L`Altra Libertà - Comune di Piombino
Transcript
L`Altra Libertà - Comune di Piombino
L’ALTRA LIBERTÀ Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini” 11ª edizione 2012 Il Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini” è promosso da Università delle Tre Età - Unitre di Porto Azzurro e di Volterra, Salone internazionale del libro di Torino, Presìdi del libro Piemonte PRESÌDI DEL LIBRO PIEMONTE con il patrocinio di: Regione Piemonte Provincia di Cuneo Comune di Saluzzo Regione Toscana Provincia di Livorno Provincia di Pisa Comune di Piombino Comune di Porto Azzurro Segreteria del Premio Lucia Casalini Via L. da Vinci 30 57025 Piombino Tel. 0565.221079 www.premiocasalini.it Redazione e impaginazione: Presìdi del Libro Piemonte e Blu Edizioni Copertina: Laura Caratti Stampa: Centro Stampa Provincia di Livorno Il Premio letterario “Emanuele Casalini” Nel 2002 ricorreva il cinquantenario de La Grande Promessa, la prima rivista carceraria italiana, nata a Porto Azzurro per iniziativa dei detenuti. In quell’occasione, la Società di San Vincenzo De Paoli e l’Università delle Tre Età - Unitre, che da decenni svolgono attività di volontariato nel carcere elbano, hanno ritenuto opportuno sottolineare il valore della ricorrenza con un’iniziativa significativa: l’istituzione di un premio letterario nazionale riservato ai detenuti e dedicato a Emanuele Casalini, attento lettore, collaboratore ed estimatore de La Grande Promessa, oltre che fondatore, presidente e docente dell’Unitre di Porto Azzurro. L’iniziativa nasceva anche da una motivazione più profonda: il proposito di offrire nuove occasioni, nuovi incentivi a quelle prove di scrittura che da sempre sono presenti nel mondo carcerario come tentativo di rappresentare se stessi e il proprio rapporto con il mondo. Anche in carcere si scrive per ripensare il proprio percorso esistenziale, per liberarsi, oggettivandoli, dai fantasmi dell’isolamento e dall’angoscia di essere confinati in luoghi tanto remoti dalla comprensione degli altri uomini, per ritrovare la propria identità, per tentare un dialogo con gli altri. È la ricerca di un ordine interiore che possa dare un senso al proprio vissuto, e renderlo condivisibile con altri, attraverso la grammatica della scrittura, sia che si scelga la forma del racconto sia che si scelga quella della poesia. È proprio così che si può raggiungere una nuova consapevolezza, offrire nuove occasioni alla costruzione di sé, e al tempo stesso coinvolgere il lettore, facendogli conoscere storie, sentimenti, ambienti, situazioni che altrimenti non avrebbe occasione di approfondire. Si tratta insomma di costruire un piccolo ponte che metta in contatto il carcere con il mondo esterno, e che trasformi la segregazione in un momento di incontro e di dialogo, di approfondimento reciproco, invitando il lettore all’ascolto. Nei primi due anni la premiazione dei vincitori si è tenuta nel penitenziario di Porto Azzurro. Poi, anche per le difficoltà di trasferimento e comunicazione che presenta un’isola, dal 2004 la cerimonia di premiazione è diventata itinerante, ed è stata ospitata, grazie alla sensibilità e alla collaborazione delle istituzioni, nel carcere di “Rebibbia” a Roma, nel “Lorusso e Cutugno” di Torino, al “Montorio” di Verona, al “San Vittore” di Milano, poi nuovamente a Torino, a Volterra, a Brescia, a Firenze e infine, nel 2012, nel carcere “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. Fin dalla prima edizione, dirigenti e operatori del mondo carcerario hanno apprezzato e incoraggiato l’iniziativa, che ha ottenuto il patrocinio della Presidenza della Repubblica, della Presidenza della Regione Toscana e della Provincia di Livorno, del Comune di Piombino e delle amministrazioni degli enti locali e regionali e delle città che hanno ospitato le premiazioni. I giurati del premio, variamente impegnati nell’editoria, nell’organizzazione culturale, nell’insegnamento e nelle arti, hanno avuto il piacere e l’onore di avere con loro Anna Maria Rimoaldi, studiosa di storia, regista, già attiva collaboratrice di Maria Bellonci, poi direttore della Fondazione Bellonci, che promuove il Premio Strega, il maggior riconoscimento letterario italiano. Anna Maria ha speso generosamente la sua vita nella promozione del libro e della lettura, e ci ha lasciati il 2 agosto 2007, a Poggio nell’Elba, mentre a pochi passi dalla sua casa si teneva una riunione della Giuria del Premio Casalini. A lei il nostro ricordo più grato e più affettuoso. Possiamo concludere queste poche note con le parole che lei stessa aveva dettato: “Ogni premio letterario è una ricchezza che deve essere perseguita e valorizzata. Il Premio letterario ‘Emanuele Casalini’ ha una valenza sociale e umana che lo rende particolarmente importante”. Chi era Emanuele Casalini Tutti coloro che l’hanno conosciuto ricordano di Emanuele Casalini il carattere mite, l’affabilità nel conversare, l’elegante compostezza del comportamento. Quelli che hanno avuto con lui più stretti rapporti di lavoro, sia nello spazio della scuola, in cui lui è stato per molti anni professore di letteratura italiana e poi preside, sia in quello più movimentato dell’attività sociale e politica, che lo ha visto a lungo attivissimo consigliere comunale, hanno avuto agio di apprezzare in lui da un lato la raffinata sensibilità estetica, maturata in un lungo, vivo e sistematico rapporto con la grande poesia, dall’altro l’illimitata disponibilità per i problemi umani, fossero quelli del giovane studente angustiato da un inserimento non del tutto agevole nell’ambiente scolastico, o quelli del comune cittadino alle prese con le esigenze del vivere quotidiano, o, ancora, quelli del recluso afflitto dalla sua esistenza solitaria, atomistica, senza grazia di cielo, di libertà e di amore. Questo strenuo impegno sociale era in lui informato alla più genuina sostanza dell’insegnamento evangelico. Uno degli atti più rispondenti al suo carattere e ai suoi principi è stata l’istituzione, all’interno della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, di una sezione dell’Università delle Tre Età - Unitre, non certo con lo scopo di elargire cultura, di cui del resto molti reclusi sono tutt’altro che privi, ma con quello, molto più alto anche se meno appariscente, di creare un rapporto umano, un tramite fra la solitudine e la socialità. Emanuele Casalini avrebbe potuto far sua la grande frase che un commediografo romano, Terenzio, pose in bocca a un suo personaggio. Homo sum: humani nil a me alienum puto (“Sono un uomo: niente di umano considero estraneo a me”). Luigi Alberto Mascia 4 5 Comitato d’onore GIANNI ANSELMI Sindaco di Piombino S. E. Monsignor GIUSEPPE GUERRINI Vescovo di Saluzzo LUCA SIMONI Sindaco di Porto Azzurro S. E. Monsignor CARLO CIATTINI Vescovo di Massa Marittima, Piombino ed Elba FRANCA LEOSINI Giornalista Rai GIOVANNI TAMBURINO Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria IRMA MARIA RE Presidente Nazionale Università delle Tre Età ENRICO SBRIGLIA Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Piemonte e Valle d’Aosta ROLANDO PICCHIONI Presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura GIORGIO LEGGIERI Direttore della Casa di reclusione di Saluzzo ROBERTO COTA Presidente della Regione Piemonte ERNESTO FERRERO Scrittore, direttore del Salone internazionale del libro di Torino CARLA SACCHI FERRERO Collaboratrice editoriale, presidente dei Presìdi del libro Piemonte ENRICO ROSSI Presidente della Regione Toscana MICHELE COPPOLA Assessore alla Cultura, al Patrimonio linguistico e alle Politiche giovanili della Regione Piemonte GIOVANNA GANCIA Presidente della Provincia di Cuneo GIORGIO KUTUFÀ Presidente della Provincia di Livorno ANDREA PIERONI Presidente della Provincia di Pisa LICIA VISCUSI Assessore alla Cultura e Decentramento universitario, all’Istruzione e Formazione professionale della Provincia di Cuneo Anna Maria Rimoaldi, membro della giuria direttrice della Fondazione Bellonci. Il Premio Casalini la ricorda con affetto. PAOLO ALLEMANO Sindaco di Saluzzo 6 7 Giuria Introduzione del Presidente della Provincia di Livorno ERNESTO FERRERO (PRESIDENTE) Scrittore, direttore del Salone internazionale del libro di Torino GIUSEPPE BENELLI Professore di Filosofia del Linguaggio all’Università di Genova, presidente della Fondazione “Città del libro” di Pontremoli FABIO CANESSA Docente di materie letterarie al Liceo scientifico di Piombino, critico cinematografico MIMMA CUFFARO Pittrice RAFFAELLA D’ESPOSITO Docente al Conservatorio di Santa Cecilia, Roma PAOLO FERRUZZI Direttore Vicario dell’Accademia di Belle Arti, Roma PABLO GORINI Docente di materie letterarie al Liceo classico di Piombino MARCO PAUTASSO Direttore eventi della Fondazione per il libro, la musica e la cultura CARLA SACCHI FERRERO Collaboratrice editoriale, presidente dei Presìdi del libro Piemonte 8 Compiuti nel 2011 i primi dieci anni a Firenze, dove il 30 novembre 1786, per opera del granduca Pietro Leopoldo veniva abolita, per la prima volta al mondo, la pena di morte, il Premio “Emanuele Casalini” trova quest’anno accoglienza a Saluzzo, in Piemonte. Una rassegna affermata e autorevole, guidata con passione da persone che hanno fatto della cultura e del volontariato ragioni indispensabili per vivere ancorati a solidi valori. Portare un messaggio di speranza, di ascolto vero, di attenzione fraterna secondo il detto evangelico “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”: questa è la vera missione del Premio Casalini. Migliaia di testi ricevuti, sia di poesia sia di prosa, molti dei quali hanno trovato accoglienza nel volume L’altra libertà, pubblicato dalla Provincia di Livorno per dare ospitalità alle molteplici voci dei “detenuti scrittori”. Il Premio rappresenta un’occasione di dialogo con il mondo carcerario e aiuta a prendere maggiore coscienza di quanto sia fondamentale un percorso culturale ed educativo per i detenuti e di quanto sia indispensabile il lavoro quotidiano del volontariato. Un’occasione che il Premio Casalini affronta con impegno e professionalità. Ogni anno, pur tra le difficoltà purtroppo sempre più comuni a tutti, crescono la sua rilevanza e il suo prestigio a livello nazionale. I riconoscimenti fino a oggi ricevuti e la partecipazione di personalità autorevoli alle premiazioni rappresentano altrettanti attestati di stima e di gratitudine a Lucia Casalini, vera anima del Premio, al suo presidente Ernesto Ferrero e ai giurati. Già da alcuni anni apprezziamo la partecipazione alla premiazione di tanti studenti che hanno potuto constatare quanto sia importante la scrittura quale strumento per intraprendere un percorso di riflessione e di rinascita. A quanti si sono adoperati per realizzare questi momenti di incontro va il mio personale ringraziamento e l’invito a proseguire sulla stessa strada. 9 Attraverso queste occasioni culturali il carcere offre una reale possibilità di crescita. Occorre un impegno sempre maggiore perché “la società faccia del carcere un luogo di redenzione e non un ergastolo di deformazione”, come sottolineava monsignor Alberto Ablondi, caro amico del Premio Casalini. Ricevere un riconoscimento, avere l’opportunità di trasmettere ad altri riflessioni personali attraverso uno scritto pubblicato in un libro, sono piccoli passi per riconquistare fiducia, per sentirsi meno soli, per offrire ai propri cari dei valori positivi, nel segno (appunto) di un’altra libertà. Questa iniziativa conferma inoltre l’importanza della scrittura quale strumento indispensabile per una migliore comprensione di noi stessi e del mondo, per trasformare l’io in un noi, per creare percorsi condivisibili. A quanti si avvicineranno alle pagine di questo libro l’augurio di essere, ciascuno secondo la propria vocazione e missione, portatore di ascolto e di dialogo. Alle autorità civili, militari e religiose, agli operatori delle carceri, ai detenuti “poeti e scrittori” e a tutti gli amici del Premio Casalini rivolgo il mio personale ringraziamento per il loro impegno, unito a quello della comunità della Provincia di Livorno che mi onoro di rappresentare. Giorgio Kutufà Presidente della Provincia di Livorno 10 Presentazione “Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre mi venga incontro, dal fondo di una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare.” Così dice un personaggio del Cavaliere inesistente di Italo Calvino, la guerriera Bradamante, che fino all’ultima pagina finge di essere una suor Teodora rinchiusa in un remoto convento per raccontare una storia di paladini del tempo di Carlomagno. Bradamante scrive e scrive, e si interroga su cosa la spinga a tanto, in che cosa esattamente consista l’atto della scrittura, che consente di inventare mondi paralleli da opporre a quelli veramente esistenti. Conosce anche lei momenti di dubbio e di stanchezza, quando tutto quel raccontare le sembra un inutile atto di superbia, o un riflesso troppo pallido della vita vera: “Ci si mette a scrivere di lena, ma c’è un’ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e non vi scorre più una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai più potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il salto”. Due cose ha capito, tuttavia: che l’immaginazione porta più lontano di un cavallo alato, e che “l’arte di scrivere storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto”. Nel poco o nulla che riusciamo a capire siamo compresi noi stessi, e tuttavia questa fatica di Sisifo, questo inseguire qualcosa che sempre ci sfugge e non si lascia acchiappare è quello che ci fa uomini, perché tenta di dare un senso al nostro effimero passare sulla terra, mettendo in collegamento la nostra piccola vicenda individuale con quella degli altri, sottraendole alla servitù del tempo. La scrittura e la lettura, sua sorella gemella, fondano la relazione, trasformano l’io in un noi, ci 11 consentono di vivere più vite. Ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti ma perché nessuno sia schiavo”. È dunque la ricerca di un’altra libertà, dentro o fuori del carcere, quella che ci chiama tutti. “Sono felice che almeno la mia anima in qualche modo possa uscire fuori di qui”, scrive Marco Corradini, uno delle centinaia di concorrenti dell’edizione 2012 del Premio Casalini. Possiamo interpretare la frase “uscire di qui” nel senso più ampio di “uscire allo scoperto”, intraprendere un viaggio all’interno di noi stessi, che è la condizione prima per poter intraprendere altri viaggi nel mondo che ci circonda: complesso, labirintico, spesso impenetrabile. In questo viaggio disponiamo di una vela potente, la parola. Viviamo immersi nella civiltà delle immagini, ma le immagini tendono a schiacciarci, a imporci la loro verità, che ha fatalmente due sole dimensioni, e il più delle volte risulta ingannevole, illusoria, perché siamo diventati bravissimi a manipolare immagini, a creare gli “effetti speciali” che convengono a noi. La parola invece ha tre dimensioni, e la terza dimensione è quella della sua profondità anche storica e cronologica, della sua ricchezza, persino della sua ambiguità. Le immagini tendono a renderci schiavi, cioè docili consumatori; le parole ci liberano. Vengono di lontano, e ognuna si porta dietro una lunga storia e la contiene miniaturizzata al proprio interno. Sono la nostra vera famiglia, e come ci accade con le persone più vicine, spesso ci capita di non comprenderle o di tradirle, ma rappresentano la nostra identità e la nostra risorsa. La parola, che è così vicina alla musica, chiede la nostra interpretazione, ci trasforma da semplici utenti passivi in coautori attivi, in interpreti nel senso musicale. Ogni testo comporta una pluralità di interpretazioni, ed è proprio questa pluralità a fare la ricchezza della scrittura, la sua necessità, specialmente oggi, che una realtà estremamente complessa ci viene restituita in modi rozzamente semplificati, che non ci aiutano a capire, ma semmai ad alimentare i nostri pregiudizi, i luoghi comuni cui restiamo attaccati per pigrizia. Come ogni attività umana, anche la scrittura è in primo luogo un artigianato, una lunga pazienza, un difficile apprendistato. Ogni risultato, quale che sia, è frutto di un lavoro, di una messa a punto insoddisfatta di sé. Chi scrive non opera diversamente da un falegname o da un fabbro: deve conoscere bene i materiali su cui lavora, e maturare l’esperienza che gli consentirà di arrivare a realizzare il progetto che si porta dentro. La scrittura è scoperta di cose che non sapevamo di avere dentro di noi. In questo ci modifica continuamente, ci fa ripartire ogni volta da un gradino un po’ più alto di consapevolezza. Credo che su questo siano d’accordo anche tutti coloro che hanno partecipato all’edizione 2012 del Premio Casalini. Come ogni anno, non sono mancate le belle sorprese, anche se il senso vero del Premio credo stia nell’allestimento di una sorta di laboratorio collettivo in cui sarebbe bello avere il tempo e lo spazio per confrontare tutti insieme i risultati che ognuno ha già raggiunto: non per stabilire classifiche, ma per capire meglio, insieme, il “come si fa”. Il libro che presentiamo va nella stessa direzione, vuole essere un’occasione di ripensare questo comune viaggio di scoperta. Nella sezione Prosa, abbiamo apprezzato il racconto di Francesco Antonio Garaffoni, che riprende con molto garbo e umorismo il tema dell’innocente incarcerato ingiustamente, che ha avuto nel caso di Enzo Tortora uno dei suoi episodi più clamorosi e intollerabili, ma purtroppo non certamente l’unico. Il moderno apologo di Garaffoni vede entrare in carcere nientemeno che il professor Mario Monti, qui chiamato chiaramente a prestare le sue fattezze e i suoi modi gentili (oltreché le sue ottime letture presunte: lo scrittore cileno Bolaño e lo scrittore russo Grossman, autore di un vero Guerra e pace dei gulag sovietici) a un emblematico personaggio d’invenzione, un illustre esponente delle più alte cariche istituzionali. Massimiliano Maiocchetti, secondo classificato, ci riporta all’interno di un io che analizza efficacemente tutte le tensioni, le attese e le emozioni che precedono la telefonata periodica di seicento secondi cui ha diritto. Non racconta la telefonata, ma appunto la paura di non riuscire a dire tutto, di non 12 13 riuscire a collegarsi almeno per quel poco tempo con una vita altra. Specie se, come in questo caso, chi doveva rispondere non si fa trovare. Santi Pullarà, che divide con Maiocchetti il secondo posto, ha scritto un racconto che avrebbe incuriosito Leonardo Sciascia. Dove corre il confine tra buoni e cattivi? Giacomo, segretario municipale e fascista convinto, mette in salvo l’amico dottore ebreo e lo affida alla protezione di un boss mafioso, che si dimostra benefico e, a precisa domanda, gli spiega le ragioni storiche della mafia, da lui interpretata come rivolta contro il potere statale, dei Borboni prima e dell’Italia unita poi, che in sostanza perpetra un sistema di privilegi e sfruttamento a favore dei potenti. Se non c’è giustizia politica, sociale e giudiziaria, argomenta il boss, l’unica è farsela da soli con l’antico ed efficiente metodo del terrore. Il boss è consapevole dei limiti di questa concezione, che in realtà lo consegna a una spirale di violenza senza fine, ma si ritiene troppo compromesso e troppo poco acculturato per interromperla. Pullarà scrive in una lingua dalla lieve patina arcaica, espressiva e immaginifica, in cui il dialetto è bene integrato nell’italiano, ennesima dimostrazione, nella terra di Camilleri, di quanto possa produrre la tensione linguistica tra lingua e dialetto. Il testo di Gavino Chessa è la dimostrazione esemplare di come e quanto si possa arrivare lontano proprio dandosi delle gabbie strettissime, quale quella di scrivere un pezzo utilizzando soltanto parole che cominciano con la stessa lettera. Questo genere di esperimenti ha reso famoso, nella Parigi degli anni ’60 e ’70, il Laboratorio di letteratura potenziale frequentato da Calvino, da Georges Perec (La vita, istruzioni per l’uso), da Raymond Queneau (il padre di Zazie nel metrò) e da tanti altri funamboli che come altrettanti maghi Houdini si divertivano ad avvolgersi in metaforiche catene per liberarsene grazie alla bravura della loro arte combinatoria. Qui si dimostra come il gioco sia una faccenda molto seria, in cui il divertimento produce risultati molto più efficaci e sorprendenti dei procedimenti tradizionali. Si parla spesso della letteratura come di un viaggio in terri- tori inesplorati, in cui sappiamo da quale porto partiamo, ma non dove e quando arriveremo. È un vero viaggio per mare verso Malta quello che racconta Carmelo La Licata utilizzando il linguaggio professionale dei naviganti e abbondando in notazioni naturalistiche e felici descrizioni paesaggistiche, in cui si intrecciano gli incanti della terra e “il respiro del mare profondo”. Tra le opere segnalate, Emanuele Aletta ci consegna un bozzetto di vita siciliana, che deve essere una di quelle storie gustose che si raccontano e si tramandano in famiglia. Walid Ben Tahar racconta una tragedia che si consuma in treno, durante il suo ritorno a casa da un lungo viaggio, e affronta così il tema dell’indicibilità e incomprensibilità del male. Sebastiano Bontempo affronta di petto un duro bilancio esistenziale, all’insegna del rimorso. Stefano Diana passa a una sua sarcastica moviola la giornata del “detenuto medio”. Su un tema analogo si misura Riccardo Seppia, con un tono più saggistico che narrativo, con cui tocca vari aspetti di vita carceraria, dal sovraffollamento alla ricerca di Dio, alla ricostruzione della propria personalità. L’esperienza di un collettivo teatrale fa scoprire ad Alberto Guarino il senso del diventare squadra e del confrontarsi con la storia nazionale, per ampliarsi a riflessioni più ambiziose. È una durissima esperienza esistenziale quella raccontata da Luana Merosi, una storia di affetti mancati, di scelte sbagliate, ma anche di consapevolezza e riscatto. Antonio Russo ci fa sorridere con un quadretto di vita carceraria in cui irrompe un ospite imprevedibile, un ghiro. George Daniel Stepanov assume un punto di vista “ingenuo”, dando voce alla sbarra di una grata, che osserva, registra e riflette. Dal fondo di una “fetida galera sudamericana”, Mario Tonini ripercorre la propria lunga discesa nella devastante spirale della droga, per approdare al riconoscimento che la sola salvezza che si può dare sta nell’amore per gli altri, e che “il coraggio può nascere solo dalla paura”. Massimo Trifarò ragiona sul libero arbitrio, sulle scelte primarie che decidono una vita, per arrivare a spiccioli di saggezza, come l’importanza di godersi il più 14 15 semplice ed essenziale degli istanti di una giornata, un raggio di sole. La sezione dedicata alla Poesia vede vincitore Vittorio Mantovani. La giuria ha apprezzato il suo originale poemetto ciclistico, dove le fatiche disumane della Parigi-Roubaix sui ciottoli del pavé, nella polvere nera di una regione mineraria, assurgono a una loro dignità epica e diventano l’emblema della fatica del vivere. Ma è apprezzabile anche Piazzale Aquileia, che ricorda che bisogna “avere la pedalata del passista / per capire se gli oggetti sono davvero utili / oppure solo pensati all’uso”; e si interroga con tenera malinconia sulla “senile ossessione” di chi ogni martedì attende su una panca che una donna scenda dal tram numero ventinove, “così minuta assomiglia a lei”. Né meno efficace è La rosa purpurea, che irride scherzosamente il romanzo di Umberto Eco e afferma la predilezione dell’autore per ben altre rose. “Non è l’ignoto che spaventa / né gorghi né flutti perigliosi, / ma un giorno conosciuto / che corre all’infinito”. Ormai da anni abbiamo imparato a riconoscere la voce di Aral Gabriele, il suo misurarsi con l’immobilità del tempo nei modi di un dettato poetico che risolve l’angoscia nella cantabilità del verso, in immagini di una loro araldica, stoica eleganza. Al terzo posto, Carlo Rao e Christian Calderulo con una filastrocca, Nel giardino dei matti, che ricorda un po’ Gianni Rodari, ma anche certe fortunate canzoni di Sergio Endrigo o Giorgio Gaber, evocando il felice paradosso poetico di un mondo alla rovescia in cui i veri valori si nascondono in quella che viene catalogata come follia, e che in realtà è un modo per opporre all’insensatezza del mondo altro una dimensione in cui “tutto ciò che è diverso / qui diventa normale”. Con loro divide l’ex aequo Luca Denti, con i suoi versi che tendono all’efficace concisione dell’aforisma: “Avevo anch’io / trenta monete / più che altro / per tradire me stesso”. I “sogni spicci” comperati nell’infanzia “verso sera / tra gli ulivi / penzolavano impiccati”. In un altro suo testo troviamo quella che 16 potrebbe essere una buona definizione della poesia, e più in generale la capacità di riscatto degli uomini: “Dove l’inverno posa / una carezza lieve / di neve sporca / anche una pozzanghera / sa raccontare / un angolo di cielo”. Tra le opere segnalate non mancano testi di sicura originalità. Così i toni epici con cui Marian Balauca rievoca una battaglia; i silenzi assordanti delle risposte disattese di cui parla Enrico Benetti; la “disperata emozione” di chi nel nulla cerca la vita (Massimiliano Bernabei); la ballata popolare in siciliano di Sebastiano Cannizzaro, in cui ancora una volta un dialetto dà prova della sua forza espressiva; le liriche di Moez Chaibi, in cui echeggiano i modi classici della poesia araba; la ricerca della parola, “quel suono che invade / le vene e delinea i contorni / del tempo”, cara ad Alessandro Crisafulli, che seppellisce il dolore nella nudità del verso; le rime da Corriere dei piccoli cui resta fedele Ezio Di Rosa nell’evocare la vita delle api; la provocazione che Antonio Gueli rivolge a Cristo; i ricordi di Carmelo Impusino, così remoti da non poter essere nemmeno sognati; le atmosfere di tregenda gotica evocate da Martin Lazri o la cupa rassegnazione di Sebastiano Milazzo abitato da frammenti “di un tempo già morto / e di un futuro / che non diventerà mai vita”; le illusioni di Massimiliano Paggetti, che mandano “bagliori di latta”, in un ultimo tentativo di seduzione; e infine il pianto del mondo che, secondo Antonino Penna, si può sentire soltanto in carcere di notte. Per iniziativa di Lucia Casalini, da qualche anno il Premio si è opportunamente aperto ai minori. Sono proprio loro ad avere un maggior bisogno della scrittura come di una bussola per orientare i propri pensieri e aprirsi a una migliore conoscenza di sé. Dall’Istituto Penale Minorile di Torino ci giungono le testimonianze più drammatiche. Raccontano due viaggi della speranza dall’Africa in Italia sulle solite carrette del mare, nel buio e nel freddo delle notti: “Vorrei dimenticare per sempre / il mare, la paura, il buio, il blu”, scrive D.S. Non meno penosa la vicenda del giovane nomade R.M. posto anzitempo 17 davanti a responsabilità troppo più grandi di lui, costretto a imparare a proprie spese quanto sia difficile arrivare alla maturità, specie se si parte dalle condizioni più disagiate. Da segnalare anche i ragazzi dell’Istituto bolognese, cui qualche bravo educatore ha insegnato a ispirarsi liberamente ai coinvolgenti testi poetici di Erri De Luca, Guillaume Apollinaire, Bertolt Brecht, Wisława Szymborska e Peter Handke. Ripercorrere le orme dei grandi è il modo migliore per avvicinarsi alla poesia, per impararne i segreti, per aprirsi alle ricchezze del linguaggio, al dono della parola. A tutti l’augurio che la loro crescita passi sempre di più e sempre meglio attraverso gli strumenti della scrittura e della lettura. Ernesto Ferrero 18 Sezione prosa Opere premiate 1° classificato Francesco Antonio Garaffoni Il giorno che la Terra prese un altro giro La premiazione del 2011 a Firenze con Oreste Cacurri, Lucia Casalini, Zeffiro Ciuffoletti, Franco Ionta, Maria Pia Giuffrida, Ernesto Ferrero, Paolo Ferruzzi e Carla Sacchi Ferrero. Era passata ormai oltre mezz’ora dall’inizio del brusio quando Miki Lo Falco decise che era arrivato il momento di accendere il televisore. Si era svegliato di ottimo umore, aveva messo la moka sul fornelletto e, mentre guardava i suoi compagni di cella continuare nel loro sonno del mattino, aveva cominciato a sentire quelle voci insistenti a cui non poteva davvero credere. Poi, quasi sfiduciato, e convinto che presto avrebbe potuto gridare a tutti che si erano bevuti una panzana colossale, schiacciò il tasto 3 del telecomando. Rai Tre gli apparve subito nell’edizione straordinaria. Parlavano della carriera di Mario Monti, delle sue esperienze come professore, dell’approdo alla Commissione Europea e, infine, della nomina a senatore a vita e poi a capo del Governo; cominciò a incuriosirsi mentre, nel frattempo, i rumori dal corridoio parevano essersi tranquillizzati. Poi l’inquadratura cambiò, si vide l’uomo che parlava da studio e che confermò ciò che ormai Lo Falco aveva capito essere vero: Mario Monti era stato arrestato. La notizia lo frastornò così tanto che il caffè cominciò a uscire prima che lui facesse in tempo a spegnere il fornelletto. Cominciò a imprecare, contro il caffè, contro Monti, e contro quel mondo che ormai non riusciva più a capire in che senso girasse. I compagni di cella si svegliarono intorpiditi, ma data la tensione che si respirava si scossero 21 in fretta e fissarono Lo Falco, che li informò subito dell’accaduto aggiungendo di testa sua particolari che non erano stati detti. Tutti e tre si fissarono agli sgabelli con gli occhi attaccati al televisore, le notizie però erano frammentarie, si parlava di un omicidio, di prove inconfutabili, di testimoni chiave. Lo Falco cominciò a versare il caffè ai compagni, Francis Caffarotti e Bob Valletta; quelli lo bevvero senza mai togliere gli occhi dalla televisione e senza notare che aveva preso un deciso sapore di bruciato. Fu mentre Lo Falco cominciava a bere il suo caffè che l’assistente arrivò, aprì la cella e gli disse: “Lo Falco, si vesta e scenda da Guzzi”. Filippo Guzzi era il capo educatore del carcere, temuto e rispettato da tutti i detenuti per la professionalità, ma anche per la severità: dalle decisioni di Guzzi dipendevano il tenore di vita all’interno del carcere e gli eventuali benefici come i permessi premio e la possibilità di accesso al lavoro esterno, insomma tutto ciò che rendeva la carcerazione più tollerabile. Lo Falco si preparò in fretta con il cuore che gli batteva forte; Caffarotti lo caricava preannunciandogli che era arrivato il suo primo perrnesso dopo tanta detenzione, Valletta girava emozionato per la cella: tutto in poche ore, Monti arrestato e Lo Falco chiamato con urgenza da Guzzi… Forse qualcosa cambiava, forse il mondo, dopo una capriola tesa e decisa, aveva cominciato a girare al contrario. Guzzi fece accomodare Lo Falco e lo guardò con un sorriso strano: “Lo Falco, quando scatterebbe la sua possibilità di avere permessi premio?”, “Dotto’ se lei e il Magistrato di sorveglianza sarete così cortesi da sostenermelo, io per Pasqua potrei passare un giorno a casa”. Guzzi annuì, fingendo di non ricordarselo. Poi lo guardò intensamente, convinto di avere avuto una delle migliori idee della sua carriera di educatore di detenuti. “Lo Falco, io ho bisogno di lei. Sta arrivando qui un detenuto, diciamo, speciale… ecco, un detenuto che va un po’ aiutato… Insomma, biso- gna riuscire a farlo integrare un po’ nel nostro mondo prima che succedano cose che… Insomma, abbiamo gli occhi puntati addosso. Lo Falco, tra un’ora le arriva in cella il Prof. Monti, conto su di lei.” Mentre tornava in cella ripercorreva i suoi 30 anni di carriera da detenuto, 52 carceri, 27 anni da uomo libero, compresi quelli in cui era bambino, e adesso, a due passi dalla libertà, questa grana, il Prof. Monti! Grana o opportunità? Dopo pochi minuti Miki era sicuro: questa era l’opportunità della sua vita, quell’occasione che non gli era mai capitata! Cazzo, il mondo aveva davvero cominciato a girare al contrario. Alle 12.30 Lo Falco venne ancora chiamato. Doveva scendere al pian terreno ad aspettare il nuovo compagno di cella. ll Prof. Monti apparve in fondo al corridoio. Indossava il suo loden blu e teneva abbracciato al petto il sacchetto nero con gli effetti personali che avevano superato la perquisizione. Si guardava in giro come se stesse usando ogni istante, ogni dettaglio, per far lavorare la sua immensa esperienza della vita e la sua straordinaria intelligenza in modo da risolvere questa imprevista situazione nel modo migliore possibile. L’assistente lo seguiva con aria intensa, sapeva che avrebbe raccontato per tutta la vita ai suoi parenti e amici quella giornata. Quando arrivarono all’inizio della scalinata l’assistente indicò a Monti Lo Falco e gli disse: “Professore, segua questo detenuto che le mostrerà la sua cella”. Lo Falco guardò Monti e scelse il modo per rompere il ghiaccio: “Tu sei musulmano?” “No” rispose Monti, “cattolico, non molto praticante, ma cattolico.” “Bene, allora vieni in cella con me, che io non è che ce l’ho con i musulmani, ma poi creano complicazioni per la preghiera, il cibo… Insomma, meglio così”. Appena arrivati in cella Lo Falco presentò a Monti gli altri due: Caffarotti lo salutò con l’aria di chi ha trovato 22 23 finalmente un interlocutore con cui parlare di economia; Valletta, senza staccarsi dal suo iPod, gli chiese: “Che musica le piace?” “ Vivaldi” rispose Monti. “Acc… non c’è niente di Vivaldi nel mio iPod, però se vuole chiedo ad altri.” Lo Falco interruppe Vallelta e gli disse di fare subito il caffè per il Professore, poi lo fermò e chiese a Monti se avesse fame. Quello lo guardò come se mangiare fosse la cosa che al mondo gli interessasse di meno, allora con un cenno Lo Falco autorizzò Valletta a fare il caffè. Monti era seduto e guardava la televisione, parlavano solo di lui, su ogni canale imperversavano le immagini dei PM che avevano chiesto il suo arresto, le loro dichiarazioni rimbombavano nella testa del Professore: “Elementi di prova fortissimi, concordanze stupefacenti, decisione inevitabile”. Poi sembrava che tutti facessero a gara a rendere credibile ciò che lui sapeva pazzesco e incredibile; già c’era chi aveva cominciato ad accennare al delirio di onnipotenza che può dare il potere, psicologi spiegavano le ragioni recondite dell’inconscio, erano iniziati anche i paragoni con fatti e persone del passato. Ma Lo Falco guardava Monti con attenzione, sapeva cosa rappresenta l’impatto con il carcere e lo stava esaminando come un medico che visita il paziente. Il Professore non era entrato in cella in compagnia della sua celebrità, delle sue lauree, del suo sapere, cioè dell’odore della vittoria: era un uomo umile, cordiale ed educato. Lo Falco aveva un’idea di quello che Monti stava provando: rabbia. Rabbia impotente. Rabbia che non puoi utilizzare, non puoi mettere in atto. È impotenza, perciò la rabbia è una tempesta interna, il che naturalmente crea ancora più rabbia e sconforto. Ma sapeva anche che il carcere è un killer spietato, un torturatore abilissimo che ti toglie vitalità e forza attimo dopo attimo. Perciò continuava a dare disposizioni: caffè nella tazzina buona, altro che bicchierino di carta. Cambiare disposizione delle brande per lasciare al Professore quella con la luce sopra, perché “il Professore è uno che legge, mica guarda Santoro o ’sti cazzo di Famosi”. Lenzuola di casa per il Professore, che dentro quelle ruvide non ci dorme mica. Alle nove di sera, mentre Monti leggeva il libro che si era preso con un ultimo gesto da casa, 2666 di Roberto Bolaño, arrivò l’infermiere con le terapie della sera: tranquillanti per Valletta, prodotti per la gotta di Caffarotti, anti ipertensivi per Lo Falco. Lo Falco chiese al Professore se gli servissero dei medicinali, Monti lo guardò con tenerezza e gratitudine poi, un po’ imbarazzato, disse: “Mah, forse un tranquillante mi sarebbe utile, altrimenti rischio di passare la notte in bianco”. Lo Falco chiamò l’infermiere: “Uè, infermiere, dacci pure una pastiglia per dormire”. “Lo Falco, lei dovrebbe saperlo, per i tranquillanti ci vuole la prescrizione, sarebbe dovuto andare in infermeria oggi pomeriggio.” “Ma non è per me! È per lui, per il Professore, è appena arrivato, come faceva ad andare in infermeria. E poi un tranquillante che sarà mai?” “Lo Falco, ma lei che mestiere fa?” “Io? Rapinatore.” “E allora cosa ne vuole sapere di farmaci?” Però il tranquillante glielo diede, il Professore lo prese e dormì una notte serena. Si svegliò alle nove del giorno dopo, con il cappuccino caldo che fumava sul comodino. Da ormai un mese il Prof. Monti si trovava in carcere con l’accusa di omicidio. Lui si professava innocente, ma contro di lui c’erano un testimone che lo aveva visto sul luogo del delitto e la cellula telefonica che confermava la sua presenza in zona. Non c’era movente, non c’era conoscenza tra lui e la vittima, si parlava di delitto d’impeto per futili motivi. L’arma del delitto, probabilmente un oggetto affilato, non si era trovata. Monti leggeva, giocava a carte con Lo Falco, parlava con Caffarotti di truffe e bancarotte, di truffatori, di evasione fiscale contro lo Stato e sembrava che giocassero a chi ne sapeva di più e a chi avrebbe vinto se tutti e due avessero 24 25 potuto fare il lavoro che più gli piaceva. Aiutava Valletta a scrivere lettere e a cercare di farlo tornare insieme alla moglie e al giovane figlio. Aveva anche cominciato a frequentare l’ora d’aria dove tutti i detenuti vollero farsi fotografare con lui, e lui si fece fare copia della foto con Lo Falco. Negli ultimi giorni poi era stato inserito come correttore di bozze nella redazione del giornale carcerario e poteva frequentare la biblioteca. Il giorno di Pasqua Lo Falco aveva finalmente avuto il permesso di andare a casa. Cominciò a prepararsi fin dalle sei del mattino, tutta la cella era emozionata per lui. Chiese in prestito un po’ a tutti capi d’abbigliamento, poi annusò fuori dalle grate, era una giornata fredda. Guardò il Professore: “Professo’, me lo presterebbe il suo loden?” Lo Falco era vestito come mai gli era capitato nella vita; quando la guardia venne a prenderlo per scortarlo all’uscita lo squadrò con sospetto, pensando che un simile abbigliamento nascondesse qualche furbata. Poi uscì, respirò l’aria di libertà, guardò il loden del Professore e pensò che forse la sua vita non era stata del tutto inutile. Fuori si festeggiava la Pasqua, Monti era in biblioteca dove stava leggendo Vita e destino di Vasilij Grossman, 1200 pagine appena cominciate. Una guardia lo avvertì che lo aspettavano in reparto, lui continuò a leggere pensando che non fosse nulla di urgente. Poi la guardia tornò: “Professore, ma vuole restare qui o se ne torna a casa?” Avevano chiesto la sua scarcerazione. Si tolse gli occhiali, si passò le mani sugli occhi e asciugò un accenno di lacrime, poi ripose Grossman sullo scaffale ripromettendosi di comprarne una copia il giorno stesso. Tornò in cella e diede la notizia a Valletta (gli altri erano a casa in permesso). Valletta cominciò a piangere e a stringerlo forte, si tolse l’iPod e cominciò ad aiutarlo a mettere in una borsa tutte le sue cose. Poi gli disse che avrebbe dovuto fare il “Caffè del liberante” e che, per l’occasione, sarebbe stato contento di bere il suo caffè annacquato. Poi si baciarono, si pro- misero di rivedersi da liberi, Monti lo guardò e gli disse: “Lo so che sei una brava persona”. Scese all’ufficio matricola, dove gli consegnarono il decreto di liberazione, poche scarne parole: “Essendo emersi fatti inequivocabili circa le responsabilità di altro soggetto nell’omicidio… si chiede il proscioglimento e il conseguente rilascio del Prof. Monti Mario”. Gli consegnarono ciò che gli avevano trattenuto all’ingresso, l’orologio, il portafoglio e la valigia. Si sedette su una panca e cominciò a mettere in ordine i suoi abiti, i suoi libri, e ciò che aveva raccolto in un mese di detenzione. Gli capitò in mano la foto con Lo Falco, la baciò, se la mise in tasca. Pensò al suo cappotto finissimo sulle grosse spalle di Miki e sorrise, ma dentro di sé un pensiero aveva preso corpo: la consapevolezza che da libero o ristretto qualsiasi essere umano rappresenta una risorsa, e gli sembrò che la sua vita dovesse cominciare da lì. 26 27 I fatti, le circostanze e i personaggi di questo racconto sono frutto di fantasia, chiunque vi si potesse ritrovare lo farebbe per un improbabile capriccio del destino. Il Prof. Mario Monti è stato usato a solo scopo letterario come esempio di uomo delle istituzioni, ma non è ovviamente in alcun modo identificabile con il protagonista del racconto. Questo racconto è dedicato a Enzo Tortora e a tutti quelli che pur essendo passati da un carcere senza colpa alcuna sono usciti più uomini di prima. Motivazione 2° classificato ex aequo Massimiliano Maiocchetti Questo bel racconto di Francesco Garaffoni è un riuscito apologo sul mondo del carcere. Con un inconsueto sguardo narrativo riesce a proiettare il lettore nella dimensione più intima e ignota della reclusione, descrivendone con efficacia i riti quotidiani, l’ossessione del tempo e dello spazio, la rabbia impotente, il desiderio di non disimparare a vivere. Ma ci restituisce anche un’umanità, pur provata dalla detenzione, sempre e autenticamente generosa, sensibile, solidale. E lo fa con un’ingegnosa e ardita invenzione letteraria, immettendo nella vicenda nientemeno che Mario Monti, incarcerato perché accusato, si scoprirà ingiustamente, di omicidio. Circostanza infausta, ma che ci propone il professore in una veste inedita e divertente. Emblematicamente protagonista di un mondo più giusto, più umano, e forse più vero. Davvero alla rovescia rispetto a come, malauguratamente, oggi ci appare. 600 secondi * Le motivazioni sono state redatte da Marco Pautasso (Garaffoni e Pullarà) e Fabio Canessa. Te ne stai mollemente adagiato alla cancellata della tua sezione. Con lo sguardo perso nel vuoto fai finta di niente cercando di farti notare il meno possibile da chi ti passa accanto. Ma le gambe nervose che non riescono a star ferme nemmeno un momento tradiscono quell’apparenza tranquilla che hai indossato, nell’attesa che quello davanti a te finalmente esaurisca il tempo della sua telefonata. Il cuore batte così forte che sembra volerti uscire dal petto, fa così ogni volta, prima di un colloquio o di una telefonata a casa. Di solito inizia a farsi sentire prima che il sole faccia la sua comparsa illuminando quei sette metri quadrati in cui vivi, qualche volta inizia anche molto, molto prima, risvegliando di colpo tutti i tuoi pensieri, i tuoi bisogni. La necessità di sentire il suono della sua voce, di sentirla raccontare come vive nel mondo lì fuori, da sola senza il tuo aiuto, è cosi forte che non riesci a pensare a nient’altro. Questa è una di quelle settimane dove quei dieci minuti appesi a un filo sono l’unica cosa che t’importa, l’unico contatto possibile in un mondo separato da un muro. Ieri notte ti sei addormentato assaporando il momento in cui avresti digitato il numero di casa tua, l’hai immaginato con talmente tanta forza che potevi quasi sentire la pressione della tastiera sui polpastrelli delle dita, l’apprensione avvolgente degli istanti che precedono la voce dal tono un 28 29 po’ distratto di un assistente di servizio al centralino che attraverso la cornetta, finalmente ti dice: “Puoi parlare…” Ci sono così tante cose che vorresti dirle che non sai nemmeno come ti ci possano stare tutte insieme nel cuore e nella testa. Un giorno d’assenza dopo l’altro le hai pensate, organizzate e memorizzate pronte per venir dette, sperando che per l’emozione e la fretta non te ne dimenticherai nessuna. In particolar modo in questo momento della tua vita dove, forse, la paura che il tempo possa darti il colpo di grazia è più forte che mai, confrontarti solamente con la ragione dei tuoi pensieri non basta più. Ti serve, per sentirti ancora completo, specchiarti nell’altra metà del tuo universo, lì dove la sua voce come una carezza può ancora sfiorarti il viso e farti tornare il sorriso. Ma l’unico problema è che adesso sei così facile all’emozione che non sempre riesci a dominare le tue sensazioni, lasciandoti così travolgere dal fiume in piena delle parole in attesa. Il telefono l’hai sempre detestato un po’, più un fastidio che altro, così capace anche solo con uno squillo di entrare nel tuo mondo senza chiedere il permesso. Comunque oggi è la tua unica risorsa, una cruna d’ago di dieci minuti, da cui far passare sentimenti, insicurezze e conferme. Vorresti che il tuo sguardo potesse seguire la linea di quel filo per raggiungerla e perderti nel verde dei suoi occhi, anche per un solo momento. Tra poco finalmente le tue dita potranno toccare sul serio quella tastiera, si muoveranno lentamente, un numero dopo l’altro, facendo attenzione a non sbagliare, e ti avvicineranno alla sua voce. Ti concentri solo su quello, un poco alla volta fai uscire la confusione del mondo che ti circonda dalla tua mente. Nella cabina il tuo sguardo non può non notare l’agitazione di chi sta per esaurire il suo tempo, siamo tutti uguali…! A un certo punto ci si rende conto di non aver detto e ascoltato abbastanza, che quei seicento secondi si sono consumati senza che la nostra sete si sia smorzata almeno un po’. Quei dieci minuti sono la nostra felicità e la nostra dannazione. Per un solo momento di normalità, il prezzo da pagare è fatto di giorni e giorni in cui il senso di solitudine è a malapena sopportabile; magari fingiamo che tutto sia in ordine, che le cose vadano bene, ma appena restiamo soli, chiusi nel nostro mondo, la sentiamo scorrerci con forza sotto la pelle. Tuttavia per un batter di ciglia, in uno di quei seicento secondi torniamo indietro nel tempo, alla nostra vita normale, fatta di piccole cose vissute insieme, e il sereno di quell’istante vale pienamente il prezzo che pagheremo. Ce lo ricordiamo bene, ognuno ha il suo istante di felicità, e immancabilmente lo ricerchiamo ogni volta nella telefonata successiva. La porta della cabina con il suo cigolio da film horror ti avvisa che finalmente è arrivato il tuo turno. Il tempo di un veloce scambio di saluti con chi ti ha preceduto e sei in posizione, la scheda telefonica stretta tra le dita. Segui, anche se ormai le hai mandate a memoria, le istruzioni che una voce robotizzata t’impartisce, prima di poter comporre il tuo numero seguito dal cancelletto. Aspetti con il cuore in gola che questa volta tutto vada per il verso giusto, che non ci siano impedimenti, uno squillo dopo l’altro, sei, sette, otto… La voce di un assistente al centralino interrompe lo stato di concentrazione in cui ti sei isolato per non farti distrarre: “Provi più tardi, non c’è linea, il telefono sembra staccato…” Non ha funzionato! In testa ti esplode un universo di possibilità, in gran parte negative: non riesci ad arginarle, sembra che l’isolamento imposto da queste mura sia capace, sfuggendo a ogni tua difesa, di dilatarle a dismisura, cercando di farti perdere quell’equilibrio che hai saputo conquistarti un poco alla volta. È un fastidio che ti rende impossibile concentrarti su qualcosa di diverso, la mente cerca un motivo, uno solo che possa spiegarti, che possa tranquillizzarti. Riproverai più tardi, ma questo era il vostro appuntamento, l’avevate deciso insieme, occhi negli occhi. Quel 30 31 bancone nella sala colloqui che vi divideva nemmeno lo sentivate più, è anche per questo che vorresti provare a salvarlo, lo sai che lei ti sta aspettando dall’altra parte del filo, ma non puoi farci niente, devi rinviare, adattarti. Gli strumenti per andare da lei non ti appartengono più, li hai dovuti lasciare fuori, alla porta. Un giorno torneranno, potrai scegliere anche quale usare, ci saranno decine di numeri da contattare. Potrai, se lo vorrai, anche andarle incontro a piedi o di corsa come ti sta urlando di fare il cuore in questo istante, ma oggi devi provare più tardi, non puoi ascoltarlo, puoi fare soltanto questo. 32 Motivazione La telefonata alla donna amata come oasi della vita carcerata, baricentro del proprio equilibrio e unica meta desiderata capace di dare valore all’esistenza. Oggetto del racconto non sono però quei “dieci minuti appesi a un filo”, ma tutto il resto: dilatando il tempo, la scrittura riesce a tracciare con febbrile lucidità le altalenanti suggestioni dell’attesa, assaporata con gusto, l’impazienza del contatto, l’ansia di sintetizzare il bagaglio di emozioni da condividere, la nostalgia di una quotidianità in cui tutto ciò sarebbe routine, fino allo smacco del fallimento, a una rassegnazione vissuta intensamente sottopelle. 33 2° classificato ex aequo “Prepara l’indispensabile, domattina verrò a prendervi. Ti raccomando poca roba, non dovremo dare l’impressione di una fuga.” Santi Pullarà Era il vespro di un giorno d’autunno palermitano. Una calma surreale fiaccava via Roma. Fresche correnti montane defluivano verso il mare ripulendo l’aria dalle esalazioni provenienti dai cumuli di macerie. Il silenzio fu molestato dal procedere di passi veloci che echeggiavano dal Cassero. Un uomo, protetto dal suo impermeabile e dallo scuro incombente, si fermò dinnanzi al portone di uno dei tanti edifici borghesi ancora non disgregati dai bombardamenti e, dopo averlo spintonato, s’infilò dentro. “Chi è?” chiese una voce femminile. “Apri, Rebecca, Giacomo sono.” La donna aprì e con un cenno della mano invitò l’uomo a entrare. “È in casa Elia?” Elia arrivò sul ciglio dell’ingresso: “Giacomo, quale vicenda ti porta da queste parti?” “Non è una visita di cortesia. Ascoltami, Elia, al Comune è arrivato l’ordine di compilare una lista di tutte le famiglie ebree della provincia e di farla pervenire ai tedeschi.” “Va bene, calmati adesso, che vorrà significare…” “Non sono fascisti, non fingere di non sapere. Stanno iniziando anche qui con le deportazioni e solo Dio sa quel che succederà dopo.” “Ma… cosa posso fare, dove andare con Rebecca e le bambine?” Elia Davì era un medico. A causa delle leggi razziali era stato allontanato dall’ospedale e doveva praticare la professione clandestinamente. Con Giacomo erano amici sin dai tempi del liceo. Giacomo Scalia era, invece, figlio di un ricco farmacista di provincia. Dopo essersi iscritto al partito fascista, era stato assunto presso l’archivio comunale. Nel volgere di pochi anni aveva scalato le gerarchie sino alla nomina di segretario del municipio. Aveva partecipato all’identificazione delle famiglie ebree che vivevano nella provincia di Palermo. Giacomo non si era lasciato vincere dai fanatismi, dai pregiudizi razziali e religiosi, non era un violento, soprattutto non considerava Elia un diverso. Dopo aver trascorso una giornata a meditare, in lui erano svaniti tutti i dubbi: avrebbe assistito il suo amico. “Dove ci stai portando?” chiese Elia intanto che caricava nella Balilla famiglia e valigie. “Fuori da questo fuoco. Stamane le strade sono colme di tedeschi e fascisti.” Avevano quasi attraversato l’ultimo isolato della città quando un’automobile sbucò dall’angolo e si piantò di traverso. Dal mezzo scesero due militari e si avviarono, con passo deciso, su entrambi i lati dell’auto. “Buongiorno” disse quello che esibiva più gradi, “se i signori sono così cortesi da fornirci i documenti e notizie sulla loro destinazione…” “Buongiorno a voi, camerata” l’incalzò Giacomo sollevando il braccio e, ostentando autorità, presentò la tessera del partito. “Tenga… per i documenti dei miei amici rispondo io, hanno perso tutto nel bombardamento della scorsa notte e stanno sfollando in provincia.” “Tutto a posto, ci scusi segretario, può andare” fece il fascista dopo avergli reso i documenti. 34 35 Elia Davì Varcato il limite della città, Giacomo tirò un sospiro di sollievo e commentò: “Per fortuna che ci hanno fermato i locali, fossero stati i tedeschi chissà cosa ci sarebbe capitato. Sai cosa hanno collaudato quando gli salta la mosca del sospetto? Fanno calare i calzoni per controllare se l’attrezzo è integro o modificato come è abitudine vostra”. Alle porte del convento di Santa Maria del Gesù Giacomo invitò Elia a scendere dall’auto: “Siamo arrivati, quel frate sull’uscio è padre Lorenzino, sta aspettando voi. Vi sistemerà provvisoriamente. Cercate di riposare: stanotte lascerete Palermo con i contrabbandieri mezzagnoti”. “Ma qui… lo sanno chi siamo? Dobbiamo pagare questa gente?” chiese Elia titubante. “Stai sempre a interrogare. Per una volta fa’ il siciliano e stai muto. Non devi pagare nessuno, attieniti solo a quel che ti diranno: sei in mani sicure. Ora devo correre in Comune, proprio oggi non vorrei portare ritardo.” arida, avvezza alla successione di padroni, accompagnò i proscritti sino al paese di Giacomo. Roccalupa era poco più che un villaggio agricolo posato su una collina tra Palermo e Agrigento. Tutto si raccoglieva attorno alla piazza: la chiesa della Matrice, il municipio, le case dei burgisi e a ridosso le stamberghe, disposte l’una sull’altra, senza alcun criterio urbanistico e prive di ogni norma igienica. Approdati nella villa degli Scalia, appena fuori il paese, Giacomo prese in disparte Elia: “Qui potrai stare tranquillo, avvertirò mio padre della vostra presenza: avrà cura delle vostre necessità, poi ripartirò per Palermo”. Quella notte il buio non faceva intravvedere nemmeno la trama del sentiero. I contrabbandieri lo transitavano senza la necessità di lumi che avrebbero destato la curiosità di sbirri e tedeschi. Rebecca e le bambine erano in groppa ai muli, Elia si voltò e, della città, scorse solo luci piazzate in mare per ingannare i bombardieri. All’alba giunsero in una masseria che sembrava abbandonata. Trascorsero lì due giorni. La domenica, di primo mattino, si presentò l’uomo che doveva portarli via da quel luogo. Giacomo aspettava dietro la chiesetta di San Giovanni. Aveva parcheggiato l’automobile in modo che nessuno, dalla strada, potesse scorgerla. Quando il piccolo corteo sbucò dal boschetto gli andò incontro con la macchina e dopo aver fatto salire Elia e la sua famiglia partì. Quel tratto di strada nazionale, non integralmente asfaltata, che penetrava tacita nel cuore di una terra arcana, Cosimo Scalia, inteso il dottore, non appena il figlio lo informò della presenza degli ospiti montò in escandescenza: “Tu hai la predisposizione a crearmi sempre imbarazzi. Hai aderito al fascismo pur sapendo quale considerazione ci haio di ’sti corvi neri. Ora fai il dissidente portandomi a casa lì persecutati: dovrò adesso preoccuparmi per gli spiani del podestà”. “Papà, Vossia dice cose esatte… mi rammarico dei dispiaceri chi vi ho arrecato, a Elia pure voi gli volete bene e lo stimate più di me.” “Giusto, più di te… sai anche che non nutro pregiudizi, quel che mi manda in bestia è che tu agisci senza ponderare le conseguenze. I tuoi sodali conosceranno l’amicizia che vi lega: sarà a Roccalupa che verranno a cercarlo quando non lo avranno trovato a Palermo.” “Reputo giusto il vostro ragionamento, cosa fare allora… sarebbe il caso di consultare don Liborio? È pure amico vostro.” “Ora pure familiare dei mafiusa mi facesti diventare, tu confondi la paura e la cautela con l’amicizia.” “Me l’ha fatto intendere Vossia raccomandandomelo. M’avete fatto scomodare le alte gerarchie quando era in galera.” 36 37 “Non erano iniziative mie, sono stato costretto. Liborio Quartara a Roccalupa è l’unica autorità che si rispetti… se io non l’avessi omaggiato, una luparata non me l’avrebbe scansata nessuno. A ogni modo, oggi è meglio don Liborio che i nazisti, saprà trovare una soluzione. Rammenta che stai per contrarre un debito che sarai tenuto a saldare in qualsiasi momento.” “Dottore, Giacomino mi portò?” esclamò compiaciuto Liborio Quartara intanto che gli Scalia si approssimavano a lui “È sempre un onore ricevere la visita di una persona accussì importante.” “Ci siamo permessi di disturbarlo” disse il farmacista “… mio figlio chiede il vostro intervento” e fece cenno al figlio di spiegare la natura della sua urgenza. Giacomo, senza tergiversare, espose immediatamente lo stato delle cose: “Vi resteremo obbligati se Vossia potesse accettare sotto la vostra protezione questa famiglia e tenerla nascosta”. Senza esprimere alcun commento don Liborio chiamò uno dei suoi attendenti, Ciccia Machì, e s’appartò a discorrere con lui. Qualche minuto appresso Ciccia saltò sul mulo e partì, intanto Liborio tornò dagli Scalia: “Stasera, come scurerà, farò accompagnare i vostri amici a Donnasecata… è posto sicuro, lì potranno stare tutto il tempo che vorrete. Ciccio è andato ad avvisare Turi Massaro: sovraintende quella zona ed è persona fidata.” il sostegno dei contadini grazie alle qualità di medico e umane che dimostrò con la stessa vocazione che l’aveva fatto apprezzare dai suoi pazienti di città. Anche Turi Massaro, che aveva accolto senza entusiasmo l’arrivo degli scampati, cominciò a gradire la presenza di Elia. Qualche tempo appresso, sentendolo lamentarsi della mancanza di medicine, Turi gli chiese: “Mi scrivesse tutto chiddu che occorre a Voscenza”. “Se nemmeno il farmacista ha più niente, dove potrà reperire, di questi tempi, le medicine che mi bisognano?” “Voscenza pensasse a scrivere, il resto non è competenza vostra.” Pochi giorni dopo Turi Massaro arrivò al baglio con due muli con le some cariche di tutto il materiale che Elia aveva elencato sul foglio. Dove l’avesse reperito il medico non lo seppe mai, intuì che non doveva fare domande sulla provenienza e non ne fece. L’arrivo dei Davì, per i contadini del baglio di Donnasecata, fu un avvenimento. Nessuno faceva domande, ma in tutti loro vi era la consapevolezza che signori così stessero in quel posto solo per circostanze sospette. I Davì furono allocati in una delle piccole abitazioni disposte torno torno al baglio. Ben presto Elia riuscì a suscitare l’affetto e Quella sera Rebecca e le bambine erano già andate a letto. Elia stava leggendo al chiaro di un lume a olio quando sentì bussare. Dietro la porta c’erano Turi Massaro e Ciccio Machì con tre cavalli. “Pigliasse la borsa con i ferri e delle bende e venisse con noi” gli ordinò perentorio Turi. Senza indugiare Elia prese l’occorrente, indossò il cappotto e seguì i due. Due ore di cavalcata li portarono in un capanno illuminato da torce. All’ingresso c’era don Liborio che discuteva con un altro uomo. Non appena Elia scese da cavallo, Quartara lo prese sotto braccio: “Dottore, scusasse se l’abbiamo scomodato a questa ora, lì dentro c’è un picciotto che necessita della vostra perizia.” “Bene” rispose Elia, “mi faccia vedere.” I due entrarono nel capanno. Don Liborio gli mostrò un giovane con una ferita alla spalla disteso su una lettiga di canne e se ne uscì. 38 39 Trascorsero tre ore e il medico raggiunse gli altri all’esterno: “Se la caverà, non è una ferita grave; come se l’è procurata?” “Incidente di caccia fu” ribatté sardonico Turi Massaro. “Considerato che la nostra presenza non è più necessaria possiamo sciogliere ’sta compagnia. Dottore, se sarà di vostro favore potrà approfittare di un passaggio sul mio calesse” ingiunse Liborio Quartara. “Volentieri” espresse Elia. La notte era ancora robusta. La luna rendeva più sicura la via. Il carrozzino procedeva lento tra le buche di una strada sterrata. Fu il medico che diede il via alla conversazione: “Don Liborio, mi consente di esprimerle una considerazione?” “Prego” rispose a tono il mafioso. “Francamente non riesco a capire. Dai tempi in cui venivo a trascorrere le estati a Roccalupa, il suo nome è sinonimo di paura. Ora ho l’impressione che lei sia tutt’altro che un bruto incolto. Il mio è un giudizio sommario, non ho elementi qualificati per poterlo affermare con persuasione. Di fatto non ha esitato ad aiutarci mettendo a repentaglio la sua vita e quella dei suoi amici. Eppure, talvolta, mi sembra di scorgere nei suoi occhi il piglio del demonio. Mi perdoni se adotto questi termini, ma vorrei essere contraddetto.” Don Liborio fermò il calesse, sollevò la coppola sopra la fronte e, dopo un meditato silenzio, ribatté: “Io non devo contraddire niente, però se vuole capire… l’aiuto. Vossia, dottore, vede il diavolo e io le dico che c’è l’inferno: il fuoco di secoli di angherie. L’assistenza che le sto favorendo non è una questione di coscienza, bensì di oltraggio a Mussolini e al suo padrone tedesco. Io non riconosco questo Stato che agisce come fosse proprietario delle cose e dell’omini. Siamo entrambi storicamente oppressi. A voi hanno tolto la terra e ogni pretesto è stato legittimo per perseguirvi. A noi, la Sicilia ce l’hanno lasciata, ma senza diritti. Siamo stati sfruttati e mantenuti come animali. Quando qualcuno ha mosso opposizione hanno cominciato con lì stermini. E lì baruni che hanno fatto? S’hanno calato le brache ogni volta che uno spagnolo, un francese o un tedesco c’è presa la voglia di fare legge in Sicilia. E che feste gli facevano. Mai, a ’st’imparruccati senza onore c’è venuto l’orgoglio di dire: la Sicilia è cosa nostra, armiamoci, difendiamola; facciamone uno Stato dove possiamo essere padroni del nostro destino. La loro priorità è stata quella di mantenere integri i loro privilegi, torcendo lì sottostanti nei loro feudi, e sperperare le rendite in ville, feste, carrozze e lacchè. Quando ero picciotto sentivo lamentare gli anziani che, in nome di Vittorio Emanuele e dell’Italia, avevano sperato nel cambiamento. Invece abusi, corruzione, privilegi e miseria rimasero uguali come ai tempi dei Borboni. Quindi se non c’è giustizia politica, sociale, giudiziaria, il solo metodo per guadagnarla è farsela da sé con l’unico criterio che in questa terra è legge: lu terrore. Dottore, io non amo la violenza, o per lo meno quella gratuita che è artificio dei potenti, ma la tengo da conto perché è strumento capace a far valere le mie ragioni e a irrobustire un effetto occulto che, in quanto tale, fa orrore”. “Voi, don Liborio, sollevate giuste opposizioni, ma se si ragiona con la sola logica della violenza si finisce in una spirale senza fuga. Chi detiene un potere deve adoperarlo…” “Non mi parli da idealista. Ho la consapevolezza che questo potere, che nasce per avversare le ingiustizie, è finito per farsene complice dove non è diventato vessatorio.” “Allora se vi è questa coscienza perché…” “Perché la Sicilia è terra senza futuro. Ci sono sempre stati oppressori e oppressi. Tra gli oppressori ci stanno quelli per lignaggio e quelli, come me, angariati, i quali si reputano custodi di potere vero, ma sono inconsapevole artificio dei primi. Siamo utili al sistema e ci permettono di coltivare questa illusione.” 40 41 “Quando finirà la guerra voi, se vorrete, potrete adoperavi affinché la legalità possa affrancarsi da questa condizione.” “Non ho l’integrità morale, i mezzi né la cultura per propormi come uomo nuovo; sono compromesso con le azioni del mio trascorso: quel che rimane sono solo parole… e oggi ne ho liberate oltre quanto sono solito pensarne, perciò basta chiacchierare, fa male alla salute.” L’afa di luglio aveva riarso tutta la vegetazione. Solo le cicale avevano lena per intonare il loro coro. Elia s’era appisolato sotto la sagoma di mandorlo. Era annoiato. Da qualche giorno Turi Massaro sembrava sparito. Non si era visto neanche don Liborio. Un vago presentimento lo inquietava. Il fragore di un motore lo sollevò dalle sue riflessioni. Qualche minuto dopo un camion si fermò nell’aia. Dalla cabina scesero don Liborio e Turi Massaro, questi era armato di mitra, accennò un saluto mentre si avviava presso la sua abitazione nella parte centrale del baglio. Don Liborio si accorse di Elia e si approssimò verso di lui. “Don Liborio, cos’è...?” “Sono venuto a prenderla” disse Quartara senza lasciare che Elia finisse la domanda. “Avverta la sua signora di prepararsi: devo portarvi nella casa degli Scalia.” “Che significa ciò?” chiese turbato il medico. “Significa che finì. Stanotte hanno ammazzato il podestà di Roccalupa. Fascisti e tedeschi hanno capitolato. La Sicilia ora è in mano degli americani.” “Di Giacomo che ne è stato?” “Non tema per il suo amico. Da qualche tempo è sfollato al paese, tra poco lo incontrerà: sta aspettandovi.” “Allora è finita questa clandestinità, quindi d’ora in poi, amico mio, potremo…” “Dottore, da lei pretendo un impegno. Pretendo la sua parola che si scorderà di me e che non racconterà a nessu42 no questo episodio della sua vita. Non potrà mai esserci amicizia tra me e lei.” “Voi state chiedendo di ferire i miei sentimenti. Come potrei obliare quello che ha fatto per la mia famiglia. Negate il vostro concetto della solidarietà facendovi del torto. Io non credo che ci abbiate aiutato solo per avversione all’autorità. Fosse stato così non vi sareste preoccupato di venirmi a trovare, di procurarmi, di vostra iniziativa, libri, di trascorrere le serate ad argomentare con me. In voi c’è molto di buono, mi creda, mediti su quanto le dissi una volta. Il prossimo futuro potrà essere il tempo delle verità.” “Lei sta delirando: simula di non capire. Cosa vuole che mediti, vuole forse che rinneghi il mio operato per lasciarmi sopraffare dalle emotività? No. Queste cose sono come i governi: non li riconosco. Poi di quali verità mi parla? La verità è così offuscata e la menzogna così bene affermata che non si è capaci di conoscerla. Ora adempia al trasferimento: Turi vi accompagnerà a Roccalupa.” 43 Motivazione 3° classificato ex aequo Gavino Chessa Una vicenda dove sembra poter prevalere la pietà umana sulla logica della violenza e della sopraffazione, cui una scrittura precisa e matura, impreziosita da un uso sapiente e misurato di termini dialettali, conferisce vivacità e pienezza espressiva. Le leggi razziali sono la cornice storica del racconto ambientato a Palermo e dintorni, che vede protagonista un medico ebreo, costretto ad abbandonare il lavoro in ospedale e la propria abitazione. Ma a organizzare la fuga e a proteggerlo dall’arresto e dalla deportazione intervengono persone dalla diversa appartenenza e reputazione sociale (un segretario fascista locale, un monaco, un maggiorente mafioso) che non si lasciano vincere dal fanatismo, da pregiudizi razziali o religiosi, da interessi di parte o semplicemente dalla paura, e che insieme riescono a tessere una rete di solidarietà. Cui non si sottrarrà nemmeno il medico stesso, quando verrà chiamato a curare un picciotto ferito. A come… attesa Appassionatamente attesi Amanda, attraverso aspettative apparentemente apatiche. Andai all’aeroporto ad attenderla. Arrivò all’alba; ansiosa agitava alcune azalee alternate ad accalorati abbracci. All’abito avorio abbinava antiche acquemarine azzurrognole. Altera appariva: adoravo amarla, adoravo ascoltarla, anelavo averla. Andiamo amore accompagnami all’aurea alcova, annunciò audace aggiogandomi all’avance avidamente attesa. B come… Boccaccio Bazzicando balere beccai Boccaccio ballando beguine. Ballava, beveva, baciava bellissime ballerine bionde. Bischerando brontolai, bisogna batterti bevendo, ballando, baciando bellissime ballerine. Boicottai Boccaccio baciando Belen, bevendo Bordeaux, ballando boogie-boogie. Bla, bla, bla bisbigliò Boccaccio; balbettava blaterando boccaccesche boiate. Benedetta barrage, bissai Boccaccio barcamenandomi bene. Ballavo boogie-boogie brandendo balalaiche, balzando banchi, baciando Belen battei Boccaccio. 44 45 Buon Boccaccio, benché battagliammo bellicose battaglie brindiamo: beviamo Barolo, banchettiamo braciole baciando Belen. C come… cerco casa Confinati cieli contemplammo con Carla. Caduche comete come cadeaux comparvero, compiendo cadute cadenzate. Cenammo consumando caviale con champagne Cristal. Cenando cogitavo cose carine: come conquistarla, come coglierle camelie, come comprare casa. Civettuola con charme chiese: “Cosa cerchi, Ciro, cosa chiedi?” “Cerco castelli, cerco cascine, cerco casamenti, cerco casa, cerco come colui che compie cerchi concentrici.” Casualmente camminando conobbi casa. Carissima casetta, cuore confortevole, comoda concubina. Coccoli colui che conosci come cachemire caldo, come caminetto cocente. Concedi calma, comodi canapè; cose concrete che confortano. Chiacchierando chiudemmo consumando caffè caldo; così chiesi: “Cara Carla, caloroso cuore, come convincerti, come chiederti che cerco connubio!?” “Caro Ciro” chiosò Carla, “compra casa così convoleremo come candidi colombi.” 46 Motivazione Gioco letterario di acrobatico virtuosismo, nel quale si racconta, in modo divertente e divertito, l’attesa all’aeroporto dell’amata Amanda, fino agli abbracci e all’alcova, utilizzando esclusivamente lessemi che iniziano con la lettera A, una balzana baraonda di bagordi solo con la B e una civettuola conquista casalinga solo con la C, come abbiamo cercato goffamente di fare noi con questo breve riassunto. Con grazia e senza forzature, un’operazione originale e riuscita, che riscatta ogni sospetto di gratuità grazie al felice ritmo compositivo. Sarebbe piaciuta a Perec e a Calvino. 47 3° classificato ex aequo Con Roberta le uscite in barca erano ormai frequenti. Il nostro sloop, un Holliday ’27 dotato di un motore entrobordo, era un cabinato con quattro cuccette in un unico ambiente e cucinino basculante. In cabina, nonostante le dimensioni, si poteva tenere la posizione eretta, grande comodità che lo rendeva prezioso a confronto con le barche della stessa dimensione. Una linea marina che lo faceva filare a otto nodi con drifter, randa e un filo di vento. Ci appassionammo al mare e spesso ci restavamo a dormire. Nella stagione delle vacanze io e Roberta ci facevamo casa. L’armamento era efficace nella sua semplicità e mi pareva di sentire il legno come lo avessi sempre posseduto. Siracusa-isola di Malta, un progetto che era costato parecchi mesi di allenamento affinché si potesse lavorare in due con serio margine di sicurezza. Roberta era un gran marinaio, puntiglioso, capace e paziente; soprattutto paziente. La sera prima di partire ordinammo le scorte, tutto il necessario per una traversata confortevole, non senza eccitazione. In cabina l’ultima programmazione, poi sistemammo le assi che formano un letto delle due cuccette centrali. Non si trattava più di uscire e tornare in giornata, ma di un vero viaggio, con approdi e incontri di genti. Sessanta chilometri a Capo Passero e novanta per Malta in dieci ore, con otto nodi; importante arrivare prima di sera. L’ansia, certo, non mancava. Alle quattro, con l’aurora incipiente e un fresco pungente, iniziarono le attività a bordo. Si ricompose il piccolo quadrato, riponendo le assi, piegando il sacco e liberando il vano da tutto il superfluo. Non si vedeva arrivare nessuno e uscimmo per un caffè. Nel piazzale delle poste, per via del traffico delle corriere che facevano capolinea, il bar era già brulicante di gente venuta a preparare il mercato. Di ritorno a bordo, si muoveva qualcuno. Annina e Campa erano puntuali, con un thermos di caffè caldo che decidemmo di goderci più tardi, perché era tanta la voglia di salpare il cavo di prua al corpo morto e mollare gli ormeggi. A motore verso “isola” e preparammo l’armo al Plemmyrion. A cinque miglia da “murro di porco” issammo randa e genoa con rotta sud per tenerci lontani dalla riva che rientrava a ovest. Un maestro leggero di 5-6 nodi ci gonfiava le vele a deriva dai rischi sotto costa. Ognuno lavorava in silenzio. Ordinammo le scotte per levare intralci. Calammo berrette sui capelli e serrammo i giacconi: il freddo e l’umido, per ancora tre ore. Il mare, piatto, sembrava dormisse. Erano da poco passate le cinque e alla piena andatura saremmo arrivati tra le diciassette e le diciotto. In lontananza la costa e le creste Iblee. Ci sedemmo in pozzetto a conversare mentre Annina distribuiva caffè caldo, maritozzi e iris alla crema. Parlammo di Malta e Dom Mintoff. “Lingua ufficiale l’inglese e il maltese” leggevo da una guida “… unico dialetto arabo, scritto con caratteri latini e forte di numerose locuzioni in italiano e in particolare siciliano. Tre isole, Malta, Gozo, Comino. Importante centro commerciale fenicio, cartaginese, uhm… greco, romano, bizantino. Gli arabi per duecento anni… Ruggero II d’Altavilla l’annette alla Sicilia, altri duecento anni… Cavalieri di San Giovanni, poi di Malta… croce bianca a otto punte su campo rosso… angioini, aragonesi, Napoleone, inglesi a tutt’oggi.” So tutto!, dobbiamo andare a vedere le opere di Caravaggio, che è riuscito a farsi cacciare anche da lì… 48 49 Carmelo La Licata Ricordi di Ortigia, l’isola delle quaglie Speriamo che non ce l’abbiano ancora con noi… Alle otto e trenta eravamo al traguardo di Capo Passero. “Ancora un’ora e diamo rotta sud-sudovest…” “Potremmo farlo anche subito” disse Roberta, “perché poi avremo corrente contraria che arriva dall’Atlantico e risalirla può essere un problema. Meglio evitare smotorate.” Aspettiamo ancora un po’” emerse Campa con una carta, “meglio non avvicinarci… scapoliamo bene il capo e ci diamo a sudovest così, se la corrente ci provoca scarroccio, arriviamo alti sull’isola piuttosto che risicati.” Fummo tutti d’accordo. Il sole si alzava, il caldo ci induceva a spogliarci come cespi di cipolla, uno strato dopo l’altro. “È meglio lasciare indosso qualcosa di leggero o stasera avremo piaghe da scottatura. Questo venticello rende sopportabile la calura, ma il sole picchia e a sera si sentirà…” Roberta e Annina scomparvero sottocoperta per preparare lo spuntino. Alla mezza, barchette di sedano bianco e zola, astine di pecorino col pepe, frasette di ricotta, olive e peperoni arrostiti fecero la loro comparsa e ci allietarono con l’aiuto del Cerasuolo di Vittoria, che mai navigante potrà tralasciare. “Se facciamo il giro del mondo la barca deve avere quattro serbatoi: acqua, gasolio e due più grandi per il vino e l’olio…” La piattaforma sottomarina si innalza nel canale di Sicilia e ha una mala fama. Pare che quando fa brutto qui sia proprio da scansare. Sotto, i vulcani lavorano incessantemente e l’ultima eruzione, nell’Ottocento, fece emergere un’isola. I francesi l’avvistarono per primi, gli inglesi vi sbarcarono che era ancora fumante e i Borboni, nel far notare che era in acque di loro possesso, la chiamarono Isola Fernandina. Una diatriba che valeva una crisi diplomatica, quando improvvisamente la terra sprofondò così come era emersa. Con questi discorsi nel cuore, vedere la costa allontanarsi, e con essa il capo, creava un senso d’attesa e la pausa sarebbe durata sino a vista di nuova terra. Al vespro le isole maltesi si traguardavano a sud-sudovest, vicine. Lascammo le vele per prendere il vento al lasco, un’andatura per cui la barca soffriva, sbilanciata, con fremiti a volte trattenuti, e traversava l’acqua tra spruzzi e onde fastidiose, che interruppero il piacevole scorrere di cui avevamo goduto sin lì. La costa alta e scoscesa si presentava nera e rotta da fratture e calanchi. Con i “piani” di cui era dotata la barca fu scuola studiare fondali, secche, scogli e isobare. Il porto sul lato opposto era meglio accostarlo da ovest, così da tenere la direzione della corrente per l’avvicinamento. A un miglio o poco più, in vista dei fanali, con un senso di “cosa fatta” nel cuore, mettevamo a secco di vele non prima di avere avviato il motore. E accostammo: una manovra perfetta, da consumati marinai, nervi e muscoli sciolti, senza alcun aiuto dalla terra, che pure ci veniva offerto da passanti e pescatori. Ore diciotto e venti… of course! La sera couscous con salsa di pesce e un vino chiaro e profumato che non sappiamo se prodotto sull’isola: forse viene dal mare, da un’isola greca che con questa incrocia storie e commerci; o è figlio di terra d’Africa che da qui è vicina e che, ormai, ci pare di toccare. Due giorni trascorsi sull’isola. A Gozo un posto migliore e meno affollato in un mandracchio per pescatori. La Valletta tutta fortificata, segni di bastioni ovunque che narrano la paura del passato. Per secoli dal mare arrivavano merci, ma più spesso le brutte notizie e torme di predoni. Marinaio e pirata era la stessa cosa, l’attitudine determinata dall’opportunità. Era curioso vedere tanta Inghilterra in questa gente così poco english. Le cabine del telefono, bandierine dappertutto e certe insegne di pub si faceva fatica a collocarle tra queste strade arabe con queste facce turche. Alle barche da diporto in partenza augurammo “good 50 51 wind”, vergognandoci un poco quando scoprimmo che il nostro grido d’augurio “buon vento” gli inglesi lo rivolgono, scherzosamente, ai bambini che emettono peti. “Che provinciali…” ci biasimammo. Era piacevole la compagnia di Campa e Annina. Un’amicizia priva di invadenza che dava un senso di rilassatezza. Soggiornare con loro sulla banchina davanti agli ormeggi, conversando, cercando pescatori nelle lunghe passeggiate, e osservare il mare e gli usi del mare, ficcanasare tra esche e pasture e controllare il pescato nel riempire i meriggi sino al tramonto. Allora il sole infiammava i tufi delle case e diffondeva quella luce giallastra che allungava le ombre sul porfido nero del selciato. Campa eseguiva disegni con mano sicura, matita e pastello, talvolta a carboncino. Vedute e scorci tra case di pescatori. Roberta e Annina, con un pennello di un dito, tracciavano rapide linee di grasso colore per ottenere figure di barche, mentre io, sdraiato su un muretto di pietra calda, come una lucertola tardiva, leggevo gli autori che più amavo. Frammenti di musica ci arrivano. A ogni salto d’aria un tema diverso. Che direttore d’orchestra è il vento, le porta e le interrompe, le musiche della balera, l’orchestra del teatro, le melodie del lido. Mentre avvolti in un sacco, dolcemente, dormiamo, sotto lo sguardo severo di un occhio di cubìa. Sulla spiaggia, la sera, un vento di scirocco spinge l’acqua, come una mano ridotta a coppino. E la fa suonare, quella sabbia di granelli a miliardi di miliardi di miliardi. Sfregano, saltano, per poco si inabissano, rimontano tanti su altri, per chilometri e chilometri, e fanno sentire questa voce potente e mormorante, che ti riempie i sensi. La risacca. Un merletto di spuma. Lunga e sottile come asta di telaio che pettina la tela, infinita, come quella famosa che sospinge il mare a tratti visibile, quasi sempre udibile, nel buio. Non c’è storia che ti spaventi più dei mostri del mare, che si fanno sentire nelle notti di fine stagione. Ti incalzano l’ansia, mentre fissi la distesa ne senti la voce e ne respiri l’alito. Portano animo e paura, gioia e tristezza, cura e speranza per un futuro sottile che s’appressa. Come al giorno di fine della festa. Sistemare le attrezzature era cosa di tutte le mattine, un breve controllo tutt’uno col prendere aria in coperta nelle prime ore del giorno. Il sole era già ben presente, anche se basso sull’orizzonte, e ondine stizzose si infrangevano su Gioia Gioiosa, facendo danzare la barca con leggerezza, ritmicamente. A questa occupazione mi dedicavo ogni mattina mentre giravo sulla tolda con gli occhi ancora impiastricciati dalla nottata e i capelli arruffati dal cuscino. Gabbiani lanciavano i loro “cocai” e lunghe strida sulle planate degli altri; picchiate vertiginose, si spingevano, arruffavano e combattevano intorno ai resti di una cena che la barca vicina svuotava in mare. La contrada è deserta e il molo, che è stato militare, abbandonato. Poco lontano, una turgida brocca di pungitopo respinge un colpo d’aria e attira l’attenzione. Forse un giro vale una cena; così, di cespuglio in rovo, sono in cima alla collina e ho raccolto un mazzetto di germogli spontanei. A pranzo frittata con brocche di asparagi, luppolo e pungitopo. La vista è magnifica sulla piccola insenatura, stretta e profonda verso l’entroterra; le pareti, scisti grigi a strapiombo; l’acqua turchina, increspata da piccoli banchi di minuscoli pesci che nella foga di sfuggire a un predatore si spingono fuori, mostrando il ventre argenteo al sole e producendo fremiti veloci e convulsi per sprofondare ancora e tornare a vibrare in superficie. A ogni emersione manca qualcuno, ma la corsa alla vita è fine a se stessa e continua senza interruzione. Uno sbuffo d’aria si insinua tra i capelli e mi dice che è 52 53 ora di tornare. Il sole sta scaldando la terra e prepara il vento per le vele. Roberta mi aspetta con in mano una tazza di caffè e una fetta di torta. Facciamo colazione su uno specchio di prato tra le rocce e aspettiamo gli altri. Parliamo delle cose lontane che ognuno di noi si porta dietro. La barca è leggera, tolti gli ormeggi è bastata una spinta dal molo per spostarne la prua. Nessuno saprà mai di questi giorni di mare. Il capitano sta ritto sul ponte, quando naviga, guarda fisso a cercare qualcosa che non vede, ma deve essere sicuro che c’è, forse esiste nella sua mente, come un castello di fate nella memoria di un bambino. Ogni partenza è un’avventura e al timone c’è tutta la tua vita… Forze invisibili di vento e respiro del mare profondo, le tempeste che rendono nero un cielo lontano, ti dicono di ponderare e una volta partito, col suono spaventoso delle sirene nelle orecchie, gli occhi attenti ai pericoli, i sensi ai salti di vento, veleggi come mercante, pirata, marinaio, che la vita non è mai cambiata. E pare di dare volta al cabestano, filare cime, spiegare fiocchi, coltellacci e vele maestre, con ordini gridati a gran voce, come su grandi velieri diretti ai mari del sud. Ogni volta che muovi dal molo e vai verso il largo, mentre la costa si allontana e la tua barca piccola e vigorosa prende moto, spinge la prua nell’acqua, si avventa veloce tra le onde per una corsa di rotazione che potrebbe non avere mai fine. I delfini ingaggiano la ruota di prua e il baffo d’acqua che solleva a ogni affondo. Finché, stabilizzata, messe a segno le vele per il destino del giorno, questa casa di legno, zona franca, territorio libero, restituisce la pace e il gusto di navigare. Cormorani, neri puntini lontani, si tuffano per la pesca, innumerevoli: per tanti che spariscono sott’onda tanti ne ricompaiono. Al ritorno, vento di nordest. Lasciavamo le case, i porti e gli scogli alle nostre spalle in una scia spumosa. Una piccola flotta di pescherecci incrociava, mentre la gente del posto dormiva nelle case. Ancora accesi i lampioni sui pontili e acceso il faro come unico occhio di ciclope amico: irradiava la sua lama lucente, come a dirci la strada. Dispiegammo le vele a bolina e con il legno inclinato ma stabile sentivamo la barca risalire con andatura solida e sicura. Il giorno volgeva alla fine come la nostra vacanza. 54 55 Motivazione Il racconto di una vacanza in barca sulla costa siciliana diventa il pretesto per uno scandaglio dettagliato e incantato sulla fascinazione del mare, tra il gusto di navigare e quello di approdare, che comprende una narrazione del paesaggio e del clima, degli uccelli e delle piante, delle onde e del vento, mai piattamente descrittiva, ma sempre abilmente fusa con le riflessioni e le emozioni, mescolata a echi mitologici, fino a farsi riflessione esistenziale di ampio respiro. Merito di una scrittura sensibile ed efficace, in grado di suggerire il piacere e i turbamenti, la speranza e la paura di quel viaggio che è la vita. 56 Opere segnalate Emanuele Aletta Catina La premiazione del 2011 a Firenze. In una tranquilla cittadina abitata da poche anime, vivono u zù Turiddu e a za Maria con la loro bellissima figlia Catina. Con i suoi capelli dorati, gli occhi azzurri e un corpo da fare invidia alle dee dell’Olimpo, strega i cuori di tanti giovani che desiderano ardentemente sposarla. Molti sono i litigi tra loro per contendersela. Alla fine la spunta un giovane studente di buona famiglia. Cuciuzzu, così si chiama, decide di andare da zù Turiddu per chiedere la mano della figlia. U zù Turiddu prende molto bene le parole del giovane, dà la sua benedizione e lo invita unitamente ai suoi genitori a cena per formalizzare il fidanzamento. Giunta la sera, Cuciuzzu e i suoi genitori si presentano all’invito e, superato quel sottile velo di imbarazzo, si siedono a tavola per cenare. Nel frattempo Cuciuzzu chiede con molta educazione a Catina di passargli il pane e lei con stizza gli risponde: “Io nun ti pigghiu nenti, chi sugnu a to serva? Ca tu nun ci l’ai i manu? Pirchi nun ta pigghi tu u pani, senti ca, a mia lassimi perdiri!” Questa reazione fa ammutolire i presenti, le facce dei suoi genitori si riempiono di vergogna. Poco dopo Cuciuzzu, forse per semplice curiosità o per provocazione, fa un’altra richiesta simile alla prima e Catina reagisce in maniera ancora più isterica. A quel punto Cuciuzzu, intimorito dall’atteggiamento di Catina, decide di non volerla più sposare e lo fa presente allo zù Turiddu. La mattina dopo alcuni ragazzi pensano che il fidanzamento si sia concluso, ma informati da Cuciuzzu di quanto è accaduto rinunciano anche loro ad averla in sposa. Loro malgrado 59 dicono di non volerla più a causa di ciò che è successo; tutti, quindi, decidono di ritirarsi, tranne uno, che pur conoscendo la reazione che ha avuto Catina decide di andare lo stesso da zù Turiddu a chiedere la mano della figlia. Così questo ragazzo, ossia Serafino, si reca da zù Turiddu a chiedere in sposa la figlia. Egli gli dice subito di sì, anche perché, conoscendo il carattere di Catina, ha il timore che nessuno, nonostante la bellezza, la voglia in sposa. A questo punto u zù Turiddu, come di consueto, invita Serafino e i suoi genitori a cena, per formalizzare il fidanzamento. Durante la cena, Serafino assiste a una sfuriata di Catina e si rende conto che non è proprio il caso di maritarsi con lei. U zù Turiddu e a za Maria sono disperati, non sanno più come fare, ormai si sentono rassegnati. Nei giorni a seguire, le gente del paese è tutta raccolta in piazza a causa di una festa locale. Catina è più bella che mai, si aggira curiosando tra una bancarella e l’altra. Dalle montagne arriva in paese, per assistere alla festa, un giovane pastore di nome Carmelo, alto, biondo e muscoloso: insomma, un bel ragazzo. Mentre si aggira per la piazza, vede da lontano Catina; lui non la conosce, non l’ha mai vista. Al primo sguardo si innamora. Quando scopre che è la figlia di zù Turiddu, non perde tempo a chiedergli di averla in sposa. U zù Turiddu, all’udire quelle parole, si rianima, perché vede in Carmelo un barlume di speranza per sposare finalmente la figlia. Come aveva fatto con gli altri due giovani, invita Carmelo a cena per formalizzare il fidanzamento. Giunto il giorno fatidico, Carmelo si reca a casa di zù Turiddu portando in dono tumazzu e ricotta. Quando iniziano a cenare, Carmelo chiede a Catina di prendergli una forchetta pulita, perché la sua gli è caduta a terra. Catina, invece di fare quanto le era stato richiesto, si abbandona a un’altra delle sue sfuriate e dice: “Chi vi mittistuvo da testa, tutti chidri chi siti, Catina i ca Catina i drà, pìgghitilla tu a for- chetta e si nun ta va pigghiari mangi chi manu”. Carmelo, abituato a tutto, non si intimorisce e quindi accetta di seguire il consiglio di Catina e inizia a mangiare con le mani. Nel frattempo Carmelo chiede a zù Turiddu di poter sposare il prima possibile Catina, poiché non si può permettere il lusso di scendere spesso in paese per vederla: “Le pecore hanno bisogno di essere accudite e non possono stare incustodite per troppo tempo”. U zù Turiddu non crede alle proprie orecchie. Fissata la data del matrimonio, i due giovani si sposano e vanno a vivere in montagna. Carmelo, come di consueto, verso le quattro del mattino porta le pecore a pascolare e mentre è in giro per le campagne raccoglie della verdura. Al rientro chiede a Catina di cucinarla, e lei, come suo solito, dice a Carmelo di non avere intenzione di cucinare un bel niente. A quel punto Carmelo si rimbocca le maniche e prepara la cena. La stessa cosa si ripete il giorno successivo. Il terzo giorno Carmelo non va a lavorare e dice a Catina di prepararsi per andare in paese. Lei, entusiasta della proposta, non perde tempo e in un attimo è bella e pronta. Anche Carmelo si prepara per l’occasione e porta con sé un fucile, il cane e la giumenta. Durante il viaggio Carmelo scorge un coniglio e con il fucile prende la mira e spara all’animale, che resta a terra. Carmelo ordina al cane di andare a prenderlo, ma il cane non ubbidisce al comando del padrone. A quel punto Carmelo dà un ultimatum al cane dicendo: “Va’ pigghialu, ed è uno; va’ pigghialu, e su dui; va’ pigghialu e su tri”. A questo punto Carmelo imbraccia il fucile e spara al cane. Proseguendo il cammino, a un tratto si trovano davanti a un guado che spaventa la giumenta, che non vuole attraversarlo. Carmelo le dà le tre possibilità che aveva dato al cane: “Passa, ed è unu; passa, e su dui; passa, e su tri”. Alla terza intimazione, Carmelo spara. Sulla bestia vi era la sella e Carmelo chiede a Catina di scioglierla e mettersela sulle spalle. Lei, come al solito, si fa prendere dall’ira e non ubbidisce. Carmelo, però, questa volta non ci sta e usa lo 60 61 stesso sistema utilizzato per il cane e la giumenta. Rivoltosi a Catina le ordina: “Sciogghi a varda, ed è unu, sciogghi a varda, e su dui…” Catina, pensando alla sorte del cane e della giumenta, scioglie la varda e se la mette sulle spalle. Siccome non vuole farsi vedere dalle gente del paese con la varda sulle spalle, chiede a Carmelo di prendere una strada secondaria, ma Carmelo ancora una volta le urla: “Pigghia sta strata, ed è unu; pigghia sta strata, e su dui…” Catina non lo fa arrivare al tre e prende la strada principale come voleva Carmelo. Entrati in paese, la gente non crede ai propri occhi, cosi chiamano zù Turiddu per informarlo di quanto hanno visto; u zù Turiddu va subito sulla strada e constata che è tutto vero. Curioso di sapere come ha fatto Carmelo a domare la figlia, chiede spiegazioni al ragazzo, e siccome Carmelo non gli vuole dire niente, u zù Turiddu comincia: “Dimmelo ed è uno; dimmelo e su dui…” 62 Walid Ben Tahar Binari C’è l’immortalità… così, a due pollici circa da noi. Eppure irraggiungibile persino nell’arte. Certe storie ti rimangono nella mente e nel corpo. Ci sono storie che cominciano bene e finiscono male. Ce ne sono altre che cominciano in un modo romantico, ma finiscono male. E ci sono poi storie inventate, di fantasia, di quelle che sembrano fiabe. Questa che sto per raccontare è vera ed è anche piena di emozione, di dolore, di sofferenza; insomma si può dire che è una storia drammatica, dove la tragedia non conosce la pietà. Era un inverno freddo quello del mio ritorno a casa da un lungo viaggio. Sono in piedi, contro un muretto, che cerco di ripararmi dalla pioggia fine e incessante. In mezzo alle gambe ho la valigia, intorno a me tanta gente intirizzita, ansiosa, che aspetta lo stesso treno. C’è chi fuma annoiato, passeggiando lentamente avanti e indietro, chi si copre la testa con la borsa; una coppia di giovani si scalda tenendosi abbracciata, donne anziane si lamentano del ritardo del treno. Tutti guardano nella stessa direzione, e proprio là in fondo c’è una donna sola con due valigie. Indossa vestiti strani, variopinti e singolari; una bella donna indiana: capelli lunghissimi, pantaloni larghi e leggeri, la pelle scura e il puntino rosso sulla fronte. Me ne sto lì, appoggiato al muretto, osservando tutto e guardando ogni tanto l’orologio. A un certo momento mi accorgo che molte persone fanno qualche passo verso i binari, mentre l’altoparlan63 te vomita parole incomprensibili. Capisco solo “signore e signori, attenzione”, mi abbasso per prendere la valigia e sono investito dalla folla mentre il treno arriva rallentando e tutti corrono verso gli sportelli. La confusione è enorme. Guardo verso il fondo del treno mentre anch’io cerco lo sportello migliore per salire e vedo la donna indiana in difficoltà: sta cercando di trascinare le valigie molto pesanti. Mi avvicino a lei a passi veloci e le chiedo se ha bisogno di una mano. Mi risponde “Sì, grazie” e io mi sforzo di caricare le tre valigie cercando nel contempo di aiutarla. In questo momento mi accorgo che è incinta e ha un bel pancione. Riesco a farla sedere e mi siedo anch’io, mentre il treno comincia a muoversi lentamente. Il treno è il peggiore del mondo, sporco, freddo, scomodo. Io tornavo dopo aver portato a termine un lavoro per una ditta di ascensori e non vedevo l’ora di uscire da quel paese per entrare nel mio e sentirmi così più vicino a casa. E quello su cui viaggiavo era l’unico treno che passava su quel binario, attraversando il deserto. Stavo lì a guardare dal finestrino e ogni tanto vedevo delle palme, qualche cammello che camminava sotto la pioggia contro lo schermo grigio del deserto. Un paesaggio insolito, diverso dal deserto tutto sole accecante, sabbia e dune dei turisti. Questa volta era tutto così diverso, così triste che non mi andava più di guardare fuori. Mi giro verso l’interno del treno: c’è chi dorme, chi legge il giornale, chi ascolta la radio con le cuffie. Tutto mi sembra molto noioso ed eguale: il viaggio più lungo della mia vita. A un certo punto mi giro verso la donna indiana e vedo la sua faccia così sofferente e sudata che le chiedo se si sente bene. Mi risponde di sì e accetta, ringraziandomi, una bottiglietta d’acqua che le offro. Mi giro e piego la testa cercando di prendere sonno, ma non riesco. Anche i turisti che sono a bordo si sono addormentati. Di solito un turista sta sempre a guardare fuori, curioso di cose nuove, di ammirare il deserto, o di fare qualche foto. Quel giorno non c’era niente da ammirare, né fuori né dentro il treno. Appoggio la testa sul duro schienale e vago tra fluidi, indistinti pensieri, immersi nel mare della nostalgia. A un certo punto sento un urlo che ferma il respiro di tutti. Mi si gela il cuore a queste urla selvagge e continue. Attorno a me vedo facce preoccupate e spaventate come la mia. È la donna indiana che grida così, e quando cerchiamo di avvicinarci un’anziana signora ci allontana con voce tremante: “Sta per partorire” ci dice. All’epoca avevo diciassette anni, capivo a malapena cosa succedeva e non avevo mai assistito a una scena del genere. L’anziana continua a ripetere: “C’è un dottore, c’è qualcuno con esperienza?”, ma nessuno si fa avanti. Due donne sorreggono la testa dell’indiana e le dicono di prendere un respiro profondo e soffiare forte, ma lei, mezzo svenuta, continua solo a strillare sofferente. Alcuni passeggeri entrano nel panico: dentro un vecchio treno che corre in mezzo al deserto una donna sta per partorire, ma nessuno sa cosa fare per aiutarla. L’anziana ci fa allontanare ancora di più da quella zona, ma continuiamo a sentire quelle grida che non si placano e anzi diventano più forti e disperate. Dopo quasi un’ora, si fa un attimo di silenzio quasi assoluto, poi dalla cabina esce la vocina squillante di un neonato. Noi uomini eravamo contenti, curiosi, emozionati; ci sentivamo come se il neonato fosse nostro figlio e quella donna nostra moglie. Poco dopo la donna anziana esce dallo scompartimento e viene verso di noi con le mani sporche di sangue, ma con la faccia seria seria e con le lacrime agli occhi. Entra nella toilette per lavarsi le mani e quando esce piange forte. “Grande disgrazia, signori! Nati due gemelli, uno sta bene, l’altro purtroppo non ce l’ha fatta, è morto.” Rimaniamo tutti bloccati dalla brutta notizia, delusi, dispiaciuti. La mamma è quasi svenuta sia per la sofferenza che per la morte del neonato. Ognuno cerca un modo per consolarla. Il viaggio è ancora lungo e non abbiamo la pos- 64 65 sibilità di comunicare con un ospedale per qualsiasi tipo di aiuto o per la ricerca di un mezzo di trasporto più veloce. Lentamente la mamma si riprende e piange con quieta disperazione, tenendo in braccio i due neonati. Uno dorme inconsapevole accanto al fratellino morto, in un’immagine drammatica che avvicina sonno e morte. Ma la cosa più tragica avviene poco dopo ed è condensata nel gesto della madre che prende una decisione incredibile. Si alza lentamente, sempre guardando i neonati, si affaccia al finestrino dopo averlo aperto e con un gesto velocissimo prende un neonato e lo lancia dalla finestra. Cosa dire, cosa pensare, noi che lo abbiamo visto, di quel gesto che racchiude tutta la disperazione, l’amore, il senso di colpa, la ribellione, l’odio, la volontà di distruggere e autodistruggersi di cui è capace una madre, una donna che ha appena dato alla luce una vita? E non due vite. Poteva il MIO cuore in quel momento provare solo sgomento ed esprimere solamente condanna? E allora come entrare dentro il SUO cuore e aiutarla a portare il peso di quella decisione? Mi sono chiesto, ripensando molto tempo dopo a quel fatto, che cosa ho veramente provato in quei lunghi momenti. Che cosa ho provato poco dopo quando, in un crescendo di tragedia, lei si è accorta che aveva lanciato fuori il bambino addormentato e non quello morto. Ha cominciato allora a strillare e a strapparsi i capelli così che sembrava impazzita. A noi non è rimasto altro che le lacrime, l’angoscia e il deserto che scorreva indifferente fuori dal finestrino. Dentro di me questa storia non è mai finita e vivo ancora con il dolore di quelle immagini e di quel treno che non è mai arrivato al binario dove dovevo scendere. da fondo al segreto col segreto, solo noi siamo il pensiero, lo spavento, la paura. Giacché davvero non il sole, né l’inverno vietano all’ombra quello che al corpo umano hanno permesso. Siamo nella sofferenza, ma crediamo nella speranza. … Egli è perso in mezzo al deserto, la sabbia con la sabbia. Nella creazione la sofferenza dell’essere umano non è senza speranza. Così solo noi, sebbene chiunque in noi tenti di far 66 67 Ciao Biagio, ciao Sebastiano, è la prima volta che mi rivolgo a voi. Fino a oggi vi ho sempre visti come un processo da vincere e basta, ma non è stato per superficialità nei confronti di ciò che ci è capitato, è solo che vedevo la mia condizione di imputato e non vedevo ciò che ci ha uniti per sempre quel due maggio. Erano circa le otto di sera in quella stradina stretta che percorrevate a bordo della vostra macchina, una Uno turbo di colore rosso, ed è proprio in questo che il destino vi ha giocato il suo macabro scherzo: l’auto era del tutto simile a quella di chi doveva essere il vero bersaglio di una mano armata, accecata e determinata a compiere la sua missione di morte, nel nome del dio dell’odio, in quella strada avvolgente come una spirale e resa cupa da quel fitto noccioleto che avrebbe dovuto riportarvi a casa, ma anche luogo ideale per chi deve incontrarsi con una morte simile; ottima per continue accelerazioni che andavano a trasmettere qualcosa di unico, irripetibile, e fra un’emozione e l’altra, un cambio di marcia e l’altro… Tra una curva affrontata e l’altra, una fucilata e un’altra e un’altra ancora e ancora, l’auto finisce incastrata tra gli alberi di nocciole con voi dentro, chi privo di vita chi ancora tra la vita e la morte… per spegnersi qualche giorno dopo. Con auto del tutto simile, ma di colore grigio, che scattava a ogni mia sollecitazione, la strada era avvolgente, tortuosa, con numerosi tornanti, ma più comoda da percorrere anche se secondaria, dal mio fondo mi portava al vicino centro e tra una accelerazione e un cambio di marcia emozioni nuove e uniche creavo dove mi immergevo con tutto me stesso… sono le otto e dieci minuti di sera… breve sosta dal barbiere e tra un colpo di forbice su di me, un colpo di fucile su di voi… alle otto e mezza riprendo la mia strada e tra una accelerazione e un cambio di marcia l’emozione mista alla gioia per un appuntamento con lei… un binario di centodieci chilometri ci aveva già uniti; anche se per strade e luoghi diversi, stesse emozioni vissute con un finale drammatico, ma che ci ha condotto verso il nostro destino, voi in morte, io in agonia. In questi anni non mi sono arreso e ancora oggi mi batto per il riconoscimento delle mie ragioni e certamente non sarà il fine pena, ormai prossimo, a limitarmi, anzi credo che avrò ancora più stimoli a proseguire su questa strada… anche se a me è toccata la condizione meno amara, ma voglio continuare a battermi per togliermi questo marchio di dosso e riscattare un po’ anche voi, perché pochi sanno che siete vittime innocenti di una faida fratricida. Per tutti siamo colpevoli, voi perché se vi hanno ucciso un motivo c’era, noi perché se ci hanno condannati qualcosa c’era! Nessuno sa che quella sera siamo caduti quattro innocenti in un solo colpo, e certamente dei quattro, se non altro per le scelte fatte, il più colpevole ero io. Ma a me è toccata la vita, a voi la morte, io forse un giorno rivedrò i miei cari fuori di qui, voi i vostri no, voi siete morti improvvisamente senza neanche il tempo di guardarvi dentro, senza avere l’occasione per un ultimo saluto, di chiedere perdono o abbracciare i vostri cari per un’ultima volta, baciare la donna amata. Io forse un giorno potrò dire “ti amo” a qualcuno, voi no. Nessuno merita di morire in quel modo e non lo meritano gli innocenti e voi lo siete, non era giusto neanche per me, ma quando ho creato un’aridità in me stesso chiudendo tutti i rubinetti degli affetti, lasciando solo quelli dei famigliari, mi sono reso conto di avermi ucciso, condannandomi… e con mascelle serrate dalla rabbia e labbra inaridite dall’amarezza, ho parlato a me stesso e mi sono detto: 68 69 Sebastiano Bontempo Na na… Na na… Na na A denti stretti ho rinunciato a chi mi amava, rinunciando così a vivere. Vorrei amare di nuovo, più non ci riesco. Ho lottato e ho perso. Ho cercato di ricostruire, non ci sono riuscito. Nel futuro ho sperato, non ci ho mai creduto. Ho sprecato l’oggi, lottando per il domani. Dei miei cari, non ho ascoltato il pianto di ieri. Ho perso il senso della vita… Di fronte alla mortificazione con fare vigliacco ho cercato di mollare, non ci sono riuscito. Ponendomi così a carnefice della mia vita, armato da una mente cieca, con anima pietrificata dalla povertà di emozioni e animato da un profondo dolore. Sai, Sebastiano, i tuoi famigliari sembra che abbiano sempre saputo della mia innocenza o almeno così si dice… invece con i tuoi, Biagio, non è cosi semplice. Durante il processo, a cui hanno partecipato, ho recepito molto rancore ed era evidente che sentivano il bisogno di toglierselo di dosso per alleggerirsi di quell’angoscia che li opprimeva. Io non l’ho mai recepito come odio, ma come un’immensa sofferenza… anche quando l’hanno riversata su chi non c’entrava niente, sacrificando sull’altare del dolore due innocenti solo perché miei nipoti, “e siamo a sei”. Loro non odiano, soffrono e basta… e io li ho sempre compresi, i loro pensieri sono rivolti a chi gli ha ucciso il figlio, spinti dal vuoto che si è creato nella loro vita e in quella gabbia c’ero io! In questi anni ho cercato memorie che ci unissero, non riuscivo ad accettare il fatto che non ci fosse nulla che ci legasse. Allora ho scavato, ho scavato nei miei ricordi e ho trovato solo poche immagini lontane, sbiadite; per te, Biagio, è stato più facile, ho ancora forti i ricordi della scuola: qualche partita a pallone, a dire il vero non è che eri poi tanto bravo, anzi… ricordo ancora le partite a biliardino, ci giocavamo “a puntata” e lì devo riconoscere che ci sapevi fare… Invece di te, Sebastiano, niente, nei miei ricordi il vuoto, non fosse altro che per un’immagine catturata mentre con altri ti accingevi a tornare a casa nella tua borgata Sciortino, almeno credo, vista la vicinanza di una borgata all’altra. Nella mia memoria emerge un’istantanea, era un sabato… lo deduco dalle molte persone presenti, quindi era giorno di mercato… avevi lo sportello della macchina aperto mentre facevi salire altri amici o parenti, sono riuscito a ricostruire ogni movimento, ogni gesto fatto in quei pochi secondi, una busta di plastica da sistemare di dietro, il sedile della macchina alzato mentre con l’altra mano tenevi ferma la portiera dell’auto. Sono riuscito a ricostruire tutto di quell’immagine, ogni volta la ricostruivo come se cercassi qualcosa di nuovo, di diverso, ma non riuscivo a capire, non comprendevo che ciò che cercavo era sempre stato lì, non capivo perché ero accecato e non volevo accettare; adesso ho capito che quella sera è nato qualcosa di molto forte che ci legherà per sempre. Io non vedevo ciò che di supremo si era incontrato nella morte, che cosa potesse nascere nel più profondo dolore; quando quella sera del 10 ottobre 2011 siete apparsi nella mia mente e nell’animo ho sentito qualcosa di forte, di vero, voi avete posto un sigillo di amicizia e mi avete detto: “Noi siamo tuoi amici”; allora ho capito, voi siete sempre stati con me e come due amici mi avete lasciato libero anche di provare rancore per non so cosa, perché sapevate che era solo per un po’; così fanno gli amici, ti stanno vicino e basta, senza giudicarti, se sei triste ti sorridono per rallegrarti, se sei nell’angoscia ti rallegrano l’animo, se sei a terra ti aiutano a rialzarti, il tutto con semplicità e delicatezza. E quando toccherà a me, io so che voi sarete con me ad accompagnarmi all’ultima profonda e intensa esperienza, che con modo rapido e repentino non avete potuto affrontare… e io tra 70 71 una partita a calcio e una corsa, tra una pizza e una birra mi accingo ad affrontarla aspettando l’ultimo tocco di campana, cercando di immaginarla con il viso limpido, pulito, sereno, reso raggiante dal bianco vestito, con un corpo sensuale, eccitante, dai seni rosa resi visibili dalle candide vesti; con lucidità di mente e animo sereno, canticchiando un semplice “Na na… Na na… Na na”, voglio abbandonarmi al suo abbraccio per l’eternità. Non importa quando o dove, conta solo il come, e se ad attenderci ci sarà un uomo… beh, pazienza, vorrà dire che ne trarranno piacere le donne. E quando ci rincontreremo potremo scherzarci sopra e raccontarci tutto, anche quello che già si sa… e intanto tra un caffè e una sigaretta non fumata, tra il sì e il no di una donna, tra un tornante affrontato e un cambio di marcia, tra una accelerazione e una sbandata, vorrei tanto ritrovare l’amore che più non ho… 72 Stefano Diana Giornata tipo del detenuto medio ad Alghero Signori e soprattutto signore della giuria. Appena sono nato mi hanno dato il nome di Stefano, che in greco vuol dire corona, che bello! Ma anagrammando questo bel nome viene fuori nefasto! Se è vero, come dice qualche scienziato pazzo, che dal nome si può capire il futuro di un individuo, mi viene il dubbio: stai a vedere che ’sto pazzo con me ci ha preso in pieno ? Di cognome faccio Diana, immaginate come sono cresciuto dai tempi della scuola con questo benedetto cognome e con tutti gli sfottò a seguire: la marca delle sigarette, la moglie di Carlo, la vecchia 2CV, la dea della caccia e altro. Sono da oltre dieci anni in carcere, e da otto stabilmente qui ad Alghero, quindi ho vissuto i massimi livelli raggiunti dal carcere e i minimi intesi come condizioni buone e pietose di vita. Sono un attento osservatore di tutto ciò che accade, nonostante la miopia, e non è una battuta ma la realtà; alcuni mi chiamano dottore per la mia laurea e per prendermi per il culo (si può dire culo?), altri topo di biblioteca, e non solo perché sono il bibliotecario del carcere, ma anche a causa dei miei incisivi. Detto questo, vi racconterò le stranezze del carcere di Alghero e la giornata tipo del detenuto medio. Attenzione, sono cose verissime, ma raccontate, spero, con un pizzico di sano sarcasmo, perché a mio parere potrebbe risultare patetico parlare di carcere in maniera irrazionale come fanno sempre i media. Ah! Un’altra cosa, certo sarebbe il colmo se fra i giurati ci fosse qualche giornalista! E pensare, un altro paradosso, 73 che se Dio vuole a breve lo sarò anch’io. Com’è strana la vita! La giornata tipo del carcerato medio nel carcere di Alghero inizia circa alle sei del mattino. Appena apre gli occhi, la mano come per incanto vola al telecomando, e inizia la kermesse dei telegiornali: senza sapere che sono gli stessi della sera prima. Il carcerato medio è iperinformato su quello che accade nel mondo esterno. Peraltro tengo a precisare che la comprensione è quasi nulla, che le notizie vengono tritate dal cervello del carcerato medio e poi vengono riferite in modo completamente diverso agli altri ospiti dell’hôtel! A questo punto la cella si zittisce completamente: “C’è l’oroscopo!” In un silenzio quasi mistico si ascolta questa sorta di oracolo divino che viene sciorinato segno per segno: da lì dipenderà l’orientamento giornaliero. Dio non voglia che possa predire incontri femminili, verrebbero attesi con spasmodica trepidazione per tutte le 24 ore. Adesso arriva il meteo. Anche questo viene ascoltato in religioso silenzio, perché credo che ogni detenuto sia meteoropatico. Che piova o che splenda il sole qua dentro non cambia proprio nulla, ma il carcerato medio discute almeno per una sessantina di minuti su quello che sarà il tempo odierno. Attenzione! Vi potreste imbattere nell’esperto di turno, e allora ci saranno prove e controprove sullo spirare dei venti, sullo schiarirsi del cielo e altro. Iniziano le pulizie. Non sono vere e proprie pulizie, sembrano più che altro la pulizia post tornado. Dovete sapere che all’interno di questi hôtel disseminati in tutta la penisola le pulizie non si fanno in maniera normale, ma si allaga tutto, e solo quando una schiuma bianca inizia a vaporizzarsi ci si può ritenere soddisfatti, si raccoglie l’acqua e si asciuga. È come essere in una sala operatoria perfettamente asettica. Ah, dimenticavo: il tutto non si effettua con i normali detersivi ma con una sorta di miscela di dentifrici, saponette e quant’altro, per conferire un odore gradevole. È chiaro che l’ingresso nella sopraccitata sala operatoria asettica è rigorosamente vietato per almeno un’oretta! Tengo a precisare che il trillo del telefono è onnipresente: ad ogni minuto, trilla e ritrilla senza sosta. È arrivata l’ora dell’aria. Come un sol uomo ci si ammassa al cancello della sezione – neanche alla corrida di Pamplona c’è una ressa simile – all’urlo di quel signore vestito di blu, che poi è quello dotato di fascio laser che per tutta la notte ti ha inondato i bulbi oculari. Correndo e calpestandosi gli uni con gli altri, è già iniziata la lotta per la conquista della sedia e del tavolo. Nel contempo venti gladiatori entrano all’interno di una sorta di gabbia completamente chiusa. L’attività fisica del carcerato medio è iniziata. Rischia di essere una sorta di prova di resistenza tipo quelle a cui i marine americani venivano sottoposti prima di partire per le giungle vietnamite: chi corre vorticosamente intorno al campo, chi si solleva con fare scimmiesco appeso a una sbarra, chi fa serie interminabili di flessioni, rischiando un collasso cardiocircolatorio. Nell’altra gabbia più grande si sono già scatenate delle regolar tenzoni al gioco delle carte, perché qua dentro una partita a carte non è una partita a carte, di modo che il tempo possa scorrere veloce: è una sfida all’ultimo sangue da cui dopo dipenderà il ludibrio pubblico del perdente. Ore 11.00, scatta il rientro. I gladiatori dell’arena, stanchi e affaticati, trascinano le gambe, i perdenti delle sfide a carte vengono derisi e additati come avversari di poca consistenza. Si mangia. Il pranzo non è importantissimo come la cena, che come in ogni famiglia patriarcale dev’essere consumata tutti assieme. Ma andiamo alle ore 13.00, la solita scena della ressa si ripete, ma invece di avere a che fare con venti gladiatori 74 75 desiderosi di un fisico asciutto e muscoloso abbiamo di fronte venti pseudogiocatori di calcetto. Non fatevi ingannare dal loro abbigliamento: indossano magliette di ogni sorta, “Messi”, “Ronaldo”, “Borriello”, “Buffon”, “Totti”, per poi rappresentare quello che è la pochezza calcistica. Messi che sbaglia un tiro al volo elementare, Buffon che viene trafitto in mezzo alle gambe, Totti che sbaglia elementarmente uno stop, dalla gabbia più grande fischia e urla arrivano grevi. Sono gli spettatori. Dovete sapere che il carceratospettatore calcistico medio è una sorta di guru del calcio a cui non sfugge nulla, che con pillole di saggezza urlate a trecentomila decibel fa scattare i suoi pupilli sulle fasce o al centro, e a ogni gol segnato si pasce come un castoro nell’acqua, o meglio gongola come una donnola che ha appena affondato i denti nel collo della sua vittima. Nel frattempo le prime urla di dolore vengono dai feriti dell’arena, guaiti che gli ippopotami del Serengeti cacciati da orde di cacciatori non riuscirebbero a produrre. La kermesse dura fino alle ore 15.00. C’è una risalita alquanto lenta, durante la quale i feriti dell’arena vengono sostenuti a braccia dai loro compagni e i guru dispensano ultime pillole di saggezza calcistica al cui cospetto Mourinho impallidirebbe, ma la trasformazione sta per avvenire. Il guru sopraccitato si trasforma in una sorta di fisioterapista consumato, e pretende di lenire ogni dolore; allora entrano in gioco i più antichi e rudimentali metodi di massaggio muscolare. La cosa più oscena è che non è permesso fare la doccia immediatamente, ma devi stagnare nel tuo sudore per circa un’oretta per poter essere ben macerato e consumato dall’odore ascellare. C’è anche chi per ovviare a questo problema si mette in mezzo alla corrente, rischiando una broncopolmonite fulminante! Alle 16.00 si aprono i cancelli della stanza adibita alle docce. Armati di asciugamani, secchi e saponi ci si riversa tutti all’interno; nel giro di qualche secondo un vapore denso e bianco avvolge la stanza. Finita questa delicata ope76 razione di lavaggio personale si rientra candidi e puliti come pulcini. Se normalmente all’esterno una giornata di 24 ore è vissuta in ogni ora, in questo tipo di hôtel si accorcia sensibilmente. Dopo le 17.00 è come se si fosse in una sorta di limbo oscuro che avvolge ogni cosa nelle sue nere spirali. Si chiude tutto, c’è chi è convinto che mangiando alle 17.00 si digerisca più facilmente, senza però contare il fatto che alle 21.00 la noia ti fa tornare fame. Dopo aver cenato con molta cura e attenzione, arrivano i programmi in prima serata. Non è strano che spesso si litighi per accalappiarsi il telecomando o per decidere cosa guardare, ma fra i carcerati medi c’è anche del buon senso. Chi vince a carte decide il programma in prima serata. Tutti sono d’accordo, la sfida inizia alle 21.00 per terminare alle 23.15. Avete letto bene, la sfida per chi decide che cosa guardare in TV termina nello stesso istante della fine della programmazione della prima serata! Di notte si sentono i gemiti più strani da chi dorme nelle camere, ma non siamo solamente noi a occupare l’hôtel alle due di notte, no, ci sono anche degli strani signori: sono gli stessi che ci aprono e ci chiudono le porte, e per puro spirito buonista a ogni ora della notte controllano con la loro pila che tutto vada bene, accertandosi che il fascio laser sia diretto verso le orbite oculari. Spero di avervi non dico divertito, ma almeno fatto sorridere su una realtà triste come quella del carcere, e non perché sono un cinico spietato, ma semplicemente perché credo che il sale della vita sia appunto quello di cercare anche nelle situazioni più disperate qualcosa che perlomeno ti faccia sorridere. Ve lo dice chi in carcere ha buttato via i migliori anni della sua vita. 77 Alberto Guarino Il Teatro (l’abbraccio di ferro) Siamo nella sala polivalente, Enrico e la coordinatrice già sono qui, entusiasti, pronti ad avere ulteriori conferme. Noto gli sguardi di Enrico che comprendono il mio malessere senza però sapere da dove venga, quindi attende con discrezione che gli confidi la fonte. Lo evito, so per certo che riuscirebbe a mediare una qualsiasi soluzione, ma io non ho bisogno di un ripiego. Il mio interesse è che si metta l’accento sul mio pensiero, io voglio parlare di dignità ed è per questo che il secondo atto è tutto imperniato sulla lettura dei primi dodici articoli della Costituzione. Voglio far comprendere come anche in un posto come questo ci siano dignità e amor patrio, quindi non posso permettere che una qualsiasi derisione inconscia infici questi concetti. Arriva finalmente Andrea, partiamo con le prove, giunge il momento topico e alle prime risate chiamo lo stop. Investo Andrea, Enrico e la coordinatrice con le mie motivazioni, denuncio il disagio, ma quale grande professionista fosse Andrea, questo non l’avevo ancora capito. Mi ascolta e con la semplicità che è figlia di grossa competenza ed esperienza mi dice: “Sei tu l’autore, fai quello che vuoi”. Siamo diventati una squadra! Siamo agli sgoccioli, il 1º giugno ci sarà la rappresentazione. Il cast è quasi pronto, siamo riusciti a mettere in scena una tipica situazione storica italiana, con rappresentanti di tutti i Paesi: moldavi, albanesi, argentini, marocchini e logicamente italiani. Sembrava un’impresa impossibile, ma ci siamo! C’è solo una pecca: uno dei personaggi deve rappresentare un ubriacone che confrontandosi con un intellettuale deride un articolo della Costituzione. Quelle risate mi infastidiscono. Enrico e la coordinatrice tentano di salvaguardare la struttura organizzativa, pensando che un ulteriore cambiamento, dopo tante prove, possa mettere in discussione la riuscita dell’opera, forti anche dell’entusiasmo di Andrea. Non ci riesco. Quella risata offende la Carta Costituzionale. Gli attori non sanno, in quanto stranieri, io lo so cosa vuol dire quel dettato. Conosco bene da dove nasce, la sua saggezza è figlia di sofferenze, secoli di storia vissuti alla ricerca del risultato finale, benessere e democrazia. Guerre, dittature, leggi razziali, despoti goffi che hanno ferito la nostra Italia hanno creato la memoria, ed è su quella memoria e su quella cultura che è nata la Costituzione… E io non posso accettare che ci si rida sopra, anche se inconsapevolmente. Domani ne parlerò con Andrea e dovrà trovare una soluzione, costi quel che costi. Stamani è la penultima prova: sono decisamente arrabbiato per questa situazione e voglio cambiare ancora una volta il testo. Il fatidico giorno è arrivato. Gli interpreti vengono chiamati prima per recarsi nella sala polivalente, la compagnia è formata da quattordici attori, Enrico e la professoressa Brosio sono arrivati prima di tutti. L’emozione si taglia a fette tanto è intensa. Qualcuno mi chiede se sia il caso o meno di effettuare un’ultima prova, mi oppongo categoricamente poiché è bene sfruttare l’adrenalina dell’emozione per ottenere il massimo. Faccio avanti e indietro sul palcoscenico a sipario chiuso cercando di trovare la concentrazione, frattanto le poltrone cominciano a essere occupate e per non farci intimidire nessuno sbircia attraverso i due teloni del sipario. 78 79 Finalmente completato il parterre, gli agenti danno il via. Esco sulla ribalta a telone chiuso e inizio: “La celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia ci ha visti tutti coinvolti in commemorazioni, ricordi e sublimazioni di quei valori che hanno fatto del nostro Paese uno Stato unitario, ma, come sempre accade, ideologia e pratica si manifestano con volti differenti e cioè i sogni, trasformatisi in realtà, contengono il sapore amaro del risveglio in circostanze mai prese in considerazione. La parabola storica che meglio traccia il sentiero da come eravamo a come siamo diventati è disegnata da personaggi sui generis come Giolitti, che nulla aveva a che fare con il Risorgimento, al quale non aveva partecipato, né con la Carta Costituzionale, nata in un’epoca in cui il futuro non era ipotizzabile in quanto era tutto da ricostruire. Questa rappresentazione offre lo spunto a riflessioni su come eravamo e che cosa è dovuto succedere per raggiungere i traguardi di democrazia e libertà tanto agognati, ma anche su come un seme piantato in un terreno malato abbia portato conseguenze tanto deleterie. E su questa evidenza siamo portati a chiederci come si possano superare i problemi di crisi economica e politica dei nostri giorni. Chiediamolo a chi li ha superati in un momento più difficile e meno moderno. Nel ringraziare gli astanti per la partecipazione e nella sicurezza per le emozioni che scaturiranno dai ricordi della nostra Storia, ci auguriamo che la messa in scena sia di vostro gradimento e, se sì, raccontatelo a tutti. Se invece no, raccontatelo ugualmente. Farete in modo di annoiare un pubblico più vasto e di non essere i soli a dover subire questa punizione!” Applauso, si apre il sipario e tutto ha inizio. L’applauso che chiude il primo atto è strepitoso, gli occhi della prima fila, formata da importanti cariche dello Stato – procuratore della Repubblica, sindaco, direttore dell’Istituto, ufficiali di Marina, Finanza e Carabinieri, manca solo il magistrato di sorveglianza –, sono fra lo stupefatto e l’entusiasta. Nel retropalco prepariamo la scena per il secondo atto. Srotoliamo il lenzuolo con il frontespizio di Montecitorio disegnato nelle settimane precedenti con pastelli a cera, ci posizioniamo alla rinfusa, come alla rinfusa saranno citati gli articoli della Costituzione. A uno a uno gli attori componenti il global-cast incominciano a declamarli. L’emozione è straordinaria, l’inflessione linguistica denuncia la loro provenienza, ma è tale e tanto l’impegno con cui vengono citati a memoria che a ogni finale d’articolo il pubblico applaude entusiasta. Inizia il dodicesimo articolo, quello che definisce la bandiera italiana. Alla fine della declamazione uno dei due agenti preposti alla cerimonia dell’alzabandiera ordina l’attenti; Enrico, che ha curato con cura le colonne sonore della rappresentazione, fa partire anche l’inno di Mameli e si inizia così la cerimonia. Tutti, anche in platea, si alzano in piedi per rispetto. Le note dell’inno accompagnano il lento incedere della bandiera sull’asta e brividi di commozione e orgoglio pervadono tutti i presenti. All’ordine del riposo l’applauso è delirante. La chiosa l’ho destinata a me e, raggiungendo la ribalta, inizio: “Ho fatto il militare e simili cerimonie hanno un peso emotivo tale da avere la capacità di influire sull’animo umano anche dopo tanto tempo. Questa bandiera è stata il vessillo di tante guerre, di tanti atti eroici. È l’emblema di una storia pluricentenaria che oggi ci offre un’identità, e questa non è oggettiva: è straordinariamente presente in ognuno di noi e quei brividi emozionali che al saluto della bandiera ci hanno pervaso sono testimonianza dell’esistenza in noi della dignità, che dovremo sicuramente riconquistare all’interno della società civile, ma che esiste. Era solo nascosta. È sulla scia di questa dignità fatta di amor patrio e sentimenti di unità che è nata la Costituzione”. 80 81 • • • Il monologo prosegue con citazioni storiche e riconoscenza nei confronti di un’epoca speciale e di gente speciale che con la sua cultura, esperienza e consapevolezza della serietà del compito assegnatole ha costruito le basi del Dettato Costituzionale. Concludo con una battuta quasi di rito e affermo: “È straordinario pensare che all’interno di un carcere si parli di morale, etica, Costituzione e dignità, mentre a Montecitorio hanno dimenticato di che cosa si tratti”. La sala polivalente è venuta giù! Il successo di questa messa in scena è il frutto degli sforzi e della volontà di gente che è capace di abbattere qualsiasi pregiudizio, evidenziando come sia possibile collaborare e realizzare un’opera, comprendendo che non è la capacità del singolo l’indispensabile ingrediente per il successo, bensì la compartecipazione, dove ognuno si assume la paternità di ciò che sta facendo. A mio modesto avviso, alla luce anche delle innumerevoli attività che ho gestito entro le quali ho formato la mia esperienza imprenditoriale, il teatro, visto sotto un altro aspetto e cioè quello produttivo, è l’unico lavoro che offre la possibilità di esprimere al meglio il concetto di coesione. Spesso nelle locandine pubblicitarie o nei titoli di coda si leggono elenchi di partecipanti, ebbene io credo che dal primo all’ultimo lavorino indispensabilmente per la riuscita di quel mosaico che lo spettacolo offre in tutta la sua mirabilia. Ma... siamo in carcere, siamo carcerati, siamo gli ultimi! Cosa accade nella psiche dell’uomo? Per quale inspiegabile, divino, trascendentale naturale input si possono spiegare questi eventi? Vorrei parlare con lo straordinario dottor Morelli, per capire qual è questa magia. Sicuramente mi parlerebbe di libero arbitrio, di immagine segreta, di maschere che ognuno di noi continua a indossare, di una forza originaria e sconosciuta che ci guida (vedi Puoi fidarti di te). A questo punto potrei allora sostenere che è l’ambiente che, non offrendoci percorsi riconosciuti, ci indirizza a scelte intellettuali deleterie, oppure potrebbe essere l’ignoranza, o ancora potrebbero essere quelle barriere che costituiscono naturalmente le differenze fra gli uomini e che la nostra Carta Costituzionale ordina alla Cosa Pubblica di abbattere. No, non è un disegno, non è neanche conseguenza, bensì paura. Paura di prevaricazione, di miseria, di inettitudine, di non riuscire a essere bravo. L’emarginazione terrorizza le classi sociali, l’élite sicuramente non ha colpa, ma certamente non ha voglia di globalizzazione, di comprensione, di solidarietà, troppo attenta a conservare il proprio status piuttosto che a migliorarlo. Sì, si migliora. Si cresce ponendo l’orecchio a chi chiede aiuto e soprattutto a chi non lo chiede. Leggendo di natura, apprendiamo che la vita si articola su leggi di sopravvivenza e di selezione naturale: ma noi? Siamo esseri intelligenti, abbiamo il dono del pensiero ed è su quello che dovrebbe essere esercitato l’essere: Cogito, ergo sum, penso quindi sono. Penso di voler essere un tassello di un mosaico della società e se i miei spigoli, la mia struttura, non si collocano in nessuno spazio, bisogna che la levigatrice della conoscenza, dell’esperienza, me ne offra uno. A volte raggiungo la convinzione che certi luoghi di coercizione possano diventare officine dove l’essere umano, attraverso la costruzione di viaggi che ne realizzano l’indole, può e deve offrire a ognuno la possibilità di riconoscersi. Non siamo macchine che uscendo dalla catena di montaggio difettate debbono essere rottamate. Siamo uomini che hanno smarrito il senso, per paura, per bisogno, per una qualsiasi causa efficiente. Quindi abbiamo bisogno di chi ci viene incontro e ci offre la possibilità di riconquistare la dignità. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.” 82 83 Luana Merosi A mia madre Vorrei poter ricordare ciò che sembra non essere mai esistito, perché i miei ricordi più lontani sono quelli in cui tu ormai non ci sei più. Ricordo una signora che si faceva chiamare mamma, ma che non sapeva neanche lontanamente cosa volesse dire esserlo. Una donna che mi adottò non per il bene della bambina che ero, ma per il solo desiderio egoistico di apparire una brava persona agli occhi della gente. Vorrei poter dire che mi manchi, ma non puoi sentire la mancanza di una persona mai conosciuta; però mi manca poter parlare con una madre. Le parole più sentite nella mia infanzia sono state: sei e sarai come tua madre, una povera drogata e puttana, perché chi mi ha cresciuta ha fatto sì che non scordassi mai le mie origini. Ti ho odiata, giudicata e schifata come madre e a ogni errore commesso ho dato la colpa a te, come se la mia infanzia potesse giustificare ogni mia scelta. Avevo all’incirca dieci anni e tuttora porto con me la paura del buio, perché ogni volta che mi trovo nell’oscurità, risento i passi di quell’uomo che di notte veniva a prendermi per portarmi nel suo letto. Tenevo tutto dentro, perché pensavo di meritare ciò che mi veniva fatto, solo per essere figlia di ciò che eri. Ho guardato per anni gli altri bambini senza mai invidiare i loro giocattoli, ma solo le carezze e i baci a loro dati, perché ciò che volevo era solo sentirmi amata come una figlia da una madre. 84 Ho sognato per tutta la vita una famiglia tutta mia, giurando a me stessa che i miei figli non avrebbero passato ciò che ho vissuto io… e ora? Ora sono io a dover essere giudicata, giudice di me stessa per aver commesso le tue stesse colpe. Ho condiviso la vita con uomini sbagliati, consapevole che non erano uomini, ma bestie… uomini per cui ero solo un oggetto. Mi sono fatta umiliare, menare, sempre con la certezza di non meritare al mio fianco una persona migliore. Ho sbagliato tante volte, nascondendomi sempre dietro la scusa di non essere amata da nessuno. Ora che mi trovo qui, tra queste quattro mura che mi separano da tutto il resto, ora che anch’io sono madre e ho dato in adozione la mia bambina, mi rendo conto di ciò che hai sofferto e di quanto ti è costata quella scelta. Non è stata tua la colpa di un’infanzia così sofferta, ma della sfortuna di aver trovato una seconda madre non degna di me, perché solo ora capisco di non essere mai stata amata perché ero io la prima a non amare me stessa. L’unica cosa che ora prego è che la storia non si ripeta, la tua vita è stata la mia, i tuoi errori sono stati i miei, ma spero che la mia bambina non sappia mai niente, che non conosca mai le sue origini, perché il dolore più grande sarebbe essere giudicata da lei. Questa detenzione inizialmente sembrava essere la fine della mia vita, ma posso dire che in realtà è ciò che ha cambiato e salvato la mia esistenza. Mi ha insegnato ad amare me stessa e a farmi capire che né io né nessun’altra persona siamo in grado di giudicare le scelte altrui… E a chiunque come me abbia passato un’infanzia difficile per poi crescere in un mondo sbagliato ma voluto, posso dire che niente e nessuno può stabilire o incidere il corso della nostra vita, perché niente è scritto e non esiste un destino, ma esistono le nostre scelte con le loro conseguenze… 85 Il 22 agosto 2011 ho vissuto un’esperienza che, considerato il contesto in cui si è verificata, ha reso questa data memorabile. Quello che sto per raccontarvi è avvenuto dove, a tutt’oggi, sono ancora recluso: il carcere di Volterra. Una notte, mentre dormivo nella mia cella singola, ho avvertito una strana sensazione: sembrava come se qualcosa mi stesse camminando sul corpo, o come se una mano mi toccasse, e non mi rendevo conto se stavo sognando o era realtà. A un certo punto mi sono svegliato e subito ho cercato di realizzare cosa fosse successo. Sicuramente non potevo incolpare un compagno di avermi toccato, l’essere solo in cella escludeva questa possibilità; l’incredulità e l’incertezza m’impedirono di riprendere sonno. Rimasi nel letto ma ero molto turbato. Volevo assolutamente capire cosa mi era capitato. Guardai l’orologio: erano le tre. Cercai di riaddormentarmi coprendomi il viso come di solito uso fare. Dopo una ventina di minuti ho sentito un rumore e visto che mi trovavo in uno stato di dormiveglia mi sono detto: no, stavolta non sto sognando, qui qualcosa non va. Dal letto guardavo tutta la cella, quando il mio sguardo si volse verso una tenda che funge da divisore con il piccolo bagno. Mi sembrava che la tenda si muovesse, ma essendo buio non ne ero sicuro; il rumore aumentava e, trascorsi pochi secondi, vidi una massa grigia che volò dalla tenda e finì su un piccolo piano di marmo vicino al lavandino. Il volo si arrestò in una fruttiera che vi era appoggiata. Era buio, ma qualcosa si riusciva a intravvedere perché un piccolo spiraglio di luce filtrava dal corridoio della sezione; quindi era vero che avevo visto volare qualcosa! I miei occhi erano fissi sul marmo per capire cosa fosse, anche perché dopo quel volo si era rifatto un silenzio tombale. Dopo un po’, con quel filo di luce che penetrava dal corridoio, riuscii a vedere una testolina che usciva dalla fruttiera, ma non mi rendevo conto di cosa potesse trattarsi. Mi dava l’impressione di essere uno scoiattolo, ma nello stesso tempo mi chiedevo: com’è possibile che uno scoiattolo possa essere entrato in una cella tutta chiusa? La cella e la finestra, oltre alle sbarre, hanno anche una rete di ferro dove a malapena ci passa una zanzara. Nella mia testa c’era tanta confusione, almeno fino a quando questo animaletto, uscito per intero dalla fruttiera, tra mele e arance, cominciò a fissarmi, e io fissavo lui, e tutto questo durò una manciata di secondi. A quel punto mi sono alzato dal letto e ho acceso la luce, ma sarebbe stato meglio se non mi fossi alzato perché, appena fatti due passi, lo scoiattolo si spaventò e iniziò a saltellare sulle pareti, sulle mensole e sugli stipetti di legno, facendo molto rumore. Confesso che tra il sonno interrotto e la vista di quell’animale che saltellava per tutta la cella mi sentivo un po’ frastornato. Tuttavia mi armai di un bastone di legno, anche perché non ero in grado di stabilire se l’animale che si trovava al mio cospetto fosse velenoso o meno, e quindi temevo per la mia incolumità. Superfluo aggiungere che nella confusione generale i rumori aumentavano a dismisura. Nella cella di fianco alla mia c’era mio fratello, il quale bussò alla parete e sottovoce mi disse: “Antonio, ma cosa stai facendo a quest’ora di notte, non vorrai svegliare tutta la sezione?” Risposi che avevo uno scoiattolo in cella, al che lui ribadì che non era possibile e mi invitò a tornare a letto, dato che lo scoiattolo sicuramente me l’ero sognato. Era ovvio che nessuno ci credesse, ma era la verità. Dopo pochi minuti arrivò l’agente che avevo chiamato, il quale mi chiese cosa potevo mai volere alle tre di notte. Quando gli dissi dello scoiattolo in cella, lui, stupito di quanto asserivo, mi rispose: “Ma non è che avete sognato o avete avuto un incu- 86 87 Antonio Russo Una notte con il ghiro bo?” Indubbiamente la sua meraviglia era dovuta alla consapevolezza che, essendo la porta della cella chiusa e blindata, era praticamente impossibile accedervi; da dove sarebbe potuto entrare uno scoiattolo? E me lo ripeté più di una volta, ma io replicavo che era tutto vero e che stava nascosto sotto il letto. “Ora le faccio vedere” dissi all’agente e con il bastone della scopa cominciai a battere sotto il letto per farlo uscire; ma lo scoiattolo non usciva. Dopo aver constatato l’insuccesso del mio tentativo di stanarlo, l’agente mi disse che avrebbe chiamato la sorveglianza. Dopo un po’ ritornò comunicandomi che gli era stato chiesto se lui aveva visto lo scoiattolo. Ricevuta una risposta negativa, anche l’addetto alla sorveglianza aveva ritenuto che io avessi sognato. Per evitare di essere considerato un visionario, cominciai con insistenza a battere forte sotto il letto, finché di colpo lo scoiattolo uscì fuori e saltò sulla tavola. Alla vista dello scoiattolo l’agente sobbalzò, chiuse lo spioncino del blindato e si avviò nel corridoio per andare ad avvisare la sorveglianza. E mentre procedeva, forse perché stupito da quanto aveva visto, urlava dicendo: “ È un ghiro, è un ghiro!” A distanza di poco tempo l’agente ritornò e mi disse che aveva riferito alla sorveglianza di aver visto l’animale, però si poneva un problema: a quell’ora di notte le chiavi della cella erano custodite nell’ufficio sicurezza, ragion per cui avrei dovuto convivere con il ghiro fino alle ore 7.30, poiché prima non era possibile intervenire. Iniziò cosi la mia lotta con il ghiro. Lui scappava per la cella e io, anche se un po’ mi dispiaceva spaventarlo, volevo prenderlo. Dopo più di due ore di battaglia escogitai uno stratagemma che mi permise di bloccarlo in un angolo; infine mi avvicinai a lui con un secchio in una mano e il coperchio nell’altra. Il ghiro nel tentare la fuga entrò nel secchio, che provvidi subito a richiudere; dopodiché appoggiai il secchio sul tavolo e vi posi sopra una cassa d’acqua per non farlo uscire. L’averlo neutralizzato mi tranquillizzò e quindi cercai di recuperare un po’ di sonno in attesa che arrivasse l’ora stabilita. Alle 7.30 si presentò davanti alla mia cella l’agente con un suo superiore in grado e mi chiesero dov’era il ghiro. Risposi loro: “È qui nel secchio”. Aprirono la cella per farmi uscire con il secchio. Il mio vicino di cella, incuriosito, volle vedere l’animale che aveva provocato tutto quel trambusto. Spostando con cautela il coperchio del secchio glielo feci vedere e lui meravigliato esclamò: “ Mamma mia com’è bello, com’è curioso”. Io – che indossavo ancora il pigiama ed ero in ciabatte – e l’agente ci recammo in fondo al corridoio dove c’era una finestra. Mi accorsi che, oltre ad avere le classiche sbarre, era munita di una grata molto stretta, e dissi: “Agente, questo da qui non può uscire”. Infatti nel tentativo di farlo il ghiro scappò per il corridoio e per rincorrerlo persi una ciabatta e dietro di me c’era l’agente che correva, e correvamo dietro al ghiro che, impaurito, si stava dirigendo verso un ragazzo che era addetto alla pulizia del corridoio. Questi, vedendolo, si impaurì a tal punto che, lasciati per terra tutti gli attrezzi, si lanciò di corsa verso la sua cella. 88 89 Scoprendo un nuovo ambiente, aprendo lo sguardo verso la realtà del carcere, insieme al bagaglio di apprensioni, dubbi e paure ci si pone alla ricerca, sia per trovare il proprio spazio sia per scoprire la realtà che ti circonda. L’occhio si ferma su alcune forme geometriche di varia grandezza: il quadrato, il rettangolo, l’angolo retto… Tutto richiama queste figure: le finestre, la porta blindata, il passeggio, la cella, i lunghi corridoi, il muro di cinta, la struttura stessa nella sua ferma, statica presenza. Quante volte ci si ferma a guardare il cielo con le nubi continuamente in movimento in uno spazio libero, l’ondulato presentarsi dei monti con la vegetazione piegata dal vento, il librarsi di un gabbiano che disegna ampi cerchi o resta immobile sostenuto dalle correnti, e subito dopo si mette a fuoco che il tutto è spezzettato dalla fredda geometria delle sbarre? Camminando durante l’ora d’aria, per non lasciarsi sopraffare dalla spigolosità dell’angolo, si inventano percorsi nuovi, forse ripensando a quelle scelte che nella crudezza della vita o nella debolezza della natura ci hanno portato a essere anche noi così duri e spezzati nell’intimo. Cerchiamo passo dopo passo la curva che addolcisce, la pausa che ci ristora, il cerchio dei compagni che ci distrae e rasserena. I rapporti umani sono mediati anch’essi da questa geometria attraverso l’arrivo della posta tanto attesa e desiderata, la consegna della spesa (a volte frutto dei nostri risparmi e dei sacrifici dei nostri cari), il carrello del pranzo; passano tutti attraverso quel rettangolo della porta blindata, piccolo spazio dal quale penetrano i rumori e le voci della sezione e dal quale si comunicano bisogni e desideri. Nei momenti di riposo o durante la notte, mentre lo sguardo è rivolto verso l’alto, per un pensiero o una preghiera, incontra l’angolo del soffitto e della parete e sembra quasi cercare un piccolo spiraglio interiore per intravvedere quella novità di vita che ci aspetta. Allora paure e ansie, ma soprattutto speranze e progetti modificano gli spazi e riescono ad addolcire quei punti acuminati che spesso trafiggono l’anima. Non solo la maggior parte delle cose comuni rispecchia questa geometria, ma spesso ne risente anche il corpo. Nell’angusto spazio della cella quanti colpi negli spigoli del tavolo o gomitate nelle porte, i quadrati di legno delle ante degli armadietti ti aspettano quasi in agguato per aggredirti alle spalle! Gli sgabelli privi di schienali, che richiamano piccole piramidi atzeche, fanno rimpiangere le comuni sedie di casa dopo soli cinque minuti! Dalla geometria che osserviamo intorno a noi ci accorgiamo che tutto è una “storia”, un susseguirsi di avvenimenti personali inseriti in un contesto ben preciso di tempi e luoghi diversi. Queste storie che si intersecano con altre lasciano tracce o ferite, a volte profonde a volte quasi impercettibili, nella grande storia dell’umanità, ma hanno tutte un comune denominatore, quello di essere vere. Le vicende personali fanno mettere in secondo piano quelle degli altri, ma se ciascuno di noi fosse così sciocco da credere che si può vivere senza chi ci circonda, la storia di ognuno non solo sarebbe riduttiva, ma perderebbe anche il proprio valore. Ecco perché è importante vivere e condividere in carcere, costruire e non subire, essere parte attiva e non solo passivi testimoni di un tempo che inesorabilmente trascorre e sembra volerci dominare con il suo peso. Occorre non 90 91 Riccardo Seppia Impressioni sulla vita carceraria stare seduti a guardare con apatia, sentirsi presi dallo sconforto e ripetere “è finita”! La nostra storia non è alienazione ma costruzione, non è sconfitta ma riscatto perché è fatta da protagonisti e non da succubi. Se questo vale per i grandi avvenimenti ancora di più deve valere per le persone che dignità, forza, capacità e valori rendono soggetto fondamentale e non oggetto da usare nei sistemi economici o politici. Quante volte anche in carcere siamo impegnati a fare le mille piccole cose del nostro quotidiano, presi come tante formiche che si affannano e accumulano senza mai alzare un poco la testa per vedere “oltre”. Ci scontriamo ovviamente con le difficoltà e le problematiche del giorno per giorno, soprattutto in questo luogo di sofferenza e dolore, di redenzione e riscatto, ma questa è una sfida che ci interpella perché siamo Uomini e non semplici corpi senz’anima, costruttori di esistenza e non solo squallidi consumatori di noi stessi o del nostro prossimo. La prima riconquista della libertà non parte dal momento in cui mettiamo il piede al di là del cancello, ma da quando riusciamo ad aprire uno spiraglio di luce nel nostro intimo. Ecco perché dobbiamo scoprire la nostra spiritualità, che ci porta in due direzioni: una ci spinge verso il nostro intimo, l’altra verso l’infinito, una fa guardare “dentro” e l’altra “in alto”. Il nostro sguardo si spinge a volte nello spazio della cella, a volte oltre le sbarre, ma riusciamo a vedere chiudendo gli occhi? La visione spirituale non esclude la scienza, anzi concilia, e questo ci porta alla chimica del carcere: esperimenti straordinari, scoperte nell’infinitamente piccolo o nel macrocosmo, reazioni che scatenano energie più o meno pulite, non siamo in un film di fantascienza ma nella concreta quotidianità di un laboratorio dove si effettuano ricerche a volte utili e a volte distruttive per noi e tutta l’umanità. La chimica influisce direttamente su quello che viviamo e non si tratta solo di boccette di liquidi colorati o di fumi che escono da strani alambicchi; noi comunichiamo, recepiamo, scambiamo informazioni e sensazioni tramite le emanazioni del nostro essere. Possiamo dire che in carcere vengono naturalmente generati e immessi nella nostra persona dei ricettori e trasmettitori speciali che amplificano e stimolano il vissuto. Tutte le formule risultano complesse, ma se abbiamo la padronanza della materia riusciamo a comprenderle e spiegarle, ed è quello che cercherò di fare in questo speciale “laboratorio” che si chiama casa circondariale di Sanremo. Occorrono vari elementi che miscelati tra loro interagiscono: il nostro carattere, le esperienze vissute, le persone che hanno condiviso con noi un cammino, la società, le difficoltà, le paure, i successi e le conquiste, gli errori e gli eventi imprevisti. Queste miscele, che non sono altro che il nostro reale essere, diventano formule; ogni singola sostanza crea combinazioni uniche e a volte irripetibili o essenze capaci di modificarci la vita. Come lo studio della chimica permette all’umanità di compiere grandi progressi per migliorarne l’esistenza, così può far scoprire mezzi capaci di distruggerla! Noi piccoli scienzati pazzi, non abbiamo forse fatto lo stesso? Quante volte abbiamo detto “se avessi fatto così…” oppure “sarebbe bastato che…” e infine “se mi fossi fermato prima…”? Continuando la riflessione estemporanea sulle “materie scolastiche” applicate alla nostra vita constatiamo quanta importanza rivesta l’aspetto economico e con quante angolazioni nuove si ponga nel quotidiano. Non parlo qui dei grandi sistemi economici postcapitalistici o dell’involuzione e impoverimento dovuti alla globalizzazione e all’imposizione di poteri forti, ma della capacità di noi, piccoli e poveri uomini, di confrontarci con il quotidiano tirare a campare. 92 93 L’economia del carcere si sintetizza in bisogni primari senza le assurde influenze e sovrastrutture della vita in libertà, quasi un recupero del necessario e una riscoperta della solidarietà umana. Chi non ha mai condiviso la spesa settimanale con i compagni in difficoltà, offerto una sigaretta o prestato un capo di abbigliamento? Si pone attenzione a non sciupare tutto quello che l’amministrazione penitenziaria ci offre e a rispettare gli spazi comuni anche distribuendo equamente il carrello del pranzo, spegnendo le luci, mettendo il nostro impegno per servizi come la biblioteca, il giornalino, la cura dei giardini e molto altro. Quanta cura si mette nel compilare il quaderno della spesa per essere equi e parsimoniosi! Sembra di rivedere i nostri nonni che contavano il centesimo e non sprecavano nulla, insegnando molto tempo prima dei dibattiti televisivi un intelligente riciclo e un’attenta distribuzione dei beni. Si aspetta il fogliettino del conto corrente per vedere cosa resta, se è sufficiente ad andare avanti con la paura di non farcela, di dover chiedere ad altri o di non poter aiutare l’amico. Ci troviamo a fare continui conti e salti mortali per raggiungere anche noi un “pareggio di bilancio”, una tranquillità economica, un vivere sereno. Sicuramente questi problemi sono importantissimi, qualcuno dirà che non si mangia con le belle parole o i grandi principi, ma vi sono delle domande alle quali dobbiamo rispondere: ci accontentiamo del materiale o vogliamo cercare un nuovo equilibrio e la dignità personale? Ci ricordiamo di un’economia del nostro essere e non solo del nostro dare e avere? Riusciamo a redigere un bilancio interiore mettendo in chiaro le cifre delle perdite o i profitti della nostra esistenza? Non dobbiamo dimenticare che il termine “educazione” comprende anche il fisico, in quanto qualsiasi allenamento del nostro corpo esige una disciplina, un autocontrollo e una costanza che sono propri della natura umana. Il tempo da dedicare allo sport “dentro il muro” è molto importante, sia per non lasciarci andare fisicamente, vista l’impossibilità di movimento, sia per mantenere un equilibrio psichico attraverso le valvole di sfogo della palestra e della partita di calcio. Un corpo sano aiuta la nostra parte cerebrale a rimanere in un giusto equilibrio, corroborandola, e una mente allenata, pronta e reattiva ci invoglia a portare lo stesso equilibrio nel nostro fisico. Se viene a mancare questa giusta miscela si assiste a un deperimento che trasforma le persone in morti viventi. Questa situazione genera un’apatia anche intellettuale e spesso si perde la voglia di una bella e sana lettura, che oltre a distrarre e liberare la mente permette di usare dei grandi doni che si chiamano fantasia e immaginazione. Entrando per la prima volta all’interno di queste mura ho fatto una scoperta che mi ha scioccato, erano decenni che non scrivevo una lettera a mano! Mi sono accorto che ho sempre usato la penna per piccoli appunti o firme, mentre i miei pensieri, come ora, li ho sempre portati direttamente sulla tastiera del computer. La cosa mi ha dato da riflettere, riportandomi a prendere possesso della mia scrittura e all’impegno di costruire e scoprire una letteratura carceraria. Il primo esempio è stato quello dei graffiti nelle celle di attesa, dove tra frasi in molte lingue ed epiteti “coloriti” traspaiono rabbia e sofferenza, scherno e rivalità, preghiera e ribellione: un vero libro aperto sul mistero della natura umana e sul suo modo di manifestarsi. Non so se queste frasi, comuni a molte celle visitate nel passato in tutta Italia, diventeranno storia come nelle segrete dei palazzi o nei fondi di qualche castello medievale, ma sicuramente sono storia vissuta, forse un giorno ricoperta 94 95 da uno strato di pittura per lasciare un foglio bianco che diventi una nuova pagina da comporre. Strumento privilegiato della nostra letteratura sono i block notes: 60 fogli con 35 righe da riempire scrupolosamente fronte e retro giorno dopo giorno, fogli che come magici tappeti volanti portano fuori di qui sentimenti e amore, desideri e speranze, richieste di aiuto e disperazione, pagine spesso bagnate di lacrime o di baci, legame invisibile e concreto con i nostri cari. In questa piccola biblioteca personale troviamo le cartelle con gli atti della nostra vita giudiziaria: mandati, istanze, comunicazioni, richieste… Tutto burocraticamente perfetto, con timbri, bolli e controbolli, firme e controfirme, pagine e pagine minuziose, resoconti a volte veri e a volte forse no. Seguono i quaderni o i fogli sui quali trascriviamo noi stessi, con un’alternanza di stati d’animo causati dal quotidiano vivere e convivere, diari di vita o comunicazioni di sopravvivenza, sfoghi di paure e rabbie, inchiostro tracciato con forza, tanto da voler imprimere non lettere ma noi stessi. Ovviamente è importante vedere anche i libri reali che circolano. Un aspetto interessante sono i prestiti della biblioteca, con al primo posto i romanzi, seguiti da fumetti e libri gialli e per alcuni appassionati anche letteratura italiana e storia. Sono tutti sintomi del desiderio di liberare la mente e lasciarla vagare nella fantasia, uscire per un poco da queste mura per immergersi in mondi lontani e avventurosi, rileggere il passato per costruire un futuro, confrontarsi con situazioni e occasioni per trarne insegnamento. Quello di cui abbiamo parlato sino a ora è la parte esterna della letteratura carceraria. I veri volumi da leggere e consultare siamo tutti noi, dai detenuti agli agenti a coloro che compongono questo mondo, perché il carcere è una vera biblioteca con libri di diverso genere, con copertine dalle dimensioni e dai colori più vari, con pagine a volte sottili e trasparenti e a volte spesse e rigide scritte in diver- si caratteri, con una propria posizione sugli scaffali della vita che cambia a seconda della volontà di una mano misteriosa o dell’interesse per quanto vi è scritto. Quindi anche il mondo carcerario è aperto allo studio e alla consultazione: la quota di iscrizione non è molto alta… Basta versare un poco di interesse, una parte di umanità, qualche spicciolo di tempo, ma soprattutto la voglia di entrare. L’ingresso è “quasi” libero, l’uscita… non lo so! 96 97 Sono una sbarra, la ruggine che indosso è il segno della mia età. In uno strano modo la mia vita si misura in anni, come la vita degli uomini. Però… io non sono come loro. Non sono un essere umano. Non ho dei sentimenti. Non provo emozioni. Non so cosa significa essere felice o triste, arrabbiata o calma. Forse vi state chiedendo: se non provo tutte queste emozioni come le conosco? Quando vi ho detto che sono una sbarra, ho dimenticato di dirvi la cosa più importante: sono parte componente di una grata… una grata di una finestra… una finestra di una cella! Sì, una cella. La cella di una prigione. Poiché la mia vita si svolge sempre accanto agli uomini, ho avuto la possibilità di vedere, di sentire, di vivere insieme a loro e così mi sono interessata al loro mondo, divenendo parte di esso. Spesso sento da parte loro che insieme, con tutto ciò che c’è in questo mondo, provano a far sì che la vita sia più facile, si aiutano e si rispettano; condividono emozioni e cercano sempre di non pensare, anche di non parlare del luogo in cui si trovano: la galera. Sento che hanno un’etichetta. Una volta entrati in questo posto, in questo mondo, non sono più trattati come esseri umani. Sono come animali, chiusi, privati di ogni libertà, di ogni diritto. Mi sono chiesta: cos’è la libertà? Poi ho avuto la risposta ascoltando le loro parole: la libertà è quel valore che tutti gli uomini hanno come più importante nella vita, ma si rendono conto solo adesso di quanto valga, solo adesso che l’hanno perso. L’etichetta che è stata loro messa è quella di detenuti. Condannati. Per reati che hanno commesso. Reati? Condannati? Detenuti? Cosa significa tutto questo? Che mondo è questo, nel quale anch’io sono coinvolta!? Perché non riesco a spiegarmi cosa succede dentro di loro? Ho visto uomini che hanno il viso bagnato. Bagnato? È acqua? No, non è acqua, sono lacrime. Dicono che quando hanno queste lacrime sul viso piangono. Alcuni di loro lo fanno quando sono felici. Altri lo fanno quando sono tristi. Nella mia lunga vita ho visto innumerevoli volte cadere dal cielo delle specie di lacrime. Sono più grandi, fanno più rumore di quelle degli esseri umani e non cadono sempre in modo costante. Però mi sono chiesta: chi piange con queste grandi lacrime? È qualcuno così felice oppure così triste che può piangere in questo modo? La risposta è stata molto dura e crudele per me. Non sono lacrime! Non piange nessuno in questo modo, è solo pioggia che cade dal cielo. Ma per me pioggia è il mio pianto, il mio modo di esprimere felicità e tristezza. Certo, tanti di voi si chiederanno subito: ma allora, tu non puoi essere felice o triste quando c’è il sole? Quando piove sei automaticamente triste o felice? Infatti è cosi! Ma come decido che devo essere felice o triste? Lo faccio dopo aver visto e sentito gli uomini nella cella davanti a me. Quando la cella è vuota, la pioggia è il mio pianto di felicità, anche se io rimango da sola. Quando è piena, la pioggia mostra la mia tristezza, per gli uomini reclusi che mi fanno piangere. La cosa che mi colpisce sempre è la loro forza. Sono troppi, più di quanti abbia mai visto nella mia vita. Stanno ammassati in queste stanze che loro chiamano celle, in uno spazio adatto per una sola persona, con le loro cose una sopra l’altra. Gestiscono la situazione in modo da rendere vivibile un mondo che sta per crollare. Alcuni di loro sono chiusi qui da anni, però vanno avanti e aspettano la fine 98 99 George Daniel Stepanov Pensiero “sbarra-to” della loro sofferenza. Aspettano di tornare di nuovo alla loro vita di prima, che io non conosco ma che sicuramente è diversa e più felice di questa. Dalla posizione in cui mi trovo riesco a vedere anche l’altra realtà, dove ci sono tanti uomini, dove c’è agitazione, rumore. Però quella vita per me rimane solo un mistero, niente di più. Guardo dentro la cella davanti a me e sento tutto quello che si dice. Non sono una spia, però mi sento parte della loro vita che si svolge qui dentro, in carcere. Mi fanno sentire come parte della loro esperienza. Anche se non è piacevole, per loro rimane pur sempre un’esperienza. Sento che parlano delle loro condanne. Non capisco cosa può significare la parola, però mi rendo conto che nella maggior parte dei casi una condanna è praticamente il momento nel quale è stato deciso il futuro per ognuno di loro, un taglio alla loro infinita libertà. Diventano subito tristi, si arrabbiano, parlano ad alta voce, alcuni gridano e picchiano forte sulla porta, sui muri, contro gli armadietti. Picchiano me. Li capisco. Così sfogano la rabbia che hanno dentro, e anche se non piove mi sento triste. È una tristezza secca. Senza lacrime. Mi sono chiesta tante volte: perché dicono che la loro vita qui si ferma, che solo la vita fuori, fuori da questo ambiente, va avanti? Per come percepisco io il concetto di vita, ritengo che anche qui ci sia vita. Una vita dura, “ristretta”, piena di dolore, di rabbia, nella quale solo i forti restano in piedi, resistono. Però… anche questa è vita! Tanti dicono che una volta finiti dentro si rendono conto che non vale la pena commettere un reato e buttare la libertà, la cosa più importante della loro vita. Mi sono detta che per poterli comprendere bene devo “vestire i loro panni”. Così riesco a provare tutto ciò che loro sentono. Ho fatto un esperimento, “vivere” almeno un giorno nella loro vita. È l’alba, i primi raggi del sole mi avvolgono e mi danno la sensazione di una bella e serena giornata. Ho aspettato che i ragazzi dalla cella di fronte a me aprissero la finestra. L’hanno fatto! Subito quell’odore che ogni mattina mi colpisce. Quell’aroma che viene verso di me arriva da un liquido nero, che loro chiamano caffè. Non fanno niente senza assaporarlo prima. Come mi piacerebbe assaggiarlo… Si apre la porta. Escono. Uno rimane dentro. È diverso. Il suo sguardo è felice come ce l’hanno tutti, ma c’è qualcosa dentro di lui che lo tradisce. Apre il suo armadietto. Prende un foglio. Qualcuno alla sua porta gli chiede: “Stai scrivendo ancora?” Ecco! Adesso so cosa fa: scrive! Strane cose fanno gli esseri umani… Guardo. È una sorta di gioia e di tristezza allo stesso tempo. Sorride. Ma ha delle lacrime agli occhi. Continua a scrivere, e per fortuna parla con se stesso. A bassa voce. Cosi mi fa provare tutto quello che sente. “Amore mio…” E scrive. Ma io mi sto chiedendo: qual è il mio amore? “Ti scrivo con tutto il mio affetto da questo luogo in cui sento che la mia vita si è fermata, e non so per quanto tempo ancora.” Ho capito tutto! Scrive a qualcuno che è sempre nei suoi pensieri. E mi chiedo di nuovo: io ho qualcuno a cui pensare? Questa volta ho anche la risposta: sì! Io penso a loro, sempre! Non vorrei più sbirciare nelle loro intimità, nei loro sentimenti. A volte il sorriso dell’uomo che scrive mi fa pensare che provi felicità quando pensa alla sua amata, e le sue lacrime mi dimostrano quanto stia soffrendo senza di lei, qui, in questo luogo, lontano da tutto. E per questo le scrive e piange con lacrime vere, di dolore, di solitudine. Guardo fuori dalla cella. Gli altri stanno all’aria. Camminano. Alcuni si agitano e gridano. Dicono che fanno sport. Non so se è una forma per esprimere la loro felicità o la loro tristezza, ma di sicuro lo fanno in un modo diverso da quell’altro che è rimasto dentro. Sono così diversi. Non so come spiegarmelo. Ognuno ha il suo modo di essere. Ognuno è particolare. 100 101 Il tempo passa. Piano o veloce. Sono di nuovo insieme. Parlano. Ridono. Guardano quello che è rimasto dentro, cercano di tranquillizzarlo. “Passerà anche questo. Prima o poi usciamo tutti di qui. La cosa più importante qua dentro è che il tempo passi. Anche se a volte ti sembra che non passi, mai nessuno può fermare il tempo. Nessuno.” Si stringono le mani. Si abbracciano. Sono uno per tutti e tutti per uno. Fratelli di sofferenza. Accendono un piccolo fuoco. Si sente di nuovo lo stesso odore di caffè. Poi… sento il fumo. Il fumo delle loro sigarette. Mangiano e bevono. Riposano. Guardano la televisione e ascoltano la radio. Leggono e scrivono. Il tempo passa. Giorno dopo giorno, notte dopo notte. A volte veloce. A volte lento. Infatti… il tempo passa sempre con la sua imperturbabile cadenza. Dipende da ognuno, come lo percepisce, come lo vive. Hanno chiuso la finestra. Sono ancora da sola. Provo anch’io tutto quello che hanno provato loro. Mi sento sola. Sono triste. Provo la stessa tristezza, ma secca, senza lacrime. Non ho nessuno, a parte loro. Sono e sarò sempre parte della loro vita. Sono accanto a loro e questo mi rende felice. La stessa mistura di sentimenti, gli stessi sentimenti. Sono una sbarra. Parte di una grata. Grata di una finestra. Una finestra di una cella. Una cella di una prigione. Il mio desiderio era di provare ad avere una vita come quella degli esseri umani. Però “vivendo” sempre accanto a loro, sentendo e provando i loro sentimenti, guardando la loro vita qui, piena di sofferenza, ho deciso di rimanere… solo una sbarra. 102 Mario Tonini Quello che desidero Ah, il mio dolore, amici, già non è più un dolore umano. Ah, il mio dolore, amici, è ormai troppo grande per la mia vita. E in esso piego le onde che vanno rovesciando stelle! E in esso salgono i miei sassi nella notte nemica! Voglio aprire una porta nei muri. Questo voglio. Questo desidero. Chiedo. Grido. Piango. Desidero. Pablo Neruda Alzo lo sguardo verso la riproduzione dell’Icaro di Matisse appesa sulla parete, fatta con gli stuzzicadenti da Zef, il ragazzo albanese che è il tutor della Cooperativa Homo Faber, che opera all’interno del carcere insegnando ai ragazzi arte grafica e da tutti conosciuta come Centro Stampa. Ti sto osservando, Icaro, con le tue braccia aperte, fragili ali di cera che sembrano fatte di carta, immerse nell’immenso cielo cobalto che ha il colore dei lapislazzuli e non capisco se sei ancora proteso verso il tuo desiderio di conquista del cielo, che non è nient’altro che la proiezione della nostra voglia di libertà e di giustizia, o in caduta libera verso quel profondo precipizio che è la fine della nostra esistenza. Non distinguendo i lineamenti del tuo viso, il mio sguardo scivola verso il tuo cuore acceso di un rosso vivo, che colpisce i miei occhi come la luce di un riflettore e che mi scuote come il rombo del tuono fa fremere il cielo e, vedendo le stelle che ti accompagnano, percepisco che stai lasciando la terra per salire al cielo, con il cuore pieno di speranza. Icaro, silente amico mio, ci sono giorni della nostra vita 103 che ci scivolano addosso, senza lasciarci nulla da ricordare, come se non li avessimo mai vissuti, ma il tuo volo mi ha ricordato che non basta vivere appena, che la nostra vita, per quanto dolorosa possa essere, va vissuta intensamente, che i desideri sono il motore della nostra esistenza, perché se l’uomo accetta l’inverno è perché sa che ci sarà sempre un’estate, un’estate colorata dalle ali di quei viscidi bruchi che si sono trasformati in variopinte farfalle, come nelle parole della poetessa Alda Merini: “E se diventi farfalla, nessuno pensa più a ciò che sei stato, quando strisciavi per terra e non volevi le ali.” C’è stato un tempo che anch’io volavo alto, incontro al destino, e quando i miei compari, come falchi appostati, mi hanno tarpato le ali, anch’io ho strisciato per terra, perché avevo paura di sperare, di desiderare, di amare. Poi un giorno, stanco di tirare avanti con la testa bassa, ho stretto i pugni e mi sono detto basta. Ho così ricominciato a sognare, a desiderare di volare verso una mia nuova vita tutta da inventare, verso un mondo tutto da costruire, un mondo giusto e solidale, un mondo da amare, perché il volo è l’occasione per un futuro da scoprire, senza più paura di sbagliare; perché la vita mi ha insegnato che da terra, da lì, ci si può rialzare. Ho fatto memoria di quei giorni, perché il passato vive dentro di noi e, caro Icaro, te ne voglio parlare. Sono recluso in una fetida galera sudamericana in attesa dell’estradizione. Davanti a me si sono spalancate le porte del carcere perché ho vissuto parte della mia vita come la biglia impazzita del flipper. Pur vivendo sommerso d’amore, per avidità di denaro, di potere e per un bisogno inconfessabile di adrenalina rivitalizzante, ho attraversato gli oceani, ho frequentato persone infrequentabili, ho percorso sentieri pericolosi nell’illusoria speranza di sfuggire al calcolo delle probabilità di essere individuato dalla legge. Fidandomi degli uomini, lucidamente non ho voluto prendere in considerazione la possibilità che, prima o poi, per paura, per convenienza o per denaro, qualcuno disposto a tradirti finisci sempre per incontrarlo. Il tradimento è sempre nascosto. Il traditore, simulando l’amicizia, entra nelle vite degli altri e, carpendo la fiducia delle persone, agisce per conseguire il proprio interesse. È ben conscio che, al momento della delazione, per salvare se stesso finirà inevitabilmente per distruggere le vite degli altri, ma al traditore non interessano le vite degli altri. È così che è iniziata una nuova e indesiderata esperienza: il carcere. È uno strano mondo, il carcere. Mi sono entrati subito in testa i ritmi, i rumori, le voci, i passi degli agenti, le chiavi che violentano le serrature, le pesanti porte di ferro che sbattono, ma incredibilmente sono i roboanti silenzi della notte che mi fanno male, che mi perforano il cervello, lacerandomi l’anima. Trascorrendo questa frazione di tempo della mia vita rinchiuso in quel minuscolo universo che è la cella, penso che ognuno di noi possa riscattare il proprio passato anche con la sofferenza, che è la consapevolezza del dolore arrecato agli altri. Se c’è qualcuno che si possa sentire ripagato dalla mia sofferenza sappia che quella sofferenza è ben presente. La cruda realtà carceraria mi fa sentire come una moneta in fondo a un secchio pieno di pietre, come un granello di sabbia nel profondo degli oceani, perché il carcere è un dolore insonorizzato. Penso che ognuno di noi ami le cicatrici, non le ferite. Cercando disperatamente la normalità, ho iniziato ad assumere cocaina nel tentativo di uccidere il dolore dell’anima che, come un cancro, sta crescendo dentro di me, ma qui in galera la normalità non esiste più. C’è il colloquio intimo. Mi permettono di trascorrere 104 105 fino a quattro ore con la mia compagna, mettendomi a disposizione una stanza appositamente predisposta. Sono in camera con Janeth, “la negra”, tremenda mulatta. “Ma tu mi ami?” mi chiede. Vuole la verità. Quella vera. A una persona che mi ama così forte non posso dire la verità vera. “Ti ho fatto una domanda. Non dirmi che ora ti interessa più la cocaina di me.” Mi sta incalzando. Incredibilmente sono le sue domande e non le mie “non risposte” a tenermi in vita. Resto in silenzio. Anche se è parte di me, non posso certo dirle che mi appartiene ma che, a causa delle mie scellerate scelte di vita, non ho più un futuro da offrirle. Davanti a me ora c’è solo una lunga carcerazione. È il momento delle decisioni. Se le dico “ti amo” è perché il mio egoismo mi porta a soddisfare un mio desiderio, immediatamente fruibile, ben conscio di offrirle un rapporto senza alcuna prospettiva di felicità. Non posso essere così bastardo. Non ora. Non con lei. Decido di non rispondere. Preferisco tacere, a significarle che sono indifferente al suo destino. Anche il silenzio, a ben guardare, ha un suo significato. Non ho il coraggio di guardarla dritta negli occhi. Ho paura che legga i miei pensieri. Lei è uscita in lacrime sbattendo la porta. Il mio silenzio ha fatto più rumore di una raffica di parole. Non ho fatto nulla per trattenerla. L’ho lasciata uscire dalla mia vita senza proferire parola. Adesso vivo l’infelicità. Sto camminando sul dolore, quel dolore dell’anima che fa veramente male. Posso trovare la pace solo nella rappacificazione con me stesso. Ma non c’è pace qui, ora. In questo buio tunnel dove mi sono infilato la luce è solo per pochi. Sono un maledetto egoista. L’amore per me stesso è l’unico che è durato nel corso della mia esistenza. L’uomo egoista si barrica dentro un cerchio ideale. Ha a cuore solo quello che è all’interno. Dentro questo cerchio si sente sicuro. Forte. Aggressivo. L’amore vero invece travolge ogni barriera. Non hai difese contro l’amore vero. O lo vivi o lo respingi. L’amore vero è piacere e dolore. Al dolore fisico trovi rimedio, al dolore dell’amore non puoi opporti. L’amore vero spacca il cuore. Ho troppa paura del dolore, pertanto mi sono vietato di amare. Mi lacera il pensiero che, senza avere avuto alcun merito, ho ricevuto molto più amore di quello che sono stato capace di dare. Non mi sono mai dato veramente, completamente, agli altri. Il mio rimorso più grande è quello di morire senza mai essere stato veramente di qualcuno. Riuscirò mai a essere davvero di qualcuno? Questo quesito esistenziale probabilmente mi accompagnerà fino alla fine del mio destino di uomo. Vomito. Non m’importa più di me. Ora che non appartengo più a nessuno, posso anche perdermi. Mi sento infelice come le foglie mature d’autunno spazzate via dal vento. L’infelicità, come la droga, è un eccesso della vita. Sono conscio che potrei essere molto meglio dell’uomo che sono oggi, ma non ho più voglia di essere me stesso. Dalla cocaina sono passato al crack. Il crack è il surrogato dell’orgasmo. Per alcuni secondi mi urla dentro la testa, producendo un rumore simile allo sferragliare di un treno in corsa che mi lambisce. Il cuore, battendo all’impazzata, mi squarcia il petto. I polmoni si espandono. Mi 106 107 manca il respiro. È come morire, ma l’adrenalina che sale immediatamente mi riporta in vita. Per un po’ di tempo mi sento un padreterno, così non so più chi sono. Ho la sensazione di fluttuare fuori dal mio corpo, avvolto da un benessere meraviglioso, e improvvisamente invaso da una nuova e vitale energia mi sento liberato dal mio guscio di mortale. Se l’orgasmo è quell’abbandono completo che ci mette in relazione con Dio, in quel momento il crack è Dio. Il mio cervello è fantastico perché se è stimolato dalla droga anestetizza il dolore, attiva quel dinamismo cerebrale che mi fa dimenticare la realtà, provocando in me istanti di totale astrazione. Con la precisione di una clessidra, la cocaina scandisce i ritmi della mia giornata. È lei la padrona della mia vita. Lei vuole il mio tempo, io vivo per quel momento, perché quello che conta, quello che è importante per me, è il viaggio che il crack mi fa fare. Adesso le appartengo. Sono un drogato. Devo accettare questa condizione. Sono drogato perché tento di uccidere il dolore assumendo la droga e non m’importa se poi quel dolore che cerco disperatamente di allontanare ritorna prepotente e la mia anima in agonia grida il suo tormento e la sua disperazione. Dentro la mia testa si è fatta strada oramai la convinzione che la droga sia l’unico diversivo che mi permetta temporaneamente di dimenticarmi della condizione nella quale mi trovo. Sto anche realizzando che, nel contempo, mi perderò un po’ alla volta. Destinato a perdermi lentamente in un piccolo spazio temporale compresso in un insignificante sasso di polvere bianca di cocaina che, bruciando, “stupefacentemente” si trasforma in fumo alla fiamma del cerino. Destinato a perdermi in un vuoto che mi farà male. La droga è come un boxeur che, non possedendo il pugno del ko, lentamente demolisce l’avversario lavorandolo ai fianchi. Distruggendo a poco a poco me stesso, sto distruggendo quel mondo di relazioni e di affetti che ho costruito con non poca fatica. Per fortuna la droga ha bisogno di tempo per frantumarmi, ma non riesco a liberare la mente e a ritornare a essere me stesso. Mi manca l’incontro con me stesso. La cocaina è una surreale scheggia di benessere che mi tiene prigioniero come i pesci rossi dentro la palla di vetro che, nei ricordi della mia infanzia, fungeva da centrotavola. La mia vita sta scivolando via senza incidere, come pioggia sui vetri. Drogarsi significa trasformarsi, rinunciare a una parte di noi stessi. Vivere oramai è un ricordo. Voglio morire. Non riesco a morire. Non è mica facile morire. Vorrei morire, ma mi piace troppo vivere. Vivere mi fa sentire sicuro. Soffrire mi aiuta a combattere l’idea della morte. Non sembro neppure umano. Sfuggo alla mortalità. La droga inghiotte i miei sogni e le mie illusioni. Vivere nella droga è come vivere nell’ombra. Chi vive nell’ombra della cocaina può essere e non essere. Vivere nell’ombra della droga produce il ripetersi dei giorni uno uguale all’altro, produce la totale mancanza di sorprese belle o brutte, buone o cattive che sono il prodotto del vivere da protagonisti la propria esistenza. Il tempo delle abitudini diventa eterna attesa del nulla. Per uscire da questa condizione ho bisogno di ridare vita a tutto quello che ho vissuto prima. Il mio mondo interiore influenza le mie relazioni e i miei 108 109 comportamenti. Avere consapevolezza del mio mondo interiore permette di relazionarmi con l’altrui umanità, migliora la mia capacità di condividere le mie emozioni e quelle degli altri, consentendomi di comunicare all’esterno i miei pensieri. La mia interiorità si nutre dagli altri e non potrebbe esistere diversamente. Drogandomi ho perso questa consapevolezza. Ho varcato il confine della razionalità. Mi sono chiuso in un mutismo assoluto, anche se il silenzio mi disturba. Sono diventato estraneo al mio destino e a quello degli altri. Ora il rischio di perdermi è alto. La droga mi ha cambiato dentro. Mi guardo allo specchio e non riconosco il mio viso riflesso. Non riconoscendo più me stesso percepisco che una vita così vissuta non sarà mai vera, né mai si vestirà di verità. Per fortuna sono ancora abbastanza lucido da riuscire a penetrare al di là della superficie delle cose, così combatto la mia personale guerra con i demoni che vivono dentro di me, ma ho paura di perdermi. Il dolore che il vivere la vita genera mi fa paura. Il coraggio può nascere solo dalla paura. Devo trovare il coraggio di viverla la vita. Mio padre mi ripeteva spesso: “Se rinunci a essere te stesso non capirai più chi sei”. Voglio uscire dal tunnel della droga. La cocaina ha limitato i miei desideri. Se voglio riprendermi la mia vita, devo riattivare il rapporto con i desideri. I desideri sono sempre stati la molla che ha spinto l’uomo alla conquista del mondo. Voglio riconquistare la mia vita. Devo riprendere a pensare di nuovo ai desideri dai quali, da umano, non potrò mai sfuggire. Non voglio più desideri banali, da supermercato. 110 Non voglio più mettere in fila i miei giorni uno dietro l’altro, uno uguale all’altro. Voglio una vita fatta di giorni speciali. Quello che voglio è essere me stesso. Questa esperienza vissuta “nell’altra vita” mi ha fatto capire che il dolore e la sofferenza, essendo parte integrante dell’esperienza umana, vanno accettati, e mi sento rassicurato dal pensiero che quello che mi è accaduto, che mi accade e che mi accadrà, nel bene e nel male, è e sarà per me. Avendo fatto pace con me stesso, mi sono finalmente dato agli altri. L’amore per/della mia “negra” e per/dei nostri figli naturali e adottivi e per/dei nipotini che vivono tra l’Italia e il Brasile ha riempito la mia esistenza diventando quell’universo di miti e sentimenti che, più invecchio, più sento indispensabili. Oggi, amando e amato, sorrido sentendomi parte del mondo e allo stesso momento percepisco che anche il mondo mi sta sorridendo. Avevi ragione vecchio, saggio, Euripide: “L’amore è tutto quello che abbiamo, l’unico modo per aiutarci a vicenda.” 111 Una giornata di sole, una di quelle che hai già indossato tante volte, che hai visto e rivisto come quei vecchi film che riempiono i televisori nei pomeriggi d’estate e che, nonostante questo, non hai mai assaporato appieno, proprio come quella bistecca argentina al sangue, troppe volte solo degustata, ma che ora sapresti descrivere in ogni sua sfumatura sensoriale. L’abitudine del vivere nella propria ovattata realtà giorno dopo giorno ti uccide lentamente, perché nella tua convinzione di azzannare ogni singolo istante, ti ritrovi poi un giorno a essere spettatore esclusivo di te stesso e, come un implacabile giudice di uno spietato reality che ruota intorno alla tua vita, ti ritrovi a stroncare e a rivalutare tutto ciò che di buono pensavi di aver fatto, e finisci col “nominare” te stesso inutile comparsa in questo gioco chiamato esistenza. E partendo da qui, da questa giornata di sole, tutto improvvisamente assume un nuovo e inaspettato significato, significato troppe volte perso in una banale routine quotidiana di una banale cittadina ai confini di un banale Stato. E banale pure quella vita che ti appartiene, che ti trascini dietro come una palla al piede, con cui però hai stipulato un trattato di non belligeranza e pure di simpatica convivenza. Certo, fosse per mia madre avrei già in mano tutto ciò che mi serve per vivere una vita degna di nota: un lavoro, una stabilità economica, una compagna che mi ama. Come se queste triangolazioni algebriche fossero davve- ro la ricetta della pura felicità o del bene assoluto, un antibiotico perfetto contro ogni male della società. Quello che istintivamente una madre sa che esiste, tangibile e vicino, ma che per qualche strana legge della natura non vuole farti conoscere per paura forse che tu ti faccia sedurre. Ma a una certa età hai già incontrato il tuo bivio primario, il tuo primo incrocio fatale: bene o male, tutto ciò che avverrà dopo dipenderà proprio da quella “prima volta”. Non so bene come sia definito esattamente questo passaggio fondamentale, non credo nemmeno dipenda da come tu sia stato allevato o istruito, ma quando ti ritrovi a doverti indirizzare verso l’Eden perpetuo o l’Ade infinito, il tuo Io interiore o più semplicemente l’imprinting nei tuoi cromosomi ti accompagnano quasi inconsciamente da una parte o dall’altra. A questo proposito, una volta una persona mi ha raccontato la sua personale visione delle cose, ossia che solitamente la strada più dritta e larga che ti si apre dinanzi è sempre quella che ti conduce verso la perdizione, perché così facile, così ammaliante, così “di moda”. Ma, allo stesso tempo, è anche ingannevole, oscura e con un epilogo normalmente certo per tutti coloro che la imboccano. E in effetti così è stato pure per me, e come logica conseguenza, mi ritrovo oggi in questo lembo di spazio circoscritto, a guardare questa giornata di sole; un sole a scacchi, certo, come quel gioco così simile alla vita di tutti noi, ma con tanti perché in più e con nuove consapevolezze, nuove esperienze sulle spalle, ma anche con quel nuovo significato. Un significato pregno di speranze per un vissuto fatto di quotidiane mancanze, di continue piccole rinunce, di limitazioni ben aldilà del puro e semplice astratto, e per questo di un valore (intimamente parlando) inestimabile. Inestimabile per la riscoperta di ogni singolo gesto, di ogni singolo istante della tua giornata, che ora sai e saprai sempre catalogare in maniera corretta, archiviando il tutto 112 113 Massimo Trifarò Una giornata di sole nella tua cassaforte dell’anima e conservandolo con cura, gelosamente, conscio di quanto prezioso sia, in ogni istante della tua vita. Prezioso quanto questa giornata, una di quelle che hai già indossato tante volte, una splendida giornata di sole. La premiazione del 2011 a Firenze, con la partecipazione degli studenti delle scuole superiori. 114 Sezione poesia Opere premiate La premiazione del 2011 a Firenze. 1° classificato Vittorio Mantovani Roubaix La premiazione del 2011 a Firenze. Voi non sapete la fatica, quando la strada piatta lassù al nord abbandona il conforto di un increspato asfalto e varca la porta dell’inferno. Quando il sibilo ritmico di movimenti e pedali diventa salto di catena sui pignoni induriti e le ruote incocciano spigoli di pietre. Quando il corpo allungato si aggrappa a un telaio che implora pietà e una terra nera di miniera si mischia al sudore. Voi non sapete la rabbia, quando il cuore inizia a pompare oltre ogni limite, l’aria si fa rara, e un sapore di vomito spacca lo stomaco vuoto. Quando fumo e polvere seccano la gola ad ogni rantolo di respiro 119 e tutto il mondo si rinchiude in una ruota. Voi non sapete il boato, che accoglie la fine del massacro quando i sopravvissuti si sfidano con un ultimo sussulto sulla pista di cemento di Roubaix. Piazzale Aquileia Una vita a cercare un appoggio calcagno, caviglia, malleolo distrutti alla ricerca di equilibri instabili incostanti angolazioni ottuse e acute; sfoggio di andature caracollanti, danze su sinfonie meccaniche per conoscere chi è l’interlocutore, chi è il problema, quali sono i sì e i no dell’intimità, invece di star in ascolto del vero e del falso e provare a dire il contrario. Bisogna imparare ad andare rotondi, avere la pedalata del passista per capire se gli oggetti sono davvero utili oppure solo pensati all’uso. Ad essere sinceri, sono solo ragionamenti assurdi rimossi dallo sferragliare del tram, che logorato da un percorso obbligato è costretto a fermarsi qui, fra i platani di piazzale Aquileia. Io invece non mi ricordo il perché; 120 se è l’istinto di un vecchio innamorato o il segno di una senile ossessione che mi porta ogni martedì, su questa panca, ad aspettare che lei scenda dal ventinove. Così minuta assomiglia a lei e rimango a guardarla anche un’ora mentre fuma sotto le mura del carcere fra un vociare di donne e bambini, e quando una porta la risucchia me ne vado zoppicando fra le bancarelle di viale Papiniano a controllare se gli oggetti sono utili oppure solo pensati all’uso. La rosa purpurea Meglio un prosecco rosato che un intreccio di prosa burrosa, meglio fragorose risate che un rosario di morose. È tutto un filosofare se è il nome o se è nel nome, quisquiglie canine di rosei romanzi. Di queste rosette, rosine, rododendri, rosolacci, rosoni, ellebori, roseti, albe, centifolie, muscose, damascene, floribunde, rugose, sarmentose, camelie, che forse fioriranno 121 con o senza spine, una soltanto mi importa: quella purpurea, quando umida di rugiada dischiude i suoi carnosi petali. Motivazione I versi di Mantovani ci restituiscono, con felice suggestione, l’immagine della gara ciclistica ritenuta la classica in linea più dura al mondo, che si disputa annualmente da Parigi a Roubaix, città industriale del Nord della Francia, ormai divenuta mito grazie all’asperità dell’acciottolato che caratterizza la fase cruciale della corsa. Sembra di vederli, corridore e bicicletta, uomo e mezzo, fusi in un tutt’uno, come se nervi e sangue, ruote e telaio si compenetrassero, uniti da una stessa, indicibile sofferenza. La fatica massacrante assurge a una dimensione epica da quando la strada, piatta e monotona, lascia “il conforto di un increspato asfalto” e si avventura nell’inferno del pavé. Finché i superstiti, con il respiro rantolante, il cuore che moltiplica all’infinito i battiti e il volto impastato di sudore e polvere, non vengono accolti, per lo sprint finale, dal boato della folla, che li saluta come gladiatori al loro ingresso nell’arena. Delle tre liriche proposte dall’autore, tutte ugualmente valide sotto il profilo della struttura e dell’uso, mai banale, del lessico poetico, Roubaix è quella che più si distingue per l’efficacia espressiva e per la capacità di evocare con pochi, sintetici tratti l’eroicità di una grande impresa sportiva. La precisione, quasi specialistica, dei particolari fa pensare che l’autore abbia avuto esperienza diretta di impegni agonistici. * Le motivazioni sono state redatte da Pablo Gorini. 122 123 2° classificato echi che si attutiscono contro il cuore. Aral Gabriele Ahi, l’antica pietra che sorveglia che domina e accompagna e cinge l’orizzonte di questo angusto viaggio: non è l’ignoto che spaventa né gorghi, né flutti perigliosi, ma un giorno conosciuto che corre all’infinito. L’amara roccia di Volterra* Lo stesso cielo, ma non lo stesso. Lo stesso vento, ma non lo stesso. Lo stesso tempo, ma non lo stesso. Fiori di carta Ahi, l’amara roccia di Volterra che lancia in volo i suoi merli a oscurare i miei occhi e a nutrire le mie odissee, che davvero avverto un notturno scompormi se ogni giorno identico torna l’ordito del mio vagheggiare. Ti ho portato fiori di carta ne hai fatto farfalle troppo leggere per trattenerle per non farle volare via. Ti ho regalato i miei ricordi ne hai fatto giorni d’estate così caldi e intensi ma troppo brevi all’inverno. Ahi, questo nero scoglio su cui si infrangono speranze che mi bagnano di domani e lasciano sabbia per le mie ore, granelli che cadono cercando una voce tra i canti lontani, irraggiungibili, Ti ho affidato i miei silenzi ne hai fatto musica da ballo per la piazza illuminata dalla festa che è svanita alle luci del mattino. * La fortezza rinascimentale di Volterra è stata un’antica prigione ed è tuttora un penitenziario. Ti ho rincorso nel vento e scomparsa nell’azzurro del cielo 124 125 mi hai lasciato a domandarmi: chi di noi due non sa volare? Trasparenza Di quale trasparenza è questo vivere che il riflesso abbagliante dei giorni goduti l’attraversa in un istante senza fine? Senza ostacolo, senza tempo, fulminea e accecante. Luce che crei ogni cosa che dipingi la piazza che colori la folla. Luce che apri le stanze che incornici le ore e le voci degli anni. Luce che infiammi le onde e nutri l’estate e la falsa promessa. Motivazione L’andamento anaforico dei versi (cifra costante del poeta, che caratterizza anche le altre due liriche della breve silloge) segna il ritmo di questo sommesso lamento, di questa autoriflessione sulla propria condizione di recluso nello storico (e austero) carcere di Volterra. Qui si perde la percezione di ogni mutamento climatico, di ogni evento meteorologico. Ogni giorno la trama dei desideri (inevasi) ritorna perennemente uguale, così come le speranze, assimilabili a onde marine, si infrangono contro quelle mura, barriera insormontabile che esclude lo spazio racchiuso dal resto del mondo, i cui suoni giungono come echi attutiti. Se fuori ci si lamenta dello scorrere troppo rapido del tempo, dentro la fortezza è come vivere all’infinito un unico, monotono giorno che, nel suo essere del tutto privo di sorprese e di sussulti, non trasmette serenità ma comunica inquietudine e un sentimento non dissimile dalla paura. Aral Gabriele, con la sua particolare sensibilità, fa porre l’attenzione su un problema che i più riterranno marginale rispetto a quelli, di ben altra evidenza, di cui soffre il nostro sistema carcerario: il fatto che il detenuto si trovi a vivere in una sorta di “bolla” atemporale che, a lungo andare, può causare un senso di angosciante alienazione. Problema che può trovare soluzione solo nella capacità di adeguarsi (mettendo la sordina a certe naturali pulsioni) a quella nuova dimensione esistenziale così lontana dalla normalità di una vita “non carcerata”. Luce che svesti il suo corpo che leggi i suoi occhi che racconti la notte. Perché non ti fermi sulla mia anima offerta? Perché mi attraversi? 126 127 3i- classificati ex aequo Carlo Rao e Christian Calderulo Nel giardino dei matti per il telegiornale. E se questo è il mio posto getta pure la chiave perché ormai l’ho deciso: io non voglio guarire! Non avrete i miei sogni né la mia fantasia per me son dolce pace per voi solo follia. Nel giardino dei matti c’è partecipazione ogni giorno che nasce è una nuova occasione. Mai nessuna catena potrà chiuderci il cuore voi chiamateci matti, ma restiamo persone. Nel giardino dei matti ci si sveglia alle sette proprio quando la nebbia ruba il posto alla notte. Tutto ciò che è nascosto qui si può immaginare: è una buona difesa quando fuggi il reale. Nel giardino dei matti ci si siede per terra tra il colore dei fiori e il profumo dell’erba. Tutto ciò che è diverso qui diventa normale forse è il mondo là fuori a doversi curare. Nel giardino dei matti c’è una vecchia fontana sguardo fisso nell’acqua mi racconto alla luna. No, non parlo da solo è un servizio speciale intervista allo specchio 128 129 3° classificato ex aequo Motivazione Luca Denti Il “giardino dei matti” si presenta come metafora del luogo di reclusione, che però non ha le consuete, tristi, caratteristiche: non ci sono, infatti, muri, porte, sbarre, ma erbe, fiori, fontane. È un’altra dimensione, avulsa dal reale, e in questa sorta di “mondo alla rovescia”, così originalmente interpretato dagli autori, dove l’inconsueto, il diverso diventano usuali, si può avere la sensazione che i “malati” siano quelli di fuori. Nutrita dai sogni e dalla fantasia, vero pane dell’esistenza, la cosiddetta follia assurge così al ruolo di una condizione preferibile a quella della presunta normalità. Meglio rimanere qui, dove c’è più partecipazione, più libertà interiore e dove, nonostante tutto, non si perde la dignità di sentirsi, comunque, persone. Appare insolita e perfino irrituale la quasi orgogliosa rivendicazione del proprio status di reclusi, concepito come una felice esclusione dal “fuori” a favore di un “dentro” visto come un’isola felice e protetta. Suona gradevole all’orecchio il ritmo dei versi, che giocano efficacemente fra rime alterne e assonanze. Le trenta monete Avevo anch’io trenta monete più che altro per tradire me stesso. Ho comprato sogni spicci nell’infanzia. Li legai con doppi nodi all’aquilone, fra corse di ginocchia sbucciate. Cresciuti nell’eccesso li ho perduti ancora vivi… Verso sera tra gli ulivi penzolavano impiccati. 130 131 Senza titolo Col tempo sopravvivo a tutto succhiando il veleno in ogni nostalgia… È strano come diventi la sofferenza un punto d’onore. Dove l’inverno posa una carezza lieve di neve sporca anche una pozzanghera sa raccontare un angolo di cielo. Motivazione I sogni “spicci” comprati nell’infanzia al prezzo di trenta monete che, inesorabilmente perduti e vanificati negli eccessi della vita, penzolano “impiccati fra gli ulivi” sono espressione e simbolo di una sorta di autotradimento (l’uomo, con i suoi comportamenti, diventa “Giuda” di se stesso); la farfalla che, se fosse a conoscenza del fatto che la sua nuova e bella esistenza è costata la morte del bruco, cioè dell’altro essere che era in precedenza, si vestirebbe a lutto; la pozzanghera che, pur solo riflettendolo, è in grado di “raccontare un angolo di cielo”. Non è possibile, per il lettore, captare ulteriori “messaggi” impliciti nel testo, specie se l’autore, come in questo caso, sfuma, più o meno volutamente, i particolari e non sembra avere alcun intento narrativo. Ad ogni modo il fascino di queste brevi liriche è racchiuso nella capacità evocativa delle parole, del tutto comuni nell’uso, ma il cui abbinamento dà luogo a immagini di non epidermica suggestione. Senza titolo Le mie parole non bastano all’amore… Se la farfalla sapesse la morte del bruco si vestirebbe a lutto. 132 133 Opere segnalate Volterra, 2010: incontro natalizio con i detenuti partecipanti al Premio. Al tavolo Fabio Canessa, Lucia Casalini e Pablo Gorini. Marian Balauca La battaglia di Rotunda Suonano le campane sulle colline di Rotunda allertando gli abitanti del piccolo villaggio, nubi, polvere e fumo alzano nel cielo già avvelenato da altre battaglie passate. Bruciano alberi, baracche e ponti malandati con incuria e tempismo anticipando i contadini, con gesti di arresa cadono le travi dei ponti che reggevano in piedi l’unica via di scampo e di vita. È sempre più vicino e forte il tenebroso segnale di terrore e di morte emesso dagli invasori, esseri indegni senza culto e morale, accompagnati dai saccheggiatori con il loro rumore infernale. La premiazione del 2009 a Volterra con Maria Grazia Giampiccolo (direttrice della Casa di reclusione), Pablo Gorini e Franca Leosini. Monete, monete e ancor monete, tra banchetti, stupri e assassinii incompiuti, si danno alla pazza gioia i folli sprovveduti violando persino la dignità dei morti! Pericolo e distruzione, morte e sofferenza sono i diminutivi struggenti che alle orecchie del grande condottiero arrivano; disperandosi per la sua gente monta sul suo cavallo e galoppando va, con furia e pazzia nel mezzo della notte. 137 Lascia la sua fortezza con dentro sua madre, impugna la spada e con forza e coraggio avanza fra i corpi mutilati della sua gente tentando disperatamente di salvar qualcosa! Sono tanti anni che il mondo muore e mai riesco a fermare i miei passi che mi conducono sempre sulla stessa riva da dove osservo tutti i mali della vita! In un momento d’ira, spinto dalla rabbia cieca, prende e si trasforma nel peggiore dei barbari; galoppando a cavallo coraggiosamente avanza fra ombre di incalliti assassini mentre tutti i suoi giacciono a terra. Preso dalla fretta e dal suo coraggio cieco finisce per distrarsi per un attimo dal suo vero scopo, infilzato da una lama vigliacca, che il petto gli trafigge, cade giù, come tutti i suoi, nelle mani della morte! Alla deriva come una nave Sono anni ormai, da quando il mondo si è trasformato in una cosa pallida e cieca, in un essere dalla camminata lenta, dai colori rari e potenti, dalle forme bizzarre, dai passi rarefatti, senza un dettaglio ben definito! Il mondo da questa punta del continente è un riflesso di un verme strisciante fra i muri delle case di argilla. Come un piccolo insetto, misero e sconsolato si muove svogliata questa terra bagnata da mari oceani e pianti amari. 138 139 Desiderio Enrico Benetti Assordanti silenzi Nel castello dei miei pensieri odo il tintinnar delle catene trascinate dai fantasmi dei ricordi, gli schianti dell’infrangersi dei sogni, rumori muti per quanto stilettate ma niente si può paragonare allo strazio che arrecano, assordanti, i silenzi delle risposte disattese, delle parole assenti. Brezza Vorrei giacere accanto ai tuoi sonni per abbracciare i tuoi sogni e renderli concreti ai tuoi risvegli. Sorrido L’avvoltoio del tempo trascorso diviene un usignolo nei pensieri a te rivolti. Mentre il cuore batte come furibonde onde sugli scogli, sorrido. Più niente posso dire, a te che non ascolti più niente posso dare, a te che te ne vai. Mi sperderò nel tempo come brezza per carezzare i tuoi capelli, la tua pelle e le mie dita, spasmodicamente folli, si contorcono per non poter più fare… 140 141 Massimiliano Bernabei Sebastiano Cannizzaro Senza titolo Carzaratu Quando i muri ogni tanto si ispessiscono e credere diventa la fatica più grande, io mi apro ai sentieri nascosti e la battaglia che credevo perduta diventa un gioco. La zattera felice navigava alle soglie del mondo. Ridendo la chiamai. Venne a me per gioco con le mani colme di gioia. Mi disse: “Prendine”. Fu solo polvere dopo. Nero di notte e sotto le porte spira vento crudo. Dimenticata nel fondo di un sogno la fronte cerca il tuo respiro. Sei tu a spalancare fragili cancelli del cuore, tu disperata emozione che nel nulla cerchi vita. 142 Quannu di la libbirtà veni privatu e lu tò cori di scuru si culura ppi tia nun c’è cchiù munnu, carzaratu, chiusu a pinzari d’intra ’sti quattru mura: li passiati ’nta li campi ’n ciuri, la ’nnamurata tra li vrazza stritta, quannu davanti a tia c’era l’amuri e no… ’sta suffirenza mmaliritta! Canceddi, schiavittuni e sicundini, chistu è lu mari tò… lu tò paisaggiu, lu vardi e ammiri tutti li matini mentri lu suli splenni, su appari lu miraggiu. Si jiancu… comu ’n sucu di lumia mi pari ’n palummeddu d’intra a jàggia, ca varda fora e lu volu disìa, ma è privu d’ali, chianci e si scuraggia. Li tò jurnati scurri, tra “vaddiri e caunchi”, li denti strinci e d’intra focu abbruci, ccu li tò carni, lazzariati e stanchi, ti senti comu a Cristu, misu ’n cruci. 143 Traduzione Carcerato Quando della libertà vieni privato e il tuo cuore di scuro si colora per te non c’è più mondo, carcerato, chiuso a pensare dentro queste mura: le passeggiate nei campi in fiore, l’innamorata tra le braccia stretta quando davanti a te c’era l’amore non questa sofferenza maledetta! Moez Chaibi Pensieri Galeotti pensieri che viaggiano sulle ali dei venti s’incontrano con una rosa blu ci tengo a dirti che nel cuore mio ci sei solo tu fiore di leggiadra bellezza. Cancelli, schiavettoni e secondini, questo è il mare tuo… il tuo paesaggio, lo guardi e lo ammiri tutte le mattine mentre il sole splende, se appare il miraggio. Sei bianco… come il succo del limone mi sembri una colomba nella gabbia, che guarda fuori e il volo desidera, ma è priva d’ali, piange e si scoraggia. Le tue giornate scure, tra “il male e il peggio”, i denti stringi e dentro di fuoco bruci, con le tue carni lazzariate e stanche, ti senti come Cristo messo in croce. 144 Breccia Se tu fossi il cielo io vorrei essere una nuvola per viaggiare nell’infinità della tua bellezza. Se tu fossi la luna io vorrei essere il sole per riscaldarti il cuore. Se tu fossi una stella io ti guarderei ogni notte dalla mia finestra. 145 La mia dea Dolce dea vorrei essere un raggio di sole per poggiarmi sul tuo viso radioso e lasciarti una carezza sinonimo della tua bellezza. Il castano degl’occhi tuoi è la finestra dell’anima mia il nero dei tuoi capelli primeggia nel mio cuore, vorrei esserne una ciocca per accarezzare la tua pelle liscia e setata che fa di te una dea o una fata. Il profumo di questa lettera lo custodisco nel cassetto del cuore. Alessandro Crisafulli I Attimi senza nome avanzano con intrepida dolcezza dentro gli occhi, infrangendo la memoria sigillata. Forse è questo continuo immergersi nel gesto che rende eroi e dona colore alle labbra… mentre tutt’intorno l’inverno partorisce nuovi sconosciuti. II È qui che nasce l’orizzonte, dai lineamenti di un’idea, dove i sogni si fondono nei corpi che hanno smarrito l’infinito. Eppure c’è chi ancora ricerca la parola, quel suono che invade le vene e delinea i contorni del tempo. 146 147 III Nella dolcezza dell’alba ho chiuso il tempo tra le righe. Sospeso sono disceso nelle profondità del verso e in quella nudità ho seppellito il dolore. Guardo le mie mani che si spandono in ogni battito, mentre il buio, che accoglie la parola, precede la mia supplica. Ezio Di Rosa Ape Ronza intorno, in alto e in basso cerca e sonda il materiale che l’appaga, purché grasso quando torna al suo portale. L’alveare, un gran fermento, crocevia di tante rotte che convergono in quel punto, dove tutti han gran da fare, ogni addetto per creare come vino nella botte, un prodotto vellutato, dolce, orato, da mangiare. Nel contesto è ben previsto anche unirsi ed accoppiarsi, per dar forma al manifesto volo a forma di gran sciame, che si sposta volteggiando con milion di addetti sparsi, gran mistero a qual comando obbedisca tal reame. Va nell’aria, all’acqua e al sole, inseguendo i suoi profumi, va nei boschi, nei giardini, dentro agli orti tra le rape, questa splendida creatura coi suoi semplici costumi è da amare e rispettare, contemplare: questa è l’ape. 148 149 Sogno Giardino Che sia splendido, gagliardo, bello, buono, giusto e saggio e che resti fisso e saldo nella mente di chi crea, di chi ambisce desideri realizzi anche un miraggio, un realistico presente degno della sua nomea. Son presenti dappertutto forti odori, aromi o puzze che s’insinuano all’olfatto che sa coglierne valori, viali, aiuole, piazze e stagni, conche, dune, rii e viuzze si concentran nella macchia che è coacervo di sapori. Crei scenari famigliari effondenti sicurezza a chi vuole star sicuro, coccolato al suo cantuccio a chi ama la natura dia colori, odori e brezza e a chi pesca doni pesce, trote, carpe e pure un luccio. Si coltiva un po’ di tutto, ogni cosa prende forma, un capanno per gli attrezzi è ossatura di un gran glicine sotto al quale un gran cespuglio di mirtilli pare dorma effondendo quel profumo forte, intenso, pari al ricine. Costruisca tutt’intorno a speranze e desideri quel bel mondo che ogni io cela al centro del suo cuore; riempia il tempo di bellezze, danze, canti e suoni veri, configuri ambienti e storie degne solo dell’amore. Tra le zolle l’uliveto, aranceto, vigna e pini, faggi e pioppi e olmi e ontani che circondano giardini. Tra le aiuole di amarene, more, fragole e lamponi, usignoli e pettirossi pare intonino canzoni. Un giardino empio di frutti, una spiaggia sconfinata, un deserto e le sue dune, un gran bosco verde e rosso, fattorie lussureggianti cinte dalla palizzata, un castello affascinante circondato da un gran fosso. Tutto aleggia e soffia lieve lungo il verde di quei prati, polle d’acqua son molteplici e alimentan mille rii. Le api formano gli sciami, ne compongono gran strati, gli uccelletti si rincorron tra stridii e cinguettii. E città nella foresta dove tutti stanno in pace perché tutti hanno un pensiero che ritengono sia giusto; più di tutto va adorato, che non sia solo di brace ma piuttosto un fuoco eterno degno solo del buon gusto. Letamaio fertilizza querce immense a rami lunghi, fiori sbocciano a migliaia sparsi ovunque; muschio eterno. Nebbiolina mattutina imperla foglie, erba e funghi, che ti fanno presagire che è lontano ormai l’inverno. È il pensiero che ogni essere ha in serbo nel suo voglio è pensiero di animale, cosa o uomo, ne ha bisogno; dalla nascita alla morte custodisce il quadrifoglio di star bene, eterno e amato: certo è questo, il suo bel sogno. I ciliegi, i tigli e i mandorli sono tutti uno splendore, nella notte anche la luna ha un bel ruolo, pare in fiore. Quella lieve umida luce, su olmi e salici piangenti, che tra lucciole e cicale fa commuovere le genti. 150 151 Antonio Gueli La freccia dell’amore Potessi sprofondare dentro di te genuflettermi al cospetto di tanta bellezza, come lo schiocco di una freccia dell’amore. Cristo Se Cristo venisse a trovarci non troverebbe che anime temprate dal dolore, corpi pieni di cicatrici. È questo forse che lo spaventa. Vorrei bruciare le nostre vite, legarci, ucciso nello scudo per il tuo corpo. Il nulla Un giardino pieno di profumi odore di salsedine scintillio delle onde carezze della sabbia. All’orizzonte una colonna dorica civiltà senescente emozioni soppresse. In un volume di cemento chiuso il nulla. 152 153 Carmelo Impusino Volo solo Malinconica solitudine silenzioso ricordo di una vecchia abitudine nella frenesia della mia esistenza pensieri e sangue hanno poca pazienza un arcobaleno in bianco e nero può dirti chi ero tra regole e leggi che ho infranto davvero nel silenzio nasce il mio suono solo lui racconta chi sono nel cuore eterno viaggiatore corse veloci e niente più dolore la gente negli occhi come un sole accecante la sorvolo e mi allontano sempre più distante sono un solitario e non mi importa niente di celle punitive e di giornate spente un altro giorno è passato tra occhi spenti di chi è appena stato arrestato nei volti lo sguardo di chi si sente fregato di chi non ammette di aver solo sbagliato sbarre e celle le ho ormai nella pelle dove tra realtà e finzione ne ho viste di belle mi ingoia il buio della notte mentre sorrido e penso… ma chi se ne fotte nella mia vita… soltanto lotte. 154 Sfumati ricordi Ho solo il tempo di socchiudere gli occhi di regalare al pensiero il profumo del tuo respiro e tutto è rapito dal sapore di sensazioni sfumate tutto si perde nel ricordo del tuo bacio ormai troppo lontano anche solo per continuare a sognarlo. Pensieri lontani Per respirare la tua esistenza non bastano i confini del mondo chiudo gli occhi per cercarti nei sogni nella serenità di pensieri che ti raccontano ma svanisci agli ultimi respiri del risveglio senza che possa raggiungerti perdo il tempo nella lentezza dei sospiri specchiandomi in rugiade di malinconia mentre accarezzo il silenzio stanco di essere solo la mia inesistenza di aspettare la luna per continuare a sognarti. 155 Martin Lazri Emozioni Effimero lo spirito si dissolve in spazi infiniti all’ammirare la luna piena, realizzata, bianco cristallo, all’osservare le rosacee pennellate dell’alba. Turbato essere, rinchiuso nel silenzio se lo sguardo si sofferma su di un ramo secco rugoso, disteso su un letto di foglie morte. Melodiosa sinfonia avvolge il corpo al bisbiglio del mare, perpetuo infrangersi di onde, al fischio del vento, predatore di pensieri. Piacevoli brividi percorrono la pelle al tocco dell’impalpabile cenere, calda volatile, allo sfiorare cocci di vetro addolciti dal tempo. Inquieto sollievo dona alla mente la mano che asciuga una lacrima, trasparente, vellutata, la carezza ad una testa nuda, rosa, scarna. Vortici di pensieri, riflessioni, orchestra dai mille suoni. Moltitudini di emozioni vibrano dentro, leggere, delicate accarezzano l’anima, avvolgendola in soffice mantello. 156 Notte Impalpabile l’irreale atmosfera, leggero il brusio avvolto da tenebre. Spazi compressi, informi, angoli vuoti privi di vita. Sagoma di un corpo raggomitolato, respiro pesante nel tempo senza tempo. Brividi graffianti percorrono le membra, oscuro dolore trafigge l’anima. Volteggiano ombre di fantasmi danzanti, mani scheletriche trascinano nell’abisso. Ululante il vento sparge l’oblio. Vivo in te Sei dentro di me. Sono dentro di te. Attraverso i tuoi occhi vedo le meraviglie del mare, l’azzurro del cielo infinito. Attraverso la tue mani tocco la sabbia calda, lo scorrere dei granelli tra le dita. Attraverso il tuo olfatto annuso il profumo dell’estate, l’odore dei prati in fiore. Attraverso la tua bocca degusto antichi sapori, dolci, amari, inebrianti. 157 Attraverso il tuo udito ascolto i suoni dell’universo, turbinio di emozioni che vibrano dentro. Attraverso il tuo corpo godo delle carezze del vento, il sole brucia la pelle. Attraverso il tuo essere vivo di bellezza riflessa, resto legato alla vita. Sebastiano Milazzo L’approdo Cammino in un deserto senza vita in un tunnel senza speranza dove carogne umane attendono come avvoltoi gli occhi dei vivi. In questo itinerario senza senso muovo passi meccanici mentre ombre si allungano per avvertirmi che presto scenderà l’ultima notte. Condannato a esistere senza poter vivere io intanto cammino per riempire l’attesa del fortunato sepolcro. Anche per il pretendente deluso esiste una dimora immortale dove approda la perfezione. Il luogo dove si dimentica ogni forma di grazia ogni forma di fortuna. Dove ogni timida pietra affoga nel placido mare 158 159 dell’eternità senza l’angoscia della resurrezione. col vostro modo funzionario di vivere credete di vivere per il miele e avete solo api. Ombre Spente iridescenze ferme al confine del vero ai margini dei vostri affanni opache e tremule portate con voi la traccia del vostro declino. Spente iridescenze gettate amori al vento mentre la vita si consuma, come pelli di cane, nell’infinita attesa di una pena che rende anche l’anima in schiavitù. La replica Indifferenti a chi guarda in su ad ogni ululare di vento state a frantumare bolle d’aria come soffiate nella flebile canna di un fucile. Scambiate illazioni per otri di saggezza mentre avviate pesci squamati e di poco valore nel gelo dei fondali. In questo luogo dove il tempo si è dimenticato d’esser tempo i lividi sull’anima non sono un ricordo. Sono il presente ostinato e fedele della grande farsa di cui mi ha onorato l’autore tiranno. Figuranti delle vostre paure senza cancellare le orme scappate al confronto senza poter conoscere voi stessi e gli altri. Una tragica farsa replicata ogni sera con le stesse battute ad ogni stagione. Figli dell’amore mal sillabato della virgola maniaca Parole tra i denti false promesse 160 161 principi di carta ideali sepolti. Massimiliano Paggetti Non altro del resto viene insegnato nel buio teatro dove passo la vita. Il Tempo Gemello del mio quotidiano mi dai respiro quando vuoi! Con le tue attese affretti i miei passi, decidi tu, sempre e comunque! Non ti conosco e m’assomigli, fino alla morte. Mi soffochi, eppure mi sei essenziale. Vorrei arrivare alla ragione della tua intrusione, ma scivoli nei rivoli dell’esistenza. Non portarmi nel dimenticatoio, avviami nell’oggi. Soltanto frammenti di un tempo già morto e di un futuro che non diventerà mai vita. Illusioni Sono sceso a compromessi con voi, nutrendomi delle cattiverie conosciute. Accompagnato dai miraggi, fortificavo la mia banalità. Ora siete spettri che tormentano il vissuto di chi vi ha creduto. Ho risarcito con madidi sonni la mia bestialità. Implacabili tentate ancora di illudermi 162 163 con bagliori di latta. Che ne è stato della mia giovinezza? Un vile baratto! State lontano dalla mia anima, non vedete che sto raccogliendo i cocci da presentare a Dio. Antonino Penna Anche uomini Qui in carcere, di notte, quando tutto è silenzio, si sente il pianto del mondo. È la voce dei condannati che si disperano. In carcere si teme la sera. È la resa dei conti la sera. Tuffi nei ricordi di un passato lontano pensieri che rinnovano il dolore di vecchie ferite non rimarginate. Lacrime nascoste paura dei giudizi vergogna di se stessi. Qui in carcere, di notte, quando tutto è silenzio, si sente piangere il mondo. Speranza di cadere nel sonno. Attesa di un domani migliore che non tarda ad arrivare. È un domani senza illusioni, senza pietà. E allora ci si accorge che la vita si snoda sempre uguale, giorno dopo giorno. Resta solo la speranza di un Dio che ci ascolti. 164 165 Minori Ernesto Ferrero all’incontro con gli studenti a Livorno nel novembre 2008. S.T. Istituto Penale Minorile di Torino Il viaggio (Senegal-Italia) La premiazione del 2008 a Torino con Pablo Gorini, Margherita Oggero, Ernesto Ferrero e Raffaella D’Esposito. Non dimenticherò mai l’impazienza di partire le bugie raccontate a mia madre per non dirle del mio viaggio. Non dimenticherò in quanti siamo saliti su quella barca, io sono stato l’ultimo perché avevo paura di morire, non so nuotare nessuno sapeva nuotare, solo un uomo e due donne. Non dimenticherò il freddo, il sonno, la stanchezza e la paura sempre presente. Ogni tanto si scherzava, pochi minuti e subito tornava la paura del mare. La notte passava più in fretta perché un po’ si riusciva a dormire, testa contro testa. Non dimenticherò una ragazza che ha pianto sempre, mi fa male ricordare il suo pianto. Non dimenticherò mai le luci della Spagna viste da lontano, con la speranza di arrivarci il giorno dopo. Acqua e cibo erano finiti, le luci sembravano vicine. Non dimenticherò la felicità di scendere dalla barca e subito la paura, nuova, di essere preso e riportato in Senegal. Poi la Spagna, il Portogallo, ancora la Spagna, la Francia e, infine, l’Italia con in tasca soldi che nessuno mi cambiava. 169 Non dimenticherò l’uomo che mi aiutò a cambiarli, la pizza da 12 euro che poi non ho mangiato perché aveva un gusto che allora non mi piaceva. Non dimenticherò il panino che il mio amico ha rubato a un bimbo, alla stazione di Malaga, gliel’ha strappato dalle mani, avevamo fame era buono, in mezzo c’era anche il pomodoro. Mai più dimenticherò l’ultimo treno che ho preso per arrivare a Torino e la delusione che ho provato quando ho capito che l’Europa non era come me l’ero immaginata. Mi lasciavo dietro un viaggio difficile, iniziavo una vita piena di difficoltà. 170 R.M. Istituto Penale Minorile di Torino Una storia nomade Max era il primogenito di una famiglia di nomadi proveniente dalla Croazia e, dopo aver compiuto un anno e due mesi, si ritrovò con un fratellino. A lui la famiglia sembrava perfetta, il padre Dragan e la madre Silvana vivevano con i nonni paterni, la casa non era grande ma ci si poteva giocare e, quando si stava tutti seduti a tavola, era sempre festa. Max però intuiva che qualcosa non andava; solo il fratellino Grujo non capiva cosa stesse succedendo perché era ancora molto piccolo. Era da un po’ di tempo che i nonni litigavano con i genitori. È difficile la convivenza, specie quando gli spazi si restringono, quando non c’è intimità e le esigenze di ognuno si scontrano con quelle di tutti. Suocera e nuora alimentavano la tradizione che non le vede andare di comune accordo. Dragan era ancora un ragazzo, si era sposato a quattordici anni, Silvana ne aveva solo uno in più e avevano già dato al mondo due figli, ma erano adolescenti e non riuscivano a capire che, se non lavori, non puoi costruire una famiglia e vivere con indipendenza. La nonna Soriza non lavorava, spesso era malata, l’unico in famiglia che portava soldi era il nonno Emir ma, con lo stipendio che prendeva, era difficile arrivare alla fine del mese. In casa c’erano sei persone, ognuno con i propri bisogni e i litigi pian piano aumentavano. Dragan sopportava pazientemente le urla dei nonni, ma 171 un giorno stavano litigando così forte che Silvana decise di tornarsene dai suoi lasciando i due figli al marito. II padre non sapeva come reagire: due bambini da guardare, la nonna malata, il nonno a lavorare. Attese che nel frattempo qualcosa cambiasse in meglio, ma Soriza non poteva aiutarlo perché aveva seri problemi di salute. Da solo si sentiva perso e, soprattutto, non sapeva come fare con i figli. Passarono una ventina di giorni, ma della moglie non aveva più notizie, così, lasciati i bambini da una sorella, decise di andare dai suoceri e risolvere la questione. Voleva che Silvana tornasse a casa, ma la donna non ne voleva sapere e i suoi fratelli la spalleggiavano dicendo che il marito non era in grado di difenderla dalle angherie dei suoceri. Non sapeva come convincerla, diceva che c’erano anche dei bambini da crescere, rimase tutta la giornata vicino alla moglie sperando che cedesse, ma lei non cambiò idea. Anche se aveva un anno in più non riusciva a capire che aveva due figli da educare. Dragan si preoccupava dei bambini e, tornato dalla sorella, prese i figli e ritornò dai genitori. Come spesso accadeva, il nonno Emir perse il lavoro e faticava a trovarne altri; poco dopo la nonna si aggravò e se ne andò. La situazione si stava facendo sempre più dura. Il nonno in lutto, una situazione economica critica, quattro maschi per casa ma, mentre il padre disperato vedeva il mondo crollargli addosso, la madre sentì il dovere di ripensare la vicenda e il giorno dopo si fece accompagnare dai genitori e tornò a casa. Per l’occasione si riunirono tutti i famigliari e tutti sanno quanto siano numerosi i parenti di una famiglia nomade. Per giorni la casa era piena di gente e Max non riusciva a crederci: gli stavano vicino le zie, il padre, la mamma e con i cugini ritrovava quelle intimità che sembravano perse. Finalmente un raggio di sole tornava a illuminare quella famiglia dopo giorni tanto bui. Ma, come era successo anche al papà, anche le sue zie, seppur giovani, erano già sposate e vivevano presso i suoceri dai quali dovettero ritornare a vivere la loro vita. Rimasero di nuovo soli con il nonno che, dopo la morte di Soriza, non faceva altro che bere; per fortuna aveva trovato un altro lavoro, ma spesso si presentava ubriaco e non mancava occasione per rinfacciare a Silvana i problemi che aveva avuto con la suocera. Il vecchio Emir non riusciva a sopportare il ricordo di quelle liti tra le due donne e si rinchiuse in se stesso non pensando più ai bisogni degli altri. La mattina si alzava all’ultimo minuto, andava a lavorare fino alle quattro, mangiava e nel frattempo beveva oltre il limite e si metteva a dormire fino a sera; quindi iniziava a rimproverare il figlio e la nuora che non riuscivano a trovare un lavoro e che avevano già messo al mondo due bambini. Col tempo la situazione degenerò, non gli stava bene che tutti vivessero in casa sua e lo diceva chiaramente senza pensare che i ragazzi non sapevano dove andare. Fu così che Dragan decise di trasferirsi dalla sorella. Si accordò con un vicino di casa e si fece accompagnare accontentando così anche suo padre, che rimase solo. Ma presso la sorella la vita era difficile, la convivenza stava diventando problematica a tal punto che l’uomo pensò di tornare dal vecchio genitore. Quando però informò la moglie, litigarono da alzare le mani e la donna se ne andò per la seconda volta. La sorella, preoccupata della nuova separazione, cercò di mettere pace e telefonò ai genitori di Silvana, ma, arrivati a questo punto, loro non vollero più saperne dicendo che avevano fatto soffrire troppo la ragazza e riattaccarono il telefono. Dragan adesso si trovava in una situazione estrema: la moglie non sarebbe più tornata a casa e i bambini correvano il rischio di crescere senza una madre. Prese allora una 172 173 grave decisione: fece adottare il più piccolo, Grujo, alla sorella, che aveva tre figlie e nessun maschio. Dopo un paio di mesi si venne a sapere che la madre si era risposata; anche Dragan allora decise di trovare una nuova moglie. Da quel triste giorno in cui la mamma se ne andò sono passati diciassette anni, Max non ha più rivisto la sua vera madre. Oggi vive con il padre, con una nuova mamma e con tre nuovi fratelli. Il fratellino Grujo sta con la zia, il nonno vive ancora da solo. Della madre vera sa solo che vive in Francia e che ha avuto tre figlie. “Questa è la vita!” raccontano gli anziani del campo. “È andata così e non ci si può fare niente”, ma Max non è d’accordo. Dragan ha voluto che anche Max si sposasse giovanissimo e adesso lui rischia di trovarsi nelle stesse condizioni, sembra che la vita non gli abbia insegnato nulla; sposarsi troppo giovani non ha senso, perché uno a sedici anni non solo non è in grado di mantenere una famiglia, ma non sa come reagire alle difficoltà. A quell’età si gioca ancora con gli amici, si va a scuola, non si è in grado di fare il padre e il marito allo stesso tempo. Poteva andare meglio a Dragan se solo avesse aspettato di essere un po’ più maturo e di imparare a ragionare prima di agire: si sarebbe risparmiato tutte le litigate tra nonno e genitori, forse la moglie non sarebbe arrivata al punto di lasciare due figli e andarsene per tutta la vita. Per questo, da quando è andata via, non si è più fatta vedere, certe ferite sono dure da chiudere e la memoria sfuma quando un’altra vita ti porta lontano, quando altre persone dipendono da te e ogni giorno non hai tempo per fermarti a pensare a quello che poteva essere e non è stato. Max ha un’altra madre che lo cresce, ha quattro fratelli che sono la ragione di vita per tutti e sono la ragione per non pensare al passato. Ma se la storia si ripete è perché nessuno si è fermato un momento a ripensare che, se siamo costretti a certe scelte, sarà la vita a presentarci il conto. Adesso Max ha diciotto anni e vorrebbe costruirsi una vita, trovare un lavoro che, oltre a permettergli di vivere in modo dignitoso, dia anche una certa gratificazione; il suo sogno di commercializzare oggetti rari e antichi si scontra con le esigenze quotidiane della famiglia e la sera è una scadenza che non si può dimenticare, il giorno dopo è un’altra lunga lotta per la sopravvivenza, non c’è tempo per tergiversare, le bocche da sfamare non si riempiono di sogni. Pensa di aprire un bar in un paese lontano da certi pregiudizi e tentazioni, per poter lavorare con la giovane moglie e dare i giusti tempi alla famiglia. Pensa di dare un futuro ai figli e non farli diventare persone incapaci di leggere il libro della vita, insegnare loro quali strumenti bisogna acquisire per saperla affrontare con coraggio e carattere, crescerli già con un obiettivo, farli diventare delle persone che sanno ragionare prima di agire, essere vicino a loro quando ci saranno da prendere decisioni difficili e fare in modo che sappiano pensare ai consigli delle persone che gli hanno voluto bene quando, soli, dovranno fare delle scelte. Non esiste una data precisa che ci dica quando siamo maturi, ma agire con coscienza giorno per giorno non è forse la strada più sicura? Siamo noi gli artefici del nostro destino e, se non sappiamo guardare avanti per tempo, la vita può essere crudele. 174 175 D.S. Istituto Penale Minorile di Torino Mariangela P. Istituto Penale Minorile di Bari Il viaggio (Tunisi-Lampedusa) Dolce luna Vorrei scordare il mio paese che non mi ha dato niente, solo povertà buttare via la vita che faccio e averne una nuova. Vorrei cancellare il mare dalla mia testa perché ho avuto tanta paura e non pensare più a quel viaggio, non avere più ricordi di quei quattro giorni. Vorrei dimenticare per sempre il mare, la paura, il buio, il blu. Blu davanti, sopra, dietro, blu di lato l’acqua che entrava nella barca il buco che non riuscivamo a chiudere. Vorrei non ricordare la fame, la sete, il freddo che sentivo più forte perché i vestiti erano bagnati. Vorrei dimenticare Lampedusa e la telefonata che ho fatto a mia madre che mi credeva morto. Vorrei dimenticare il giorno che mi hanno arrestato e portato qui dentro. Voglio togliere la galera dalla mia testa. Voglio uscire da qui e avere una vita bella, un lavoro tranquillo, mi voglio sposare e avere una casa, l’amore, un bambino. È difficile ma lo spero. 176 Sei dolce mia cara, amata, sei setosa come un velo di nozze, quando ti guardo, i tuoi occhi mi parlano di gioie immense. Quando sorridi, il mio cuore si colma di tanta luce come se una stella stesse cadendo. Sei la mia dolce luna, il mio caro riparo, il mio dolce conforto sei la mia dolce donna e ti amo, mia dolce luna. Non conosco una pelle profumata come la tua, sa di intenso, come se Dio avesse unito tutti i fiori più profumati per donarli al tuo splendido corpo. Non sospiro mai la tua mancanza così nessun uomo sa o saprebbe mai cosa significa cercarti o stare con te. Ti aspetterò all’infinito… ti riconoscerò dal tuo fresco essere. Il tuo animo e i tuoi anni sanno di eterno conforto tra le mie calde braccia, mia dolce luna. 177 Nessuno saprà mai cosa cela il tuo corpo, nessuno mai ti rapirà dal mio cuore, tu con me sei al sicuro, sei un elemento essenziale nel mio mondo. Anche se non ti conoscessi, ti riconoscerei tra mille donne perché sei la mia dolce passione, mia dolce luna. L’amore ha detto sì Hai colpito il mio cuore e lo sai, con un bacio hai rotto il silenzio che ci circondava, in una buia notte di luna calante. Stamattina ti ho sentito e lo sai, il tuo bacio al mattino e il mio dolce risveglio, mi riempie il cuore di zucchero di canna e miele. Sono le sette e ti aspetterò e mentre ti aspetto, ti penso, già sento il tuo profumo salire su per le scale… Questa notte l’amore ha colpito, questa notte il mio cuore si è riempito, questa notte anch’io ti ho rapito, questa notte l’amore ha detto sì. 178 Catene di angeli in festa Fiori profumati d’intenso, ghirlande fiorite, ricche di petali rossi adornano così il mio dolce sogno. Tutto il cielo è stellato, grandi costellazioni come un manto argentato riempiono questa grande notte d’estate… Odore di salsedine colpisce i miei sensi, sapori d’amaranto alleviano il mio gusto, profumi d’arancio e frutti tropicali, odori di cocco mi circondano, tra queste onde azzurrine che si sposano con il brillore dorato della luna, che si avvicinano al mio sogno e con grande orgoglio e fedeltà si ritraggono, per consumare ancora il loro movimento. Sento in lontananza gabbiani in silenzio far festa, vedo persino il vento che al suo passaggio mi esprime la sua folata tropicale, mi colpisce un’idea in questo sogno… cosa sono io in tutto questo? Sono in un sogno, in questo sogno, il mio sogno. Non conosco una creatura di beltà più pura, di una lealtà più intensa, la sua presenza mi trattiene calmo nell’oscurità, non ho paura, ma tremo. Penso alla mia catena di angeli, dove risiedono i miei paladini, in questo pensiero così celestiale, così innovativo, non vedo che catene di angeli in festa. 179 Considero valore l’immaginazione, la vergogna e la spontaneità. Istituto Penale Minorile di Bologna Considero valore tutti i colori, il bianco ghiaccio, il blu cielo, il verde erba, il giallo sole, il rosso fuoco. Considero valore Testi liberamente ispirati a Considero valore di Erri de Luca Considero valore ogni forma di rispetto considero valore ogni uomo molto bravo considero valore la stanchezza dopo il lavoro e sarò felice quando arriverà la paghetta del mio lavoro considero valore quando tornerò nella mia casa e sentirò la voce dei miei figli considero valore poter usare il cuore e non solo il cervello. Considero valore gli uomini, dall’Australopithecus fino a quelli del XXI secolo. E considero valore tutte le donne che creano una nuova vita con i loro figli senza che nessuno alzi le mani… Fernando Rodrigo G.R. Ashraf K. Per essere felice Testi liberamente ispirati alla poesia Il gatto di Guillaume Apollinaire Considero valore ogni persona che ho conosciuto considero valore la pioggia e i sentimenti dalla rabbia alla paura il giorno e la notte, l’estate e l’inverno. Considero valore la larva che dopo il tempo riesce a volare da farfalla, come i bambini che non camminano ma che negli anni creeranno una famiglia. Per essere felice mi auguro di avere una mia casa un mio lavoro una vita tranquilla e lunga e la mia libertà in tutte le situazioni. Lahoussaine A. Considero valore tutte quelle persone che hanno voglia di superarsi. 180 181 Per essere felice mi auguro di avere una famiglia immaginazione buona calligrafia e la mia libertà… Fernando Rodrigo G.R. scarpe bianche gli animali il vento canzoni che fanno pensare giocare a calcio scrivere vedere e ascoltare nuotare sognare conoscere gente nuova. Fernando Rodrigo G.R. Per essere felice mi auguro di avere in casa mia una donna non molto bella e non molto brutta la cosa importante sono il cuore bianco e il cervello pulito. Una donna che sappia ragionare e rispettare le cose che amo e degli amici in tutte le stagioni; senza questo per me non è vita… In sogno Testo liberamente ispirato a Elogio dei sogni di Wisława Szymborska Ashraf K. Piaceri Testo liberamente ispirato a Piaceri di Bertolt Brecht Svegliarmi e vedere la mia famiglia ritrovare vecchie lettere d’amore le mie foto da quando sono nato fino ad oggi la pioggia e l’estate 182 In sogno sono libero parlo tutte le lingue del mondo so volare nel mio universo sono il primo astronauta che ha scoperto un pianeta fantastico nuoto nel mare più grande del mondo senza paura vado in bicicletta nel cielo azzurro, sopra le nuvole, vicino al sole riesco a viaggiare nel futuro e nel passato e a correggere i miei inutili errori sono un grande studioso e scienziato 183 i miei amici preferiti sono angeli la notte vado a dormire sulle nuvole. Lahoussaine A. Ciò che voglio voglio una vita senza problemi normale come le vostre vite. Ciò che ho: ho i miei disastri sto pagando i miei errori. Ciò che non sono, non ho, non voglio, non vorrei - e ciò che vorrei, ciò che ho e ciò che sono Liberamente ispirato al testo omonimo di Peter Handke Ciò che non sono: non sono un tipo fastidioso non mi piace ascoltare chi ripete le stesse cose. Ciò che purtroppo non sono: purtroppo non sono tranquillo purtroppo non sono molto tollerante. Ciò che grazie a Dio non sono: grazie a Dio non sono un “animale”. Ciò che sono: sono intelligente riesco a riflettere. Ciò che in fondo anche sono: in fondo sono sincero. Ciò che qualche volta anche sono, ma poi…: resisto fino a un certo punto, ma poi… qualche volta sono cattivo, ma poi riesco a liberarmi della cattiveria. Ciò che sono: sono confusionario vivace energico! Grazie a Dio sto vivendo. Lahoussaine A. Ciò che in definitiva non sono: non sono una persona paziente non sono una persona senza cervello. Ciò che vorrei: vorrei avere una bella vita vorrei star bene. 184 185 Aniello C. Istituto Penale Minorile di Catanzaro Se fossi… Se fossi fuoco brucerei l’ipocrisia se fossi acqua annegherei l’egoismo se fossi vento travolgerei la maleducazione se fossi re concederei più democrazia. Dividerei… Dividerei il mio sorriso per vederti sorridere, ti accarezzerei il viso per toccare la tua pelle ardente. Se soffrissi per una parola userei la parola ti amo, per farmi dimenticare il male e ricorderei il bello. Da quando sono innamorato di te vorrei essere lo specchio di casa tua per vederti ogni mattina e augurarti il buongiorno. Io vivo… Io vivo solo per te e tu per me, sei l’aria che respiro, sei il sole che sorgerà e tramonterà nel mio cuore, sei un fuoco che nessuno può spegnere, sei una cosa che nessuno può cancellare, e solo con la tua medicina guarirò il mio respiro. 186 187 Giacomo S. Istituto Penale Minorile di Catanzaro perciò ti lascio con una carezza sul viso e con questa mia mano ti dico un ultimo “ti amo”. Amarti Se amarti fosse un peccato io mi vorrei sacrificare. Come questo fiore delicato sei tu il mio ricordo più delicato di un meraviglioso mondo che resterà dentro il mio cuore come quest’uomo innamorato in questo mondo favoloso. Piangono i miei occhi Piangono i miei occhi sulle tue labbra rossastre come la pioggia che si posa su dei pini. Vorrei fuggire da te e dal mondo finché dura questa mia vita e ruggisca in me questo animo guerriero mentre i tuoi occhi bruciano dentro i miei. È per questo che l’amore è impossibile per noi due 188 189 Michele R. Istituto Penale Minorile di Catanzaro Giacomo D.S. Istituto Penale Minorile di Quartucciu (CA) Vorrei… Ora vola… Vorrei diventare un dottore per guarirti, bella, da ogni male. Per medicina ti darei il mio amore e ti ricovererei nel mio cuore, ma medico non sono e non divento e sotto il tuo balcone soffro e piango. Sta fermo passerotto, non andar via qui sei l’unico che può farmi compagnia… Osserva passerotto, quest’uomo abbandonato da molti ma non da tutti dimenticato… ascolta i miei pensieri, dammi consiglio porta via con te ricordi e malinconie… ora vola in alto passerotto, raggiungi quella stella e raccontale di me poi torna qui perché ricorda che devi insegnar a quest’uomo come volar via… Ancora Ancor tu a stuzzicare i miei pensieri… silenziosa li accarezzi con petali di nostalgia… facendoti a testa alta avanti nei miei sogni sopraffatti dall’inconscio di un semplice saluto che tanto sa di addio… 190 191 Nessuna tregua E quella notte oscura che non mi portò consiglio riempì la mia mente di ingenue sofferenze… troppo arduo per me quel momento la mia testa è stata piegata fu rumoroso il mio pianto asciutto e sordo il mio io. 192 Giovanni B. Istituto Penale Minorile di Roma Il pregiudizio L’immagine di una persona ci mostra al primo impatto solo una fotografia… che viene interpretata in modo positivo o negativo? Tutti noi abbiamo uno sguardo diverso verso gli altri e la prima idea che ci viene è quella esteriore, cioè la bellezza, la simpatia, il modo di vestire eccetera. Ma la vera persona non si basa solo su questi aspetti esteriori, perché racchiude dentro di sé prima di tutto la sua esperienza di vita, che spesso la fa sembrare diversa da quella che è. E qui subentra il pregiudizio, che spesso comporta un giudizio sbagliato. Ad esempio, un calciatore di serie A: viene da pensare che sia arrivato facendo tanti sacrifici e allenamenti pesanti, ma siamo sicuri che quel calciatore si sia guadagnato la maglietta con le sue fatiche? O gli è servito solamente un aiuto per raggiungere il suo scopo facendo meno sacrifici? Giudicate voi… Come esperienza personale vi posso dire che mi è successo di incontrare una persona che in un primo momento mi è sembrata dolce, tenera e sincera… ma solo il tempo mi ha dato una mano per capire che nascondeva un’altra faccia. Attenzione, non è che uno deve avere più facce, ma la maggior parte delle persone che sembrano più aperte secondo me sono quelle che non hanno mai avuto un’infanzia difficile, che stanno bene, sia fisicamente che mentalmente, e a cui i genitori non hanno fatto mancare niente. 193 Quelli come loro partono con una marcia in più e con un sorriso sempre stampato in faccia, quello che invece non potrebbe fare un ragazzo come me che ha avuto un’infanzia molto difficile. È per questo che ci ritroviamo sempre sotto l’occhio delle persone che sono pronte a esprimere il loro giudizio. È per questo che dobbiamo rialzarci e provare ad andare avanti con più determinazione e pensare che la vita è una sola e si deve vivere giorno dopo giorno al 100% e imparare a sorridere di più… anche se il passato è difficile da dimenticare. Domenico D.M. Istituto Penale Minorile di Airola (BN) Il cuore infranto La mia anima non si nasconde dietro queste fredde sbarre, ma le attraversa per starti vicino a farti compagnia. Quando un giorno tutto questo sarà finito e non rimarrà che un brutto ricordo, allora sì che io potrò riabbracciarti, coccolarti, e stringerti forte a me. Giorni tutti uguali Un giorno di schifo oggi ho passato. Un altro giorno di schifo domani passerò, qui nulla cambierà. 194 195 Sono solo con il rimorso dell’errore compiuto. Mentre conto le ore che mi scivolano addosso, confuso penso al passato e sto male. Non mi rimane che raccogliere le forze e affrontare la realtà. K.B. Istituto Penale Minorile di Treviso Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto… Vorrei parlare di un argomento che ormai ha riempito la bocca di molte persone; dato che a mio parere abbiamo pari diritti e pari doveri esprimerò il mio pensiero sull’Africa, un pensiero che purtroppo non potrà cambiare niente, ma credo che potrà far riflettere i lettori su una situazione da tutti conosciuta, ma altrettanto trascurata. Cercherò di parlare il meno possibile di multinazionali, globalizzazione e capitalismo anche se è loro la gran parte della responsabilità dei danni che subisce l’Africa (80%). Quello che mi interessa maggiormente è il restante 20% e di questo siamo noi la causa. Per far intendere la gravità della situazione dirò soltanto che ogni secondo muore un bambino per fame, sete o malattie curabili. Donare soldi non aiuta i poveri, dato che i soldi vanno a finire in azioni o fondi di investimento gestiti dalle multinazionali. Quando passiamo al supermercato cerchiamo sempre di comprare beni di prima qualità, e sono proprio questi prodotti che vanno ad alimentare le multinazionali e il mercato capitalista; la globalizzazione fa il resto, cercando di imporsi sui mercati degli Stati con molta pressione. Si può dire che il rispetto dell’ambiente e i diritti umani non siano il principale problema di queste multinazionali. Cosa possiamo fare per fermare questo mondo ingiusto? La cruda realtà è che chi ha soldi mangia e chi non ha soldi niente. Soldi, soldi, soldi… ma chi li ha inventati? Inevi196 197 tabilmente noi uomini, che non sapendo accontentarci di condividere la terra, l’abbiamo dovuta monetizzare e dividere… ma almeno dividiamola bene ed equamente, e invece nemmeno questo è stato fatto! A questo punto non sembra troppo sperare che nessuno muoia di fame, ma proprio adesso sta succedendo esattamente questo a tanti padri, madri e bambini. Io conosco la Coca-Cola, Armani, Adidas e via dicendo, ma una cosa non so proprio cosa voglia dire: la fame. Cos’è la fame, cosa vuol dire rinunciare a un pranzo o a una cena… non credo che in Africa esistano pranzo o cena, non esiste il ritrovarsi tutti insieme a tavola a condividere il pasto; questo è pane quotidiano per noi e malgrado ciò continuiamo a lamentarci se non abbiamo le scarpe firmate oppure il cellulare di ultima generazione. Che futili pensieri ci frullano per la testa, e non siamo nemmeno capaci di comandare questi impulsi! A questo punto anch’io credo sia veramente difficile riuscire a cambiare la situazione, anche se una cosa sono sicuro di poter fare: rispettare. Cos’è il rispetto in questo caso? Credo che non sprecare, accontentarsi e sorridere quando ti guardi in giro e ti accorgi che non ti manca niente sia già un buon inizio per rendersi conto di quanto siamo fortunati. In conclusione cosa dire. Credo che se riempiamo un bicchiere a metà di acqua e lo facciamo vedere a un italiano ci guarderà scettico e senza esitare ci dirà che è mezzo vuoto, se lo facciamo vedere a un africano lo berrà e basta. 198 Roma, 2004: momenti della premiazione con Margaret Mazzantini. Nomi e pseudonimi dei partecipanti La prima edizione del premio, a Porto Azzurro (LI) nel 2002. Abidi Montassar Agrati Giampaolo Alaimo Giuseppe Albanese Antonio Albanese Ilario Salvatore Aletta Emanuele Alfano Paolo Giuseppe Alvaro Antonio Amato Carmelo Amato Tommaso Amico Paolo Anselmi Arturo Antonelli Pietro Ascioti Cosimo Avallone Gennaro Baklouti Mohamed Khalil Balauca Marian Baldan Claudio Balu Joan Banut Mihai Cornel Barbu Dan-Olivier Barile Salvatore Barreca Giuseppe Barreca Santo Barski Michat Belforte Claudio Gabriele Bellina Giuseppe Ben Brik Rachid Ben Tahar Walid Benetti Enrico Bergamaschi Aurelio Bernabei Massimiliano Berto Patrizio Bertuzzi Nicola Bisan Michele Bisceglia Luigi Bisogni Giampiero Bitetti Domenico Bondka Yassine Bonfilio Massimo Bongiorno Calogero Bonomo Giuseppe Bontempo Sebastiano Bostina Florin Lucian Bouayad Abdelmajid Boumliki Abdelhamid Braggio Marco Branda Fortunato Bruzzone Nicola Buono Paolo Butt Umair Ahmad Calderulo Christian Calia Roberto Calonghi Marco Cannavò Roberto Cannizzaro Sebastiano Cannizzo Christian Cantiello Arturo Capizzi Salvatore Caporali Nazzareno Capuano Salvatore Cara Domenico Carbone Rocco Casaburi Raffaele Casadonte Pasquale Caso Antonio Castillo Juaqin Orlando Cataldo Giuseppe Cavallese Davide Cavone Ciro Cecchinelli Luca Celardo Francesco Ceoban Ala Cesi Gennaro Chaibi Moez Chessa Gavino Chiruzzi Pancrazio Cicchella Sergio Cifone Paride Cirella Michele Cirstoin Raul Marian Colurciello Salvatore Commisso Domenico Sandro Concone Lucio Giovanni 201 Condello Bruno Conti Marco Corodda Giovanni Corradini Marco Corsini M. Cosimi B. Costantino Giuseppe Costantino Vincenzo Crisafulli Alessandro Cristarelli Enrico Cristofalo Sandro Croce Raffaele Cuffari Michele Cuffaro Salvatore Cuscusa Raimondo Cutolo Francesco D’Agosta Carmelo D’Agostino Rosario D’Alessandro Vincenzo D’Angelo Vito Dalla Valle Mario Dambage Samantha Danieli Paolo Davydenko Oleh De Cristofaro Alfredo De Feo Carmine De Iorio Maurizio De Lorenzo Cosimo Filippo De Mattia Vito Stefano De Santis Giuseppe De Stefano Carmine Del Vecchio G. Dell’Erba Flavio Dell’Oro Luciano Della Ragione Francesco Denti Luca Denti Saulo Dentice Luigi Di Bella Gaetano Di Bella Gaetano Orazio Di Napoli Daniele Di Paola Marcello Di Peri Perez Paola Salvatriz Di Rosa Ezio Di Silvio Giuseppe Diana Stefano Diouf Omar (alias Sek Mamadou) Dragani Cristiano Dsagie V. Ediae Salomon Elboustani Abdul Elli Maurizio Esposito Carmine Fabricino Pasquale Fagnani Andrea Falorni Enzo Fariselli Matteo Fata Elvis Felle Eupremio Ferraioli Franco Ferrari Pierluigi Festinese Giuseppe Ficarra Francesco Ficini Samuela Fida Gerardo Filoreto Vincenzo Forcina Fabrizio Francavilla Nicola Franciosi Sandro Fraterrigo Salvatore Frontoni Alessio Fruttidoro Massimo Fusano Francesco Gabriele Aral Gaeta Mario Gafon Romeo Gagliardi Angelo Galante Barbara Galloro Giovanni Garaffoni Francesco Antonio Garofaro Gerardo Gasbanno Guglielmo Gauna Lioi Luciano Javier Geremia Gennaro Gerini Emilio Ghammouri Glay Ghiani Mariano Ghilini Doriano Giuseppe Giliberti Ignazio Gioacchino Marino 202 Giorgi Francesco Gissi Pasquale Giudice Giuseppe Giuffré Pietro Gjergji Nikolli Gorelli Matteo Granata Salvatore Greco Enrico Grieco Gerardo Gross Silviu Adrian Guarino Alberto Guarino Giuseppina Gueli Antonio Hadzovic Maicol Hamdi Imad Iavarazzo Giuseppe Ignat Ciprian Imerti Giovanni Impusino Carmelo Interlici Emanuele Isbonachor Ernest Louis Izzo Daniele Khabbachi Khalid Khagi Hamou Krouman Aboubacar Kupi Taulant La Licata Carmelo Lacalamita Roberto Laisa Filippo Langella Luca Lastrico Alessandro Lazri Martin Lazzari Alessandro Ledda Mosè Giuseppe Librato Andrea Licandro Rocco Lilliu Stefano Lin Wei Lo Nigro Cosimo Lombardo Sebastiano Lorusso Giuseppe Maccarrone Francesco Maiga Ahmed Boubacar Maiocchetti Massimiliano Maneschi Clara Mangiameli Sergio Mantovani Vittorio Marelli Giovanni Marenco Luciano Maresca Maurizio Mari Massimo Marigliano Massimo Marini Antonio Maria Marotta Gianfilippo Martello Mario Masalmeh Ahmad Mastroddi Paola Mastroianni Gennaro Mastrolorenzi Andrea Matouf Hicham Maureddu Salvatore Mauti Sergio Mazzolla Manuel Mena Louis Menci Stefano Merlino Antonino Merosi Luana Miccoli Antonio Migliaccio Gianluca Mihairich Youssef Milazzo Sebastiano Milillo Vito Mini Fabio Mnela Vladimir Mollo Federico Molteni Alessandro Morgante Franco Moscaggiura Cosimo Mozzetti Alessandro Muhammad Nadeem Hussain Musumeci Carmelo Nardi Antonio Nasseur Salah Nolfo Saverio Nuti Simona Obaseki Kate Occidente Antonio Ouentani Fethi Pace Domenico Paganetto Damiani Ivano 203 Paggetti Massimiliano Pajaj Kimet Palumbo Mario Pancrazio Maurizio Paolucci Emidio Papalia Antonio Papi Paolo Parente Giuseppe Parisi Roberto Pellegrino Cjnthia Penna Antonino Perrone Massimiliano Perrucci Francesco Persico Alessandro Piccoli Silvio Pignatelli Patrizio Pilato Francesco Piras Franco Pirinelli Antonio Cosimo Pisano Santo Pitasi Carmelo Popovici Paul Constantin Porcedda Eugenio Porcu Domenico Prati Rossano Precisano Michelangelo Pricop Ionut Marius Primo Sebastiano Prinari Giovanni Pullarà Santi Racise Salvatore Rahmani Walid Raiano Rosa Ranieri Fabio Rannesi Girolamo Rao Carlo Rapone Bruno Rexha Mentor Riso Domenico Roasio Fabrizio Rodolao Giuseppe Romera Esposito Angel Rouahi Mourad Ruberto Vincenzo Russo Antonio Russo Gennaro Saba Francesco Saba Luca Saggese Matteo Antonio Saitto Salvatore Salatino Angelo Salvatore Marino Salvatori Simone Salvo Roberts E.Baby René Samperi Paolo Santorsola Salvatore Sayari Kameleddine Schirru Rinaldo Schlemmer Ferdinando Sciabica Daniele Scipilliti Luciano Scolta Walter Scoponi Riccardo Selimi Agim Seppia Riccardo Sereni Valerio Silvestre Antonio Simone Cosimo Sini Aldo Smaniotto Ferruccio Sodani Maurizio Spinolo Pietro Sponsillo Luigi Stepanov George Daniel Susano Villagomez Marco Antonio Tankamash Kerua Tarara Lucian Tarlazzi Riccardo Tartari Paolo Tauro Antonio Tedino Paolo Tentori Riccardo Terreni Tiziana Tonietti Carlo Tonini Mario Toro Andrea Torrisi Salvatore Trifarò Massimo Trolese Susanna Urso Pasqualino 204 Vacca Antonello Valenti Calogero Vanin Sandro Venosa Antonio Vetere Franco Vezzani Stefano Viggiano Giuseppe Villa Ruschelloni Daniele Virgili Alvaro Vizioli Andrea Volpi Alessandro Wael Mohamed Yarbou Kamal Zaghdoudi Imad Zamal Michal Zambrano Paolo Zampollo Marco Zangara Brigida Zarra Donato Zhao Han Zhen Zito Giovanni Zorzi Sandro Zu Chang You Zuin Diego Minori Istituto Penale Minorile di Airola (BN): Domenico D.M. Istituto Penale Minorile di Bari: Mariangela P. Istituto Penale Minorile di Bologna: Lahoussaine A. Fernando Rodrigo G.R. Ashraf K. Istituto Penale Minorile di Catanzaro: Aniello C. Michele R. Giacomo S. Istituto Penale Minorile di Quartucciu (CA): Giacomo D.S. Istituto Penale Minorile di Roma: Giovanni B. Istituto Penale Minorile di Torino: R.M. D.S. S.T. Istituto Penale Minorile di Treviso: K.B. 205 Ringraziamenti Un grazie particolare al Presidente della Repubblica e ai Presidenti del Senato e della Camera per l’apprezzamento dimostrato con la concessione di una Medaglia di rappresentanza. Un grazie a Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero del Salone internazionale del libro di Torino, Carla Sacchi Ferrero dei Presìdi del libro Piemonte, le Sedi locali e il Consiglio Nazionale dell’Università delle Tre Età. Un sentito ringraziamento alla Casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo per aver gentilmente ospitato la cerimonia di premiazione dei vincitori di questa XI edizione del Premio. Porto Azzurro (LI), 2003: momenti della premiazione con Veronica Pivetti. Un ringraziamento anche ai numerosi istituti penitenziari e agli insegnanti che hanno collaborato affinché tanti dei loro reclusi potessero partecipare al concorso ed essere infine presenti alla premiazione. Infine un ringraziamento all’editore Gaspare Bona e a Marta Chiantore e Silvia Ferrero di Blu Edizioni. 207 Indice Il Premio letterario “Emanuele Casalini” Chi era Emanuele Casalini Comitato d’onore Giuria Introduzione del Presidente della Provincia di Livorno Presentazione di Ernesto Ferrero 3 5 6 8 9 11 SEZIONE PROSA Opere premiate Francesco Antonio Garaffoni Il giorno che la Terra prese un altro giro 21 Massimiliano Maiocchetti 600 secondi 29 Santi Pullarà Elia Davì 34 Gavino Chessa A come… attesa B come… Boccaccio C come… cerco casa 45 45 46 Carmelo La Licata Ricordi di Ortigia, l’isola delle quaglie 48 Opere segnalate Emanuele Aletta Catina 59 209 Walid Ben Tahar Binari SEZIONE POESIA 63 Sebastiano Bontempo Na na… Na na… Na na… 68 Stefano Diana Giornata tipo del detenuto medio ad Alghero 73 Opere premiate Vittorio Mantovani Roubaix Piazzale Aquileia La rosa purpurea 119 120 121 124 125 126 Alberto Guarino Il Teatro (l’abbraccio di ferro) 78 Aral Gabriele L’amara roccia di Volterra Fiori di carta Trasparenza Luana Merosi A mia madre 84 Carlo Rao e Christian Calderulo Nel giardino dei matti 128 Antonio Russo Una notte con il ghiro 86 Riccardo Seppia Impressioni sulla vita carceraria Luca Denti Le trenta monete Senza titolo Senza titolo 131 132 132 90 George Daniel Stepanov Pensiero “sbarra-to” 98 Mario Tonini Quello che desidero 103 Massimo Trifarò Una giornata di sole 112 210 Opere segnalate Marian Balauca La battaglia di Rotunda Alla deriva come una nave 137 138 Enrico Benetti Assordanti silenzi Brezza Desiderio Sorrido 140 140 141 141 211 Massimiliano Bernabei Senza titolo 142 Sebastiano Cannizzaro Carzaratu 143 Moez Chaibi Pensieri Breccia La mia dea 145 145 146 Alessandro Crisafulli I II III 147 147 148 Ezio Di Rosa Ape Sogno Giardino 149 150 151 Antonio Gueli La freccia dell’amore Il nulla Cristo 152 152 153 Carmelo Impusino Volo solo Sfumati ricordi Pensieri lontani 154 155 155 Martin Lazri Emozioni Notte Vivo in te 156 157 157 212 Sebastiano Milazzo L’approdo Ombre La replica 159 160 161 Massimiliano Paggetti Il Tempo Illusioni 163 163 Antonino Penna Anche uomini 165 MINORI S.T. Il viaggio (Senegal-Italia) 169 R.M. Una storia nomade 171 D.S. Il viaggio (Tunisi-Lampedusa) 176 Mariangela P. Dolce luna L’amore ha detto sì Catene di angeli in festa 177 178 179 Ashraf K., Fernando Rodrigo G.R., Lahoussaine A. Considero valore Per essere felice Piaceri In sogno Ciò che non sono, non ho, non voglio, non vorrei e ciò che vorrei, ciò che ho e ciò che sono 213 180 181 182 183 184 Aniello C. Se fossi… Io vivo… Dividerei… 186 186 187 Giacomo S. Amarti Piangono i miei occhi 188 188 Michele R. Vorrei… 190 Giacomo D.S. Ora vola… Ancora Nessuna tregua 191 191 192 Giovanni B. Il pregiudizio 193 Domenico D.M. Il cuore infranto Giorni tutti uguali 195 195 K.B. Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto… 197 Nomi e pseudonimi dei partecipanti Ringraziamenti 201 207 Hanno contribuito 214 Provincia di Livorno Comune di Piombino Assessorato alla Cultura Comune di Porto Azzurro Finito di stampare nel mese di novembre 2012 presso Centro Stampa Provincia di Livorno