteca, con al primo posto i romanzi, seguiti da fumetti e
libri gialli e per alcuni appassionati anche letteratura italiana e storia. Sono tutti sintomi del desiderio di liberare la
mente e lasciarla vagare nella fantasia, uscire per un poco
da queste mura per immergersi in mondi lontani e avventurosi, rileggere il passato per costruire un futuro, confrontarsi con situazioni e occasioni per trarne insegnamento.
Quello di cui abbiamo parlato sino a ora è la parte esterna della letteratura carceraria. I veri volumi da leggere e
consultare siamo tutti noi, dai detenuti agli agenti a coloro
che compongono questo mondo, perché il carcere è una
vera biblioteca con libri di diverso genere, con copertine
dalle dimensioni e dai colori più vari, con pagine a volte
sottili e trasparenti e a volte spesse e rigide scritte in diver-
si caratteri, con una propria posizione sugli scaffali della
vita che cambia a seconda della volontà di una mano misteriosa o dell’interesse per quanto vi è scritto.
Quindi anche il mondo carcerario è aperto allo studio e
alla consultazione: la quota di iscrizione non è molto alta…
Basta versare un poco di interesse, una parte di umanità,
qualche spicciolo di tempo, ma soprattutto la voglia di
entrare. L’ingresso è “quasi” libero, l’uscita… non lo so!
96
97
Sono una sbarra, la ruggine che indosso è il segno della
mia età. In uno strano modo la mia vita si misura in anni,
come la vita degli uomini. Però… io non sono come loro.
Non sono un essere umano. Non ho dei sentimenti. Non
provo emozioni. Non so cosa significa essere felice o triste,
arrabbiata o calma.
Forse vi state chiedendo: se non provo tutte queste emozioni come le conosco?
Quando vi ho detto che sono una sbarra, ho dimenticato di dirvi la cosa più importante: sono parte componente
di una grata… una grata di una finestra… una finestra di
una cella! Sì, una cella. La cella di una prigione.
Poiché la mia vita si svolge sempre accanto agli uomini,
ho avuto la possibilità di vedere, di sentire, di vivere insieme a loro e così mi sono interessata al loro mondo, divenendo parte di esso.
Spesso sento da parte loro che insieme, con tutto ciò che
c’è in questo mondo, provano a far sì che la vita sia più facile, si aiutano e si rispettano; condividono emozioni e cercano sempre di non pensare, anche di non parlare del luogo
in cui si trovano: la galera.
Sento che hanno un’etichetta. Una volta entrati in questo posto, in questo mondo, non sono più trattati come
esseri umani. Sono come animali, chiusi, privati di ogni
libertà, di ogni diritto. Mi sono chiesta: cos’è la libertà? Poi
ho avuto la risposta ascoltando le loro parole: la libertà è
quel valore che tutti gli uomini hanno come più importante nella vita, ma si rendono conto solo adesso di quanto
valga, solo adesso che l’hanno perso. L’etichetta che è stata
loro messa è quella di detenuti. Condannati. Per reati che
hanno commesso.
Reati? Condannati? Detenuti? Cosa significa tutto questo?
Che mondo è questo, nel quale anch’io sono coinvolta!?
Perché non riesco a spiegarmi cosa succede dentro di loro?
Ho visto uomini che hanno il viso bagnato. Bagnato? È
acqua? No, non è acqua, sono lacrime. Dicono che quando
hanno queste lacrime sul viso piangono. Alcuni di loro lo
fanno quando sono felici. Altri lo fanno quando sono tristi.
Nella mia lunga vita ho visto innumerevoli volte cadere
dal cielo delle specie di lacrime. Sono più grandi, fanno più
rumore di quelle degli esseri umani e non cadono sempre
in modo costante. Però mi sono chiesta: chi piange con
queste grandi lacrime? È qualcuno così felice oppure così
triste che può piangere in questo modo? La risposta è stata
molto dura e crudele per me. Non sono lacrime! Non piange nessuno in questo modo, è solo pioggia che cade dal
cielo. Ma per me pioggia è il mio pianto, il mio modo di
esprimere felicità e tristezza. Certo, tanti di voi si chiederanno subito: ma allora, tu non puoi essere felice o triste
quando c’è il sole? Quando piove sei automaticamente triste o felice? Infatti è cosi! Ma come decido che devo essere
felice o triste? Lo faccio dopo aver visto e sentito gli uomini nella cella davanti a me.
Quando la cella è vuota, la pioggia è il mio pianto di felicità, anche se io rimango da sola. Quando è piena, la pioggia mostra la mia tristezza, per gli uomini reclusi che mi
fanno piangere.
La cosa che mi colpisce sempre è la loro forza. Sono troppi, più di quanti abbia mai visto nella mia vita. Stanno
ammassati in queste stanze che loro chiamano celle, in uno
spazio adatto per una sola persona, con le loro cose una
sopra l’altra. Gestiscono la situazione in modo da rendere
vivibile un mondo che sta per crollare. Alcuni di loro sono
chiusi qui da anni, però vanno avanti e aspettano la fine
98
99
George Daniel Stepanov
Pensiero “sbarra-to”
della loro sofferenza. Aspettano di tornare di nuovo alla
loro vita di prima, che io non conosco ma che sicuramente
è diversa e più felice di questa. Dalla posizione in cui mi
trovo riesco a vedere anche l’altra realtà, dove ci sono tanti
uomini, dove c’è agitazione, rumore. Però quella vita per
me rimane solo un mistero, niente di più.
Guardo dentro la cella davanti a me e sento tutto quello
che si dice. Non sono una spia, però mi sento parte della
loro vita che si svolge qui dentro, in carcere. Mi fanno sentire come parte della loro esperienza. Anche se non è piacevole, per loro rimane pur sempre un’esperienza.
Sento che parlano delle loro condanne. Non capisco
cosa può significare la parola, però mi rendo conto che
nella maggior parte dei casi una condanna è praticamente
il momento nel quale è stato deciso il futuro per ognuno di
loro, un taglio alla loro infinita libertà. Diventano subito
tristi, si arrabbiano, parlano ad alta voce, alcuni gridano e
picchiano forte sulla porta, sui muri, contro gli armadietti.
Picchiano me. Li capisco. Così sfogano la rabbia che hanno
dentro, e anche se non piove mi sento triste. È una tristezza secca. Senza lacrime.
Mi sono chiesta tante volte: perché dicono che la loro
vita qui si ferma, che solo la vita fuori, fuori da questo
ambiente, va avanti? Per come percepisco io il concetto di
vita, ritengo che anche qui ci sia vita. Una vita dura, “ristretta”, piena di dolore, di rabbia, nella quale solo i forti restano in piedi, resistono. Però… anche questa è vita! Tanti
dicono che una volta finiti dentro si rendono conto che
non vale la pena commettere un reato e buttare la libertà,
la cosa più importante della loro vita.
Mi sono detta che per poterli comprendere bene devo
“vestire i loro panni”. Così riesco a provare tutto ciò che
loro sentono. Ho fatto un esperimento, “vivere” almeno un
giorno nella loro vita.
È l’alba, i primi raggi del sole mi avvolgono e mi danno
la sensazione di una bella e serena giornata. Ho aspettato
che i ragazzi dalla cella di fronte a me aprissero la finestra. L’hanno fatto!
Subito quell’odore che ogni mattina mi colpisce. Quell’aroma che viene verso di me arriva da un liquido nero,
che loro chiamano caffè. Non fanno niente senza assaporarlo prima. Come mi piacerebbe assaggiarlo…
Si apre la porta. Escono. Uno rimane dentro. È diverso.
Il suo sguardo è felice come ce l’hanno tutti, ma c’è qualcosa dentro di lui che lo tradisce. Apre il suo armadietto.
Prende un foglio. Qualcuno alla sua porta gli chiede: “Stai
scrivendo ancora?” Ecco! Adesso so cosa fa: scrive! Strane
cose fanno gli esseri umani… Guardo. È una sorta di gioia
e di tristezza allo stesso tempo.
Sorride. Ma ha delle lacrime agli occhi. Continua a scrivere, e per fortuna parla con se stesso. A bassa voce. Cosi mi
fa provare tutto quello che sente. “Amore mio…” E scrive.
Ma io mi sto chiedendo: qual è il mio amore? “Ti scrivo con
tutto il mio affetto da questo luogo in cui sento che la mia
vita si è fermata, e non so per quanto tempo ancora.”
Ho capito tutto! Scrive a qualcuno che è sempre nei suoi
pensieri. E mi chiedo di nuovo: io ho qualcuno a cui pensare? Questa volta ho anche la risposta: sì! Io penso a loro,
sempre!
Non vorrei più sbirciare nelle loro intimità, nei loro sentimenti. A volte il sorriso dell’uomo che scrive mi fa pensare che provi felicità quando pensa alla sua amata, e le sue
lacrime mi dimostrano quanto stia soffrendo senza di lei,
qui, in questo luogo, lontano da tutto. E per questo le scrive e piange con lacrime vere, di dolore, di solitudine.
Guardo fuori dalla cella. Gli altri stanno all’aria. Camminano. Alcuni si agitano e gridano. Dicono che fanno
sport. Non so se è una forma per esprimere la loro felicità
o la loro tristezza, ma di sicuro lo fanno in un modo diverso da quell’altro che è rimasto dentro. Sono così diversi.
Non so come spiegarmelo. Ognuno ha il suo modo di essere. Ognuno è particolare.
100
101
Il tempo passa. Piano o veloce.
Sono di nuovo insieme. Parlano. Ridono. Guardano
quello che è rimasto dentro, cercano di tranquillizzarlo.
“Passerà anche questo. Prima o poi usciamo tutti di qui. La
cosa più importante qua dentro è che il tempo passi. Anche
se a volte ti sembra che non passi, mai nessuno può fermare il tempo. Nessuno.” Si stringono le mani. Si abbracciano.
Sono uno per tutti e tutti per uno. Fratelli di sofferenza.
Accendono un piccolo fuoco. Si sente di nuovo lo stesso
odore di caffè. Poi… sento il fumo. Il fumo delle loro sigarette. Mangiano e bevono. Riposano. Guardano la televisione e ascoltano la radio. Leggono e scrivono. Il tempo passa.
Giorno dopo giorno, notte dopo notte. A volte veloce. A
volte lento. Infatti… il tempo passa sempre con la sua
imperturbabile cadenza. Dipende da ognuno, come lo percepisce, come lo vive.
Hanno chiuso la finestra. Sono ancora da sola. Provo
anch’io tutto quello che hanno provato loro. Mi sento sola.
Sono triste. Provo la stessa tristezza, ma secca, senza lacrime. Non ho nessuno, a parte loro. Sono e sarò sempre
parte della loro vita. Sono accanto a loro e questo mi rende
felice. La stessa mistura di sentimenti, gli stessi sentimenti.
Sono una sbarra.
Parte di una grata.
Grata di una finestra.
Una finestra di una cella.
Una cella di una prigione.
Il mio desiderio era di provare ad avere una vita come
quella degli esseri umani. Però “vivendo” sempre accanto a
loro, sentendo e provando i loro sentimenti, guardando la
loro vita qui, piena di sofferenza, ho deciso di rimanere…
solo una sbarra.
102
Mario Tonini
Quello che desidero
Ah, il mio dolore, amici, già non è più un dolore umano.
Ah, il mio dolore, amici, è ormai troppo grande per la mia vita.
E in esso piego le onde che vanno rovesciando stelle!
E in esso salgono i miei sassi nella notte nemica!
Voglio aprire una porta nei muri. Questo voglio.
Questo desidero. Chiedo. Grido. Piango. Desidero.
Pablo Neruda
Alzo lo sguardo verso la riproduzione dell’Icaro di Matisse
appesa sulla parete, fatta con gli stuzzicadenti da Zef, il
ragazzo albanese che è il tutor della Cooperativa Homo Faber, che opera all’interno del carcere insegnando ai ragazzi
arte grafica e da tutti conosciuta come Centro Stampa.
Ti sto osservando, Icaro, con le tue braccia aperte, fragili
ali di cera che sembrano fatte di carta, immerse nell’immenso cielo cobalto che ha il colore dei lapislazzuli e non capisco se sei ancora proteso verso il tuo desiderio di conquista
del cielo, che non è nient’altro che la proiezione della
nostra voglia di libertà e di giustizia, o in caduta libera verso
quel profondo precipizio che è la fine della nostra esistenza.
Non distinguendo i lineamenti del tuo viso, il mio sguardo scivola verso il tuo cuore acceso di un rosso vivo, che colpisce i miei occhi come la luce di un riflettore e che mi
scuote come il rombo del tuono fa fremere il cielo e, vedendo le stelle che ti accompagnano, percepisco che stai
lasciando la terra per salire al cielo, con il cuore pieno di
speranza.
Icaro, silente amico mio, ci sono giorni della nostra vita
103
che ci scivolano addosso, senza lasciarci nulla da ricordare,
come se non li avessimo mai vissuti, ma il tuo volo mi ha
ricordato che non basta vivere appena, che la nostra vita,
per quanto dolorosa possa essere, va vissuta intensamente,
che i desideri sono il motore della nostra esistenza, perché
se l’uomo accetta l’inverno è perché sa che ci sarà sempre
un’estate, un’estate colorata dalle ali di quei viscidi bruchi
che si sono trasformati in variopinte farfalle, come nelle
parole della poetessa Alda Merini: “E se diventi farfalla,
nessuno pensa più a ciò che sei stato, quando strisciavi per
terra e non volevi le ali.”
C’è stato un tempo che anch’io volavo alto, incontro al
destino, e quando i miei compari, come falchi appostati, mi
hanno tarpato le ali, anch’io ho strisciato per terra, perché
avevo paura di sperare, di desiderare, di amare. Poi un giorno, stanco di tirare avanti con la testa bassa, ho stretto i
pugni e mi sono detto basta. Ho così ricominciato a sognare, a desiderare di volare verso una mia nuova vita tutta da
inventare, verso un mondo tutto da costruire, un mondo
giusto e solidale, un mondo da amare, perché il volo è l’occasione per un futuro da scoprire, senza più paura di sbagliare; perché la vita mi ha insegnato che da terra, da lì, ci
si può rialzare. Ho fatto memoria di quei giorni, perché il
passato vive dentro di noi e, caro Icaro, te ne voglio parlare.
Sono recluso in una fetida galera sudamericana in attesa
dell’estradizione.
Davanti a me si sono spalancate le porte del carcere perché ho vissuto parte della mia vita come la biglia impazzita
del flipper. Pur vivendo sommerso d’amore, per avidità di
denaro, di potere e per un bisogno inconfessabile di adrenalina rivitalizzante, ho attraversato gli oceani, ho frequentato persone infrequentabili, ho percorso sentieri pericolosi nell’illusoria speranza di sfuggire al calcolo delle probabilità di essere individuato dalla legge.
Fidandomi degli uomini, lucidamente non ho voluto
prendere in considerazione la possibilità che, prima o poi,
per paura, per convenienza o per denaro, qualcuno disposto a tradirti finisci sempre per incontrarlo.
Il tradimento è sempre nascosto.
Il traditore, simulando l’amicizia, entra nelle vite degli
altri e, carpendo la fiducia delle persone, agisce per conseguire il proprio interesse. È ben conscio che, al momento
della delazione, per salvare se stesso finirà inevitabilmente
per distruggere le vite degli altri, ma al traditore non interessano le vite degli altri.
È così che è iniziata una nuova e indesiderata esperienza: il carcere.
È uno strano mondo, il carcere. Mi sono entrati subito in
testa i ritmi, i rumori, le voci, i passi degli agenti, le chiavi
che violentano le serrature, le pesanti porte di ferro che
sbattono, ma incredibilmente sono i roboanti silenzi della
notte che mi fanno male, che mi perforano il cervello, lacerandomi l’anima.
Trascorrendo questa frazione di tempo della mia vita rinchiuso in quel minuscolo universo che è la cella, penso che
ognuno di noi possa riscattare il proprio passato anche con
la sofferenza, che è la consapevolezza del dolore arrecato
agli altri.
Se c’è qualcuno che si possa sentire ripagato dalla mia
sofferenza sappia che quella sofferenza è ben presente.
La cruda realtà carceraria mi fa sentire come una moneta in fondo a un secchio pieno di pietre, come un granello
di sabbia nel profondo degli oceani, perché il carcere è un
dolore insonorizzato.
Penso che ognuno di noi ami le cicatrici, non le ferite.
Cercando disperatamente la normalità, ho iniziato ad
assumere cocaina nel tentativo di uccidere il dolore dell’anima che, come un cancro, sta crescendo dentro di me, ma
qui in galera la normalità non esiste più.
C’è il colloquio intimo. Mi permettono di trascorrere
104
105
fino a quattro ore con la mia compagna, mettendomi a disposizione una stanza appositamente predisposta.
Sono in camera con Janeth, “la negra”, tremenda mulatta.
“Ma tu mi ami?” mi chiede.
Vuole la verità. Quella vera.
A una persona che mi ama così forte non posso dire la
verità vera.
“Ti ho fatto una domanda. Non dirmi che ora ti interessa più la cocaina di me.”
Mi sta incalzando.
Incredibilmente sono le sue domande e non le mie “non
risposte” a tenermi in vita.
Resto in silenzio. Anche se è parte di me, non posso
certo dirle che mi appartiene ma che, a causa delle mie
scellerate scelte di vita, non ho più un futuro da offrirle.
Davanti a me ora c’è solo una lunga carcerazione.
È il momento delle decisioni.
Se le dico “ti amo” è perché il mio egoismo mi porta a
soddisfare un mio desiderio, immediatamente fruibile, ben
conscio di offrirle un rapporto senza alcuna prospettiva di
felicità.
Non posso essere così bastardo. Non ora. Non con lei.
Decido di non rispondere.
Preferisco tacere, a significarle che sono indifferente al
suo destino.
Anche il silenzio, a ben guardare, ha un suo significato.
Non ho il coraggio di guardarla dritta negli occhi.
Ho paura che legga i miei pensieri.
Lei è uscita in lacrime sbattendo la porta.
Il mio silenzio ha fatto più rumore di una raffica di parole.
Non ho fatto nulla per trattenerla. L’ho lasciata uscire
dalla mia vita senza proferire parola.
Adesso vivo l’infelicità. Sto camminando sul dolore, quel
dolore dell’anima che fa veramente male.
Posso trovare la pace solo nella rappacificazione con me
stesso. Ma non c’è pace qui, ora. In questo buio tunnel
dove mi sono infilato la luce è solo per pochi.
Sono un maledetto egoista. L’amore per me stesso è l’unico che è durato nel corso della mia esistenza. L’uomo
egoista si barrica dentro un cerchio ideale. Ha a cuore solo
quello che è all’interno. Dentro questo cerchio si sente sicuro. Forte. Aggressivo. L’amore vero invece travolge ogni
barriera. Non hai difese contro l’amore vero. O lo vivi o lo
respingi. L’amore vero è piacere e dolore. Al dolore fisico
trovi rimedio, al dolore dell’amore non puoi opporti.
L’amore vero spacca il cuore. Ho troppa paura del dolore, pertanto mi sono vietato di amare.
Mi lacera il pensiero che, senza avere avuto alcun merito, ho ricevuto molto più amore di quello che sono stato
capace di dare.
Non mi sono mai dato veramente, completamente, agli
altri.
Il mio rimorso più grande è quello di morire senza mai
essere stato veramente di qualcuno.
Riuscirò mai a essere davvero di qualcuno?
Questo quesito esistenziale probabilmente mi accompagnerà fino alla fine del mio destino di uomo.
Vomito.
Non m’importa più di me.
Ora che non appartengo più a nessuno, posso anche perdermi.
Mi sento infelice come le foglie mature d’autunno spazzate via dal vento.
L’infelicità, come la droga, è un eccesso della vita.
Sono conscio che potrei essere molto meglio dell’uomo
che sono oggi, ma non ho più voglia di essere me stesso.
Dalla cocaina sono passato al crack. Il crack è il surrogato dell’orgasmo. Per alcuni secondi mi urla dentro la
testa, producendo un rumore simile allo sferragliare di un
treno in corsa che mi lambisce. Il cuore, battendo all’impazzata, mi squarcia il petto. I polmoni si espandono. Mi
106
107
manca il respiro. È come morire, ma l’adrenalina che sale
immediatamente mi riporta in vita. Per un po’ di tempo
mi sento un padreterno, così non so più chi sono. Ho la
sensazione di fluttuare fuori dal mio corpo, avvolto da un
benessere meraviglioso, e improvvisamente invaso da una
nuova e vitale energia mi sento liberato dal mio guscio di
mortale.
Se l’orgasmo è quell’abbandono completo che ci mette
in relazione con Dio, in quel momento il crack è Dio.
Il mio cervello è fantastico perché se è stimolato dalla
droga anestetizza il dolore, attiva quel dinamismo cerebrale che mi fa dimenticare la realtà, provocando in me istanti di totale astrazione.
Con la precisione di una clessidra, la cocaina scandisce i
ritmi della mia giornata. È lei la padrona della mia vita.
Lei vuole il mio tempo, io vivo per quel momento, perché quello che conta, quello che è importante per me, è il
viaggio che il crack mi fa fare.
Adesso le appartengo.
Sono un drogato. Devo accettare questa condizione.
Sono drogato perché tento di uccidere il dolore assumendo la droga e non m’importa se poi quel dolore che
cerco disperatamente di allontanare ritorna prepotente e
la mia anima in agonia grida il suo tormento e la sua disperazione.
Dentro la mia testa si è fatta strada oramai la convinzione che la droga sia l’unico diversivo che mi permetta temporaneamente di dimenticarmi della condizione nella
quale mi trovo.
Sto anche realizzando che, nel contempo, mi perderò un
po’ alla volta.
Destinato a perdermi lentamente in un piccolo spazio
temporale compresso in un insignificante sasso di polvere
bianca di cocaina che, bruciando, “stupefacentemente” si
trasforma in fumo alla fiamma del cerino.
Destinato a perdermi in un vuoto che mi farà male.
La droga è come un boxeur che, non possedendo il
pugno del ko, lentamente demolisce l’avversario lavorandolo ai fianchi.
Distruggendo a poco a poco me stesso, sto distruggendo
quel mondo di relazioni e di affetti che ho costruito con
non poca fatica.
Per fortuna la droga ha bisogno di tempo per frantumarmi, ma non riesco a liberare la mente e a ritornare a essere
me stesso. Mi manca l’incontro con me stesso. La cocaina è
una surreale scheggia di benessere che mi tiene prigioniero come i pesci rossi dentro la palla di vetro che, nei ricordi della mia infanzia, fungeva da centrotavola.
La mia vita sta scivolando via senza incidere, come pioggia sui vetri.
Drogarsi significa trasformarsi, rinunciare a una parte di
noi stessi.
Vivere oramai è un ricordo.
Voglio morire.
Non riesco a morire.
Non è mica facile morire.
Vorrei morire, ma mi piace troppo vivere.
Vivere mi fa sentire sicuro.
Soffrire mi aiuta a combattere l’idea della morte.
Non sembro neppure umano.
Sfuggo alla mortalità.
La droga inghiotte i miei sogni e le mie illusioni. Vivere
nella droga è come vivere nell’ombra. Chi vive nell’ombra
della cocaina può essere e non essere. Vivere nell’ombra
della droga produce il ripetersi dei giorni uno uguale
all’altro, produce la totale mancanza di sorprese belle o
brutte, buone o cattive che sono il prodotto del vivere da
protagonisti la propria esistenza. Il tempo delle abitudini
diventa eterna attesa del nulla. Per uscire da questa condizione ho bisogno di ridare vita a tutto quello che ho vissuto prima.
Il mio mondo interiore influenza le mie relazioni e i miei
108
109
comportamenti. Avere consapevolezza del mio mondo
interiore permette di relazionarmi con l’altrui umanità,
migliora la mia capacità di condividere le mie emozioni e
quelle degli altri, consentendomi di comunicare all’esterno i miei pensieri. La mia interiorità si nutre dagli altri e
non potrebbe esistere diversamente.
Drogandomi ho perso questa consapevolezza. Ho varcato il confine della razionalità.
Mi sono chiuso in un mutismo assoluto, anche se il silenzio mi disturba.
Sono diventato estraneo al mio destino e a quello degli
altri.
Ora il rischio di perdermi è alto. La droga mi ha cambiato dentro.
Mi guardo allo specchio e non riconosco il mio viso riflesso. Non riconoscendo più me stesso percepisco che una vita
così vissuta non sarà mai vera, né mai si vestirà di verità.
Per fortuna sono ancora abbastanza lucido da riuscire a
penetrare al di là della superficie delle cose, così combatto
la mia personale guerra con i demoni che vivono dentro di
me, ma ho paura di perdermi.
Il dolore che il vivere la vita genera mi fa paura.
Il coraggio può nascere solo dalla paura.
Devo trovare il coraggio di viverla la vita.
Mio padre mi ripeteva spesso: “Se rinunci a essere te stesso non capirai più chi sei”.
Voglio uscire dal tunnel della droga.
La cocaina ha limitato i miei desideri.
Se voglio riprendermi la mia vita, devo riattivare il rapporto con i desideri.
I desideri sono sempre stati la molla che ha spinto l’uomo alla conquista del mondo.
Voglio riconquistare la mia vita.
Devo riprendere a pensare di nuovo ai desideri dai quali,
da umano, non potrò mai sfuggire.
Non voglio più desideri banali, da supermercato.
110
Non voglio più mettere in fila i miei giorni uno dietro
l’altro, uno uguale all’altro.
Voglio una vita fatta di giorni speciali.
Quello che voglio è essere me stesso.
Questa esperienza vissuta “nell’altra vita” mi ha fatto capire
che il dolore e la sofferenza, essendo parte integrante dell’esperienza umana, vanno accettati, e mi sento rassicurato
dal pensiero che quello che mi è accaduto, che mi accade
e che mi accadrà, nel bene e nel male, è e sarà per me.
Avendo fatto pace con me stesso, mi sono finalmente
dato agli altri. L’amore per/della mia “negra” e per/dei
nostri figli naturali e adottivi e per/dei nipotini che vivono
tra l’Italia e il Brasile ha riempito la mia esistenza diventando quell’universo di miti e sentimenti che, più invecchio,
più sento indispensabili. Oggi, amando e amato, sorrido
sentendomi parte del mondo e allo stesso momento percepisco che anche il mondo mi sta sorridendo.
Avevi ragione vecchio, saggio, Euripide: “L’amore è tutto
quello che abbiamo, l’unico modo per aiutarci a vicenda.”
111
Una giornata di sole, una di quelle che hai già indossato
tante volte, che hai visto e rivisto come quei vecchi film che
riempiono i televisori nei pomeriggi d’estate e che, nonostante questo, non hai mai assaporato appieno, proprio
come quella bistecca argentina al sangue, troppe volte solo
degustata, ma che ora sapresti descrivere in ogni sua sfumatura sensoriale.
L’abitudine del vivere nella propria ovattata realtà giorno
dopo giorno ti uccide lentamente, perché nella tua convinzione di azzannare ogni singolo istante, ti ritrovi poi un giorno a essere spettatore esclusivo di te stesso e, come un implacabile giudice di uno spietato reality che ruota intorno alla
tua vita, ti ritrovi a stroncare e a rivalutare tutto ciò che di
buono pensavi di aver fatto, e finisci col “nominare” te stesso inutile comparsa in questo gioco chiamato esistenza.
E partendo da qui, da questa giornata di sole, tutto
improvvisamente assume un nuovo e inaspettato significato, significato troppe volte perso in una banale routine
quotidiana di una banale cittadina ai confini di un banale
Stato.
E banale pure quella vita che ti appartiene, che ti trascini dietro come una palla al piede, con cui però hai stipulato un trattato di non belligeranza e pure di simpatica convivenza.
Certo, fosse per mia madre avrei già in mano tutto ciò
che mi serve per vivere una vita degna di nota: un lavoro,
una stabilità economica, una compagna che mi ama.
Come se queste triangolazioni algebriche fossero davve-
ro la ricetta della pura felicità o del bene assoluto, un antibiotico perfetto contro ogni male della società.
Quello che istintivamente una madre sa che esiste, tangibile e vicino, ma che per qualche strana legge della natura
non vuole farti conoscere per paura forse che tu ti faccia
sedurre.
Ma a una certa età hai già incontrato il tuo bivio primario, il tuo primo incrocio fatale: bene o male, tutto ciò che
avverrà dopo dipenderà proprio da quella “prima volta”.
Non so bene come sia definito esattamente questo passaggio fondamentale, non credo nemmeno dipenda da
come tu sia stato allevato o istruito, ma quando ti ritrovi a
doverti indirizzare verso l’Eden perpetuo o l’Ade infinito, il
tuo Io interiore o più semplicemente l’imprinting nei tuoi
cromosomi ti accompagnano quasi inconsciamente da una
parte o dall’altra.
A questo proposito, una volta una persona mi ha raccontato la sua personale visione delle cose, ossia che solitamente la strada più dritta e larga che ti si apre dinanzi è sempre
quella che ti conduce verso la perdizione, perché così facile, così ammaliante, così “di moda”. Ma, allo stesso tempo,
è anche ingannevole, oscura e con un epilogo normalmente certo per tutti coloro che la imboccano.
E in effetti così è stato pure per me, e come logica conseguenza, mi ritrovo oggi in questo lembo di spazio circoscritto, a guardare questa giornata di sole; un sole a scacchi,
certo, come quel gioco così simile alla vita di tutti noi, ma
con tanti perché in più e con nuove consapevolezze, nuove
esperienze sulle spalle, ma anche con quel nuovo significato.
Un significato pregno di speranze per un vissuto fatto di
quotidiane mancanze, di continue piccole rinunce, di limitazioni ben aldilà del puro e semplice astratto, e per questo
di un valore (intimamente parlando) inestimabile.
Inestimabile per la riscoperta di ogni singolo gesto, di
ogni singolo istante della tua giornata, che ora sai e saprai
sempre catalogare in maniera corretta, archiviando il tutto
112
113
Massimo Trifarò
Una giornata di sole
nella tua cassaforte dell’anima e conservandolo con cura,
gelosamente, conscio di quanto prezioso sia, in ogni istante della tua vita.
Prezioso quanto questa giornata, una di quelle che hai
già indossato tante volte, una splendida giornata di sole.
La premiazione del 2011 a Firenze, con la partecipazione
degli studenti delle scuole superiori.
114
Sezione poesia
Opere premiate
La premiazione del 2011 a Firenze.
1° classificato
Vittorio Mantovani
Roubaix
La premiazione del 2011 a Firenze.
Voi non sapete la fatica,
quando la strada piatta
lassù al nord
abbandona il conforto
di un increspato asfalto
e varca la porta dell’inferno.
Quando il sibilo ritmico
di movimenti e pedali
diventa salto di catena
sui pignoni induriti
e le ruote incocciano
spigoli di pietre.
Quando il corpo allungato
si aggrappa a un telaio
che implora pietà
e una terra nera di miniera
si mischia al sudore.
Voi non sapete la rabbia,
quando il cuore inizia a pompare
oltre ogni limite, l’aria si fa rara,
e un sapore di vomito
spacca lo stomaco vuoto.
Quando fumo e polvere
seccano la gola
ad ogni rantolo di respiro
119
e tutto il mondo si rinchiude in una ruota.
Voi non sapete il boato,
che accoglie la fine del massacro
quando i sopravvissuti si sfidano
con un ultimo sussulto
sulla pista di cemento di Roubaix.
Piazzale Aquileia
Una vita a cercare un appoggio
calcagno, caviglia, malleolo distrutti
alla ricerca di equilibri instabili
incostanti angolazioni ottuse e acute;
sfoggio di andature caracollanti,
danze su sinfonie meccaniche
per conoscere chi è l’interlocutore,
chi è il problema,
quali sono i sì e i no dell’intimità,
invece di star in ascolto del vero e del falso
e provare a dire il contrario.
Bisogna imparare ad andare rotondi,
avere la pedalata del passista
per capire se gli oggetti sono davvero utili
oppure solo pensati all’uso.
Ad essere sinceri,
sono solo ragionamenti assurdi
rimossi dallo sferragliare del tram,
che logorato da un percorso obbligato
è costretto a fermarsi qui,
fra i platani di piazzale Aquileia.
Io invece non mi ricordo il perché;
120
se è l’istinto di un vecchio innamorato
o il segno di una senile ossessione
che mi porta ogni martedì, su questa panca,
ad aspettare che lei scenda dal ventinove.
Così minuta assomiglia a lei
e rimango a guardarla anche un’ora
mentre fuma sotto le mura del carcere
fra un vociare di donne e bambini,
e quando una porta la risucchia
me ne vado zoppicando
fra le bancarelle di viale Papiniano
a controllare se gli oggetti sono utili
oppure solo pensati all’uso.
La rosa purpurea
Meglio un prosecco rosato
che un intreccio di prosa burrosa,
meglio fragorose risate
che un rosario di morose.
È tutto un filosofare
se è il nome o se è nel nome,
quisquiglie canine
di rosei romanzi.
Di queste rosette, rosine,
rododendri, rosolacci,
rosoni, ellebori, roseti,
albe, centifolie, muscose,
damascene, floribunde,
rugose, sarmentose, camelie,
che forse fioriranno
121
con o senza spine,
una soltanto mi importa:
quella purpurea,
quando umida di rugiada
dischiude i suoi carnosi petali.
Motivazione
I versi di Mantovani ci restituiscono, con felice suggestione, l’immagine della gara ciclistica ritenuta la classica in linea più dura
al mondo, che si disputa annualmente da Parigi a Roubaix, città
industriale del Nord della Francia, ormai divenuta mito grazie
all’asperità dell’acciottolato che caratterizza la fase cruciale della
corsa. Sembra di vederli, corridore e bicicletta, uomo e mezzo, fusi
in un tutt’uno, come se nervi e sangue, ruote e telaio si compenetrassero, uniti da una stessa, indicibile sofferenza. La fatica massacrante assurge a una dimensione epica da quando la strada,
piatta e monotona, lascia “il conforto di un increspato asfalto” e
si avventura nell’inferno del pavé. Finché i superstiti, con il respiro rantolante, il cuore che moltiplica all’infinito i battiti e il volto
impastato di sudore e polvere, non vengono accolti, per lo sprint
finale, dal boato della folla, che li saluta come gladiatori al loro
ingresso nell’arena. Delle tre liriche proposte dall’autore, tutte
ugualmente valide sotto il profilo della struttura e dell’uso, mai
banale, del lessico poetico, Roubaix è quella che più si distingue
per l’efficacia espressiva e per la capacità di evocare con pochi, sintetici tratti l’eroicità di una grande impresa sportiva. La precisione, quasi specialistica, dei particolari fa pensare che l’autore abbia
avuto esperienza diretta di impegni agonistici.
* Le motivazioni sono state redatte da Pablo Gorini.
122
123
2° classificato
echi che si attutiscono
contro il cuore.
Aral Gabriele
Ahi, l’antica pietra che sorveglia
che domina e accompagna
e cinge l’orizzonte
di questo angusto viaggio:
non è l’ignoto che spaventa
né gorghi, né flutti perigliosi,
ma un giorno conosciuto
che corre all’infinito.
L’amara roccia di Volterra*
Lo stesso cielo,
ma non lo stesso.
Lo stesso vento,
ma non lo stesso.
Lo stesso tempo,
ma non lo stesso.
Fiori di carta
Ahi, l’amara roccia di Volterra
che lancia in volo i suoi merli
a oscurare i miei occhi
e a nutrire le mie odissee,
che davvero avverto
un notturno scompormi
se ogni giorno identico torna
l’ordito del mio vagheggiare.
Ti ho portato fiori di carta
ne hai fatto farfalle
troppo leggere per trattenerle
per non farle volare via.
Ti ho regalato i miei ricordi
ne hai fatto giorni d’estate
così caldi e intensi
ma troppo brevi all’inverno.
Ahi, questo nero scoglio
su cui si infrangono speranze
che mi bagnano di domani
e lasciano sabbia per le mie ore,
granelli che cadono cercando una voce
tra i canti lontani, irraggiungibili,
Ti ho affidato i miei silenzi
ne hai fatto musica da ballo
per la piazza illuminata dalla festa
che è svanita alle luci del mattino.
* La fortezza rinascimentale di Volterra è stata un’antica prigione ed
è tuttora un penitenziario.
Ti ho rincorso nel vento
e scomparsa nell’azzurro del cielo
124
125
mi hai lasciato a domandarmi:
chi di noi due non sa volare?
Trasparenza
Di quale trasparenza è questo vivere
che il riflesso abbagliante dei giorni goduti
l’attraversa in un istante senza fine?
Senza ostacolo, senza tempo,
fulminea e accecante.
Luce che crei ogni cosa
che dipingi la piazza
che colori la folla.
Luce che apri le stanze
che incornici le ore
e le voci degli anni.
Luce che infiammi le onde
e nutri l’estate
e la falsa promessa.
Motivazione
L’andamento anaforico dei versi (cifra costante del poeta, che
caratterizza anche le altre due liriche della breve silloge) segna il
ritmo di questo sommesso lamento, di questa autoriflessione sulla
propria condizione di recluso nello storico (e austero) carcere di
Volterra. Qui si perde la percezione di ogni mutamento climatico,
di ogni evento meteorologico. Ogni giorno la trama dei desideri
(inevasi) ritorna perennemente uguale, così come le speranze, assimilabili a onde marine, si infrangono contro quelle mura, barriera insormontabile che esclude lo spazio racchiuso dal resto del
mondo, i cui suoni giungono come echi attutiti. Se fuori ci si
lamenta dello scorrere troppo rapido del tempo, dentro la fortezza è
come vivere all’infinito un unico, monotono giorno che, nel suo
essere del tutto privo di sorprese e di sussulti, non trasmette serenità ma comunica inquietudine e un sentimento non dissimile dalla
paura. Aral Gabriele, con la sua particolare sensibilità, fa porre
l’attenzione su un problema che i più riterranno marginale rispetto a quelli, di ben altra evidenza, di cui soffre il nostro sistema carcerario: il fatto che il detenuto si trovi a vivere in una sorta di
“bolla” atemporale che, a lungo andare, può causare un senso di
angosciante alienazione. Problema che può trovare soluzione solo
nella capacità di adeguarsi (mettendo la sordina a certe naturali
pulsioni) a quella nuova dimensione esistenziale così lontana
dalla normalità di una vita “non carcerata”.
Luce che svesti il suo corpo
che leggi i suoi occhi
che racconti la notte.
Perché non ti fermi
sulla mia anima offerta?
Perché mi attraversi?
126
127
3i- classificati ex aequo
Carlo Rao e Christian Calderulo
Nel giardino dei matti
per il telegiornale.
E se questo è il mio posto
getta pure la chiave
perché ormai l’ho deciso:
io non voglio guarire!
Non avrete i miei sogni
né la mia fantasia
per me son dolce pace
per voi solo follia.
Nel giardino dei matti
c’è partecipazione
ogni giorno che nasce
è una nuova occasione.
Mai nessuna catena
potrà chiuderci il cuore
voi chiamateci matti,
ma restiamo persone.
Nel giardino dei matti
ci si sveglia alle sette
proprio quando la nebbia
ruba il posto alla notte.
Tutto ciò che è nascosto
qui si può immaginare:
è una buona difesa
quando fuggi il reale.
Nel giardino dei matti
ci si siede per terra
tra il colore dei fiori
e il profumo dell’erba.
Tutto ciò che è diverso
qui diventa normale
forse è il mondo là fuori
a doversi curare.
Nel giardino dei matti
c’è una vecchia fontana
sguardo fisso nell’acqua
mi racconto alla luna.
No, non parlo da solo
è un servizio speciale
intervista allo specchio
128
129
3° classificato ex aequo
Motivazione
Luca Denti
Il “giardino dei matti” si presenta come metafora del luogo di
reclusione, che però non ha le consuete, tristi, caratteristiche: non
ci sono, infatti, muri, porte, sbarre, ma erbe, fiori, fontane. È
un’altra dimensione, avulsa dal reale, e in questa sorta di
“mondo alla rovescia”, così originalmente interpretato dagli autori, dove l’inconsueto, il diverso diventano usuali, si può avere la
sensazione che i “malati” siano quelli di fuori. Nutrita dai sogni
e dalla fantasia, vero pane dell’esistenza, la cosiddetta follia
assurge così al ruolo di una condizione preferibile a quella della
presunta normalità. Meglio rimanere qui, dove c’è più partecipazione, più libertà interiore e dove, nonostante tutto, non si perde
la dignità di sentirsi, comunque, persone. Appare insolita e perfino irrituale la quasi orgogliosa rivendicazione del proprio status
di reclusi, concepito come una felice esclusione dal “fuori” a favore di un “dentro” visto come un’isola felice e protetta. Suona gradevole all’orecchio il ritmo dei versi, che giocano efficacemente fra
rime alterne e assonanze.
Le trenta monete
Avevo anch’io
trenta monete
più che altro
per tradire me stesso.
Ho comprato
sogni spicci
nell’infanzia.
Li legai con doppi nodi
all’aquilone, fra corse
di ginocchia sbucciate.
Cresciuti nell’eccesso
li ho perduti
ancora vivi…
Verso sera
tra gli ulivi
penzolavano impiccati.
130
131
Senza titolo
Col tempo sopravvivo a tutto
succhiando il veleno
in ogni nostalgia…
È strano
come diventi la sofferenza
un punto d’onore.
Dove l’inverno posa
una carezza lieve
di neve sporca
anche una pozzanghera
sa raccontare
un angolo di cielo.
Motivazione
I sogni “spicci” comprati nell’infanzia al prezzo di trenta monete
che, inesorabilmente perduti e vanificati negli eccessi della vita,
penzolano “impiccati fra gli ulivi” sono espressione e simbolo di
una sorta di autotradimento (l’uomo, con i suoi comportamenti,
diventa “Giuda” di se stesso); la farfalla che, se fosse a conoscenza del fatto che la sua nuova e bella esistenza è costata la morte del
bruco, cioè dell’altro essere che era in precedenza, si vestirebbe a
lutto; la pozzanghera che, pur solo riflettendolo, è in grado di “raccontare un angolo di cielo”. Non è possibile, per il lettore, captare
ulteriori “messaggi” impliciti nel testo, specie se l’autore, come in
questo caso, sfuma, più o meno volutamente, i particolari e non
sembra avere alcun intento narrativo. Ad ogni modo il fascino di
queste brevi liriche è racchiuso nella capacità evocativa delle parole, del tutto comuni nell’uso, ma il cui abbinamento dà luogo a
immagini di non epidermica suggestione.
Senza titolo
Le mie parole
non bastano
all’amore…
Se la farfalla
sapesse la morte
del bruco
si vestirebbe
a lutto.
132
133
Opere segnalate
Volterra, 2010: incontro natalizio con i detenuti partecipanti al Premio.
Al tavolo Fabio Canessa, Lucia Casalini e Pablo Gorini.
Marian Balauca
La battaglia di Rotunda
Suonano le campane sulle colline di Rotunda
allertando gli abitanti del piccolo villaggio,
nubi, polvere e fumo alzano nel cielo
già avvelenato da altre battaglie passate.
Bruciano alberi, baracche e ponti malandati
con incuria e tempismo anticipando i contadini,
con gesti di arresa cadono le travi dei ponti
che reggevano in piedi l’unica via di scampo e di vita.
È sempre più vicino e forte il tenebroso segnale
di terrore e di morte emesso dagli invasori,
esseri indegni senza culto e morale,
accompagnati dai saccheggiatori
con il loro rumore infernale.
La premiazione del 2009 a Volterra con Maria Grazia Giampiccolo
(direttrice della Casa di reclusione), Pablo Gorini
e Franca Leosini.
Monete, monete e ancor monete,
tra banchetti, stupri e assassinii incompiuti,
si danno alla pazza gioia i folli sprovveduti
violando persino la dignità dei morti!
Pericolo e distruzione, morte e sofferenza
sono i diminutivi struggenti
che alle orecchie del grande condottiero arrivano;
disperandosi per la sua gente monta sul suo cavallo
e galoppando va, con furia e pazzia nel mezzo della notte.
137
Lascia la sua fortezza con dentro sua madre,
impugna la spada e con forza e coraggio avanza
fra i corpi mutilati della sua gente
tentando disperatamente di salvar qualcosa!
Sono tanti anni che il mondo muore
e mai riesco a fermare i miei passi
che mi conducono sempre sulla stessa riva
da dove osservo tutti i mali della vita!
In un momento d’ira, spinto dalla rabbia cieca,
prende e si trasforma nel peggiore dei barbari;
galoppando a cavallo coraggiosamente avanza
fra ombre di incalliti assassini
mentre tutti i suoi giacciono a terra.
Preso dalla fretta e dal suo coraggio cieco
finisce per distrarsi per un attimo dal suo vero scopo,
infilzato da una lama vigliacca, che il petto gli trafigge,
cade giù, come tutti i suoi, nelle mani della morte!
Alla deriva come una nave
Sono anni ormai, da quando il mondo
si è trasformato in una cosa pallida e cieca,
in un essere dalla camminata lenta,
dai colori rari e potenti, dalle forme bizzarre,
dai passi rarefatti, senza un dettaglio ben definito!
Il mondo da questa punta del continente
è un riflesso di un verme strisciante
fra i muri delle case di argilla.
Come un piccolo insetto, misero e sconsolato
si muove svogliata questa terra bagnata
da mari oceani e pianti amari.
138
139
Desiderio
Enrico Benetti
Assordanti silenzi
Nel castello dei miei pensieri
odo il tintinnar delle catene
trascinate dai fantasmi dei ricordi,
gli schianti dell’infrangersi dei sogni,
rumori muti
per quanto stilettate
ma niente si può paragonare
allo strazio che arrecano,
assordanti,
i silenzi delle risposte disattese,
delle parole assenti.
Brezza
Vorrei giacere
accanto ai tuoi sonni
per abbracciare
i tuoi sogni
e renderli concreti
ai tuoi risvegli.
Sorrido
L’avvoltoio del tempo trascorso
diviene un usignolo
nei pensieri a te rivolti.
Mentre il cuore batte
come furibonde
onde
sugli scogli,
sorrido.
Più niente posso dire, a te che non ascolti
più niente posso dare, a te che te ne vai.
Mi sperderò nel tempo come brezza
per carezzare i tuoi capelli,
la tua pelle
e le mie dita,
spasmodicamente folli,
si contorcono
per non poter più fare…
140
141
Massimiliano Bernabei
Sebastiano Cannizzaro
Senza titolo
Carzaratu
Quando i muri
ogni tanto si ispessiscono
e credere diventa la fatica più grande,
io mi apro ai sentieri nascosti
e la battaglia che credevo perduta
diventa un gioco.
La zattera felice
navigava alle soglie del mondo.
Ridendo la chiamai.
Venne a me per gioco
con le mani colme di gioia.
Mi disse: “Prendine”.
Fu solo polvere dopo.
Nero di notte e sotto le porte
spira vento crudo.
Dimenticata nel fondo di un sogno
la fronte cerca il tuo respiro.
Sei tu a spalancare
fragili cancelli del cuore,
tu disperata emozione
che nel nulla cerchi vita.
142
Quannu di la libbirtà veni privatu
e lu tò cori di scuru si culura
ppi tia nun c’è cchiù munnu, carzaratu,
chiusu a pinzari d’intra ’sti quattru mura:
li passiati ’nta li campi ’n ciuri,
la ’nnamurata tra li vrazza stritta,
quannu davanti a tia c’era l’amuri
e no… ’sta suffirenza mmaliritta!
Canceddi, schiavittuni e sicundini,
chistu è lu mari tò… lu tò paisaggiu,
lu vardi e ammiri tutti li matini
mentri lu suli splenni, su appari lu miraggiu.
Si jiancu… comu ’n sucu di lumia
mi pari ’n palummeddu d’intra a jàggia,
ca varda fora e lu volu disìa,
ma è privu d’ali, chianci e si scuraggia.
Li tò jurnati scurri, tra “vaddiri e caunchi”,
li denti strinci e d’intra focu abbruci,
ccu li tò carni, lazzariati e stanchi,
ti senti comu a Cristu, misu ’n cruci.
143
Traduzione
Carcerato
Quando della libertà vieni privato
e il tuo cuore di scuro si colora
per te non c’è più mondo, carcerato,
chiuso a pensare dentro queste mura:
le passeggiate nei campi in fiore,
l’innamorata tra le braccia stretta
quando davanti a te c’era l’amore
non questa sofferenza maledetta!
Moez Chaibi
Pensieri
Galeotti pensieri
che viaggiano sulle ali dei venti
s’incontrano con una rosa blu
ci tengo a dirti che nel cuore mio
ci sei solo tu
fiore di leggiadra bellezza.
Cancelli, schiavettoni e secondini,
questo è il mare tuo… il tuo paesaggio,
lo guardi e lo ammiri tutte le mattine
mentre il sole splende, se appare il miraggio.
Sei bianco… come il succo del limone
mi sembri una colomba nella gabbia,
che guarda fuori e il volo desidera,
ma è priva d’ali, piange e si scoraggia.
Le tue giornate scure, tra “il male e il peggio”,
i denti stringi e dentro di fuoco bruci,
con le tue carni lazzariate e stanche,
ti senti come Cristo messo in croce.
144
Breccia
Se tu fossi il cielo
io vorrei essere una nuvola
per viaggiare nell’infinità
della tua bellezza.
Se tu fossi la luna
io vorrei essere il sole
per riscaldarti il cuore.
Se tu fossi una stella
io ti guarderei ogni notte
dalla mia finestra.
145
La mia dea
Dolce dea
vorrei essere un raggio di sole
per poggiarmi sul tuo viso radioso
e lasciarti una carezza
sinonimo della tua bellezza.
Il castano degl’occhi tuoi
è la finestra dell’anima mia
il nero dei tuoi capelli primeggia
nel mio cuore, vorrei esserne una ciocca
per accarezzare la tua pelle liscia e setata
che fa di te una dea o una fata.
Il profumo di questa lettera lo custodisco
nel cassetto del cuore.
Alessandro Crisafulli
I
Attimi senza nome
avanzano con intrepida dolcezza
dentro gli occhi, infrangendo
la memoria sigillata.
Forse è questo continuo
immergersi nel gesto che rende
eroi e dona colore
alle labbra…
mentre tutt’intorno
l’inverno partorisce
nuovi sconosciuti.
II
È qui che nasce
l’orizzonte, dai lineamenti
di un’idea, dove i sogni si fondono
nei corpi che hanno smarrito
l’infinito. Eppure c’è chi
ancora ricerca la parola,
quel suono che invade
le vene e delinea i contorni
del tempo.
146
147
III
Nella dolcezza dell’alba
ho chiuso il tempo
tra le righe. Sospeso
sono disceso nelle profondità
del verso e in quella
nudità ho seppellito il dolore.
Guardo le mie mani
che si spandono
in ogni battito, mentre
il buio, che accoglie
la parola, precede
la mia supplica.
Ezio Di Rosa
Ape
Ronza intorno, in alto e in basso
cerca e sonda il materiale
che l’appaga, purché grasso
quando torna al suo portale.
L’alveare, un gran fermento, crocevia di tante rotte
che convergono in quel punto, dove tutti han gran da fare,
ogni addetto per creare come vino nella botte,
un prodotto vellutato, dolce, orato, da mangiare.
Nel contesto è ben previsto anche unirsi ed accoppiarsi,
per dar forma al manifesto volo a forma di gran sciame,
che si sposta volteggiando con milion di addetti sparsi,
gran mistero a qual comando obbedisca tal reame.
Va nell’aria, all’acqua e al sole, inseguendo i suoi profumi,
va nei boschi, nei giardini, dentro agli orti tra le rape,
questa splendida creatura coi suoi semplici costumi
è da amare e rispettare, contemplare: questa è l’ape.
148
149
Sogno
Giardino
Che sia splendido, gagliardo, bello, buono, giusto e saggio
e che resti fisso e saldo nella mente di chi crea,
di chi ambisce desideri realizzi anche un miraggio,
un realistico presente degno della sua nomea.
Son presenti dappertutto forti odori, aromi o puzze
che s’insinuano all’olfatto che sa coglierne valori,
viali, aiuole, piazze e stagni, conche, dune, rii e viuzze
si concentran nella macchia che è coacervo di sapori.
Crei scenari famigliari effondenti sicurezza
a chi vuole star sicuro, coccolato al suo cantuccio
a chi ama la natura dia colori, odori e brezza
e a chi pesca doni pesce, trote, carpe e pure un luccio.
Si coltiva un po’ di tutto, ogni cosa prende forma,
un capanno per gli attrezzi è ossatura di un gran glicine
sotto al quale un gran cespuglio di mirtilli pare dorma
effondendo quel profumo forte, intenso, pari al ricine.
Costruisca tutt’intorno a speranze e desideri
quel bel mondo che ogni io cela al centro del suo cuore;
riempia il tempo di bellezze, danze, canti e suoni veri,
configuri ambienti e storie degne solo dell’amore.
Tra le zolle l’uliveto, aranceto, vigna e pini,
faggi e pioppi e olmi e ontani che circondano giardini.
Tra le aiuole di amarene, more, fragole e lamponi,
usignoli e pettirossi pare intonino canzoni.
Un giardino empio di frutti, una spiaggia sconfinata,
un deserto e le sue dune, un gran bosco verde e rosso,
fattorie lussureggianti cinte dalla palizzata,
un castello affascinante circondato da un gran fosso.
Tutto aleggia e soffia lieve lungo il verde di quei prati,
polle d’acqua son molteplici e alimentan mille rii.
Le api formano gli sciami, ne compongono gran strati,
gli uccelletti si rincorron tra stridii e cinguettii.
E città nella foresta dove tutti stanno in pace
perché tutti hanno un pensiero che ritengono sia giusto;
più di tutto va adorato, che non sia solo di brace
ma piuttosto un fuoco eterno degno solo del buon gusto.
Letamaio fertilizza querce immense a rami lunghi,
fiori sbocciano a migliaia sparsi ovunque; muschio eterno.
Nebbiolina mattutina imperla foglie, erba e funghi,
che ti fanno presagire che è lontano ormai l’inverno.
È il pensiero che ogni essere ha in serbo nel suo voglio
è pensiero di animale, cosa o uomo, ne ha bisogno;
dalla nascita alla morte custodisce il quadrifoglio
di star bene, eterno e amato: certo è questo, il suo bel sogno.
I ciliegi, i tigli e i mandorli sono tutti uno splendore,
nella notte anche la luna ha un bel ruolo, pare in fiore.
Quella lieve umida luce, su olmi e salici piangenti,
che tra lucciole e cicale fa commuovere le genti.
150
151
Antonio Gueli
La freccia dell’amore
Potessi sprofondare dentro di te
genuflettermi al cospetto di tanta bellezza,
come lo schiocco di una freccia dell’amore.
Cristo
Se Cristo venisse
a trovarci
non troverebbe che
anime temprate dal dolore,
corpi pieni di cicatrici.
È questo forse che
lo spaventa.
Vorrei bruciare le nostre vite, legarci,
ucciso nello scudo per il tuo corpo.
Il nulla
Un giardino pieno di profumi
odore di salsedine
scintillio delle onde
carezze della sabbia.
All’orizzonte una colonna dorica
civiltà senescente
emozioni soppresse.
In un volume di cemento chiuso
il nulla.
152
153
Carmelo Impusino
Volo solo
Malinconica solitudine
silenzioso ricordo di una vecchia abitudine
nella frenesia della mia esistenza
pensieri e sangue hanno poca pazienza
un arcobaleno in bianco e nero può dirti chi ero
tra regole e leggi che ho infranto davvero
nel silenzio nasce il mio suono
solo lui racconta chi sono
nel cuore eterno viaggiatore
corse veloci e niente più dolore
la gente negli occhi come un sole accecante
la sorvolo e mi allontano sempre più distante
sono un solitario e non mi importa niente
di celle punitive e di giornate spente
un altro giorno è passato
tra occhi spenti di chi è appena stato arrestato
nei volti lo sguardo di chi si sente fregato
di chi non ammette di aver solo sbagliato
sbarre e celle le ho ormai nella pelle
dove tra realtà e finzione ne ho viste di belle
mi ingoia il buio della notte
mentre sorrido e penso… ma chi se ne fotte
nella mia vita… soltanto lotte.
154
Sfumati ricordi
Ho solo il tempo di socchiudere gli occhi
di regalare al pensiero il profumo del tuo respiro
e tutto è rapito dal sapore di sensazioni sfumate
tutto si perde nel ricordo del tuo bacio
ormai troppo lontano
anche solo per continuare a sognarlo.
Pensieri lontani
Per respirare la tua esistenza
non bastano i confini del mondo
chiudo gli occhi per cercarti nei sogni
nella serenità di pensieri che ti raccontano
ma svanisci agli ultimi respiri del risveglio
senza che possa raggiungerti
perdo il tempo nella lentezza dei sospiri
specchiandomi in rugiade di malinconia
mentre accarezzo il silenzio
stanco di essere solo la mia inesistenza
di aspettare la luna
per continuare a sognarti.
155
Martin Lazri
Emozioni
Effimero lo spirito si dissolve in spazi infiniti
all’ammirare la luna piena, realizzata, bianco cristallo,
all’osservare le rosacee pennellate dell’alba.
Turbato essere, rinchiuso nel silenzio
se lo sguardo si sofferma su di un ramo secco rugoso,
disteso su un letto di foglie morte.
Melodiosa sinfonia avvolge il corpo
al bisbiglio del mare, perpetuo infrangersi di onde,
al fischio del vento, predatore di pensieri.
Piacevoli brividi percorrono la pelle
al tocco dell’impalpabile cenere, calda volatile,
allo sfiorare cocci di vetro addolciti dal tempo.
Inquieto sollievo dona alla mente
la mano che asciuga una lacrima, trasparente, vellutata,
la carezza ad una testa nuda, rosa, scarna.
Vortici di pensieri, riflessioni,
orchestra dai mille suoni.
Moltitudini di emozioni vibrano dentro,
leggere, delicate accarezzano l’anima,
avvolgendola in soffice mantello.
156
Notte
Impalpabile l’irreale atmosfera,
leggero il brusio avvolto da tenebre.
Spazi compressi, informi,
angoli vuoti privi di vita.
Sagoma di un corpo raggomitolato,
respiro pesante nel tempo senza tempo.
Brividi graffianti percorrono le membra,
oscuro dolore trafigge l’anima.
Volteggiano ombre di fantasmi danzanti,
mani scheletriche trascinano nell’abisso.
Ululante il vento sparge l’oblio.
Vivo in te
Sei dentro di me.
Sono dentro di te.
Attraverso i tuoi occhi
vedo le meraviglie del mare,
l’azzurro del cielo infinito.
Attraverso la tue mani
tocco la sabbia calda,
lo scorrere dei granelli tra le dita.
Attraverso il tuo olfatto
annuso il profumo dell’estate,
l’odore dei prati in fiore.
Attraverso la tua bocca
degusto antichi sapori,
dolci, amari, inebrianti.
157
Attraverso il tuo udito
ascolto i suoni dell’universo,
turbinio di emozioni che vibrano dentro.
Attraverso il tuo corpo
godo delle carezze del vento,
il sole brucia la pelle.
Attraverso il tuo essere
vivo di bellezza riflessa,
resto legato alla vita.
Sebastiano Milazzo
L’approdo
Cammino in un deserto senza vita
in un tunnel senza speranza
dove carogne umane
attendono come avvoltoi
gli occhi dei vivi.
In questo itinerario senza senso
muovo passi meccanici
mentre ombre si allungano
per avvertirmi che presto
scenderà l’ultima notte.
Condannato a esistere
senza poter vivere
io intanto cammino
per riempire l’attesa
del fortunato sepolcro.
Anche per il pretendente deluso
esiste una dimora immortale
dove approda la perfezione.
Il luogo dove si dimentica
ogni forma di grazia
ogni forma di fortuna.
Dove ogni timida pietra
affoga nel placido mare
158
159
dell’eternità
senza l’angoscia
della resurrezione.
col vostro modo funzionario di vivere
credete di vivere per il miele
e avete solo api.
Ombre
Spente iridescenze
ferme al confine del vero
ai margini dei vostri affanni
opache e tremule portate con voi
la traccia del vostro declino.
Spente iridescenze
gettate amori al vento
mentre la vita si consuma,
come pelli di cane,
nell’infinita attesa
di una pena che rende
anche l’anima in schiavitù.
La replica
Indifferenti a chi guarda in su
ad ogni ululare di vento
state a frantumare bolle d’aria
come soffiate nella flebile
canna di un fucile.
Scambiate illazioni
per otri di saggezza
mentre avviate
pesci squamati e di poco valore
nel gelo dei fondali.
In questo luogo dove il tempo
si è dimenticato d’esser tempo
i lividi sull’anima
non sono un ricordo.
Sono il presente
ostinato e fedele
della grande farsa
di cui mi ha onorato
l’autore tiranno.
Figuranti delle vostre paure
senza cancellare le orme
scappate al confronto
senza poter conoscere
voi stessi e gli altri.
Una tragica farsa
replicata ogni sera
con le stesse battute
ad ogni stagione.
Figli dell’amore mal sillabato
della virgola maniaca
Parole tra i denti
false promesse
160
161
principi di carta
ideali sepolti.
Massimiliano Paggetti
Non altro del resto
viene insegnato
nel buio teatro
dove passo la vita.
Il Tempo
Gemello del mio quotidiano
mi dai respiro quando vuoi!
Con le tue attese affretti i miei passi,
decidi tu, sempre e comunque!
Non ti conosco e m’assomigli,
fino alla morte.
Mi soffochi, eppure mi sei essenziale.
Vorrei arrivare alla ragione della tua intrusione,
ma scivoli nei rivoli dell’esistenza.
Non portarmi nel dimenticatoio,
avviami nell’oggi.
Soltanto frammenti
di un tempo già morto
e di un futuro
che non diventerà mai vita.
Illusioni
Sono sceso a compromessi con voi,
nutrendomi delle cattiverie conosciute.
Accompagnato dai miraggi,
fortificavo la mia banalità.
Ora siete spettri che tormentano
il vissuto di chi vi ha creduto.
Ho risarcito con madidi sonni
la mia bestialità.
Implacabili tentate ancora di illudermi
162
163
con bagliori di latta.
Che ne è stato della mia giovinezza?
Un vile baratto!
State lontano dalla mia anima,
non vedete che sto raccogliendo
i cocci da presentare a Dio.
Antonino Penna
Anche uomini
Qui in carcere, di notte,
quando tutto è silenzio,
si sente il pianto del mondo.
È la voce dei condannati che si disperano.
In carcere si teme la sera.
È la resa dei conti la sera.
Tuffi nei ricordi di un passato lontano
pensieri che rinnovano il dolore
di vecchie ferite non rimarginate.
Lacrime nascoste
paura dei giudizi
vergogna di se stessi.
Qui in carcere, di notte,
quando tutto è silenzio,
si sente piangere il mondo.
Speranza di cadere nel sonno.
Attesa di un domani migliore
che non tarda ad arrivare.
È un domani senza illusioni, senza pietà.
E allora ci si accorge che la vita si snoda
sempre uguale, giorno dopo giorno.
Resta solo la speranza di un Dio che ci ascolti.
164
165
Minori
Ernesto Ferrero all’incontro con gli studenti a Livorno
nel novembre 2008.
S.T.
Istituto Penale Minorile di Torino
Il viaggio (Senegal-Italia)
La premiazione del 2008 a Torino con Pablo Gorini, Margherita
Oggero, Ernesto Ferrero e Raffaella D’Esposito.
Non dimenticherò mai l’impazienza di partire
le bugie raccontate a mia madre
per non dirle del mio viaggio.
Non dimenticherò in quanti siamo saliti
su quella barca,
io sono stato l’ultimo perché avevo paura
di morire, non so nuotare
nessuno sapeva nuotare, solo un uomo
e due donne.
Non dimenticherò il freddo, il sonno,
la stanchezza e la paura sempre presente.
Ogni tanto si scherzava, pochi minuti e
subito tornava la paura del mare.
La notte passava più in fretta perché
un po’ si riusciva a dormire, testa contro testa.
Non dimenticherò una ragazza che ha pianto
sempre, mi fa male ricordare il suo pianto.
Non dimenticherò mai le luci della Spagna
viste da lontano, con la speranza di arrivarci
il giorno dopo.
Acqua e cibo erano finiti, le luci sembravano vicine.
Non dimenticherò la felicità di scendere
dalla barca e subito la paura, nuova, di essere
preso e riportato in Senegal.
Poi la Spagna, il Portogallo, ancora la Spagna,
la Francia e, infine, l’Italia
con in tasca soldi che nessuno mi cambiava.
169
Non dimenticherò l’uomo che mi aiutò a cambiarli,
la pizza da 12 euro che poi non ho mangiato
perché aveva un gusto che allora non mi piaceva.
Non dimenticherò il panino che il mio amico
ha rubato a un bimbo, alla stazione di Malaga,
gliel’ha strappato dalle mani, avevamo fame
era buono, in mezzo c’era anche il pomodoro.
Mai più dimenticherò l’ultimo treno che ho
preso per arrivare a Torino e la delusione
che ho provato quando ho capito che l’Europa
non era come me l’ero immaginata.
Mi lasciavo dietro un viaggio difficile,
iniziavo una vita piena di difficoltà.
170
R.M.
Istituto Penale Minorile di Torino
Una storia nomade
Max era il primogenito di una famiglia di nomadi proveniente dalla Croazia e, dopo aver compiuto un anno e due
mesi, si ritrovò con un fratellino.
A lui la famiglia sembrava perfetta, il padre Dragan e la
madre Silvana vivevano con i nonni paterni, la casa non era
grande ma ci si poteva giocare e, quando si stava tutti seduti a tavola, era sempre festa. Max però intuiva che qualcosa
non andava; solo il fratellino Grujo non capiva cosa stesse
succedendo perché era ancora molto piccolo.
Era da un po’ di tempo che i nonni litigavano con i genitori. È difficile la convivenza, specie quando gli spazi si restringono, quando non c’è intimità e le esigenze di ognuno
si scontrano con quelle di tutti.
Suocera e nuora alimentavano la tradizione che non le
vede andare di comune accordo.
Dragan era ancora un ragazzo, si era sposato a quattordici anni, Silvana ne aveva solo uno in più e avevano già dato
al mondo due figli, ma erano adolescenti e non riuscivano
a capire che, se non lavori, non puoi costruire una famiglia
e vivere con indipendenza.
La nonna Soriza non lavorava, spesso era malata, l’unico
in famiglia che portava soldi era il nonno Emir ma, con lo
stipendio che prendeva, era difficile arrivare alla fine del
mese.
In casa c’erano sei persone, ognuno con i propri bisogni
e i litigi pian piano aumentavano.
Dragan sopportava pazientemente le urla dei nonni, ma
171
un giorno stavano litigando così forte che Silvana decise di
tornarsene dai suoi lasciando i due figli al marito.
II padre non sapeva come reagire: due bambini da guardare, la nonna malata, il nonno a lavorare. Attese che nel
frattempo qualcosa cambiasse in meglio, ma Soriza non
poteva aiutarlo perché aveva seri problemi di salute. Da
solo si sentiva perso e, soprattutto, non sapeva come fare
con i figli.
Passarono una ventina di giorni, ma della moglie non
aveva più notizie, così, lasciati i bambini da una sorella,
decise di andare dai suoceri e risolvere la questione.
Voleva che Silvana tornasse a casa, ma la donna non ne
voleva sapere e i suoi fratelli la spalleggiavano dicendo che
il marito non era in grado di difenderla dalle angherie dei
suoceri.
Non sapeva come convincerla, diceva che c’erano anche
dei bambini da crescere, rimase tutta la giornata vicino
alla moglie sperando che cedesse, ma lei non cambiò idea.
Anche se aveva un anno in più non riusciva a capire che
aveva due figli da educare. Dragan si preoccupava dei
bambini e, tornato dalla sorella, prese i figli e ritornò dai
genitori.
Come spesso accadeva, il nonno Emir perse il lavoro e
faticava a trovarne altri; poco dopo la nonna si aggravò e se
ne andò. La situazione si stava facendo sempre più dura. Il
nonno in lutto, una situazione economica critica, quattro
maschi per casa ma, mentre il padre disperato vedeva il
mondo crollargli addosso, la madre sentì il dovere di ripensare la vicenda e il giorno dopo si fece accompagnare dai
genitori e tornò a casa.
Per l’occasione si riunirono tutti i famigliari e tutti sanno
quanto siano numerosi i parenti di una famiglia nomade.
Per giorni la casa era piena di gente e Max non riusciva a
crederci: gli stavano vicino le zie, il padre, la mamma e con
i cugini ritrovava quelle intimità che sembravano perse.
Finalmente un raggio di sole tornava a illuminare quella
famiglia dopo giorni tanto bui. Ma, come era successo
anche al papà, anche le sue zie, seppur giovani, erano già
sposate e vivevano presso i suoceri dai quali dovettero ritornare a vivere la loro vita.
Rimasero di nuovo soli con il nonno che, dopo la morte
di Soriza, non faceva altro che bere; per fortuna aveva trovato un altro lavoro, ma spesso si presentava ubriaco e non
mancava occasione per rinfacciare a Silvana i problemi che
aveva avuto con la suocera.
Il vecchio Emir non riusciva a sopportare il ricordo di
quelle liti tra le due donne e si rinchiuse in se stesso non
pensando più ai bisogni degli altri. La mattina si alzava
all’ultimo minuto, andava a lavorare fino alle quattro, mangiava e nel frattempo beveva oltre il limite e si metteva a
dormire fino a sera; quindi iniziava a rimproverare il figlio
e la nuora che non riuscivano a trovare un lavoro e che avevano già messo al mondo due bambini.
Col tempo la situazione degenerò, non gli stava bene che
tutti vivessero in casa sua e lo diceva chiaramente senza
pensare che i ragazzi non sapevano dove andare.
Fu così che Dragan decise di trasferirsi dalla sorella. Si
accordò con un vicino di casa e si fece accompagnare
accontentando così anche suo padre, che rimase solo.
Ma presso la sorella la vita era difficile, la convivenza
stava diventando problematica a tal punto che l’uomo
pensò di tornare dal vecchio genitore. Quando però informò la moglie, litigarono da alzare le mani e la donna se ne
andò per la seconda volta.
La sorella, preoccupata della nuova separazione, cercò di
mettere pace e telefonò ai genitori di Silvana, ma, arrivati a
questo punto, loro non vollero più saperne dicendo che
avevano fatto soffrire troppo la ragazza e riattaccarono il
telefono.
Dragan adesso si trovava in una situazione estrema: la
moglie non sarebbe più tornata a casa e i bambini correvano il rischio di crescere senza una madre. Prese allora una
172
173
grave decisione: fece adottare il più piccolo, Grujo, alla
sorella, che aveva tre figlie e nessun maschio.
Dopo un paio di mesi si venne a sapere che la madre si
era risposata; anche Dragan allora decise di trovare una
nuova moglie.
Da quel triste giorno in cui la mamma se ne andò sono
passati diciassette anni, Max non ha più rivisto la sua vera
madre. Oggi vive con il padre, con una nuova mamma e
con tre nuovi fratelli. Il fratellino Grujo sta con la zia, il
nonno vive ancora da solo.
Della madre vera sa solo che vive in Francia e che ha
avuto tre figlie. “Questa è la vita!” raccontano gli anziani
del campo. “È andata così e non ci si può fare niente”, ma
Max non è d’accordo.
Dragan ha voluto che anche Max si sposasse giovanissimo e adesso lui rischia di trovarsi nelle stesse condizioni,
sembra che la vita non gli abbia insegnato nulla; sposarsi
troppo giovani non ha senso, perché uno a sedici anni non
solo non è in grado di mantenere una famiglia, ma non sa
come reagire alle difficoltà. A quell’età si gioca ancora con
gli amici, si va a scuola, non si è in grado di fare il padre e
il marito allo stesso tempo.
Poteva andare meglio a Dragan se solo avesse aspettato
di essere un po’ più maturo e di imparare a ragionare
prima di agire: si sarebbe risparmiato tutte le litigate tra
nonno e genitori, forse la moglie non sarebbe arrivata al
punto di lasciare due figli e andarsene per tutta la vita.
Per questo, da quando è andata via, non si è più fatta
vedere, certe ferite sono dure da chiudere e la memoria
sfuma quando un’altra vita ti porta lontano, quando altre
persone dipendono da te e ogni giorno non hai tempo per
fermarti a pensare a quello che poteva essere e non è stato.
Max ha un’altra madre che lo cresce, ha quattro fratelli
che sono la ragione di vita per tutti e sono la ragione per
non pensare al passato.
Ma se la storia si ripete è perché nessuno si è fermato un
momento a ripensare che, se siamo costretti a certe scelte,
sarà la vita a presentarci il conto.
Adesso Max ha diciotto anni e vorrebbe costruirsi una
vita, trovare un lavoro che, oltre a permettergli di vivere in
modo dignitoso, dia anche una certa gratificazione; il suo
sogno di commercializzare oggetti rari e antichi si scontra
con le esigenze quotidiane della famiglia e la sera è una scadenza che non si può dimenticare, il giorno dopo è un’altra lunga lotta per la sopravvivenza, non c’è tempo per tergiversare, le bocche da sfamare non si riempiono di sogni.
Pensa di aprire un bar in un paese lontano da certi pregiudizi e tentazioni, per poter lavorare con la giovane
moglie e dare i giusti tempi alla famiglia. Pensa di dare un
futuro ai figli e non farli diventare persone incapaci di leggere il libro della vita, insegnare loro quali strumenti bisogna acquisire per saperla affrontare con coraggio e carattere, crescerli già con un obiettivo, farli diventare delle persone che sanno ragionare prima di agire, essere vicino a loro
quando ci saranno da prendere decisioni difficili e fare in
modo che sappiano pensare ai consigli delle persone che gli
hanno voluto bene quando, soli, dovranno fare delle scelte.
Non esiste una data precisa che ci dica quando siamo
maturi, ma agire con coscienza giorno per giorno non è
forse la strada più sicura?
Siamo noi gli artefici del nostro destino e, se non sappiamo guardare avanti per tempo, la vita può essere crudele.
174
175
D.S.
Istituto Penale Minorile di Torino
Mariangela P.
Istituto Penale Minorile di Bari
Il viaggio (Tunisi-Lampedusa)
Dolce luna
Vorrei scordare il mio paese che
non mi ha dato niente, solo povertà
buttare via la vita che faccio
e averne una nuova.
Vorrei cancellare il mare dalla mia testa
perché ho avuto tanta paura
e non pensare più a quel viaggio,
non avere più ricordi di quei quattro giorni.
Vorrei dimenticare per sempre
il mare, la paura, il buio, il blu.
Blu davanti, sopra, dietro, blu di lato
l’acqua che entrava nella barca
il buco che non riuscivamo a chiudere.
Vorrei non ricordare la fame, la sete,
il freddo che sentivo più forte perché
i vestiti erano bagnati.
Vorrei dimenticare Lampedusa e la
telefonata che ho fatto a mia madre
che mi credeva morto.
Vorrei dimenticare il giorno che mi hanno
arrestato e portato qui dentro.
Voglio togliere la galera dalla mia testa.
Voglio uscire da qui e avere una vita bella,
un lavoro tranquillo, mi voglio sposare e
avere una casa, l’amore, un bambino.
È difficile ma lo spero.
176
Sei dolce mia cara, amata,
sei setosa come un velo di nozze,
quando ti guardo, i tuoi occhi
mi parlano di gioie immense.
Quando sorridi, il mio cuore
si colma di tanta luce
come se una stella stesse cadendo.
Sei la mia dolce luna,
il mio caro riparo,
il mio dolce conforto
sei la mia dolce donna e ti amo,
mia dolce luna.
Non conosco una pelle profumata
come la tua,
sa di intenso, come se Dio
avesse unito tutti i fiori
più profumati per donarli
al tuo splendido corpo.
Non sospiro mai la tua mancanza
così nessun uomo sa o saprebbe mai
cosa significa cercarti
o stare con te.
Ti aspetterò all’infinito…
ti riconoscerò dal tuo fresco essere.
Il tuo animo e i tuoi anni
sanno di eterno conforto
tra le mie calde braccia, mia dolce luna.
177
Nessuno saprà mai cosa
cela il tuo corpo,
nessuno mai ti rapirà dal mio cuore,
tu con me sei al sicuro,
sei un elemento essenziale
nel mio mondo.
Anche se non ti conoscessi,
ti riconoscerei tra mille donne
perché sei la mia dolce passione,
mia dolce luna.
L’amore ha detto sì
Hai colpito il mio cuore e lo sai,
con un bacio hai rotto il silenzio che ci circondava,
in una buia notte di luna calante.
Stamattina ti ho sentito e lo sai,
il tuo bacio al mattino e il mio dolce risveglio,
mi riempie il cuore di zucchero di canna e miele.
Sono le sette e ti aspetterò e mentre ti aspetto, ti penso,
già sento il tuo profumo salire su per le scale…
Questa notte l’amore ha colpito,
questa notte il mio cuore si è riempito,
questa notte anch’io ti ho rapito,
questa notte l’amore ha detto sì.
178
Catene di angeli in festa
Fiori profumati d’intenso, ghirlande fiorite,
ricche di petali rossi
adornano così il mio dolce sogno.
Tutto il cielo è stellato,
grandi costellazioni come un manto argentato
riempiono questa grande notte d’estate…
Odore di salsedine colpisce i miei sensi,
sapori d’amaranto alleviano il mio gusto,
profumi d’arancio e frutti tropicali,
odori di cocco mi circondano,
tra queste onde azzurrine che si sposano
con il brillore dorato della luna,
che si avvicinano al mio sogno
e con grande orgoglio e fedeltà si ritraggono,
per consumare
ancora il loro movimento.
Sento in lontananza gabbiani in silenzio
far festa,
vedo persino il vento che al suo passaggio
mi esprime la sua folata tropicale,
mi colpisce un’idea in questo sogno…
cosa sono io in tutto questo?
Sono in un sogno, in questo sogno, il mio sogno.
Non conosco una creatura di beltà più pura,
di una lealtà più intensa,
la sua presenza mi trattiene calmo
nell’oscurità,
non ho paura, ma tremo.
Penso alla mia catena di angeli,
dove risiedono i miei paladini,
in questo pensiero così celestiale,
così innovativo,
non vedo che catene di angeli in festa.
179
Considero valore l’immaginazione, la vergogna e la spontaneità.
Istituto Penale Minorile di Bologna
Considero valore tutti i colori, il bianco ghiaccio, il blu
cielo, il verde erba, il giallo sole, il rosso fuoco.
Considero valore
Testi liberamente ispirati a Considero valore di Erri de Luca
Considero valore ogni forma di rispetto
considero valore ogni uomo molto bravo
considero valore la stanchezza dopo il lavoro
e sarò felice quando arriverà la paghetta del mio lavoro
considero valore quando tornerò nella mia casa e sentirò la
voce dei miei figli
considero valore poter usare il cuore e non solo il cervello.
Considero valore gli uomini,
dall’Australopithecus fino a quelli del XXI secolo.
E considero valore tutte le donne che creano una nuova
vita con i loro figli senza che nessuno alzi le mani…
Fernando Rodrigo G.R.
Ashraf K.
Per essere felice
Testi liberamente ispirati alla poesia Il gatto
di Guillaume Apollinaire
Considero valore ogni persona che ho conosciuto
considero valore la pioggia e i sentimenti
dalla rabbia alla paura
il giorno e la notte,
l’estate e l’inverno.
Considero valore la larva che dopo il tempo riesce a volare
da farfalla,
come i bambini che non camminano ma che negli anni
creeranno una famiglia.
Per essere felice
mi auguro di avere
una mia casa
un mio lavoro
una vita tranquilla e lunga
e la mia libertà
in tutte le situazioni.
Lahoussaine A.
Considero valore tutte quelle persone che hanno voglia di
superarsi.
180
181
Per essere felice
mi auguro di avere
una famiglia
immaginazione
buona calligrafia
e la mia libertà…
Fernando Rodrigo G.R.
scarpe bianche
gli animali
il vento
canzoni che fanno pensare
giocare a calcio
scrivere
vedere e ascoltare
nuotare
sognare
conoscere gente nuova.
Fernando Rodrigo G.R.
Per essere felice
mi auguro di avere in casa mia
una donna non molto bella e non molto brutta
la cosa importante sono il cuore bianco e il cervello pulito.
Una donna che sappia ragionare e rispettare le cose che amo
e degli amici in tutte le stagioni;
senza questo per me non è vita…
In sogno
Testo liberamente ispirato a Elogio dei sogni
di Wisława Szymborska
Ashraf K.
Piaceri
Testo liberamente ispirato a Piaceri di Bertolt Brecht
Svegliarmi e vedere la mia famiglia
ritrovare vecchie lettere d’amore
le mie foto
da quando sono nato fino ad oggi
la pioggia e l’estate
182
In sogno
sono libero
parlo tutte le lingue del mondo
so volare nel mio universo
sono il primo astronauta che ha scoperto un pianeta fantastico
nuoto nel mare più grande del mondo
senza paura
vado in bicicletta nel cielo azzurro, sopra le nuvole, vicino
al sole
riesco a viaggiare nel futuro e nel passato
e a correggere i miei inutili errori
sono un grande studioso e scienziato
183
i miei amici preferiti sono angeli
la notte vado a dormire sulle nuvole.
Lahoussaine A.
Ciò che voglio
voglio una vita senza problemi
normale
come le vostre vite.
Ciò che ho:
ho i miei disastri
sto pagando i miei errori.
Ciò che non sono, non ho, non voglio, non vorrei - e ciò
che vorrei, ciò che ho e ciò che sono
Liberamente ispirato al testo omonimo di Peter Handke
Ciò che non sono:
non sono un tipo fastidioso
non mi piace ascoltare chi ripete le stesse cose.
Ciò che purtroppo non sono:
purtroppo non sono tranquillo
purtroppo non sono molto tollerante.
Ciò che grazie a Dio non sono:
grazie a Dio non sono un “animale”.
Ciò che sono:
sono intelligente
riesco a riflettere.
Ciò che in fondo anche sono:
in fondo sono sincero.
Ciò che qualche volta anche sono, ma poi…:
resisto fino a un certo punto, ma poi…
qualche volta sono cattivo, ma poi riesco a liberarmi della
cattiveria.
Ciò che sono:
sono confusionario
vivace
energico!
Grazie a Dio sto vivendo.
Lahoussaine A.
Ciò che in definitiva non sono:
non sono una persona paziente
non sono una persona senza cervello.
Ciò che vorrei:
vorrei avere una bella vita
vorrei star bene.
184
185
Aniello C.
Istituto Penale Minorile di Catanzaro
Se fossi…
Se fossi fuoco brucerei l’ipocrisia
se fossi acqua annegherei l’egoismo
se fossi vento travolgerei la maleducazione
se fossi re concederei più democrazia.
Dividerei…
Dividerei il mio sorriso
per vederti sorridere,
ti accarezzerei il viso
per toccare la tua pelle ardente.
Se soffrissi per una parola
userei la parola ti amo,
per farmi dimenticare il male
e ricorderei il bello.
Da quando sono innamorato di te
vorrei essere lo specchio di casa tua
per vederti ogni mattina
e augurarti il buongiorno.
Io vivo…
Io vivo solo per te e tu per me,
sei l’aria che respiro,
sei il sole che sorgerà e tramonterà nel mio cuore,
sei un fuoco che nessuno può spegnere,
sei una cosa che nessuno può cancellare,
e solo con la tua medicina guarirò il mio respiro.
186
187
Giacomo S.
Istituto Penale Minorile di Catanzaro
perciò ti lascio con una carezza sul viso
e con questa mia mano
ti dico un ultimo “ti amo”.
Amarti
Se amarti fosse un peccato
io mi vorrei sacrificare.
Come questo fiore delicato
sei tu il mio ricordo più delicato
di un meraviglioso mondo che resterà
dentro il mio cuore
come quest’uomo innamorato
in questo mondo favoloso.
Piangono i miei occhi
Piangono i miei occhi
sulle tue labbra rossastre
come la pioggia
che si posa su dei pini.
Vorrei fuggire da te e dal mondo
finché dura questa mia vita
e ruggisca in me questo animo guerriero
mentre i tuoi occhi
bruciano dentro i miei.
È per questo che l’amore è impossibile per noi due
188
189
Michele R.
Istituto Penale Minorile di Catanzaro
Giacomo D.S.
Istituto Penale Minorile di Quartucciu (CA)
Vorrei…
Ora vola…
Vorrei diventare un dottore
per guarirti, bella, da ogni male.
Per medicina ti darei il mio amore
e ti ricovererei nel mio cuore,
ma medico non sono e non divento
e sotto il tuo balcone soffro e piango.
Sta fermo passerotto, non andar via
qui sei l’unico che può farmi compagnia…
Osserva passerotto, quest’uomo abbandonato da molti
ma non da tutti dimenticato…
ascolta i miei pensieri, dammi consiglio
porta via con te ricordi e malinconie…
ora vola in alto passerotto, raggiungi
quella stella e raccontale di me
poi torna qui perché ricorda che devi
insegnar a quest’uomo come volar via…
Ancora
Ancor tu a stuzzicare i miei pensieri…
silenziosa li accarezzi con petali di nostalgia…
facendoti a testa alta avanti nei miei sogni
sopraffatti dall’inconscio di un semplice saluto
che tanto sa di addio…
190
191
Nessuna tregua
E quella notte oscura
che non mi portò consiglio
riempì la mia mente di ingenue sofferenze…
troppo arduo per me quel momento
la mia testa è stata piegata
fu rumoroso il mio pianto asciutto
e sordo il mio io.
192
Giovanni B.
Istituto Penale Minorile di Roma
Il pregiudizio
L’immagine di una persona ci mostra al primo impatto solo
una fotografia… che viene interpretata in modo positivo o
negativo?
Tutti noi abbiamo uno sguardo diverso verso gli altri e la
prima idea che ci viene è quella esteriore, cioè la bellezza,
la simpatia, il modo di vestire eccetera.
Ma la vera persona non si basa solo su questi aspetti esteriori, perché racchiude dentro di sé prima di tutto la sua
esperienza di vita, che spesso la fa sembrare diversa da quella che è.
E qui subentra il pregiudizio, che spesso comporta un
giudizio sbagliato.
Ad esempio, un calciatore di serie A: viene da pensare
che sia arrivato facendo tanti sacrifici e allenamenti pesanti, ma siamo sicuri che quel calciatore si sia guadagnato la
maglietta con le sue fatiche? O gli è servito solamente un
aiuto per raggiungere il suo scopo facendo meno sacrifici?
Giudicate voi…
Come esperienza personale vi posso dire che mi è successo di incontrare una persona che in un primo momento mi
è sembrata dolce, tenera e sincera… ma solo il tempo mi ha
dato una mano per capire che nascondeva un’altra faccia.
Attenzione, non è che uno deve avere più facce, ma la
maggior parte delle persone che sembrano più aperte secondo me sono quelle che non hanno mai avuto un’infanzia difficile, che stanno bene, sia fisicamente che mentalmente, e a cui i genitori non hanno fatto mancare niente.
193
Quelli come loro partono con una marcia in più e con
un sorriso sempre stampato in faccia, quello che invece
non potrebbe fare un ragazzo come me che ha avuto un’infanzia molto difficile. È per questo che ci ritroviamo sempre sotto l’occhio delle persone che sono pronte a esprimere il loro giudizio.
È per questo che dobbiamo rialzarci e provare ad andare avanti con più determinazione e pensare che la vita è
una sola e si deve vivere giorno dopo giorno al 100% e
imparare a sorridere di più… anche se il passato è difficile
da dimenticare.
Domenico D.M.
Istituto Penale Minorile di Airola (BN)
Il cuore infranto
La mia anima
non si nasconde
dietro queste fredde sbarre,
ma le attraversa
per starti vicino
a farti compagnia.
Quando un giorno
tutto questo sarà finito
e non rimarrà che
un brutto ricordo,
allora sì che io potrò
riabbracciarti,
coccolarti,
e stringerti forte a me.
Giorni tutti uguali
Un giorno di schifo
oggi ho passato.
Un altro giorno di schifo
domani passerò,
qui nulla cambierà.
194
195
Sono solo
con il rimorso
dell’errore compiuto.
Mentre conto le ore
che mi scivolano addosso,
confuso penso al passato
e sto male.
Non mi rimane
che raccogliere le forze
e affrontare la realtà.
K.B.
Istituto Penale Minorile di Treviso
Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto…
Vorrei parlare di un argomento che ormai ha riempito la
bocca di molte persone; dato che a mio parere abbiamo
pari diritti e pari doveri esprimerò il mio pensiero
sull’Africa, un pensiero che purtroppo non potrà cambiare
niente, ma credo che potrà far riflettere i lettori su una
situazione da tutti conosciuta, ma altrettanto trascurata.
Cercherò di parlare il meno possibile di multinazionali,
globalizzazione e capitalismo anche se è loro la gran parte
della responsabilità dei danni che subisce l’Africa (80%).
Quello che mi interessa maggiormente è il restante 20% e di
questo siamo noi la causa. Per far intendere la gravità della
situazione dirò soltanto che ogni secondo muore un bambino per fame, sete o malattie curabili.
Donare soldi non aiuta i poveri, dato che i soldi vanno a
finire in azioni o fondi di investimento gestiti dalle multinazionali.
Quando passiamo al supermercato cerchiamo sempre di
comprare beni di prima qualità, e sono proprio questi prodotti che vanno ad alimentare le multinazionali e il mercato capitalista; la globalizzazione fa il resto, cercando di
imporsi sui mercati degli Stati con molta pressione.
Si può dire che il rispetto dell’ambiente e i diritti umani
non siano il principale problema di queste multinazionali.
Cosa possiamo fare per fermare questo mondo ingiusto?
La cruda realtà è che chi ha soldi mangia e chi non ha soldi
niente.
Soldi, soldi, soldi… ma chi li ha inventati? Inevi196
197
tabilmente noi uomini, che non sapendo accontentarci di
condividere la terra, l’abbiamo dovuta monetizzare e dividere… ma almeno dividiamola bene ed equamente, e invece nemmeno questo è stato fatto! A questo punto non sembra troppo sperare che nessuno muoia di fame, ma proprio
adesso sta succedendo esattamente questo a tanti padri,
madri e bambini.
Io conosco la Coca-Cola, Armani, Adidas e via dicendo,
ma una cosa non so proprio cosa voglia dire: la fame.
Cos’è la fame, cosa vuol dire rinunciare a un pranzo o a
una cena… non credo che in Africa esistano pranzo o cena,
non esiste il ritrovarsi tutti insieme a tavola a condividere il
pasto; questo è pane quotidiano per noi e malgrado ciò
continuiamo a lamentarci se non abbiamo le scarpe firmate oppure il cellulare di ultima generazione.
Che futili pensieri ci frullano per la testa, e non siamo
nemmeno capaci di comandare questi impulsi!
A questo punto anch’io credo sia veramente difficile
riuscire a cambiare la situazione, anche se una cosa sono
sicuro di poter fare: rispettare.
Cos’è il rispetto in questo caso? Credo che non sprecare,
accontentarsi e sorridere quando ti guardi in giro e ti
accorgi che non ti manca niente sia già un buon inizio per
rendersi conto di quanto siamo fortunati.
In conclusione cosa dire. Credo che se riempiamo un
bicchiere a metà di acqua e lo facciamo vedere a un italiano ci guarderà scettico e senza esitare ci dirà che è mezzo
vuoto, se lo facciamo vedere a un africano lo berrà e basta.
198
Roma, 2004: momenti della premiazione con Margaret Mazzantini.
Nomi e pseudonimi dei partecipanti
La prima edizione del premio, a Porto Azzurro (LI) nel 2002.
Abidi Montassar
Agrati Giampaolo
Alaimo Giuseppe
Albanese Antonio
Albanese Ilario Salvatore
Aletta Emanuele
Alfano Paolo Giuseppe
Alvaro Antonio
Amato Carmelo
Amato Tommaso
Amico Paolo
Anselmi Arturo
Antonelli Pietro
Ascioti Cosimo
Avallone Gennaro
Baklouti Mohamed Khalil
Balauca Marian
Baldan Claudio
Balu Joan
Banut Mihai Cornel
Barbu Dan-Olivier
Barile Salvatore
Barreca Giuseppe
Barreca Santo
Barski Michat
Belforte Claudio Gabriele
Bellina Giuseppe
Ben Brik Rachid
Ben Tahar Walid
Benetti Enrico
Bergamaschi Aurelio
Bernabei Massimiliano
Berto Patrizio
Bertuzzi Nicola
Bisan Michele
Bisceglia Luigi
Bisogni Giampiero
Bitetti Domenico
Bondka Yassine
Bonfilio Massimo
Bongiorno Calogero
Bonomo Giuseppe
Bontempo Sebastiano
Bostina Florin Lucian
Bouayad Abdelmajid
Boumliki Abdelhamid
Braggio Marco
Branda Fortunato
Bruzzone Nicola
Buono Paolo
Butt Umair Ahmad
Calderulo Christian
Calia Roberto
Calonghi Marco
Cannavò Roberto
Cannizzaro Sebastiano
Cannizzo Christian
Cantiello Arturo
Capizzi Salvatore
Caporali Nazzareno
Capuano Salvatore
Cara Domenico
Carbone Rocco
Casaburi Raffaele
Casadonte Pasquale
Caso Antonio
Castillo Juaqin Orlando
Cataldo Giuseppe
Cavallese Davide
Cavone Ciro
Cecchinelli Luca
Celardo Francesco
Ceoban Ala
Cesi Gennaro
Chaibi Moez
Chessa Gavino
Chiruzzi Pancrazio
Cicchella Sergio
Cifone Paride
Cirella Michele
Cirstoin Raul Marian
Colurciello Salvatore
Commisso Domenico Sandro
Concone Lucio Giovanni
201
Condello Bruno
Conti Marco
Corodda Giovanni
Corradini Marco
Corsini M.
Cosimi B.
Costantino Giuseppe
Costantino Vincenzo
Crisafulli Alessandro
Cristarelli Enrico
Cristofalo Sandro
Croce Raffaele
Cuffari Michele
Cuffaro Salvatore
Cuscusa Raimondo
Cutolo Francesco
D’Agosta Carmelo
D’Agostino Rosario
D’Alessandro Vincenzo
D’Angelo Vito
Dalla Valle Mario
Dambage Samantha
Danieli Paolo
Davydenko Oleh
De Cristofaro Alfredo
De Feo Carmine
De Iorio Maurizio
De Lorenzo Cosimo Filippo
De Mattia Vito Stefano
De Santis Giuseppe
De Stefano Carmine
Del Vecchio G.
Dell’Erba Flavio
Dell’Oro Luciano
Della Ragione Francesco
Denti Luca
Denti Saulo
Dentice Luigi
Di Bella Gaetano
Di Bella Gaetano Orazio
Di Napoli Daniele
Di Paola Marcello
Di Peri Perez Paola Salvatriz
Di Rosa Ezio
Di Silvio Giuseppe
Diana Stefano
Diouf Omar (alias Sek Mamadou)
Dragani Cristiano
Dsagie V.
Ediae Salomon
Elboustani Abdul
Elli Maurizio
Esposito Carmine
Fabricino Pasquale
Fagnani Andrea
Falorni Enzo
Fariselli Matteo
Fata Elvis
Felle Eupremio
Ferraioli Franco
Ferrari Pierluigi
Festinese Giuseppe
Ficarra Francesco
Ficini Samuela
Fida Gerardo
Filoreto Vincenzo
Forcina Fabrizio
Francavilla Nicola
Franciosi Sandro
Fraterrigo Salvatore
Frontoni Alessio
Fruttidoro Massimo
Fusano Francesco
Gabriele Aral
Gaeta Mario
Gafon Romeo
Gagliardi Angelo
Galante Barbara
Galloro Giovanni
Garaffoni Francesco Antonio
Garofaro Gerardo
Gasbanno Guglielmo
Gauna Lioi Luciano Javier
Geremia Gennaro
Gerini Emilio
Ghammouri Glay
Ghiani Mariano
Ghilini Doriano Giuseppe
Giliberti Ignazio
Gioacchino Marino
202
Giorgi Francesco
Gissi Pasquale
Giudice Giuseppe
Giuffré Pietro
Gjergji Nikolli
Gorelli Matteo
Granata Salvatore
Greco Enrico
Grieco Gerardo
Gross Silviu Adrian
Guarino Alberto
Guarino Giuseppina
Gueli Antonio
Hadzovic Maicol
Hamdi Imad
Iavarazzo Giuseppe
Ignat Ciprian
Imerti Giovanni
Impusino Carmelo
Interlici Emanuele
Isbonachor Ernest Louis
Izzo Daniele
Khabbachi Khalid
Khagi Hamou
Krouman Aboubacar
Kupi Taulant
La Licata Carmelo
Lacalamita Roberto
Laisa Filippo
Langella Luca
Lastrico Alessandro
Lazri Martin
Lazzari Alessandro
Ledda Mosè Giuseppe
Librato Andrea
Licandro Rocco
Lilliu Stefano
Lin Wei
Lo Nigro Cosimo
Lombardo Sebastiano
Lorusso Giuseppe
Maccarrone Francesco
Maiga Ahmed Boubacar
Maiocchetti Massimiliano
Maneschi Clara
Mangiameli Sergio
Mantovani Vittorio
Marelli Giovanni
Marenco Luciano
Maresca Maurizio
Mari Massimo
Marigliano Massimo
Marini Antonio Maria
Marotta Gianfilippo
Martello Mario
Masalmeh Ahmad
Mastroddi Paola
Mastroianni Gennaro
Mastrolorenzi Andrea
Matouf Hicham
Maureddu Salvatore
Mauti Sergio
Mazzolla Manuel
Mena Louis
Menci Stefano
Merlino Antonino
Merosi Luana
Miccoli Antonio
Migliaccio Gianluca
Mihairich Youssef
Milazzo Sebastiano
Milillo Vito
Mini Fabio
Mnela Vladimir
Mollo Federico
Molteni Alessandro
Morgante Franco
Moscaggiura Cosimo
Mozzetti Alessandro
Muhammad Nadeem Hussain
Musumeci Carmelo
Nardi Antonio
Nasseur Salah
Nolfo Saverio
Nuti Simona
Obaseki Kate
Occidente Antonio
Ouentani Fethi
Pace Domenico
Paganetto Damiani Ivano
203
Paggetti Massimiliano
Pajaj Kimet
Palumbo Mario
Pancrazio Maurizio
Paolucci Emidio
Papalia Antonio
Papi Paolo
Parente Giuseppe
Parisi Roberto
Pellegrino Cjnthia
Penna Antonino
Perrone Massimiliano
Perrucci Francesco
Persico Alessandro
Piccoli Silvio
Pignatelli Patrizio
Pilato Francesco
Piras Franco
Pirinelli Antonio Cosimo
Pisano Santo
Pitasi Carmelo
Popovici Paul Constantin
Porcedda Eugenio
Porcu Domenico
Prati Rossano
Precisano Michelangelo
Pricop Ionut Marius
Primo Sebastiano
Prinari Giovanni
Pullarà Santi
Racise Salvatore
Rahmani Walid
Raiano Rosa
Ranieri Fabio
Rannesi Girolamo
Rao Carlo
Rapone Bruno
Rexha Mentor
Riso Domenico
Roasio Fabrizio
Rodolao Giuseppe
Romera Esposito Angel
Rouahi Mourad
Ruberto Vincenzo
Russo Antonio
Russo Gennaro
Saba Francesco
Saba Luca
Saggese Matteo Antonio
Saitto Salvatore
Salatino Angelo
Salvatore Marino
Salvatori Simone
Salvo Roberts E.Baby René
Samperi Paolo
Santorsola Salvatore
Sayari Kameleddine
Schirru Rinaldo
Schlemmer Ferdinando
Sciabica Daniele
Scipilliti Luciano
Scolta Walter
Scoponi Riccardo
Selimi Agim
Seppia Riccardo
Sereni Valerio
Silvestre Antonio
Simone Cosimo
Sini Aldo
Smaniotto Ferruccio
Sodani Maurizio
Spinolo Pietro
Sponsillo Luigi
Stepanov George Daniel
Susano Villagomez Marco Antonio
Tankamash Kerua
Tarara Lucian
Tarlazzi Riccardo
Tartari Paolo
Tauro Antonio
Tedino Paolo
Tentori Riccardo
Terreni Tiziana
Tonietti Carlo
Tonini Mario
Toro Andrea
Torrisi Salvatore
Trifarò Massimo
Trolese Susanna
Urso Pasqualino
204
Vacca Antonello
Valenti Calogero
Vanin Sandro
Venosa Antonio
Vetere Franco
Vezzani Stefano
Viggiano Giuseppe
Villa Ruschelloni Daniele
Virgili Alvaro
Vizioli Andrea
Volpi Alessandro
Wael Mohamed
Yarbou Kamal
Zaghdoudi Imad
Zamal Michal
Zambrano Paolo
Zampollo Marco
Zangara Brigida
Zarra Donato
Zhao Han Zhen
Zito Giovanni
Zorzi Sandro
Zu Chang You
Zuin Diego
Minori
Istituto Penale Minorile di Airola
(BN):
Domenico D.M.
Istituto Penale Minorile di Bari:
Mariangela P.
Istituto Penale Minorile
di Bologna:
Lahoussaine A.
Fernando Rodrigo G.R.
Ashraf K.
Istituto Penale Minorile
di Catanzaro:
Aniello C.
Michele R.
Giacomo S.
Istituto Penale Minorile
di Quartucciu (CA):
Giacomo D.S.
Istituto Penale Minorile di Roma:
Giovanni B.
Istituto Penale Minorile
di Torino:
R.M.
D.S.
S.T.
Istituto Penale Minorile
di Treviso:
K.B.
205
Ringraziamenti
Un grazie particolare al Presidente della Repubblica e ai
Presidenti del Senato e della Camera per l’apprezzamento
dimostrato con la concessione di una Medaglia di rappresentanza.
Un grazie a Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero del Salone internazionale del libro di Torino, Carla Sacchi Ferrero dei Presìdi del libro Piemonte, le Sedi locali e il Consiglio Nazionale dell’Università delle Tre Età.
Un sentito ringraziamento alla Casa di reclusione “Rodolfo
Morandi” di Saluzzo per aver gentilmente ospitato la cerimonia di premiazione dei vincitori di questa XI edizione
del Premio.
Porto Azzurro (LI), 2003:
momenti della premiazione con Veronica Pivetti.
Un ringraziamento anche ai numerosi istituti penitenziari
e agli insegnanti che hanno collaborato affinché tanti dei
loro reclusi potessero partecipare al concorso ed essere
infine presenti alla premiazione.
Infine un ringraziamento all’editore Gaspare Bona e a Marta Chiantore e Silvia Ferrero di Blu Edizioni.
207
Indice
Il Premio letterario “Emanuele Casalini”
Chi era Emanuele Casalini
Comitato d’onore
Giuria
Introduzione del Presidente della Provincia di Livorno
Presentazione di Ernesto Ferrero
3
5
6
8
9
11
SEZIONE PROSA
Opere premiate
Francesco Antonio Garaffoni
Il giorno che la Terra prese un altro giro
21
Massimiliano Maiocchetti
600 secondi
29
Santi Pullarà
Elia Davì
34
Gavino Chessa
A come… attesa
B come… Boccaccio
C come… cerco casa
45
45
46
Carmelo La Licata
Ricordi di Ortigia, l’isola delle quaglie
48
Opere segnalate
Emanuele Aletta
Catina
59
209
Walid Ben Tahar
Binari
SEZIONE POESIA
63
Sebastiano Bontempo
Na na… Na na… Na na…
68
Stefano Diana
Giornata tipo del detenuto medio ad Alghero
73
Opere premiate
Vittorio Mantovani
Roubaix
Piazzale Aquileia
La rosa purpurea
119
120
121
124
125
126
Alberto Guarino
Il Teatro (l’abbraccio di ferro)
78
Aral Gabriele
L’amara roccia di Volterra
Fiori di carta
Trasparenza
Luana Merosi
A mia madre
84
Carlo Rao e Christian Calderulo
Nel giardino dei matti
128
Antonio Russo
Una notte con il ghiro
86
Riccardo Seppia
Impressioni sulla vita carceraria
Luca Denti
Le trenta monete
Senza titolo
Senza titolo
131
132
132
90
George Daniel Stepanov
Pensiero “sbarra-to”
98
Mario Tonini
Quello che desidero
103
Massimo Trifarò
Una giornata di sole
112
210
Opere segnalate
Marian Balauca
La battaglia di Rotunda
Alla deriva come una nave
137
138
Enrico Benetti
Assordanti silenzi
Brezza
Desiderio
Sorrido
140
140
141
141
211
Massimiliano Bernabei
Senza titolo
142
Sebastiano Cannizzaro
Carzaratu
143
Moez Chaibi
Pensieri
Breccia
La mia dea
145
145
146
Alessandro Crisafulli
I
II
III
147
147
148
Ezio Di Rosa
Ape
Sogno
Giardino
149
150
151
Antonio Gueli
La freccia dell’amore
Il nulla
Cristo
152
152
153
Carmelo Impusino
Volo solo
Sfumati ricordi
Pensieri lontani
154
155
155
Martin Lazri
Emozioni
Notte
Vivo in te
156
157
157
212
Sebastiano Milazzo
L’approdo
Ombre
La replica
159
160
161
Massimiliano Paggetti
Il Tempo
Illusioni
163
163
Antonino Penna
Anche uomini
165
MINORI
S.T.
Il viaggio (Senegal-Italia)
169
R.M.
Una storia nomade
171
D.S.
Il viaggio (Tunisi-Lampedusa)
176
Mariangela P.
Dolce luna
L’amore ha detto sì
Catene di angeli in festa
177
178
179
Ashraf K., Fernando Rodrigo G.R., Lahoussaine A.
Considero valore
Per essere felice
Piaceri
In sogno
Ciò che non sono, non ho, non voglio, non vorrei e ciò che vorrei, ciò che ho e ciò che sono
213
180
181
182
183
184
Aniello C.
Se fossi…
Io vivo…
Dividerei…
186
186
187
Giacomo S.
Amarti
Piangono i miei occhi
188
188
Michele R.
Vorrei…
190
Giacomo D.S.
Ora vola…
Ancora
Nessuna tregua
191
191
192
Giovanni B.
Il pregiudizio
193
Domenico D.M.
Il cuore infranto
Giorni tutti uguali
195
195
K.B.
Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto…
197
Nomi e pseudonimi dei partecipanti
Ringraziamenti
201
207
Hanno contribuito
214
Provincia
di Livorno
Comune
di Piombino Assessorato alla Cultura
Comune
di Porto Azzurro
Finito di stampare nel mese di novembre 2012
presso Centro Stampa Provincia di Livorno