Il cuore non è una chiatta

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Il cuore non è una chiatta
I muscoli del capitano.
Nove modi di gridare Terra!
© Scuola del libro, 2016
Scuola del libro
via della Polveriera, 14 • 00184 Roma
tel. 06.83548987
[email protected]
www.scuoladellibro.it
I edizione: luglio 2016
Progetto grafico di Claudia Puglisi
La Scuola del libro e gli studenti del master
Il lavoro editoriale 2016 ringraziano gli autori e le riviste
«Colla», «Il Paradiso degli Orchi», «Nazione Indiana»,
«Sundays Storytelling», «’tina»
per la gentile concessione dei racconti.
i muscoli
del
capitano
Nove modi di gridare Terra!
Indice
Avvistamenti
È successo sott’acqua
di Mauro Maraschi
Grande Slam
di Giorgio Specioso
Nel bosco degli Apus apus
di Mariasole Ariot
Interno Sei
di Piera Costantino
La scelta
di Simone Quadri
La casa era vuota
di Lorenzo Iervolino
I feel looooooooove
di Elena Ghiretti
Il cuore non è una chiatta
di Mirfet Piccolo
Il battesimo
di Chiara Zingariello
Avvistamenti
Le navi hanno un loro linguaggio privato, condiviso con chi le abita e chi le avvista. Solo in seguito elargito, ma senza troppa confidenza, a chi le costruisce. O
agli armatori da soggiorno, che le riproducono per infilarle in una bottiglia. È un
linguaggio intimo, di legno e sopravvivenza, pensato per definire nella confusione: le prime vele, tirate sull’asta di prua, si chiamano fiocco, contro fiocco, gran
fiocco e trinchettina; l’albero Maestro ha invece un velaccio, un contro velaccio,
una gabbia volante, una gabbia fissa e una vela Maestra, la più bassa. Ecco, prendete l’immagine di un brigantino e indicate uno, due pezzi a caso: più sembrano
uguali, due vele identiche, più si differenzieranno i loro nomi. Perché diversa è la
loro funzione nel vento della traversata.
È questa la verità su cui fa presa ogni ancora, comprese quelle che svettano
sui muscoli di un capitano: l’unica forza di chi solca i mari consiste nella varietà
delle parole che usa. Nessun oggetto, che sia di plastica o metano, è sprovvisto di
un nome. L’unica cosa che a bordo si indica, e a gran voce, è la terra.
Ogni terra è un avvistamento e una speranza. L’inizio e la fine dello stesso
viaggio. Gridare Terra! significa terminare la traversata e cominciare l’esplorazione. A cui segue spesso una battaglia e, se tutto va bene, un insediamento. Poi
la colonia, il tesoro, le prove tecniche di usurpazione. Lo sappiamo già. Ce lo
hanno insegnato Stevenson e Golding, calcando la mano sul fatto che ogni avvistamento costa fatica e interminabili navigazioni, a cui seguono altra fatica e
qualche tragedia formativa. Una buona sintesi della pesca editoriale. Di quando,
cioè, ci si imbatte (non proprio casualmente) nella storia e nello stile di qualcuno, e quella storia e quello stile ti fioriscono dentro. Basta essere mohicani
solitari, con ancora un’idea di letteratura.
Questa raccolta è un’antologia di avvistamenti. Per i lettori è un consiglio, un
faro puntato sulla narrativa italiana di oggi, piantato tra le riviste e la rete. Per
noi che l’abbiamo curata, è quel tratto di mare che separa la nave attraccata dalla
terra raggiunta. La fine di un viaggio e l’inizio di un altro. Ci abbiamo lavorato in
dodici più due: gli studenti del master Il lavoro editoriale 2016 della Scuola del
libro insieme a Marco Di Marco e Federica Antonacci, ammiragli.
I nostri capitani, invece, sono nove, tanti quanti i modi di gridare Terra! Si
tuffano per davvero, come in È successo sott’acqua di Mauro Maraschi o Battesimo di Chiara Zingariello. E ne escono, se ne escono, mutati. A volte costringono
il lettore a un’immersione, come Nel bosco degli Apus Apus di Mariasole Ariot.
Altre volte, richiedono un salvataggio: Giampaolo, protagonista di La casa era
vuota, di Lorenzo Iervolino, e Greta in Interno sei, di Piera Costantino. Gli ultimi sono capitani sventurati, costretti a scelte ardimentose, che evitano, o forse
puntano, gli iceberg degli affetti: Grande Slam, di Giorgio Specioso, La scelta,
di Simone Quadri, I feel looooooooove, di Elena Ghiretti, e Il cuore non è una
chiatta, di Mirfet Piccolo. Il nostro mare, invece, sono state le realtà culturali
che si accostano, in rete, alle più classiche riviste: Colla, Nazione Indiana, ‘tina,
Il Paradiso degli Orchi, Sundays Storytelling.
Le abbiamo navigate con passione, avvistando spesso e attraccando raramente. Dando nomi alle molte vele e a qualche albero di troppo, su un’imbarcazione
costruita in fretta, ma già degna di quei venti che non entrano nelle bottiglie.
E consapevoli che le terre, pure impossibili da conquistare, vanno avvistate e
festeggiate. Tutte.
È successo sott’acqua
di Mauro Maraschi
Se tutto andrà come deve andare, tra una quarantina di minuti il padre della mia
futura ex moglie si sposerà sott’acqua.
Prima di trovarmi a venti metri di profondità, con tre tonnellate di acqua
sulla testa, non avevo mai riflettuto sul fatto che il rubinetto dell’ossigeno si trova
all’apice della bombola, e quindi alle spalle dei sub, e quindi adesso alle mie spalle. Se qualcuno decidesse di venirmi dietro e di chiuderlo, considerati i legacci
del gav e la mia lentezza, non farei mai in tempo a riaprirlo.
Hannah è più veloce di me in tutto, e i suoi piatti sono più buoni, e da piccola, ai tempi del Cheltenham Ladies’ College, è stata campionessa di snowboard,
scherma e squash, e a squash ovviamente mi batte a occhi chiusi. Ma queste sono
le piccole cose. Suona il fagotto, Hannah, in una band folk-progressive che fa
ballare il pubblico come ai concerti di Bregovic, mentre io strimpello la chitarra solo quando nessuno può sentirmi. E, pur essendo medico da poco, Hannah
guadagna già 2.250 pound al mese. È sempre stata meglio di me, Hannah, in
tutto, tranne che a compensare.
La compensazione è una tecnica necessaria, in condizioni di forte pressione
esterna, a salvaguardare l’integrità dell’orecchio medio, perché se trachea, laringe e seni paranasali si adattano spontaneamente all’aria ricevuta dai polmoni,
l’orecchio medio, per via della struttura ossea, è invece soggetto al rischio di implodere. Sott’acqua le tecniche di compensazione sono tre, la Marcante-Odaglia,
la Valsalva e Toynbee, ma Hannah non sa usare nessuna di queste.
È stato Theodore a imporci un corso intensivo di Scuba Diving. Lui ama immergersi, lo fa da anni, e voleva che per il suo matrimonio fossimo tutti in grado
di farlo, perché voleva sposarsi sott’acqua, Theodore. L’immersione, d’altronde,
non è una cosa difficile, non richiede nessuna abilità, anzi, non ti è nemmeno
richiesto di saper nuotare. Anche per questo Hannah, campionessa di nuoto
ai tempi del Cheltenham Ladies’ College, non ne era affascinata. Accontentare
Theodore, però, poteva essere la nostra ultima chance e così un mese dopo eravamo sul fondo di una piscina comunale a fare pratica.
Tra teoria e pratica, però, ne corre. È la terza volta che Hannah si ferma a
quattro metri e preme il naso con indice e pollice, gonfiando le guance e aggrottando la fronte, e mantiene la calma, benché sia evidente che soffra, perché
la pressione è un punteruolo nel cervello e non è tanto un dolore acuto quanto
spaventoso, per via di ciò che minaccia: l’implosione del timpano. Eppure Hannah digrigna, e mi fa segno di rimanere dove sono, quattro metri più giù, perché
starà lì finché non avrà compensato, perché una come lei non si fa sconfiggere
nemmeno dal mare.
Theodore è davanti a me con la futura moglie, alla quale mostra delle attinie,
puntandole con l’indice, una, due, tre volte, perché non c’è molto altro che si possa fare sott’acqua: si può avanzare con una leggera flessione delle pinne, e puntare qualcosa col dito, una, due, tre volte, ma niente più, perché non è considerato
etico interagire con il fondale, né è consigliata un’eccessiva attività motoria, che
serve solo a consumare l’ossigeno e ad aumentare il rischio di barotraumi.
Gettata un’occhiata ad Hannah, Theodore torna a puntare le attinie, irritato
che sua figlia non sia lì con loro e che stia fallendo nella compensazione, una cosa
che sono riuscito a fare persino io.
Theodore è un collerico. L’ho visto schiantare una caffettiera bollente contro la lavastoviglie solo perché il caffè non usciva, e perché a caricarla era stata
Hannah, rovinandogli così il piacere di un vero caffè italiano, a lui che è inglese ma che ha una vera caffettiera italiana, un vero forno da raclette, un intero
jamón serrano e così via. Fino a quindici anni fa Theodore picchiava la prima
moglie, con i pretesti più stupidi, e non di rado picchiava anche Hannah e suo
fratello Oliver, finché una notte il piccolo Oliver non l’ha minacciato con un vero
pugnale da immersione, e allora la madre di Hannah ha chiesto il divorzio. Ma
Theodore non ha imparato la lezione, e dopo quel divorzio ne ha avuto un altro,
e per gli stessi motivi, e il fatto che sott’acqua siamo tutti più lenti, adesso, non so
se mi rasserena o mi angoscia.
Se non fossimo sott’acqua direi che Hannah sta piangendo. Sono cinque minuti che preme il naso, che gonfia le guance, che mi fa segno di rimanere dove
sono, ma la sua calma ostentata è diventata una smorfia. Sembra un tonno morente.
Ci siamo conosciuti qui a Ustica, Hannah e io, quattro estati fa, e già a gennaio io avevo lasciato il lavoro, un posto da 1.150 euro come video-editor per una
tv satellitare che programmava soltanto film erotici: mi pagavano 1.150 euro per
montare donne nude e io sono volato a Brighton dove, diceva Hannah, serviva
un videomaker per l’etichetta discografica della sua band, ed è andata anche
bene finché la sua band non è diventata famosa, ed è stata comprata da un’etichetta più grossa, che aveva già i suoi videomaker, e io sono rimasto a terra. Nel
frattempo, però, ci eravamo sposati e io, pur di non riprendere l’aereo, ho lavorato in diversi pub, fatto il giardiniere e persino gestito un corner shop, ma più
Hannah si avvicinava alla carriera e più la sua stima nei miei confronti colava a
picco, finché non le hanno trovato una papillomatosi sotto la lingua, segno inequivocabile di un pompino praticato altrove.
Quando Theodore ci ha chiesto di organizzare per il suo terzo matrimonio
«qualcosa di eccentrico in un luogo esotico», ovvero una cerimonia sott’acqua,
nella quale il bacio degli sposi sarebbe stato lo scontro tra due respiratori e il riso
una manciata di sabbia, non aveva idea, Theodore, che Hannah e io stessimo per
divorziare. Se glielo avessimo detto avrebbe spaccato tutto, perché per quanto
gli facessimo schifo come coppia gli serviva qualcuno che parlasse italiano e che
chiedesse i permessi al comune di Ustica: abbiamo preferito fingere armonia, in
questa vacanza fasulla, che affrontare la sua ira.
Oggi è il terzo giorno, l’ultimo, e questa terza immersione si dovrebbe concludere con la cerimonia, nella stessa pianura a otto metri di profondità dove
abbiamo imparato l’assetto neutrale, ovvero il controllo totale dei polmoni. Ma
proprio perché è il terzo giorno, e l’ultimo, e poiché da quest’immersione dipende l’esito della cerimonia, lo spettro della collera di Theodore rende tutto più
difficile, e Hannah, in preda all’ansia da prestazione, non riesce a compensare.
L’immersione non è uno sport, ma un passatempo passivo, basato unicamente sulla disciplina. È per questo che Theodore ci va matto, perché ama la disciplina, lui, chirurgo nell’esercito, stimato e infallibile nonostante una presunta sindrome di Asperger. Tutto ciò che devi fare, per fare immersione, è eseguire alla
lettera la sequenza di montaggio dell’equipaggiamento: verificare il respiratore,
ancorare la bombola al gav, chiudere le fibbie, indossare le zavorre e così via.
Sbaglia un passaggio e rischi un barotrauma. Ma anche lì, ci sono cento imprevisti da considerare: può finirti l’ossigeno per una perdita, può scapparti di bocca
il respiratore, puoi rimanere impigliato nelle alghe o qualcuno può chiuderti la
bombola alle spalle.
Theodore non approvava la nostra relazione. E quando scherzammo sul fatto
di dargli dei nipoti si lasciò scappare un for fuck’s sake e ci suggerì di pensarci su,
prima di fare cazzate. Trovava inconcepibile che sua figlia, futuro medico come
lui, potesse sposare un videomaker. In parte, il nostro matrimonio è stato più
una ripicca che una decisione. A danno fatto, Theodore si dimostrò inizialmente
conciliante, ma in seguito non ha mai sprecato occasione di sottolineare il mio
ruolo debole all’interno della coppia. Non credo che mi odi, ma non escludo
nemmeno che potrebbe venirmi alle spalle, chiudermi la bombola e archiviarmi
come un brutto ricordo.
Il fatto che non abbia aiutato Hannah può averlo insospettito. Sarei dovuto scattare e invece sono rimasto lì, quattro metri più giù, così come lei mi ha
chiesto, contrariamente a ciò che un marito dovrebbe fare, ovvero contraddire
sua moglie a fin di bene, stando almeno ai parametri di Theodore. Così, quando
Hannah finalmente ci raggiunge, stremata, la prendo per mano e l’accompagno
a rasentare il fondale, puntando le attinie con il dito, una, due, tre volte, e cercando uno sguardo di approvazione di Theodore che, per la prima volta in quattro anni, inaspettatamente, arriva: negli abissi del suo cuore, Theodore deve pur
essersi affezionato a me, come a una cisti che non si può asportare.
I lavoretti da giardiniere me li trovava lui. Ho cominciato con il suo front garden, dove ho potato i boccioli di una Maguey Pajarito, che come tutte le monocarpiche fiorisce una sola volta nel suo percorso vitale e la cui fioritura Theodore
attendeva da cinque anni. Eppure, anche quella volta, Theodore ha digrignato
un for fuck’s sake e ha mantenuto la calma, e nonostante tutto mi ha raccomandato ai suoi amici chirurghi.
Ieri Theodore mi ha incaricato di scegliere un ristorante per l’ultima cena
prima della cerimonia. Hannah e io li abbiamo girati tutti in scooter, finché non
ne abbiamo trovato uno di lusso, sulla scogliera, che ci è sembrato perfetto, e
ci siamo fatti assicurare il migliore dei trattamenti, e io mi sono fatto scappare,
in italiano, davanti alla proprietaria, che per far felice Theodore non dovevamo
«badare a spese». Risultato: il conto è stato di 529 euro. Abbiamo ordinato quattro antipasti e ne hanno portati venti, abbiamo ordinato una minestra all’astice
e ci hanno portato un’aragosta a testa, abbiamo ordinato del cous cous ed era
accompagnato da un trancio di balena. 529 euro: una follia. Eppure, anche ieri,
Theodore ha digrignato un for fuck’s sake, ha sorriso e mi ha dato una pacca sulla
spalla.
L’ultimo quarto d’ora è filato liscio. Theodore ha persino scattato delle foto,
sembra entusiasta, e manca poco all’appuntamento nella pianura con l’istruttore
e l’officiante. Preso dalla spavalderia, con l’intento di rendere Theodore ancora
più orgoglioso, prendo le mani di Hannah e la induco a simulare, in questa sospensione, alcuni passi di rock’n’roll imparati insieme al Mo’Jive. Hannah mi
guarda terrorizzata, eppure mi asseconda, e fa uno o due movimenti, ma effettuata la giravolta si sente male, e ricomincia a compensare, con un’espressione
dolorante. Theodore ci fissa ministeriale, ma poi Hannah, pallidissima, si riprende, mi fa cenno di non farlo mai più e ci invita a seguirla verso la pianura. Ci
avviamo, senza più guardarci l’un l’altro.
Sott’acqua siamo tutti pallidi e gonfi come cadaveri, lenti e vulnerabili. Se
Theodore mi raggiungesse alle spalle so che, almeno qui, avrei qualche possibilità di contrastarlo, così come, se volessi, riuscirei a chiudere la bombola di Hannah: mi chiedo quanto tempo avrei, chiusa la bombola di uno, per raggiungere
l’altro prima che se ne accorga, e mi chiedo quale delle due chiuderei prima, e
mi chiedo se riuscirei, in questo silenzio eterno, indifferente, a fare un lavoro
pulito, lento ma pulito, e se, una volta fuori dall’acqua, potrei riprendere la mia
vita di quattro anni fa, a montare donne nude per 1.150 euro al mese, tornando
a parlare la mia lingua, senza i continui giudizi sardonici di un chirurgo con la
sindrome di Asperger o le stupide ripicche di una moglie bovina che succhia
cazzi infetti a destra e a manca.
Fare immersione è una cosa stupida, un’illusione di onnipotenza, perché è
innaturale per un essere umano sopravvivere così a lungo a venti metri di pro-
fondità, dove non gli è concesso di far nulla, se non di stare a braccia conserte
o di puntare un’attinia con un dito, così com’è innaturale per un essere umano
volare, a 800 chilometri orari e 10.000 chilometri di quota, su camion alato
di 25 tonnellate, e così com’è innaturale per un essere umano mangiare carne,
per via dell’intestino troppo lungo e dei denti troppo fragili, che lo costringono, a differenza di ogni carnivoro naturale, a cuocere la carne pur di renderla
digeribile. Dalla notte dei tempi l’uomo ha invidiato le altre bestie e ha fatto di
tutto per imitarle, imparando a nuotare tramite tecniche e protesi respiratorie,
e imparando a volare tramite protesi alari e poi mezzi volanti, e imparando a
mangiare la carne tramite la cottura della carne, altrimenti per lui indigeribile.
Ma il matrimonio, mi chiedo, da quale bestia l’abbiamo copiato?
Assorto, mi sono staccato dal gruppo. Loro devono aver raggiunto la pianura,
io sono ancora a venti metri di profondità, solo, con 3 tonnellate di acqua sulla
schiena, radente una verde collina sottomarina – le braccia conserte, le gambe
trafitte da correnti gelide: sotto di me il buio, un baratro nero che inghiotte la
verde collina sottomarina e le attinie e i coralli e i banchi di orate e le infinite
altre cose del mare.
Sgancio la cintura con le zavorre e le osservo affondare nel nulla, ma non salgo di un centimetro. Ho perso tutti: Hannah, Theodore e la sua futura moglie,
la mia vita a Brighton e il lavoro – sono leggerissimo, ma non salgo di un centimetro. L’abbandono della zavorra è l’ultimo dei modi per alleggerirsi, ma non
ricordo più le procedure, ho perso il comando del gav, mi sento anestetizzato.
Forse è così un barotrauma.
Poi, laddove la verde collina sottomarina emerge dal gorgo nero, striata di
bianco dal sole, compare un’ombra, e non è la mia, ma è un’ombra alle mie spalle, piuttosto larga, sempre più scura, e con le ultime energie riesco a voltarmi
e vedo Theodore, che allunga una mano verso la mia bombola, all’apice, e ne
afferra il rubinetto.
Il for fuck’s sake dell’indomani, in rianimazione, sarà l’ultimo che gli sentirò
digrignare.
(Il racconto è tratto da Colla, n° 16, aprile 2014)
Grande Slam
di Giorgio Specioso
1
Quando arrivò la telefonata ero a Flushing Meadows, New York, per assistere
all’ultimo torneo slam della stagione tennistica. Non mi chiamava mai nessuno.
Risposi presagendo una cattiva notizia. Non sbagliavo, mio padre era morto e il
suo factotum mi chiese di rientrare con il primo aereo.
Uscii dallo stadio del tennis e mi incamminai verso l’albergo. I boati degli
spettatori mi seguirono senza scemare finché non telefonai a mia madre: quando parlava lei tutti si zittivano, perfino a New York.
«Pronto?», rispose lei.
«Sono io».
«Dove sei?»
«New York».
«Quando parti?»
«Subito».
«Ti aspetto».
«Come è morto?», mi affrettai a domandare prima che lei interrompesse la
telefonata.
«Il factotum non te l’ha detto?»
«No».
«Infarto».
«Mi dispiace tanto».
«Anche a me».
«…»
«Senti, sto cercando di organizzare il funerale e non ho tempo di stare al telefono. Sbrigati a tornare», disse mia madre, che poi chiuse.
Feci un respiro profondo. Erano dieci anni che, con la scusa della passione
per il tennis, fuggivo dalla mia famiglia. Ma adesso mio padre era morto e tutto
sarebbe cambiato.
Fermai un taxi e diedi al guidatore l’indirizzo dell’albergo dove alloggiavo. Il
tassista partì di corsa.
Cercai il suo sguardo nello specchietto retrovisore. «Rallenti».
L’uomo sorrise. «Stia tranquillo, sono il miglior tassista di New York».
«Stronzate».
Il tassista cambiò espressione e decelerò.
Ero un uomo mite e i modi aggressivi nei quali ero scaduto mi sorpresero. Mi
scusai. Per il resto del viaggio, come sempre più spesso mi accadeva, non pensai
a nulla.
«Devo partire prima del previsto», dissi al concierge dell’Helmsley Park Hotel.
L’uomo annuì in modo grave, come se avesse intuito il mio lutto, forse avevo
un’espressione funerea che diceva tutto.
«Potrebbe prenotarmi il volo?», domandai.
«Sì, signore».
Gli ricordai la mia destinazione.
«Posso fare altro?»
Feci segno di no con la testa e mi avviai all’ascensore. Mentre aspettavo, vidi
Kimberly venirmi incontro. L’avevo conosciuta qualche giorno prima nella palestra dell’albergo, dove io ero andato a fare gli esercizi e lei a passare lo straccio.
L’incontro mi aveva turbato: Kimberly era stata la prima donna a rivolgermi un
sorriso dopo molto tempo.
Dondolò la coda di cavallo e sorrise, poi notò la mia espressione corrucciata
e me ne chiese la ragione.
«Mio padre è morto. Torno a casa», spiegai.
Kimberly aprì la bocca ma non disse nulla.
Le porte dell’ascensore si aprirono. «A presto», dissi, anche se sapevo che non
l’avrei più rivista.
Lei mi trattenne per un braccio. «Ti aiuto con le valigie».
Cercai nella sua espressione un segno rivelatore. Chi era Kimberly in quella
circostanza? Un’inserviente che mi stava offrendo il suo aiuto oppure una donna
che mi proponeva la sua compagnia? Nei giorni precedenti avevo molto fantasticato sul suo corpo, ma adesso l’idea di poterla avere fisicamente nella mia stanza
mi paralizzò. Balbettai una frase senza senso e mi affrettai a entrare in ascensore.
Kimberly scomparve di là delle porte. Mi sentii l’adolescente patetico e codardo
che continuavo a impersonare nonostante il trascorrere degli anni. L’ascensore
arrivò al piano. In camera mi masturbai sotto la doccia pensando a Kimberly.
Dopo mi asciugai e mi guardai allo specchio. Ultimamente ero molto dimagrito
e avevo preso un brutto colore. Andava sempre peggiorando. Continuai a osservarmi finché non squillò il telefono sul comodino.
«Pronto?»
Era il concierge. Mi dettò il numero del volo e l’orario del check-in. Presi la
valigia – una vecchia sacca Sergio Tacchini che da ragazzo usavo per le racchette
– e la riempii con i pochi indumenti che mi ero portato a New York.
Mi sdraiai sul divano. Lo scorrere del tempo rallentò. Quando fu il momento,
per vincere il torpore non restò che lasciarmi cadere sul pavimento.
Scesi nella hall e il concierge mi chiamò un taxi. Era la prima volta che ripartivo così presto. A Flushing Meadows i tennisti erano soltanto agli ottavi di
finale. Dopo molti anni non avrei completato il Grande Slam dello spettatore:
incolonnare Australia Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open.
Dopo l’atterraggio, accesi il telefono. C’era un sms di mia madre: il funerale è domani alle dieci. ti ho fatto preparare la tua vecchia camera.
chiamami quando atterri.
Sfilai affianco alla colonna di taxi in attesa di clienti fino a raggiungerne la
testa. Entrai nel taxi a capo della fila.
Il tassista mi guardò nello specchietto retrovisore. «Dove va?»
Gli diedi l’indirizzo della casa dove ero cresciuto e lui partì. Il taxi lasciò la
cinta dell’aeroporto e si immise nella superstrada.
«Si fermi», dissi dopo qualche chilometro.
Il tassista accostò sulla corsia di emergenza. «Che succede?», chiese con tono
pacato.
«Scendo qui».
Lui si voltò. «Non può scendere qui».
Il tassametro era fermo a otto euro. Diedi una banconota da dieci al tassista,
che la prese controvoglia. Aveva l’espressione accigliata. «Sono cinquanta».
«Perché?»
«Perché mi ha chiesto una corsa da cinquanta e adesso non è che ci può ripensare».
«…»
«Per otto euro non la facevo neppure salire».
In contanti mi era rimasta soltanto una banconota da venti. Gliela porsi.
«Non ho altri soldi».
Mi strappò la banconota di mano. «Vaffanculo», disse sottovoce, ma in modo
che lo potessi sentire.
Scesi e camminai fino a ritrovarmi in aperta campagna. Lo psicoterapeuta che
mi seguiva via Skype in giro per il mondo mi aveva definito un perfetto modello
di escapista: fuggivo dalla realtà come se questa mi desse la caccia. E adesso, nel
nulla della campagna, mi lasciai andare a fantasie così infantili da convincermi
che non fossi un semplice escapista, ma il più grande di tutti, il più grande di
sempre, l’Harry Houdini dei vincoli mentali: l’erbaccia si trasformò in erba ben
tosata e il rombo degli aerei si convertì nel boato della folla. Ero a Church Road,
nello stadio del tennis di Wimbledon, il mio favorito.
Quando iniziò a imbrunire, la luce dei riflettori a bordo campo si trasformò in
quella di un centro abitato, dove mi diressi in cerca di un posto per trascorrere
la notte.
2
Il Bed&Breakfast era una villetta con tre stanze destinate agli ospiti, tutte libere.
Era gestito da una coppia di ministeriali in pensione. Prima di invitarmi a entrare mi avevano osservato con curiosità, forse per via del mio aspetto dimesso. Poi
mi avevano fatto scegliere la camera e insistito perché cenassi con loro.
Mangiai poco nonostante i manicaretti preparati dalla padrona di casa.
«È qui per lavoro?», domandò lei per fare conversazione.
«Sì», dissi senza pensarci.
«Si tratterà a lungo?»
«Dipende».
«Da che cosa?», domandò il marito.
«Sono un tennista semi-professionista», mentii. «Partecipo a un torneo qui
vicino. Se perdo subito vado via, se passo il turno resto».
La donna ne sembrò ammirata. «È un torneo importante?»
«No, è soltanto un torneo minore».
«Scommetto che vincerà lei».
Dopo cena i padroni di casa andarono a dormire. Io invece mi trattenni in
soggiorno. Guardai un vecchio film di fantascienza finché il caldo non si fece
opprimente e l’aria irrespirabile. Accesi le luci del giardino e uscii per prendere
un po’ di fresco. Mi sedetti sulla panchina vicino alla porta d’ingresso. Trascorsi
il tempo guardando gli aerei che sorvolavano casa. Ne contai a decine.
Quando suonai il campanello, una finestra al primo piano si illuminò e dopo
un minuto o due il padrone di casa venne ad aprire in vestaglia.
«Mi dispiace di averla svegliata. Mi sono chiuso fuori».
«Domani mi ricordi di darle le chiavi di riserva».
Annuii.
«Meglio entrare. Qui fuori è umido».
In cucina, l’uomo mise sul fuoco un pentolino con il latte. «Ci aiuterà a riprendere sonno». Quando il latte si fu scaldato, l’uomo lo versò in due bicchieri
e me ne passò uno.
«Come vanno gli affari?», domandai per rompere il silenzio.
«Abbiamo aperto da poco. Siamo soltanto all’inizio».
«Da quanto siete aperti?»
L’uomo sorrise. «Da due mesi e lei è il nostro primo cliente. Finalmente ci
siamo sbloccati». Sembrava contento. Gli chiesi come fosse nata l’idea di aprire
un Bed&Breakfast e lui me lo disse: dopo che il Ministero li aveva mandati in
pensione, sua moglie aveva deciso di dedicarsi al vecchio desiderio di avviare un
B&B, e lui aveva acconsentito per tenere lontana la vecchiaia.
Terminato il racconto, l’uomo mi mise una mano sulla spalla. «È tardi. Se
domani vuole vincere meglio che vada a riposare».
Mi ero dimenticato della frottola sul tennis di cui mi ero vantato a cena:
erano quindici anni che non giocavo. Finii di bere il latte e salii in camera. Mi
addormentai presto. Sognai mio padre, la sua enorme stanza d’ufficio, la sua
pesante scrivania in legno massello, e la sua vecchia poltrona di pelle consunta
sulla quale, dopo tanti anni di lavoro, vi era rimasto impresso il calco profondo
del suo corpo.
La mattina dopo, mi svegliai senza sapere dove mi trovassi: New York, Melbourne, Londra, Parigi. La sensazione di disorientamento durò poco. Controllai
il telefono. Vi erano registrate quarantadue chiamate senza risposta: mia madre
e il factotum mi stavano cercando. C’erano anche parecchi sms, tutti di mia madre, tutti uguali: dove sei finito?
Dopo la doccia andai in cucina. Dal frigorifero presi la bottiglia di tè freddo e
me ne versai un bicchiere. Bevevo appoggiato al lavello quando entrò la padrona
di casa. «Buongiorno caro», disse lei in modo affettuoso.
«Salve».
«Ha dormito bene?»
«Sì», dissi, anche se non era vero.
La donna sorrise e scostò una sedia dal tavolo. «Non stia in piedi, si accomodi».
Annuii e feci come disse.
Lei additò con finta severità il bicchiere di tè. «Non mangia nulla?»
«La mattina non ho appetito».
La donna scosse la testa. «Lei è troppo magro», disse e apparecchiò la tavola
con una tovaglia rosa sulla quale dispose una confezione di fette biscottate, un
vasetto di marmellata e una crostata fatta in casa.
Per farle piacere, sbocconcellai qualcosa. La donna apprezzò e mi sorrise.
«Mio marito e io siamo contenti di poterci occupare di lei», disse con una nota
di tenerezza nella voce. «Spero che oggi vinca e che possa restare».
«Lo spero anch’io», dissi; restare mi sarebbe piaciuto, ma mia madre mi stava aspettando.
Lei notò il mio sconforto. «Qualcosa la preoccupa?»
«…»
«Me ne vuole parlare?»
Mi venne in mente che c’era qualcuno con cui parlarne. Salutai la padrona di
casa e uscii: andavo da mio padre. Adesso che era morto, parlargli sarebbe stato
più semplice. Se vi fossi riuscito, allora, forse, avrei anche trovato la forza di tradire le previsioni sul mio futuro e il loro guardiano: mia madre.
3
Presi un taxi e quando arrivai al cimitero non c’era più nessuno, neppure mia
madre. Mi sedetti a gambe incrociate di fronte alla tomba di mio padre. Sulla
lapide c’era una fotografia in cui era più bello di quanto ricordassi. Ero triste,
ma presente a me stesso: il prato del cimitero non si sarebbe trasformato in un
campo da tennis in erba. Arrivò qualcuno. Mi voltai. Era il guardiano. «Fra dieci
minuti chiudo il cancello», disse con tono di voce piatto.
Io annuii e l’uomo andò via.
Mi trattenni ancora per molte ore. Quando iniziò a imbrunire, i contorni della fotografia di mio padre si sfocarono. Io non potevo vedere lui e lui non poteva
vedere me. Così era più facile. Trovai il coraggio e gli dissi che per sostituirlo non
ero pronto e che mai lo sarei stato. Gli dissi che non ero come lui e meno ancora
come il nonno, che si era fatto da solo. Gli dissi che a nulla erano servite tutte le
ore di psicoterapia che mi avevano pagato perché non si può costruire un leader
partendo da zero. Gli dissi che se l’azienda la prendevo io sarebbe fallita presto.
Trovai il cancello chiuso. Allungai un braccio tra le sbarre e suonai il campanello, ma il custode non venne ad aprire. Mi arrampicai e scavalcai. Dall’altra
parte accesi il telefono, che scaricò decine di messaggi. Non avevo bisogno di leggerli per sapere che erano di mia madre. Digitai una risposta e spinsi il tasto Invio. Le avevo scritto: ho parlato con papà. gli ho detto che rinuncio e lui
non si è opposto. trova qualcun altro. per vederci meglio aspettare.
Suonai il citofono. La porta del Bed&Breakfast si aprì e la luce accesa nell’ingresso incorniciò la figura della padrona di casa. Fra noi correva il vialetto del
giardino. «È proprio lei?» domandò la donna.
«Sì», risposi.
La donna si voltò verso l’interno della villetta: «Caro! È tornato!», esclamò,
poi venne ad aprire e mi strinse forte. «Allora ha vinto!», esultò nonostante indossassi i jeans e non avessi con me la racchetta.
«Sì, ho vinto», dissi, e non mi sembrò di aver mentito. «Posso restare ancora
un po’».
«Ha già cenato?»
«No».
In cucina, il marito si alzò in piedi e mi salutò con una vigorosa stretta di
mano.
Mi sedetti a tavola.
La padrona di casa riscaldò un’abbondante porzione di polpette e verdure.
Mangiai con foga e la donna mi guardò con orgoglio.
«È rincasato tardi, ci ha fatto stare in pensiero», disse il padrone di casa.
Presi il tovagliolo che avevo sulle gambe e mi pulii le labbra. «Mi dispiace».
«Abbiamo pensato che avesse perso e fosse andato via».
«Mi dispiace», ripetei.
«Non si dispiaccia», disse la donna. «Deve essere stata una partita molto
combattuta».
Annuii. «È stata una lunga battaglia».
«Ma una partita di tennis non può durare tutto il giorno», disse il padrone
di casa.
Per un istante, vidi sul punto di rompersi l’architettura di illusioni che aveva-
mo costruito.
La padrona di casa rivolse al marito uno sguardo severo. «Ma tu che ne capisci di tennis?»
L’uomo tacque.
«E poi l’importante è che adesso lei sia qui», disse la donna guardando me
e poi di nuovo il marito, che prima si abbandonò a un sorriso e poi riempì i bicchieri per brindare al mio ritorno.
Due settimane dopo ero ancora molto magro, ma non più così tanto. Il merito era della padrona di casa e della sua cucina. Con il marito, invece, facevo
lunghe camminate durante le quali ci scambiavamo soltanto qualche parola, ma
a entrambi andava bene così. Una di queste passeggiate ci portò in un centro
commerciale non lontano dall’aeroporto, dove, in un negozio di abbigliamento
sportivo, l’uomo insistette per regalarmi l’attrezzatura necessaria per riprendere
a giocare. Poi, un pomeriggio meno afoso del solito in cui l’aria tremolava soltanto un po’, chiamai un taxi e mi feci accompagnare al circolo sportivo più vicino.
I campi in terra rossa, disposti l’uno accanto all’altro e violentemente battuti dal
sole, formavano una distesa arida. Pagai l’affitto di un campo sul quale la chioma
verde brillante di un albero allungava parte della sua ombra. Feci qualche esercizio di stretching e mi posizionai sulla linea di fondo. Impugnai la racchetta,
lanciai la palla in aria e colpii forte. L’impatto generò un’eco che sembrò senza
fine. Misi a segno un ace. Dall’altra parte della rete non c’era nessuno.
(Il racconto è tratto da ’tina, n° 29, 2 marzo 2015)
Nel bosco degli Apus apus
di Mariasole Ariot
Apus apus: «Una sua peculiarità è quella di avere il femore direttamente collegato alla zampa, tanto che il nome scientifico deriva dalla locuzione greca “senza
piedi”. Questa sua caratteristica fa sì che non tocchi mai il suolo in tutta la sua
vita; infatti se disgraziatamente si posasse a terra, la ridotta funzionalità delle
zampe non gli consentirebbe di riprendere il volo». Quindi dorme in volo.
*
Il corpo urta sugli spigoli non per eccesso di ossa ma per un compendio di nien-
te. Mi accorgo della grande solitudine del cielo, di questo filo tirato tra un muro
e l’altro per appendere gli impiccati.
Ce ne stiamo lì a guardare, ogni mattina, come fossimo un pubblico in fila al
concerto, o alle poste, ci spintoniamo per guardare il massacro.
Io vivo, lui non vive, io non vivo. Lui si ritrae nella cantina. Io mi affaccio. Lui
vede il bulbo, io vedo il fiore. Lui mi pettina i capelli con il rastrello, io preparo
la camomilla.
Quanto manca al primordiale? Amare ha un nome proprio. Io ho perduto il
mio.
*
Ne avevo comprato uno nella casa bianca del colle. Le ragazzine mi seguivano
portandomi le caramelle che evitavano di mangiare, un po’ di fondo di zucchero
del caffè finto, mi portavano i loro dipinti, dicevo sì e no con la testa, questo funziona, questo non funziona, ancora un po’ di rosso, aggiungi un dettaglio.
Dei miei quadri, l’inserviente ricordava l’occhio: e diceva: l’occhio è la tua
firma.
Ancora non avevo abbastanza sguardi, li tenevo spalancati e fingendoli ipermetropi per potermi affacciare al di là del vetro a guardare i ragazzini delle ville
di Madrid che scendevano come pazzi sulla neve. Noi eravamo i matti, loro i
pazzi. A volte, da lontano ci spiavano, la vecchia volpe si alzava la maglietta per
mostrare i seni, loro ridevano, gridavano vecchia pazza porca, e io me ne stavo in
un angolo, fumavo in silenzio, mangiavo i biscottini obbligatori.
Non fare così, mamma volpe.
Ma quando rideva con la sua fessura tra i denti, la stessa che portavo tra i
miei, l’abbracciavo con tutti i corpi, ricomponevo le mani, i piedi, la testa, rattoppavo i buchi che c’eravamo fatte la notte prima per poterci parlare – e la portavo
fuori nel bosco dei senza piedi. Lo sai, cara volpe, che i rondoni dormono in volo?
Le bende per Nien, le corde per farla uscire, non sono mai servite.
Anziché piangere per lei, ci siamo fabbricate due magliette.
*
Poi improvvisamente mi nascondevo. Entravo negli armadi, mi rannicchiavo
nella zona libera tra la fine del cassettone sotto il letto e il muro del letto, restavo immobile, cristallizzata: non mi sente nessuno, non respirare, non fare una
mossa. Avevo sviluppato una grande abilità anche nel gioco dei bambini: mi cercavano, non mi trovavano mai. E non perché scegliessi posti difficili, ma perché
sapevo far sparire il rumore.
Tutto il rumore del corpo veniva improvvisamente azzerato, un cortocircuito
provocato nello spazio, non mi trovavano nemmeno guardandomi.
Infatti un giorno una madre aveva detto: da bambina era così silenziosa che
ci si poteva scordare di lei.
Mi avete scordato, ma io non riesco a scordarmi di nulla. Il passato è un’invasione nel presente, un tutto cresciuto a dismisura e sempre incinta: sistema a
feedback positivo, esponenziale, esplosivo.
Mentre restavo immobile nella tana e sentivo i passi degli altri, tutto quello
che desideravo era sparire due volte. Era un gioco, ma lo vivevo con la serietà
di chi stava fuggendo all’omicidio: c’è un omicida in casa: fingi di essere morta.
Così morivo ogni giorno, ad ogni incontro, per evitare gli incontri.
Madre, tu hai la bocca al posto degli occhi.
*
All’ora dei sei pasti ci scambiavamo di posto. Ero nella cricca delle ribelli, mi piaceva fare la parte contraria delle sante: assistevo ai baci delle donne, le loro lingue nei bagni, i giochini all’uncinetto, le mani tra le gambe sotto i tavoli imbanditi e i carrelli del pane e delle flebo, poi scendevo al piano inferiore dell’inferno,
che lì c’era posto per gli invisibili – e io mi sedevo sulle gambe degli internati,
avevano tutti le facce incarnite.
Quello spavento non era rassicurante, ma tra i tre mondi a disposizione, quello era l’unico più vicino al sonno. I sensi si scambiavano riconoscenza, Claire mi
chiedeva: posso mostrarti un suono? Posso cantarti tutta? Sono il tuo mare?
No, Claire, tu non sei il mio mare.
Eravamo tutti condannati alla verità.
*
Sono le otto del mattino e un pianeta come un sole sopra un sole è comparso alla
finestra. L’occhio che si estende mi incolla al vetro, lecco la cornea per vederci
meglio, mi avvicino per capire se è la storia della terra che ci siamo raccontati
per millenni.
La voce dice: hai sbagliato: ripeti: hai sbagliato.
Puoi fare le magie con gli occhi, spostare gli oggetti, farti mangiare dai morti, catturare l’immagine del cielo. Ma c’è un punto intoccabile che continua a
urlare, che cade come resina sugli occhi. La mia nudità è su quel sole che posso
vedere solo io e solo sono io dall’interno, un riflesso di un pianeta che non può
cadere e continua a cadere ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni piccolo frammento
di tempo.
Madre, la mia pancia è vuota. I miei pianeti sono vuoti. La lampada che mi
hai regalato non ha mai emesso luce.
(Il racconto è tratto da Nazione Indiana, 31 marzo 2014)
Interno Sei
di Piera Costantino
1
Mio padre mi ha educata come si fa con un cane: regole precise, ubbidienza e
poca psicologia. Ed io, come un cane, gli sono stata devota tutta la vita che ho
vissuto e gliene sarò per tutta quella che mi resta.
So, meglio di tanti altri, cosa è giusto e cosa no e sempre l’ho saputo. Per
questo, potrei affermare senza remora alcuna che, ogni volta che ho messo il
piede in fallo, ero consapevole dell’inciampo. Potrei avallare milioni di ragioni
per giustificarmi, per alleggerire le colpe, ma so perfettamente che nessuna di
queste potrebbe far passare in secondo piano la capacità di intendere e di volere
che mi caratterizza.
Forse è per questo che ogni tanto ho bisogno di annebbiarmi, confondermi,
abbandonarmi. Dimenticarmi…
Arrivai all’indirizzo poco dopo l’alba.
L’asfalto era oro nero e intorno a me c’era solo un silenzio confortante, avvolgente.
Rimasi incerta sul portone per qualche secondo, poi presi coraggio e infilai la
1
Foto: Benji Pullen
chiave; uno scatto, uno solo e si aprì.
Mi ritrovai dentro un grande giardino, dal quale si diramavano tre vie delimitate da siepi; in quel momento mi sentii come Teseo perso nel suo labirinto, alla
ricerca del filo della sua Arianna; lo scovai nella mia borsa, appallottolato nel
fondo di una tasca: scala c, eccola, ultimo piano.
Niente ascensore cazzo!
Traumi su traumi: labirinti, borsone, nessuna agevolazione; pesava tutto fisicamente, pesava moralmente e ad ogni gradino gravava ancora di più: perché
sono qui? Perché non dovrei esserci? Perché mi faccio ancora tutte queste domande?
Sei piani, sei lunghissimi piani ed eccomi: una porta rossa, di quelle che vedi
nei cataloghi di arredamento che fanno molto Europa del Nord, con sopra una
targhetta con scritto interno sei. Entro. La casa è bellissima: di gusto maschile, è evidente, essenziale, ma con stile. Di fronte a me una grande finestra, dalla
quale entra una luce che illumina brutalmente ogni cosa: un divano comodo,
una lampada industriale, una stampa di De Chirico alla parete, una sveglia giallo
limone non funzionante, una macchina da scrivere, tre vecchie macchine fotografiche e qualche scatto disseminato qua e là, volutamente casuale.
Poso il borsone accanto al divano, prendo ciò che mi serve e penso che, se lo
trovo, mi farò un caffè.
Ho ancora tempo, rullo una canna e mi siedo.
Cerco di raccogliere le idee: gli ultimi dieci minuti sono stati una valanga
di emozioni, io poi mi lascio impressionare facilmente, soprattutto quando mi
sento così: in bilico.
E quando mi sento in bilico, per riequilibrarmi, mi concentro sulle cose;
qualcuno direbbe che sono attenta ai dettagli, io so che i dettagli mi aiutano solo
a distrarmi dai pensieri.
Dalla finestra vedo l’interno della casa del palazzo di fronte, la cucina esattamente: una bambina è seduta a tavola, beve da una tazza a fiori, ancora assonnata. È bellissima: capelli ricci, neri e due occhi grandi, verdi e innocenti, sorride
ed è ancora più bella. Sorride a suo padre, credo, anzi no sono sicura, che nel
frattempo è entrato nella stanza e beve anche lui il suo caffè. Si vede che sono
felici, si vede dai gesti, si vede che si amano di quell’amore incondizionato che
solo un padre e una figlia conoscono, di quella primordiale complicità che lega
femminile e maschile e che durante la vita difficilmente troverai ancora con un
altro uomo, con un’altra donna.
Presa come sono da tutti questi pensieri non sento la porta che si apre, cazzo!
«Greta? Ma… Che ci fai qui? Come sei riuscita a trovarmi?»
«Papà… sono felice di vederti anch’io!»
«Sì… Certo! Vuoi un caffè? Ah, vedo che ti sei servita da sola!»
E mi dà le spalle. Armeggia con la caffettiera, non è nervoso no, è infastidito.
Nessun abbraccio, nessuna lacrima, nessun sorriso.
Niente.
Sono entrata nella sua tana, l’ho scovato come si fa con un coniglio e lui, lo so,
non vede l’ora che l’abbandoni.
Lo sento dire frasi del tipo: come stai, tua mamma si è risposata, ti sei diplomata, hai un ragazzo, lavori?
E io non riesco a dire niente.
Sono Teseo, papà e tu sei il mio Minotauro, penso.
«Greta! Ti ricordavo più sveglia bambina! Allora? Racconta! Che combini?
Lavori?»
Come se fosse quella la cosa più importante.
«Sì papà lavoro… Lavoro su me stessa».
Mi guarda sarcastico.
Ora: io avrei voluto dire miliardi di cose, lo giuro.
Avrei voluto fare tante di quelle domande, piangere tutte le lacrime di una
vita, accusarlo solo per poterlo perdonare, mi sarei voluta perdere in quell’abbraccio desiderato per troppo tempo per riemergere con un sorriso.
E invece sono solo riuscita a dire : «Uccidi tuo Padre. Uccidi il tuo Maestro»
e ho sparato.
Un colpo solo. Dritto al cuore.
Mio padre mi ha educata come si fa con un cane: regole precise, ubbidienza
e poca psicologia.
E ora, io ubbidisco solo a me stessa.
(Il racconto è tratto da Sundays Storytelling, 5 aprile 2015)
La scelta
di Simone Quadri
«Non capita tutti i giorni uno Speciale Pelle Ambrata!», dice alla madre, mentre
il banner pubblicitario Prossime Aperture lampeggia con insistenza sullo schermo del dispositivo, «Nel bel mezzo di febbraio, poi».
Prende il telefono e chiama il marito in tutta fretta. Lui che esce dalla riunione di allineamento mensile.
«Tieniti libero, mercoledì mattina».
«Mercoledì, dici?»
«Sento che è la volta buona, lo sento».
«Credo anch’io, tesoro».
«Mercoledì, ok?»
«Certo».
Tutto questo accade di lunedì.
È un pallido mercoledì di febbraio.
Lasciano il letto che è ancora molto presto, il sonno tanto è passato già da
qualche ora. La mente è affollata di pensieri. Alcuni belli, altri meno.
Sono tutti eccitati per l’apertura dello Speciale.
La Pelle Ambrata piace parecchio a entrambi. Quando parlano di pelle, finiscono sempre per concordare che l’Ambrato è un ottimo compromesso tra il
Pallido dell’Est Europa e il Colorato del Continente Nero. Parlano di pelle e della
provenienza, mai del sesso, perché lì c’è ben poco da discutere.
Lui si occupa della spremuta d’arancia e del caffè.
Lei pensa alla musica, la Playlist Sciapa pare perfetta per il clima che c’è fuori.
Prende la confezione di muesli dalla dispensa e prepara il toast al prosciutto. Si
ricorda persino di rovesciare qualche gamberetto essiccato alle tartarughe d’acqua, mentre il pane si tosta a puntino.
Di primo mattino, lei è senz’altro quella più presente.
A chi spetta mettere le coppette in tavola?
Be’, non ci sono.
Le lancette scivolano lente sull’orologio fissato alla parete della cucina. Manca ancora un’eternità alle otto e trenta.
Sgranocchiano cereali e frutta secca, spiluccando direttamente dalla scatola
di cartone. Il toast al prosciutto, la spremuta d’arancia e il caffè li consumano di
buon grado.
Si tengono per mano, speranzosi.
«Mi sento così nervosa».
«Lo so, tesoro».
Tante aspettative per una Vendita?
Non è certo la prima volta.
Fine del mese di ottobre, apertura della Vendita India.
Entrambi accarezzano l’idea che possa arrivare da laggiù. Un esercizio spirituale, per certi versi.
Lui si collega dalla stanza di un hotel, a New York.
È là per lavoro.
«Ci pensi? Dall’India, ma scelta tra Milano e New York».
«Sarebbe davvero una bella storia d’integrazione globale».
Quel giorno-quella notte, rimangono così delusi nel vedere quanti pochi
esemplari siano disponibili per la scelta.
«Quasi un miliardo e mezzo di abitanti, un’aspettativa di vita alla nascita di
vent’anni inferiore alla nostra, e questo è tutto quello che hanno da offrire? Mi
pare assurdo».
«E se la Vendita fosse partita, da qualche ora?»
«Impossibile, ti ho già detto».
Le Vendite partono sempre alle otto e trenta.
Dopo mezz’ora, trascorsa a girovagare tra Immagini Profilo e Schede Tecniche, decidono di non andare oltre. Un conto è scegliere, tutt’altra storia accontentarsi per la disperazione.
Non sono disperati, loro.
Non lo siamo di certo, si sono detti.
«Sarebbe da scrivere una mail di reclamo».
«Illudere le persone in questo modo, che crudeltà».
«Stai pur certa, questa volta mi sentono».
Lui torna a dormire senza scrivere nulla, sfiancato dal risveglio alle due e
trenta della notte usa.
Lei decide di far visita alla madre, delusa dalla piega che ha preso la giornata.
Quando rientra in Italia, la abbraccia forte, sussurrandole all’orecchio che la
prossima volta andrà meglio.
«Mi ero fatta un sa…sacco di film, di come sarebbe sta…stata la nostra vita con
lei. Sono pro…proprio una scio…sciocca», farfuglia con la voce rotta dal pianto.
Poco prima di Natale, la volta dello Speciale 6 Mesi.
Di tanto in tanto, il servizio se ne salta fuori con qualche sorpresa. È accaduto
il giorno del lancio. Al raggiungimento delle mille iscrizioni. Al millesimo esemplare venduto.
Un esemplare di sei mesi, è il sogno di tutti.
Tutti, tutti, tutti?
Ok, quasi tutti. Il 7 percento degli iscritti mostra una chiara preferenza per
esemplari dall’anno e mezzo in avanti.
Gli analisti sono giunti a tale conclusione incrociando le informazioni raccolte dai Questionari Famiglia, con due mesi di clic sulle diverse Immagini Profilo
e Schede Tecniche. I risultati dello studio sono stati prontamente diffusi ai cervelloni del Marketing.
Due settimane più tardi appare online lo Speciale Chiavi in Mano. Urla di rifiuto? Fastidiose diarree? Cadute improvvise accanto a spigoli o roba del genere?
Niente di tutto questo.
Abbasso le rogne dello svezzamento e dei primi passi!
A loro, lo Speciale Chiavi in Mano non interessa granché.
«Be’, di diciotto è meglio che di trentasei».
«Certo».
Averla di sei mesi, invece.
Per celebrare le diecimila iscrizioni al servizio, vengono selezionati cento
esemplari, tra le ventiquattro e le trenta settimane.
Alla fine il sito va giù, per il troppo traffico.
Ne parlano anche i giornali.
L’articolo firmato da un certo professore, evidenzia quanto lo stereotipo della
famiglia tradizionale trovi il massimo vigore nel periodo natalizio, influendo sui
comportamenti di una società ancora radicata alla tradizione cristiana cattolica.
Quell’articolo lo legge da sua madre. Apre la pagina culturale del loro quotidiano di riferimento.
«Fanculo! Altro che radicata tradizione cristiana cattolica», commenta lei,
che neppure è stata battezzata.
Venendo al pallido mercoledì di febbraio.
Quegli occhioni verdi e un po’ acquosi le fanno tornare in mente la volta che
ha preparato le gelatine di frutta. È stato così divertente farle rotolare avanti e
indietro nello zucchero bianco. E i loro amici le hanno trovate proprio deliziose,
le sue gelatine colorate a forma di conchiglia.
«Non mi convince, del tutto».
«Che?»
«Guarda un po’ il viso, sembra manchi qualcosa».
«Pare ci sia tutto. Occhi, bocca, naso, orecch…».
«Me lo fai il piacere di non buttarla sul ridere? Almeno per una questione del
genere».
«Perdonami, tesoro. Sembra tutto nella norma, però».
«È nell’espressione. Qualcosa che le manca, rispetto alle altre».
«Del tipo, che è triste?»
«Ha un’espressione un po’ brutta, scoraggiata».
«Scoraggiata, dici?»
«Come se già sapesse, che non sarà scelta. E che se mai dovesse esser scelta, di
certo non sarebbe una famiglia capace di darle serenità ad accoglierla».
«Be’, a quel prezzo, non tutti se la possono permettere».
«Sto parlando di serenità. L’agiatezza è tutt’altra roba».
Passano all’esemplare successivo.
C’è sempre tempo per tornare indietro. In fin dei conti, sono soltanto le otto
e tre quarti.
La loro strategia consiste nel dare uno sguardo veloce a tutti gli esemplari,
per poi approfondire solo quelli da cui sono rimasti maggiormente colpiti.
Che poi, è la strategia più utilizzata tra gli utenti.
In pochi azzardano un acquisto prima di aver visionato l’intera gamma a disposizione. Il rischio è di ritrovarsi dentro a un brutto circolo di rimpianti, al
sopraggiungere delle prime difficoltà.
«Se solo avessimo fatto un clic in più, quel giorno!»
«Mi sento morire, se ci penso. Era lì ad aspettare proprio noi!»
«Potevamo ambire a qualcosa di meglio. Ce lo saremmo meritati dopo tutto
quello che abbiamo passato, no?»
«Non sento di averci nulla in comune. Quando ce l’ho davanti, vedo solo una
figura estranea».
Anche il Tutorial rammenta di prendere la strada più prudente, «Consigliamo agli utenti di visionare tutti gli esemplari a disposizione prima di procedere
con l’Ordine di Acquisto».
E se lo dice il Tutorial.
Al Servizio, sono iscritti dall’inizio di settembre.
Non è stata proprio una passeggiata ottenere il Nullaosta.
Tutte quelle procedure per verificare l’esistenza di condizioni economiche
soddisfacenti e dei requisiti psicofisici necessari, li hanno stressati alquanto.
«Per chi c’hanno preso, questi?»
«Sarebbe da scrivere una bella mail di reclamo».
«Come no, così poi col fischio che ce lo danno!»
«Hai ragione».
Tra un colloquio e l’altro, sono stati in ballo l’intera estate.
Fortuna che tutto alla fine è andato per il verso giusto.
Hanno scelto un Account Pro. Con una maggiorazione nell’abbonamento
mensile, non molto rilevante considerando la Tariffa Base e il Costo Degli Esemplari Migliori, possono ora avvalersi di vantaggi esclusivi. L’Accesso Alle Vendite
Riservate. La Consegna Garantita Entro Due Settimane. Il Servizio di Reso Gratuito.
Servizio di Reso?
Che orrore anche solo pensarlo!
Al momento dell’iscrizione, nessuno immagina di doverci avere a che fare.
Da un’analisi interna, è tuttavia emerso che circa un terzo dei ricavi del servizio
proviene proprio da lì.
La restituzione entro i termini indicati dalla Vendita prevede un costo pari a
dodici mensilità della tariffa base. Oltre tali termini, si passa a cinquanta mensilità. Roba che quasi quasi uno alla fine preferisce tenerselo!
Qualche anno prima, quando ancora non stavano cercando, avevano trascorso una bella vacanza nel mar dei Caraibi. Al momento della prenotazione, si
erano convinti ad aggiungere La Formula Exclusive al già previsto Trattamento
All Inclusive.
Era stata proprio una bella vacanza, quella nel villaggio caraibico. Spiaggia privata. Accesso a ristoranti con vista panoramica. Fila prioritaria al buffet
dell’aperitivo. Prelazione sui gadget del Caribbean Store. Abbiamo fatto proprio
bene ad attivarla, si erano detti durante il volo di rientro da L’Avana.
L’Account Pro l’hanno voluto entrambi.
Sullo schermo del dispositivo compare l’immagine in primo piano di un
esemplare di circa due anni, dalla Pelle Ambrata.
«Come ti sembra, questa?»
«Graziosa, molto».
«Vero».
«Ha un occhietto un po’ strabico, forse?»
«Apri un po’ la Scheda Tecnica».
«Non facciamo dopo?»
«Un secondo. Giusto per chiarire questa storia dell’occhio. Perché per il resto,
mi piace molto».
La Scheda Tecnica conferma la forma leggera di strabismo, nell’occhio sinistro.
«Non che sia tanto grave, eh».
«Tra l’altro, si può correggere facilmente».
«Infatti, l’ha fatto anche mia cugina al suo. Però…»
«Che?»
«Niente di che, eh».
«Di’».
«È che, acquistare qualcosa con qualche difetto mi lascia sempre, un po’ così.
Come se mi stessero rifilando una fregatura».
«Be’, credo sia tutto calcolato».
«Che intendi?»
«Ci sarà un qualche algoritmo che elabora il prezzo finale, sulla base delle
caratteristiche corporee».
«Mica sono stupida, lo so bene! Ma, che c’entra?»
«Lo strabismo, non lo stai mica pagando. Se il suo occhietto fosse perfetto, il
prezzo sarebbe più alto. Nessuna fregatura, dunque».
«Non l’avevo pensata, in questo modo».
«Poi sta alla gente decidere che fare».
«Come quelli che, pur di averli, li prendono a Super Saldo!»
«Devi essere alla frutta, per arrivare a quel punto».
«Non dire così. Coppie con difficoltà, magari. Coppie di giovani».
«Lo trovo comunque assurdo».
«Qualche giorno fa, c’è stato lo Speciale Mamme Crack».
«Cristo Santo!»
«C’ho buttato un’occhiata, veloce».
«Sai che non devi. Ne avevamo parlato a lungo».
«Erano quasi tutti bambini brasiliani, abbandonati da madri tossicodipendenti. Ragazze giovani che si prostituiscono per una dose. Stanno in strada, e
non hanno soldi per interrompere la gravidanza».
«Fottute merde! Li usano per il crack, quei soldi».
«Una tristezza, a vederli. Alcuni erano sanissimi, eh».
«Sanissimi? Non sai mai cosa può accadere, dopo. Come fai a gestire una
preoccupazione di quel tipo? A dormirci sopra, la notte?»
«Certo, lo so».
«Nella sfortuna, dobbiamo ritenerci comunque fortunati».
«Possiamo scegliere quella giusta, noi».
Scorrono tutte le Immagini Profilo degli esemplari della Vendita.
Quando completano il giro, l’orologio segna le nove e venticinque.
Duecento bambini visionati in meno di un’ora. Sono diventati incredibilmente veloci, con la pratica.
«Da quale vorresti partire?»
«Che ne dici di, Occhietto Strabico?»
«Puoi evitare?»
«Comunque lei mi piace. Era solo un diminutivo».
«Un diminutivo un po’ del cazzo, però».
Ridono entrambi. Poi si baciano, in modo tenero.
Non sono totalmente convinti. Oltre all’occhietto sorgono dei dubbi per un
paio di cicatrici, proprio all’altezza dei polsi.
«E se avesse…».
«Che?»
«Cercato di tagliarsi».
«A due anni? Sarebbe il primo caso di tentato suicidio infantile della storia».
«Che ne sai?»
«I poveri difficilmente si tolgono la vita. L’ho letto da qualche parte».
«E se l’avessero legata per i polsi, col filo di ferro? Per farle fare chissà cosa,
magari».
«Oppure, quei segni se li è procurati giocando dentro qualche discarica. Saranno piene di lamiere e altre robe pericolose, quelle discariche là».
«A me è rimasto il pensiero fisso, per quella di prima».
«Quale?»
«Quella con l’espressione scoraggiata».
«Credevo non ti piacesse, Faccino Scoraggiato?»
Si volta di scatto, fulminandolo con un’occhiata, di quelle che non lasciano
spazio all’immaginazione.
«M’è uscito fuori di getto, scusa».
«Ho forse detto che non mi piaceva?»
«Ehm».
«Aveva un’aria un po’ diversa dalle altre, questo mi pare di aver detto».
«Sei forse influenzata dal fatto che nessuno la vorrebbe? Da quella roba sulla
serenità che dicevi prima? Il Tutorial parla chiaramente di…».
«Il Tutorial lo conosco a memoria».
«Ok».
«Non è per la storia della serenità, comunque. Sento una qualche affinità, con
lei. Ecco tutto».
«E allora recuperiamo la sua Scheda Tecnica, e vediamo un po’».
«Grazie, amore».
La cercano in lungo e in largo, ma non è più tra gli esemplari trascinabili
dentro il carrello d’acquisto.
L’hanno scelta.
Qualcuno ha ignorato il Tutorial, forse?
Nel pomeriggio, si domanda più volte se sia capitata da brave persone. Piange, ripensando a quella bambina dalla pelle ambrata e con gli occhioni verdi e
un po’ acquosi.
(Il racconto è tratto da Il Paradiso degli Orchi, gennaio 2010)
La casa era vuota
di Lorenzo Iervolino
La casa era vuota. Non più il tappeto finto persiano comprato in saldo da Etienne in quel negozio perennemente in chiusura. Non il divano di pelle con la spalliera alta e la chaise longue che si litigavano fin quasi a mettersi le mani addosso.
Non il quadro di Marilyn che sorride nella vasca da bagno, in salone. Né il mobiletto di pezza colorato con dentro la collezione dei 45 giri di papà Gainsbourg. E
neppure il tavolino trasparente dove facevano colazione la domenica mattina, in
terrazzo, col vento fresco che sparecchiava di continuo la tavola, ma che non gli
evitava di ridere e iniziare bene la giornata, perché in quelle mattine, qualsiasi
brezza, qualsiasi piccola tempesta, Giampaolo ed Etienne se la mangiavano con
un sorriso.
La casa era vuota. All’improvviso. Giampaolo se n’era accorto un pomeriggio
d’inizio inverno, di quelli in cui piove sempre e sembra che esista solo la notte,
perché anche quando è giorno il cielo è coperto e tutte le cose che ci circondano
sono cosparse di una luce deprimente e inesorabilmente grigia. Quel pomeriggio, era il primo dicembre, una data che non avrebbe più dimenticato, Giampaolo non aveva trovato neppure un pezzo di cartone per asciugarsi le scarpe, o un
giornale di quelli sporchi di vernice accatastati nella Stireria-Palestra-Nascondiglio dei panni sporchi di Etienne, che nei suoi progetti, ma mai nella vita reale,
sarebbe dovuto essere uno studio. Non c’era un giornale, non c’erano i barattoli
di vernice, non c’era l’asse da stiro, né gli attrezzi di Etienne: c’era a stento la
porta con il cartello che Etienne lo aveva convinto a pitturare, imbrattando la
scatola vuota di una confezione di merendine, su cui avevano scritto sgabuzzi-
no di fatto.
E così anche in corridoio, in salone, nella cucina abitabile, nei cinquemetriquadri del terrazzo, nella camera da letto che per Giampaolo era ancora la loro
camera da letto, anche se Etienne, per tutti e undici i mesi in cui ci si era addormentato, l’aveva sempre chiamata la tua camera da letto.
Giampaolo non era riuscito a credere ai suoi occhi: aveva attraversato stanza
per stanza senza dire una parola. Si era trascinato in giro sgocciolando dappertutto, ancora vestito con tanto di giubbotto, k-way e casco in testa, assumendo
le sembianze di un agente immobiliare col cliente alla porta a cui ha promesso
un appartamento di tre stanze completamente arredato e invece se lo ritrova
senza neppure una mensola: solo mura e pavimento. Così nudo che non si trova
neppure la proprietà.
Etienne nei suoi borsoni griffati, e rossi come aragoste, aveva rapito solamente qualche quintale di vestiti e i suoi due poster della piccola Gainsbourg
mentre sorride sotto l’ombrellino, appena sbarcata in America. Giampaolo aveva
aspettato in terrazzo che Etienne li riempisse uno ad uno, che lasciasse cadere le
stampelle sul pavimento a formare un tappeto di foglie di legno che annunciano
l’arrivo dell’autunno e, per forza di cose, la fine dell’estate. Il rumore era poi terminato. Ogni suono percettibile era sparito. Così come Etienne. Non aveva fatto
in tempo a sentire la porta, Giampaolo. Il suo Etienne si era dissolto nel nulla.
Il suo sorriso da pirata. La lana morbida dei suoi ricci afro. Se avesse sentito un
solo suono avrebbe tentato di fermarlo, smettendola con quella forzata diffidenza. Stupido orgoglio. Sarebbe rientrato dal terrazzo, avrebbe gridato, rotto quel
silenzio che gli sembrava incredibile.
Ora invece ci doveva credere.
La casa era vuota. Deserto. Giampaolo non se ne riusciva a capacitare: come
aveva fatto Etienne a far sparire tutto? A trasformare una casa in una scatola
vuota, con quella facilità? E mentre queste domande rimbombavano nella sua
testa, di notte anche i suoi passi delicati risuonavano altrettanto misteriosamente tra le pareti scarne, passi con i quali Giampaolo, ipnotizzato come un sonnambulo, si avventurava a cercare un bicchiere d’acqua oppure un libro, purché non
sembrasse parlare di loro due.
Ma tanto, in casa, non c’era più nessun libro, né bicchieri, né acqua.
«Non scende l’acqua calda… fai qualcosaaa!», la voce di Luca è come le campane suonate nell’orario sbagliato da qualcuno che vuol fare uno scherzo al prete. Riempiono la casa con una cadenza fastidiosa, urlate. Per Giampaolo sono
però più simili allo schiaffo sulle guance dopo che si è perso conoscenza per un
colpo di sole improvviso. La sabbia appiccicata al colletto della camicia, lo stordimento di ritrovarsi distesi, si dissolvono grazie a quel gesto brusco, violento,
necessario. Il vociare stizzito che scuote la porta del bagno è per Giampaolo,
ancora una volta, e contro ogni sua volontà, il risveglio da uno svenimento.
La casa era vuota. Finché Luca.
Finché i suoi calzini in corridoio, le colline dei libri sotto le quali seppellire
la paura per il prossimo esame. La casa era vuota finché Paco non ha iniziato a
graffiare la pelle dei braccioli del divano, quello con la spalliera alta e la chaise
longue per usufruire della quale, una vita prima, Giampaolo ed Etienne si sarebbero potuti tranquillamente prendere a pugni.
Giampaolo apre la porta del bagno dopo aver corricchiato per il corridoio scivolando nelle infradito basse da samurai occidentale. Luca è in piedi nella vasca,
nudo e bianco e bellissimo con i capelli umidi che gli coprono gli occhi e il naso,
ma non il suo disappunto.
«Ciccio, ma qui hai trasformato tutto il bagno nel lago di Bolsena…»
L’acqua scorre nelle venature regolari delle mattonelle celesti del pavimento del bagno, andando a bagnare la pianta dei piedi di Giampaolo che cerca di
evitarla spostando il peso del corpo alternativamente sull’interno e sull’esterno
della caviglia: senza successo.
«Ma quale lago? Qui non esce una cazzo di goccia calda e ti preoccupi del
pavimento! Poi pulisco, porca…»
Luca si sbraccia, quasi schiaffeggiando la tenda di plastica che sventola come
la vela di una barchetta risucchiata da una tempesta, e Giampaolo pensa di
amarle quelle braccia, forti e delicate al tempo stesso, così lunghe anche per quel
corpo di quasi un metro e novanta; poi pulisce… pensa fra sé, ma è il solito infantile capriccio e se fosse accaduto con Etienne – santo cielo! – ci sarebbe stata la
guerra: il bagno allagato, le urla all’ora di cena coi vicini che non aspettano altro
che un po’ di chiasso, e le bugie, perché anche Etienne non muoveva un dito. Ma
Etienne non era Luca e alla fine prendeva lo spazzolone e lo straccio perché era
viziato, sì, anche lui, e profondamente, ma sapeva come voleva stare al mondo,
e questa sua visione comprendeva l’orgoglio di pulirsi una casa, di risolvere le
questioni pratiche da sé: perché a Etienne piaceva litigare per fare la pace. Luca,
invece, è un cucciolo che grida perché gli venga portata una preda da sbranare.
«Chiudi un attimo l’acqua, che controllo la caldaia», conclude Giampaolo,
non riuscendo a trattenere un sorriso.
«Ma che ci trovi da ridere? Fai in fretta che mi ammalo».
«Ah sentilo, poi sarei io il vecchio! Bello, dovresti essere tu a correre perché
io non mi ammali», ma queste ultime parole Giampaolo se le dice quasi tra sé e
sé. In verità tra sé e la caldaia che si era fermata bloccando la sua magia elettrica,
così come ordinatogli dalla dittatura del timer.
La casa era vuota. Finché Luca ha detto «Va bene», quasi senza guardare
Giampaolo negli occhi, tra un sms e l’altro. Ma per Giampaolo lo stupore era
stato più grande della rabbia sottile di quando le cose sperate si concretizzano
in forme diverse da come le si è sognate. E lo aveva abbracciato, accettando la
sua poca convinzione come una ramificazione della sbadataggine che avvolge i
gesti e ne condiziona gli slanci. La stessa che anche lui aveva avuto a quell’età. O
almeno questo è quel che confidava al suo silenzio.
Va bene, aveva detto Luca facendo cadere in poche settimane tutti e dieci i
«comandamenti» che Giampaolo aveva scolpito nelle tavole di almeno sei dei
suoi trentacinque anni, da quando cioè aveva deciso di pagare il mutuo per quella casa: Luca fumava in giro per il corridoio e in stanza e in salone e in cucina;
quasi mai in terrazzo. Come gli era stato cortesemente consigliato. Paco mangiucchiava i suoi croccantini un po’ su tutti i pavimenti e anche lui, come fosse
d’accordo col suo padrone, quasi mai in terrazzo, dove Giampaolo, accanto alla
ciotola blu, aveva appeso un piccolo poster plastificato del gatto Silvestro che ha
finalmente tra le grinfie il suo amato-odiato rivale pennuto. Il sabato pomeriggio
in salone c’era sempre qualche studentello pugliese o calabrese coi capelli colorati e jeans che gli partivano da sotto le chiappe che organizzava assalti guerriglieri a inespugnabili fortini etero.
Eccetera e ancora eccetera, fino all’ultimo barlume di regola.
Ma era bastata una piccola borsa da tennis con qualche maglietta già sporca,
due paia di scarpe che sembravano avere vita autonoma, per quanto era impossibile trattenerle all’ingresso tra le due file di mensole di ferro utopicamente
apostrofate da Giampaolo con il nome di scarpiera. Era bastata la sua totale
inaffidabilità per gli orari, i peli del gatto fin sopra il microonde, le notti piene
della sua pelle liscia, i muscoli giovani e i modi distratti e pretenziosi, perché
tutto riprendesse vita, Marilyn tornasse a sorridere nella vasca da bagno appesa
in salone, il tavolino di vetro fosse di nuovo in terrazzo ad attendere una nuova
domenica, il divano di pelle, non più capace di provocare un qualsivoglia litigio, sovrastasse ancora una volta il tappeto finto persiano comprato in saldo da
Etienne in quel negozio perennemente in chiusura, ben infilato sotto al mobiletto di stoffa ripieno dei dischi di papà Gainsbourg.
Era bastato Luca per trasformare il deserto in un ricordo che ora sembrava
appartenere a un’altra vita. Un’altra vita vissuta da un altro, di cui ci si ricorda
solo la faccia seria vagamente simile a quella della persona che si è amata, nel
momento in cui si volta, sparisce, e con sé, in un unico gesto, riesce a svuotarti di
tutto ciò che vi ha circondati per diciassette mesi.
«Com’è andato l’esame?»
«Mm, ri…rim… l’hannormndato qgli stro…nzi!», farfuglia Luca senza smettere di masticare.
«Ci devo credere? Devo chiamare, come si chiama quel punk-chic di Napoli?»
«Perché non dovresti crederci?»
«Ciccio vuoi che ti ricordi com’è andata con Psicologia del lavoro?»
Luca si alza da tavola, attraversa il salone come se fosse rincorso dai cannibali
e va a infilare le dita nel cappotto appeso a una sedia in cucina: si accende la sigaretta, fa due tirate lì, un paio nel corridoio e poi viene a completare l’opera in
salone, a tavola, sulla faccia di Giampaolo:
«Se ti riferisci ad Andrea, ti vorrei ricordare che è di Battipaglia e non di Na-
poli, ma evidentemente non sei molto attento quando i miei amici ti parlano».
«Oh-oh-oh, come siamo suscettibili per una provincia sbagliata».
«Non si tratta di una provincia o delle tue cazzate, è che mi girano e tu non
te ne accorgi mai: pensi sempre che abbiamo tutti la tua calma piatta da zombie,
ma noialtri siamo vivi, bello mio! Sai cosa vuol dire? Te lo ricordi?»
Luca ha quasi già finito la sigaretta, che divora fino all’arancione. Giampaolo
avrebbe incenerito il tavolino, il salone e forse tutta la palazzina se solo Etienne
avesse osato a. Ma Luca non è Etienne e riesce sempre a fargli scricchiolare qualcosa in fondo al petto e a strozzargli ogni parola in gola, finché questa non perde
completamente il suo significato, il suo fuoco, e tiepida come l’acqua di un lavandino dimenticato attappato, esce fuori intrisa della calma della comprensione:
«Che c’è, Luchino?»
Luca spegne il mozzicone premendolo con forza nel vetro del posacenere;
poi riattraversa il salone, ma con minore foga di quando i cannibali gli davano la
caccia: va a svuotarne il contenuto nel comparto apposito del secchio a cassettoni che Giampaolo ha piazzato, con poche speranze di successo, nell’angolo della
cucina. Forse per la prima volta da quando vive lì. Alleluia! Torna a tavola, beve
mezzo bicchiere di vino:
«Quel coglione di Andrea… il punk-chic, come lo chiami tu, doveva comprare
entro ieri i biglietti che io avevo prenotato… e non l’ha fatto».
«E…?»
«E? Non ci arrivi da solo? E niente Berlino».
Giampaolo istintivamente va a ricercare l’ora sul display spento dell’iPhone e
si accorge che non solo ha già dovuto aspettare le undici e quaranta per cenare
ma che adesso avrà davanti a sé solo cinque ore di sonno. E cinque ore di sonno
sono sinonimo di frasi appuntite da parte di Conti, un assist alla sua indiscrezione, alla sua invadenza che travalica ogni limite fra datore di lavoro e dipendente.
Ma, lo stesso, decide di provarci.
«Be’, lo sai, Ciccio, io vado dai miei a Lucca: se vuoi e non hai niente da fare,
possiamo partire il ventiquattro mattina, farci la vigilia lì e poi tirare a Firenze,
visto che qualcuno ancora non c’è mai stato».
«Non ci riesci mai a dire una cosa carina senza buttarla in competizione,
eh?», Luca salta dalla sedia che pare stia bruciando, come bruciano le sue mani
che riempiono l’aria di traiettorie impazzite. Giampaolo è colto di sorpresa. Per
un attimo sta lì a guardarlo: in piedi, bello, perdutamente immaturo, permaloso
e pieno di sé. Com’è diverso da Etienne, pensa. Etienne era un uomo e Luca è un
bimbo. Questo pensa Giampaolo. Ma non sa che pensare quando, dietro le spalle
di Luca che ha preso a puntargli il dito contro e a sbrodolare rancori che hanno
abbondantemente sorpassato la loro data di scadenza naturale, il quadro di Marilyn sembra essere svanito. Non c’è più il suo sorriso disegnato dai puntini di
Liechtenstein, né la vasca da bagno da dove la bionda diva controllava il salotto
di casa. «Il quadro…?», sussurra Giampaolo accorgendosi in quello stesso momento che ha perso le ultime invettive di Luca e sapendo benissimo che questa
dimostrazione di poca attenzione non farà che peggiorare le cose.
E infatti:
«Cosa?»
«No, niente».
«Ti sto parlando dei nostri problemi e tu mi chiedi del quadro».
«L’hai tolto tu?»
«Sei proprio uno stronzo. Ma cosa me ne frega del tuo quadro del cazzo».
Luca si gira su se stesso un paio di volte, dice che a Lucca e Firenze c’andasse
per i cazzi suoi. Giampaolo sbuffa. E sbuffa perché in fondo sa che la notte sarà
lunga e lui ha già sonno. E perché gli interessa davvero di più sapere che fine abbia fatto il quadro, piuttosto che attendere che Luca si calmi, si fumi le sue sigarette, prenda Paco sulle gambe accarezzandolo per ore, finché non sarà disposto
a parlare di nuovo. Eppure, se Giampaolo ci pensa bene, ora attorno al tavolo ci
sono solo due sedie. Erano quattro, solo un istante fa. Lo potrebbe giurare. Luca
si allontana. Giampaolo lo guarda. «Come sono finito con questo bambino?»,
si chiede. E sorride, ma dentro, senza farsi accorgere, se no non basterebbero
settimane.
Invece lo sa, Giampaolo. Lo sa come c’è finito. Per Etienne fare la pace era
un rito, con Luca invece è una lenta scalata di un monte da cui però si vede la
valle dell’Eden. E la notte è lunga, dolce come quella pelle, come le prime ore del
mattino raggiunte con la stanchezza di un naufrago, ma con la testa svuotata,
magazzino in saldo natalizio, di ogni preoccupazione. Neppure quella di Conti,
il capufficio, che non lesinerà battute sulle sue occhiaie, e sui motivi delle sue
occhiaie. Niente intacca la visione dell’Eden. E Giampaolo sa che un’altra scalata
sta per iniziare.
Il mattino dopo Marilyn sorride come se non fosse successo niente. È sempre
stata lì, comoda come Roy l’ha punteggiata. Una bellezza che il genere umano
dimenticherà a fatica. Le sedie anche sono lì, al posto loro. Quattro. E tutto il
resto riempie la casa come se non ci fosse mai stato il dubbio che il contrario
potesse accadere.
«Va bene», aveva detto Luca tra le lenzuola e tenendogli le palpebre aperte
col suo desiderio. «Va bene, andiamo dai tuoi. E poi a Firenze. Natale coi tuoi
sarà meglio che maledire Andrea tutto il giorno per la storia di Berlino. E poi
tua madre è svedese, per lei il mondo non ha preconcetti. Mica come la mia».
Giampaolo lo ascoltava con gli occhi. Che non si staccavano dalla bocca di Luca.
Su quelle labbra vedeva disegnato il piacere, e non si sarebbe mai stancato di
ascoltarlo. Ma a ripensarci, a quelle parole, certo non alle labbra, né alle mani,
né a tutto il resto di Luca, ma solo a quelle parole, al loro senso e a quello che di
più dicono rispetto alla grammatica, alla fonetica, e cioè al loro tono, a Giampaolo sembra che qualcosa non torni. Andare con lui dai suoi, non dovrebbe solo
essere un’anticchia meglio che non maledire quella testa vuota del punk-chic
che s’è scordato di comprare i biglietti aerei e ha fatto scadere la prenotazione.
Così Giampaolo decide che vale la pena, anche quella sera, di cenare alle undici
passate per aspettare Luca. E i suoi orari da studente ghiro.
Dopo che la porta di casa si è aperta e richiusa. Dopo le fusa di Paco, la sigaretta là dove non dovrebbe, Giampaolo la butta lì:
«Insomma, sei ancora convinto per Lucca?»
«Certo, perché non dovrei?»
Luca lo guarda appena, sedendosi e ispezionando gli involtini che lo attendono da un’ora e mezza, sdraiati nel piatto.
«Non so, magari a letto si dice sì a tutto…»
«Così la pensi? Così pensi che io sia?», ora invece lo fissa, Luca.
«No, Ciccio, dicevo soltanto che…»
«Ho capito bene quello che dicevi, caro mio. Sappi che forse dici così perché
pensi che io sia come te. Te sei così, non io. È chiaro?», Luca è in piedi, alto come
tutto il palazzo, i capelli castani spettinati ma sempre in modo ordinato.
«È chiaro?»
Sì. È chiaro a Giampaolo che a Luca non va di andare e che pure questo scambio normale di vedute lo prende come un pretesto per alzare la voce e far capire
al mondo intero che lui non ha legami. Né padroni. Mai. Ma Giampaolo gli dice
filato filato quel che pensa. Domani lui parte, da solo o in compagnia non gli fa
differenza. Non ha tempo né voglia di giocare. Luca a quelle parole sbatte tutte
le porte che trova davanti ai suoi piedi, ruba un cuscino e una coperta da un
armadio. Annuncia che dormirà sul divano. Etienne non si sarebbe mai ritirato
da una lotta così in fretta, pensa Giampaolo. Forse perché, in fin dei conti, lui ed
Etienne hanno sempre lottato vicini, dalla stessa parte.
Con Luca, invece, per un motivo o per l’altro, sono sempre rivali.
La casa era vuota. Non più il tappeto finto persiano comprato in saldo da
Etienne in quel negozio perennemente in chiusura. Non il divano di pelle con
la spalliera alta e la chaise longue che si litigavano fin quasi a mettersi le mani
addosso, che con l’arrivo di Luca era stato ceduto all’egocentrismo distruttivo di
Paco. Non il quadro di Marilyn che sorride nella vasca da bagno, in salone. Né
il mobiletto di pezza colorato con dentro la collezione dei 45 giri di papà Gainsbourg. E neppure il tavolino trasparente dove con Etienne facevano colazione
la domenica mattina, in terrazzo, ma che con Luca era diventato l’ennesimo sostegno di libri, vestiti smessi, cumuli di distrazione.
Forse stavolta Giampaolo è meno sorpreso. La casa era vuota, al suo ritorno
da Lucca. Ma quasi se l’aspettava, in un certo senso che non sa capire. Sa che
non sono stati i ladri, nessuno ti ruba veramente certe cose. È solo che ora, ricominciare da capo, arredare la propria serenità con quel che rimane: rincorrere il
proprio equilibrio sugli scaffali che strabordano d’insoddisfazione, di sogni, che
poi sono incubi che hanno solo il lieto fine. Luca aveva riempito di nuovo la sua
quotidianità. E ora cosa rimaneva? Com’è possibile che siano sempre gli altri, e
non noi, ad avere la capacità di colorare o stracciare il nostro disegno di futuro?
Anche per voi è così?
Ricominciare tutto di nuovo, senza neppure i dischi di papà Gainsbourg.
Questo è forse il supplizio maggiore, perché Giampaolo, se ci pensa, non si stupisce. Luca è un codardo. Sarà scappato con la coda tra le gambe, trascinandosi
via tutto senza neppure voltarsi indietro per controllare che non si rompesse
qualcosa. Che so, almeno il quadro di Marilyn.
A guardarle quelle mura così spoglie Giampaolo inizia a sentirsi un po’ perso.
Si siede per terra. E dove potrebbe sedersi? Forse avrebbe dovuto cedere. Chiamarlo lui. Andargli incontro, d’altra parte ha dodici anni in più, qualcosa vorrà
dire. In quei tre giorni dai suoi, poi, gli è mancato come non credeva sarebbe stato possibile. E forse ha avuto paura. Per questo non si è mosso. Ma non muoversi
vuol dire perdere e ora, scomodo su quel pavimento, se ne rende conto. Un’altra
volta.
«Ehi, non ti ho sentito rientrare. Allora? Com’è andata? Me l’hai salutata tua
madre?»
Luca è comparso all’improvviso, senza fare nessun rumore, abbigliato come
se uscisse da una baita di montagna. Eppure a Roma non fa freddo, mai.
«E tu dov’eri?»
Giampaolo, a vederselo, col suo sorriso di chi sono trascorsi appena cinque
minuti e non tre giorni di tumulti interiori, a quel punto sì che è stupito.
«Chi s’è mosso? Quando tu eri via è venuto Roberto, un amico di Matera di
passaggio a Roma. Stava coi suoi. Abbiamo passato il Natale insieme. Ma tu
perché stai per terra?»
Giampaolo, al contrario di quanto avrebbe creduto, non si sente nessuna
morsa allo stomaco: Luca ha smosso diavoli e campane per non andare dai suoi
e poi trascorre il Natale con la famiglia di uno che lui non ha neanche mai sentito
nominare. Ma niente. Lo stomaco è tranquillo. E sedie, divani, poltrone non ce
ne sono. Eppure Luca è lì, davanti a lui. E gli si avvicina. Lo bacia prendendogli
la testa fra le mani. Dice che ora deve uscire, Luca. A Giampaolo verrebbe da
chiedergli dove pensa di andare a sciare, a Montesacro? Ma è una battuta idiota,
sembra la pubblicità di qualcosa che non ricorda più. Il fatto è che la situazione
non lo diverte.
Lo rattrista, non sentire niente dentro.
«Mi aspetti qui?», chiede Luca spettinandosi col solito rigore.
«Sì, qui. Per terra».
Luca ride. Giampaolo no. Luca non se ne accorge. Giampaolo ci avrebbe giurato. Per un attimo gli viene l’impulso di chiedere a Luca com’è possibile che
possa aggirarsi per casa, senza vedere che il tappeto finto persiano, il divano con
la chaise longue, il quadro, il tavolino, le tende. Come possa andarsene vestito
da montagna, dentro quella casa che in quel momento è più desolante di una
grotta. Ma la risposta già la sa. Allora non chiede. Perché ha dodici anni di più di
Luca. E questo vuol dire qualcosa.
Luca saluta di nuovo.
Esce.
Giampaolo dopo alcuni minuti si alza.
Cammina per casa.
Si dà del tempo.
Per capire.
Per vedere se il problema non sia dei suoi occhi. Dei suoi sentimenti. Di una
sua aridità. Ma non cambia niente. Quindi esce in terrazzo. È passato Natale da
due giorni. Il ventisette è solo una lunga attesa di capodanno. Se solo ci pensa,
al capodanno, gli viene da piangere. Si accorge solo ora di non aver ancora pianto. Giampaolo guarda dal terrazzo. La strada, l’inverno romano con le sue luci
ovattate e le voci sparite, improvvisamente. Guarda dal terrazzo e gli sembra di
vederlo: le spalle larghe, l’andatura lenta per via del ginocchio, i capelli ricci afro,
lana morbida sulla quale sognare.
Etienne.
A capodanno, il primo gennaio per l’esattezza, saranno un anno e un mese
che non si vedono e non si sentono più.
(Il racconto è tratto da Colla, n° 13, gennaio 2013)
I feel looooooooove
di Elena Ghiretti
I biglietti sono già stampati, pronti. Loretta si aspettava di riceverli a casa, impacchettati in una busta bianca, già con il profumo del viaggio dentro, aprire
la busta e Sorpresa! Eccoli, finalmente! E invece adesso le cose sono così tecnologiche, Lui li ha stampati in ufficio, o forse ha chiesto alla sua segretaria di
farlo (assistente, si dice assistente, ma in fondo è una segretaria, no?). Devono
essere così organizzati, nel suo ufficio, e puliti, vetrate, grandi spazi, grandi tavoli, moquette grigia. Così i biglietti adesso sono a casa, tiepidi, sul comodino, ad
attendere l’alba.
I tergicristalli spazzolano nevischio azzurro, Lui non parla da dieci minuti,
guida e basta.
Loretta vorrebbe dire qualcosa, sa che deve dire qualcosa, ma ha la testa buia
come la strada là fuori.
Potrebbe chiedergli informazioni sull’altra coppia, per prepararsi alla conversazione. È passato così tanto tempo dall’altra cena. Due anni? Così un peccato
che non ci siano state nuove occasioni, dopo. «Lei si chiama Ilaria, vero?», la
voce le è uscita trasparente e troppo sottile, deglutisce una volta, due volte, per
buttare giù la ruggine.
«Giovanna…»
«Ah, Giovanna, certo…», Loretta si morde il labbro inferiore, le pellicine sono
ruvide, burrocacao, dove ha messo il burrocacao della farmacia? L’ha lasciato a
casa, ecco. Certo che proprio la sera prima. Con i bagagli e tutto. E il volo così
presto da Malpensa. Ma pensa, Imbarco 7.45. Chissà perché dicono Imbarco.
Mica è una nave. Chissà quanti imbarchi Ilaria, nella vita. Giovanna, Giovanna.
Chissà quanti voli ha preso Giovanna, con quei bei vestiti, alta, magra, con quei
bei capelli, neri, più castano scuro, forse, con qualche riflesso più chiaro, proprio
nei punti giusti. Chissà che bravo parrucchiere a Milano, Giovanna, costoso, con
tante assistenti, segretarie, shampoo di colori diversi, uno per idratare, uno per
lucidare, poi le unghie, delle mani, dei piedi, belle mani, Ilaria, Giovanna. Certo
che proprio la sera prima della partenza per Londra Heathrow Imbarco 7.45. Le
valigie nemmeno finite.
«Lui Luca, vero…?»
«Gianluca».
Eh, quasi. Giovanna e Gianluca. GianGian. Carini, gentili, un po’ altezzosi,
lei soprattutto, un po’ distratti, lui soprattutto. Frettolosi, neanche il dessert, che
c’erano dei dessert così belli, così un peccato non prenderli, c’era il semifreddo di
caffellatte, e il tris di sorbetti di frutta. Invece niente. Ma gentili, avevano tanto
insistito per offrire loro, invece ha pagato tutto Lui, come sempre.
L’auto rallenta pesante, nella neve. Il ristorante non ha un parcheggio, bisogna trovare posto lungo la statale. Lui muove le mani piano sul volante, come
un timone, concentrato nel gesto. I sedili riscaldati, gran bella invenzione. Le
ruote scricchiolano sul manto soffice, non ci sono più rumori, né dentro né fuori.
Il vento solleva un pulviscolo bianco, dentro il cono di luce del lampione, Lui e
Loretta fermi davanti alla soglia del ristorante scelto, ottime recensioni, successo
di pubblico locale negli anni Novanta, menù aggiornato nel 2001, polvere sui
soprammobili, tende di broccato, grossi condizionatori marroni, lampadine a
risparmio energetico, luce a risparmio energetico, impietosa.
«Sono già annoiata».
«…»
«Posso stare zitta? Vi guardo, parlate voi».
«Credi di esserne capace?»
«Capacissima. Di cosa dovrei parlare? Del tempo? Nevica, punto. Fine della
conversazione». Giovanna allunga la mano per abbassare il volume dell’autoradio, dove imperversa la colonna sonora di American Hustle, tracce veraci di anni
Settanta, paillettes, occhiali fumé, troppo fard sugli zigomi. Donna Summer ammutolisce mortificata.
«Hai intenzione di continuare così? Hai fatto ostracismo per mesi… anni…!
Adesso partono, ci vogliono salutare, poverini, ci tengono tanto, pensa che hanno il volo domani prestissimo e stasera vengono a vedere noi».
«Patetico».
«Pensa che si trasferiscono a Londra, può sempre fare comodo, no?»
«Ecco, questa poi, non mi capacito. Paradossale».
«Perché paradossale?» Gianluca alza di nuovo il volume, Donna Summer si
ringalluzzisce, I feel looooooooove, ooove, ooove, ooove.
«Perché dovremmo essere noi quelli che si trasferiscono a Londra, com’è possibile che quell’omuncolo abbia ottenuto un posto nella città dove chiunque sogna di andare a vivere…»
«Guarda che quell’omuncolo è molto in gamba».
«È un asociale».
«Be’, ha un po’ di difficoltà di comunicazione…»
«Mi fa paura».
«Ma che paura, è solo timido».
«Timido? Con quello sguardo da assassino seriale?»
«Strabismo di Venere».
«No, no, che strabismo di Venere, e poi è gonfio, forse beve, ed è uno psicopatico, vedrai che la farà a fette nella nuova casa a due piani di Richmond – ti rendi
conto? Richmond! – la seppellirà nel giardino sul retro, solo il cane capirà cosa
è successo, ai vicini dirà che è tornata in Italia».
«Cazzo dici, è così affezionato alla sua Lorettina».
«Dove l’ha comprata la sua Lorettina? Sul Postalmarket?»
«Non credo che si siano conosciuti su Meetic».
«Macché Meetic, magari, lui l’ha ordinata per posta in un’isola del Sud, tipo
Ponza, o più giù, Filicudi, Alicudi, scambio epistolare con la zia Annunziata, l’ha
fatta recapitare come un pacco – tanto ci sta in un pacco 50x50cm – per tenere
in ordine la casa, occuparsi del figlio handicappato…»
«Non è handicappato, ha solo avuto problemi di apprendimento».
«…Eh, sì, per occuparsi del padre psicopatico e del figlio scemo, fare la spesa
e rassettare, magari anche qualche rapporto orale, così, en passant…»
«Stai esagerando».
«Tu stai esagerando a portarmi di nuovo ad assistere a questo scempio!
Guarda che lo denuncio a Se non ora quando!», Giovanna si rintana dentro il
cappotto in panno di cashmere, le narici le fremono di femminismo di quarta
generazione, affonda il naso nella pashmina morbida che trattiene aromi lontani
di Rajasthan, sandalo, tè Darjeeling allo zenzero con tanto zucchero e latte, la
riva del lago di Pushkar al tramonto, stormi di uccelli impazziti nell’aria rosa,
piedi nudi e sporchi sulla pietra tiepida. Passato. Quasi.
L’auto frena nervosa, le ruote slittano per un attimo, poi ritrovano la presa,
parcheggio sghembo creativo ma efficace, da vero milanese, l’insegna del ristorante si affaccia dentro il cono di luce, sotto due figure imbacuccate, piantate
nella neve.
«Ci hanno aspettato fuori? Cristo santo… dai, andiamo…»
«Fai la brava, intesi?»
«Sì, sì, faccio la brava, dai che prima si comincia prima si finisce».
Loretta è una bambolina folk stretta nei suoi panni sgargianti, scamiciato
pied de poule della festa, spalline imbottite, le mani piccole appoggiate educate
ai lati del piatto. Gli occhi neri luccicano felici. Forse ha esagerato con l’ombretto
azzurro, perlato. Ottima scelta questo ristorante, proprio elegante, adatto.
I due uomini confabulano all’altro lato del tavolo, sottointesi di business, gossip aziendali, lista dei vini, ammiccamenti al caposala, uno gnomo rubicondo
impagliato in uno smoking largo che reagisce subito all’impulso nervoso testosteronico, come una rana morta nella gelatina elettrica, e schizza a cercare la
bottiglia di rosé millesimato.
Giovanna ha incrociato per un attimo lo sguardo guercio di Lui, l’Omuncolo,
un innesto a gemma dormiente di Marilyn Manson su Fabrizio De Andrè, montatura degli occhiali d’oro, squadrata, senza ambizioni rétro, semplicemente…
vecchia. Questa coppia avrebbe bisogno di un art director come si deve. Ma no,
non ne varrebbe la pena. Sono destinati a fare le mummie al piano nobile della
villa Tudor, seduti nostalgici davanti a Sanremo e a un piatto di spaghetti al pomodoro.
Guardarlo le ha messo i brividi, ha qualcosa di viscido, forse è la pelle unta.
Poi teme che le si incrocino gli occhi a fissare uno strabico, o di metterlo in imbarazzo, o di imbarazzarsi, e allora si è messa a studiare attentamente le posate in
finto argento con i ricami finto déco, ci sono proprio tutte, abbondano. È il male
minore, la distraggono dall’orrore del centrotavola con muschio e nastro di raso
verde, pretenzioso e di cattivo gusto come tutto il resto. Useranno burro a palate,
ci può scommettere. E che luci di merda, occhiaia profonda garantita. Ormai è
chiaro: è finita dentro un incubo piacentino.
E poi c’è lei. Agghindata, imbellettata, scodinzolante. Non essere stronza.
Guardala meglio. Aguzza lo sguardo. Ha gli occhi vispi, no? E il pelo lucido. Non
essere stronza. Sii umana. Guardala. Di più. Interessati, falle una domanda.
«Allora, tutto pronto per la partenza? Domani, vero? Sei contenta di andare
a vivere a… Londra?», Giovanna si è tesa verso Loretta in un sorriso invitante, il
più invitante che ha trovato, il faccino minuto di Loretta s’illumina e annuisce,
mentre il corpo rimane composto come una bomboniera.
«Sì, bello, sono molto contenta…», risponde giusto all’intervista, sta per aggiungere altro, ma rimane muta, sono gli occhi che proseguono. Giovanna lo
vede, ora, che ha voglia di parlare, che deve fare, incoraggiarla? Che è, una balia?
E che luci di merda. Gli amuse-bouche piacentini, straccetti di cotenna di maiale
rosolati nel lardo, giacciono delicati nei piattini finto Rosenthal.
«E… l’inglese, lo parli…?», oddio non dirmi che non parla inglese, questa qui
va a vivere a Richmond Upon Thames, London’s Happy Valley, diecimila sterline
al metro quadro, accento Brit perfetto, ville sul fiume, giardini incantati, cigni,
tate.
«Veramente no, cioè, l’ho studiato alle scuole superiori, ma devo riprenderlo… pensavo di iscrivermi a un corso…»
Lo sapeva lo sapeva, non spiccica una parola, e come fa, tra i cigni e le tate
Brit? Roba da pazzi, Giovanna scuote la testa mentalmente, ma fuori mantiene
la paresi di un sorriso.
«…Prima di tutto di inglese… e poi di Life Coaching», conclude Loretta, compunta.
«Ottimo, fai bene… Life Coaching?», Giovanna capta errore di battitura. Life
Coaching? Aggrotta gli occhi.
Loretta fa sì sì con le sopracciglia e il naso: «È per la mia professione di educatrice, in Italia il Life Coach non è tanto riconosciuto, ma in Inghilterra sono
molto più avanti».
Pausa, rewind, cosa-sta-dicendo. «Cioè il corso lo fai per essere tu il Life Coach, capito bene?», Giovanna ha in testa un rebus, ah che rebus. Aguzza ancora
la vista, ma Loretta rimane fuori fuoco. Loretta-The-Life-Coach, Loretta ti guida
attraverso la vita, con Loretta raggiungi obbiettivi che pensavi impossibili. Ah.
Gli antipasti pomposi sono spariti dai piatti, gli uomini sono al terzo bicchiere e hanno le guance rosé, stanno parlando di quello stronzo di Menghini. «Sì,
certo. Sai, dopo i due anni alla casa famiglia inizio ad avere esperienza, poi anche
le ore accumulate a Telefono Rosa…»
Giovanna annaspa: «Casa famiglia? Telefono Rosa? Esperienza di cosa, esattamente? Cosa fa un’educatrice?», si sente stonata, non sa se è il vino cattivo o
questo lessico specifico in campo sociale, lei è più forte nel social.
Loretta non aspettava altro, pronti, via: «Alla casa famiglia aiutavo queste
ragazze, donne, ad affrontare il quotidiano. Turni di notte, anche. Sei giorni su
sette. C’erano due piani: uno per le ragazzine tolte alle famiglie difficili e uno per
le madri con i loro bambini, mamme che non sapevano come gestire un bambino
piccolo…», Loretta muove le manine come se ricamasse sulla tovaglia sintetica,
gli occhi sono più neri, più lucidi, «…una volta una voleva fargli il bagno con l’acqua fredda, l’ho fermata in tempo, lei non capiva, le ho detto “Fatti tu una doccia
fredda e poi mi dici”, un’altra voleva dare da mangiare del riso a un neonato.
Non è facile trattare con le madri, perché sono adulte, capisci?», fa delle piccole
pause, per vedere se Giovanna c’è ancora, «Ma non sanno niente, fanno delle
cose sbagliate, sono senza bussola. E tu devi essere brava a farti ascoltare, senza
offenderle, ferirle, capisci?», pausa, Giovanna c’è ancora, ma non sa se capisce,
«…E poi c’erano le bambine e le ragazze tolte alle famiglie d’origine, per abusi, o
genitori drogati, o suicidi e…»
Giovanna ha appoggiato sul piatto la forchetta su cui è infilzato un cosciotto
di coniglio incrostato di erbette aromatiche e aglio, mentre il boccone le ristagna
attaccato al palato. Si versa un bicchiere d’acqua, sonnambula.
«…E c’era questa ragazzina di dieci anni, che era già stata abbandonata dalla
famiglia, il padre spacciava, poi è stata data in affido a una coppia di Belluno
senza figli, sembravano convinti…», Loretta è un fiume calmo, Giovanna c’è an-
cora, conficcata nella sedia, immobile, davanti a sussurri e grida, «ma la donna
è rimasta incinta e allora non la volevano più, la ragazzina, dopo pochi mesi i
nuovi genitori sono tornati e ce l’hanno ridata, basta, non la vogliamo più, capisci che situazione, abbandonata, rifiutata due volte. È diventata violenta, dopo.
Non voleva più mangiare, dopo. Io ho dovuto convincerla a mangiare di nuovo»,
il tono è grave e leggero, senza enfasi, Giovanna è riuscita a deglutire a fatica la
carne, il piatto è freddo, le mani sono fredde, guarda Loretta da lontano e adesso
la fissa più a fondo, qualcosa si è mosso, nello sterno, un nocciolo duro, un punto
di contatto.
«Ma il mio compito di educatrice non è di analizzare o dare un supporto psicologico, per quello ci sono altre figure, io aiuto solo a risolvere i problemi quotidiani, le cose pratiche, sono persone che non conoscono l’abc, non hanno le basi,
nessuno glielo ha insegnato», Loretta ha le gote arrossate per la convinzione e
l’entusiasmo, ma conserva un contegno da Mater Matuta.
Nella testa di Giovanna la villa Tudor ondeggia in una luce soffusa da filtro
Instagram Earlybird, attorno il quartiere di Richmond risplende di sole dopo
un acquazzone passeggero, Loretta è nel salotto davanti, quello buono, e versa tazze di tè fumante bergamotto a dame vittoriane con cappellini di piume,
convenute per la donazione settimanale alla Fondazione per le Donne istituita
da Loretta, le si stringono attorno, lei emana umanità e candore, Gwyneth Paltrow è giù nell’ingresso, è voluta passare di persona, niente intermediari, per
discutere del nuovo libro di ricette vegane con influenze mediterranee Me and
Loretta, in uscita per Hachette in settembre, Apple e Moses hanno già raggiunto
gli amichetti nel giardino sul retro, affacciato sul fiume, dove la tata siciliana sta
lanciando pezzi di pane ai cigni.
Devi dirle qualcosa, fai un commento, un commento sensato. A Giovanna
vengono in mente solo frasi di circostanza infelici, invece qui c’è bisogno di altro.
«Sei brava, tu», le è uscito così, quasi spontaneo, «vedrai, andrà tutto bene a
Londra». E Giovanna lo pensa davvero, è vero, Loretta adesso è Madre Teresa,
o Giovanna D’Arco, o tutte e due, il suo corpo minuscolo le sembra più grande,
eretto, fiero e lei, con la sua colonna vertebrale prestigiosa, si sente una pulce
d’acqua dolce.
In quel momento coglie un’occhiata dell’Omuncolo alla propria consorte,
dietro lo strabismo sta acquattata una tenerezza piena di orgoglio.
Il caposala, sudato, si avvicina pericolosamente al tavolo, gli uomini, satolli,
sono scivolati lungo le sedie, le pance tese.
«Dessert?»
Giovanna guarda Gianluca, poi Loretta, «Certo, dessert!», esclama, «Possiamo avere la lista?» e, dopo un attimo, «Ce la concediamo una mousse di castagne, vero, Loretta?»
(Il racconto è tratto da ’tina, n° 29, 2 marzo 2015)
Il cuore non è una chiatta
di Mirfet Piccolo
Il giorno che vide il corpo di sua madre essere chiuso dentro una cassa di legno, Aldo Oriani decise che ne aveva avuto abbastanza, e prese quindi la ferma
decisione che mai e poi mai avrebbe, in futuro, versato ancora lacrime, provato
paura, tristezza e rabbia, e, per essere certo di fare le cose bene, senza sbavature e inutili rischi, decise anche che non avrebbe più provato gioia tra i suoi
compagni e amici, che non avrebbe desiderato nessun gioco nuovo né andare al
parco, che il minestrone e le patatine fritte avrebbero avuto lo stesso sapore e che
perciò non avrebbe fatto differenza mangiare l’una o l’altra cosa. Niente. Ed era
un niente che aveva senso. Così decise Aldo Oriani, maschio, altezza un metro e
quarantuno centimetri, anni otto.
«Povero bambino, povero piccolo», gli disse il prete accennando una mano
aperta verso la guancia del bambino, e Aldo, che non aspettò il compiersi della
carezza, si voltò verso il padre e con voce limpida domandò, papà questo vuole
dire che la mamma è morta con tutti i soldi?
La mattina seguente Aldo andò a scuola come tutti gli altri giorni: seduto al
suo banco, il quaderno aperto su una pagina bianca, la penna in mano pronta
a scrivere; alzò la mano e si fece interrogare, rispose a tutte le domande senza
esitazioni.
Maestre e parenti erano convinti che presto il bambino avrebbe dato libero
sfogo alle sue emozioni. Ma così non successe, e la morte della madre divenne
presto un fatto lontano e nell’ordine delle cose, un evento rispetto al quale, convenivano tutti, il bambino aveva trovato la forza e la maturità di andare avanti. E
così fu, senza sprechi né pretese.
Una domenica – era l’ora di pranzo, era una bella giornata di luce chiara – il padre di Aldo tornò a casa con i pasticcini in una mano e con una donna nell’altra
e annunciò:
«Aldo, ora hai una nuova madre», e Aldo la guardò dal basso all’alto e disse,
va bene non c’è problema; anche se il bagno era uno solo e forse era necessario
istituire dei turni.
Samantha voleva essere ben voluta da Aldo: presto gli comprò la nuova PlayStation, da usare quando voleva; gli cambiò il guardaroba con jeans alla moda
e nuove scarpe da ginnastica, per essere come gli altri, anzi meglio degli altri;
lo portò a cavalcare e incitò il marito affinché andasse con Aldo a una corsa di
formula uno. Aldo rispondeva sempre molto educatamente, grazie è tutto molto
bello (in realtà: i cavalli ad Aldo non piacquero molto per via di quegli occhi
equini così grandi e lucidi, di una sfericità che Aldo misurò essere, con molta
probabilità, aliena; la formula uno, invece, quel corrersi dietro e in tondo, gli
parve un gioco per stolti e troppo rumoroso) e teneva le sue nuove cose con
molta cura: i vestiti ben piegati nell’armadio, i giochi in ordine sulla mensola.
Col tempo le attenzioni di Samantha scemarono, e nello spazio di pochi mesi si
riassunsero in una mancia settimanale di trenta euro in aggiunta ai venti che gli
dava il padre.
Era una famiglia serena e di raro equilibrio. Avevano pure la colf e due posti
auto riservati davanti casa.
In quegli anni, l’unica cosa che procurò fastidio ad Aldo fu svegliarsi la mattina umido e appiccicaticcio tra le gambe. Sapeva benissimo di cosa si trattava,
e sapeva che non era una cosa pratica. Decise perciò di risolvere la situazione
applicando il metodo insegnatoli dalla sua prima madre per non bagnare il letto:
svuotarsi bene prima di andare a dormire. Non era come fare la pipì – che spruzzava fuori quasi da sola, bastava spingere un po’ –, ora Aldo doveva muoverselo
ripetutamente su e giù; ma il principio era lo stesso e infatti funzionò. Risolto
questo, non ci furono altri problemi, e Aldo completò con successo la scuola
media.
Poi arrivò una sorella, Sofia. Era piccola e, constatò Aldo nel reparto maternità dove Samantha era ricoverata, molto brutta. Forse, pensò Aldo, non sarebbe sopravvissuta a tanta bruttezza. Invece la bambina lasciò l’ospedale in piena
salute e, a detta di tutti i visitatori che seguirono in casa, era: una vera principessa, una bella-ma-proprio-bella, una patatina, una signorinetta, una che farà
impazzire gli uomini, una bittibitti-puttiputti. Il giorno che Aldo la vide muovere
i primi passi da sola smise di pensare che sarebbe morta.
Ogni tanto suo padre chiedeva ad Aldo di curare la bambina mentre lui e
Samantha erano fuori, a cena o al cinema: Aldo non rifiutava mai, non avanzava
pretese né rispondeva con piccoli ricatti adolescenziali e diceva, si va bene non
c’è problema. Poi, quando i suoi genitori uscivano, Aldo prendeva le grosse cuffie
stereo, le metteva sulle orecchie della bambina e accendeva la tv sintonizzata
su qualche cartone. La bambina rimaneva tranquilla, e lui poteva andare al suo
pc a leggere qualche manuale o a sviluppare qualche programma che risolvesse
il problema del sovraffollamento del loro unico bagno, specie in previsione di
un’ulteriore crescita di Sofia. Intanto Sofia non emetteva alcun suono e si addormentava. Aldo poi spegneva la tv e le toglieva le cuffie e aspettava, seduto sul
divano, il rientro dei suoi genitori.
«Tutto bene, Aldo?», gli domandava il padre e Aldo rispondeva sempre, certo
papà tutto bene.
Arrivò il momento di compiere gli studi universitari: una scelta ovvia, senza
dibattimenti e o dubbi di alcun genere. Aldo si trovò aggregato a un gruppo di
sei ragazzi: sedevano nella sua stessa fila durante le lezioni di statistica, masticavano gomme e il giovedì sera andavano a giocare a calcetto (Aldo accettò l’invito
di andare al campo; si assegnò il ruolo di tecnico: dalla panchina teneva il punteggio, su di un blocco a quadretti disegnava gli schemi e calcolava le percentuali
di possesso palla).
I suoi compagni parlavano anche di ragazze, ne parlavano sempre, e Aldo
pensò che fosse arrivato pure per lui il momento di trovare una femmina con la
quale uscire due volte a settimana e della quale prendere in mano i seni specie
se voluminosi. O il culo.
Una sera, Aldo entrò in mIRC e iniziò la sua ricerca. Aprì la query di una
certa Mitty e così conobbe Rebecca. Non ci volle molto e non fu particolarmente
difficile: dopo una settimana di chat, durante la quale Rebecca scriveva profusamente della sua vita tra noiosi libri e la palestra e Aldo per lo più faceva domande
che si era preparate e scritte su un foglio di carta, uscirono per la prima volta. Si
videro in un piccolo bar su una strada affollata; seduti a un tavolo di plastica, con
fiori finti e un menù avvizzito, un cinese di nome Gianni servì a lei una cioccolata
con panna e a lui un’acqua tonica. Quello fu il primo di una lunga serie di appuntamenti, tutti molto tranquilli e senza sorprese di alcun tipo.
Il sabato pomeriggio, dalle ore 14 alle ore 18, studiavano insieme in biblioteca, uno di fronte all’altra; ad ogni ora trascorsa Aldo alzava la testa e bisbigliava,
pausa. La domenica pomeriggio, dalle 14 alle 17, invece, uscivano: andavano al
cinema o al parco se c’era bel tempo. A settimane alterne prendevano una stanza
a ore nella quale non stavano mai più del necessario.
Alla fine del primo anno di corso, Rebecca lasciò gli studi universitari per
andare a lavorare come segretaria in uno studio dentistico associato. Era stufa di
perdere tempo sui libri per un lavoro che certamente non avrebbe mai trovato, e
poi voleva la sua autonomia, perché ormai era una donna e aveva anche lei certe
esigenze, certi bisogni e istinti primari. Camminava nervosa e gesticolava per
la stanza del motel. Aldo, seduto sulla sponda del letto, l’ascoltò attentamente
senza interromperla. Quando Rebecca sembrò aver terminato ciò che aveva da
dire e domandò solo:
«Che ne pensi, amore, faccio bene o no?», Aldo si alzò placido e le disse, fai
come credi perché ogni cosa ha i suoi pro e i suo contro e non c’è giusto né sbagliato.
Rebecca lavorava anche di sabato pomeriggio. Aldo aveva deciso che il sabato
poteva essere benissimo sostituito con il venerdì: alle ore 19 del venerdì andava
a prenderla allo studio e l’accompagnava a casa; sulla porta un bacio leggero e
poi, allora ci vediamo domenica alla solita ora. Da casa di Rebecca, Aldo contava
i passi fino a casa sua: erano 278 d’estate con le scarpe leggere e la strada libera
dalle pozze di pioggia o manti di neve; 417 d’inverno quando gli scarponi lo costringevano a fare passi piccoli e più pesanti.
Arrivò il giorno di discussione della tesi. Aldo era preparato. In bagno, poco
prima del suo turno, sentì dei ragazzi che parlavano di gambe tremanti e cuori
in gola. Mentre si asciugava le mani con la salvietta di carta, Aldo pensò che l’espressione «cuore in gola» fosse inutile e senza senso. Come se il cuore si potesse
spostare, così, da solo, da una parte all’altra del corpo. Il cuore non è una chiatta,
pensò. Stupidaggini.
La discussione gli valse la lode, e tante strette di mani, anche quella di suo
padre: «Bravo figliolo, tua madre sarebbe fiera di te», e Aldo ritirò la mano, non
dire sciocchezze papà è ovvio che noi questo non possiamo saperlo.
Trovò presto un lavoro in una grande e solida azienda e, dopo un anno all’ufficio logistica – Aldo era un impiegato sempre puntuale e rispettoso delle regole –,
ottenne un aumento di stipendio. Agli occhi dei suoi colleghi l’aumento dato ad
Aldo fu una vera sorpresa: quelli infatti erano tempi duri, si diceva che l’azienda
avrebbe tagliato i costi e i lavoratori si stavano organizzando con i sindacati.
Aldo aveva visto e letto qualche volantino, nella bacheca della sala mensa. Un
giorno, a pranzo, un suo collega gli chiese cosa ne pensava e se voleva unirsi anche lui alla manifestazione di protesta. Aldo rispose che lui non si occupava di
politica e che l’unica cosa da fare affinché le cose andassero lisce era che ciascuno
pensasse a fare bene il proprio lavoro.
Poche settimane dopo la promozione, Aldo fu convocato dal Direttore. Aveva
per lui un nuovo incarico: registrare e riferire in direzione ogni malcontento
delle truppe, perché l’azienda non poteva permettersi nessuno spreco di energia.
Era un venerdì. Prima di assumere il nuovo incarico, e per la prima volta e in via
del tutto eccezionale, Aldo chiese e ottenne il pomeriggio libero.
Quel pomeriggio andò in una gioielleria e comprò un anello di fidanzamento, sobrio ma elegante. Perché andava fatto ciò che andava fatto, senza troppi
pensieri né moine. Quando arrivò allo studio dentistico gli dissero che Rebecca
era dovuta tornare a casa a prendere dei documenti importanti ma che sarebbe
tornata prima della chiusura. Per non perdere tempo, Aldo decise di andarle
incontro.
Bussò alla porta. Bussò ancora. Nessuno venne ad aprire. Pronto ad andarsene – forse Rebecca aveva cambiato percorso ed era già in strada di ritorno allo
studio –, Aldo gettò un occhio alla finestra della sala, alla tenda non completamente chiusa. Rebecca si stava stringendo in vita una vestaglia e un uomo a torso
nudo si muoveva in fretta dal divano alla cucina.
Quando Rebecca, trafelata, aprì la porta e farfugliò:
«Oh, sei tu…, io stavo giusto per…», Aldo le sorrise e le disse, sì sono io. Poi
si voltò e se ne andò.
Tornò a casa. Mise l’anello nell’ultimo cassetto del comò, estrasse lo scontrino
dal portafoglio e lo posò vicino alla scatola: lo avrebbe restituito al negoziante
o rivenduto. Ma presto si dimenticò anche dell’anello, e tutta quella storia gli
tornò in mente, per un attimo, solo quando, un giorno di molti mesi dopo, rivide
l’anello al dito di Sofia che civettava in salotto con le sue amiche e lo mostrava
come fosse un trofeo.
«Non ti dispiace vero se lo tengo io?», e Aldo rispose, è solo un oggetto.
Gli anni che seguirono furono calmi e prevedibili, anche nella malattia di suo
padre che piano lo fece morire, e dopo la quale Samantha decise che in quella
casa non poteva più starci e lei e Sofia se ne andarono. Per il funerale del padre
Aldo non si fece cogliere impreparato: già da tempo aveva preso contatti con l’agenzia funebre, ed ebbe pure l’occasione di pensare anche a se stesso, vale a dire
di usufruire di uno sconto del 25 percento sul prezzo di due bare.
Nella casa ora vuota la vita di Aldo non avvertì grossi cambiamenti: lavorava
sempre molto e spesso cenava in ufficio o, al rientro, faceva una sosta in autogrill.
Una sera il Direttore lo convocò e gli disse che era licenziato. L’azienda stava
attraversando una profonda crisi e necessitava di giovani leve con le quali rafforzare i ranghi.
«Ma lei è sempre stato un uomo tranquillo», aggiunse il Direttore, «perciò
tenga, tenga questa lettera di referenze, sono certo che troverà un altro posto con
cui arrivare alla pensione», e Aldo disse, capisco signor Direttore lei è stato un
ottimo Direttore e sono contento di essere cresciuto in questa azienda se adesso
permette allora io andrei.
Tornò alla scrivania a raccogliere le sue cose: una calcolatrice, l’agenda, e il
piano ferie che aveva pronto da sei mesi e che avrebbe dovuto consegnare tra
dieci giorni lavorativi. Lasciando l’ufficio, Aldo fece due calcoli: il primo che gli
mancavano tre anni per la pensione; il secondo che, nel frattempo, i risparmi
accumulati nel corso degli anni gli avrebbero permesso di vivere dignitosamente
senza dover per forza impiegarsi in un altro lavoro. E così fece: e i tre anni passarono e arrivò la pensione.
Un sabato mattina, mentre si apprestava a mangiare la sua colazione (caffè
solubile e quattro fette biscottate), suonarono alla porta.
Un giovane in salopette blu si presentò con il nome di Jonathan e disse che
lavorava per una ditta che raccoglieva tutto ciò che la gente voleva buttare via. Il
ragazzo precisò con enfasi che la raccolta era effettuata gratis e, a voler proprio
ben vedere, chi si liberava di cose vecchie guadagnava spazio per cose nuove. Per
tutto il tempo di quel discorso di presentazione, il ragazzo tese il collo e lo sguardo all’interno della casa.
«Se vuole le posso anche togliere la carta da parati visto che non va più di
moda. Non sarebbe gratis ma se vuole le posso fare un buon prezzo».
Aldo non rispose subito.
«Le propongo una cosa», disse al ragazzo.
Il ragazzo sorrise e si fece attento.
«Lei venga qui una volta al giorno, diciamo ogni sera alle sette. Le farò trovare due pacchi con delle cose da portare via. Due pacchi al giorno per trenta
giorni».
«Cosa? Lei vuole veramente che io vengo qui tutti i giorni per un mese?»
«La pagherò».
«Oh, beh, io… va bene. E quando dovrei iniziare?»
«Inizierà domani. E le lascerò un paio di chiavi, così se non sarò in casa lei
potrà entrare a prendere i sui pacchi».
«Affare fatto. Allora a domani, signor…?»
«A domani».
Il giorno seguente Aldo si svegliò all’alba e iniziò subito a lavorare. La prima
stanza fu la cantina: c’erano vestiti e scarpe di sua madre e che suo padre si era
ostinato a conservare. Mise tutto nelle scatole senza soffermarsi troppo sui contenuti – intravide molte lettere e foto alcune in bianco e nero – e portò le prime
due scatole in sala da pranzo.
Jonathan arrivò alle sette in punto. Aldo, pronto sulla porta, con le scatole gli
diede anche un pugno di banconote.
«A domani», gli disse.
Il ragazzo stava per dire qualcosa ma Aldo aveva già chiuso la porta.
I giorni seguenti furono più o meno tutti uguali.
«Se io non rispondo, è sicuro di avere le chiavi per entrare?», chiese Aldo una
sera.
«Certo, signore, le tengo sempre con me anche se…»
«Allora a domani».
Terminata la cantina passò alla stanza del padre e della matrigna. Sul comò
intravide la foto di un bambino e si riconobbe solo perché qualcuno aveva scritto
sulla cornice aldo a sei mesi. I vestiti di suo padre erano ancora tutti nell’armadio e quando Aldo aprì l’anta si sentì schiaffeggiato dalla puzza di vecchio. Trovò
anche qualche abito da donna e un pacco di lettere affrancate ma mai spedite.
C’erano molte cose in quella stanza, cose di ogni tipo, ma Aldo inscatolò tutto
senza perdere il ritmo, velocemente e con ordine.
Jonathan arrivava sempre puntuale e il lavoro procedeva liscio; ancora pochi
giorni e le scatole sarebbero state complete e la casa finalmente pronta.
Dopo la camera del padre, Aldo passò alla stanza di Sofia. Era la stanza di una
ragazzina, con qualche poster ingiallito sui muri e un orsacchiotto sotto il letto.
Aldo si chiese come avesse fatto a vivere nella stessa casa con una bambina. Nella
manciata dei secondi necessari a sigillare un primo scatolone con il nastro adesivo, Aldo constatò che non si ricordava le sembianze di questa Sofia, e si disse,
si vede che non era importante. In quella camera non c’erano molte cose, e due
scatoloni furono più che sufficienti.
Raccolto tutto dalla stanza di Sofia, Aldo andò in cucina: dal tostapane alle
tovaglie, pentole e pentolini, piatti, bicchieri e posate. Dopo la cucina, la sala:
quadri e quadretti, mobili, la tv, la radio. Fece portare via pure il divano, e al
centro della sala rimase solo una poltrona.
Un giorno Aldo disse a Jonathan che invece dei pacchi, quasi ultimati, si sarebbe dovuto occupare di rimuovere tutta la carta da parati. L’avrebbe pagato di
più.
Per rimuovere la carta da parati fu necessario modificare gli orari di lavoro:
Jonathan ora doveva iniziare alle nove del mattino e lavorava tutto il giorno.
Terminato il lavoro della carta da parati, era da intendersi il ripristino dell’orario
normale, cioè alle sette di sera. Aldo gli apriva la porta e poi andava in camera
sua dove rimaneva fino a quando, a sera, Jonathan dalle scale diceva, a domani, e
sentiva la porta chiudersi. Quando arrivò il giorno di togliere la carta dalle pareti
della camera da letto di Aldo, Aldo uscì – andò prima in banca e poi in chiesa – e
quando fece rientro Jonathan era già andato via e la sua stanza era senza pelle.
Arrivò il trentesimo giorno. Poco prima delle sette, Aldo Oriani si sedette sulla poltrona. Sentiva di avere un po’ il fiato corto, ma guardò soddisfatto la stanza
vuota, il nulla che era rimasto da fare: il senso di oppressione al petto non fu poi
così doloroso né spaventoso. E quando sentì quel pugno di dolore – un minuscolo sole che rotola e brucia – irradiarsi dallo sterno fino alle spalle, Aldo era convinto che mai, specie in quell’attimo, avrebbe provato ogni cosa di quel niente,
che mai potesse esistere un tale riflusso di rabbia e paure e umilianti solitudini,
di desideri e gioie abortite; e quando il dolore dalle spalle corse lungo il braccio
sinistro – una liscia bolla, piccina piccina – Aldo Oriani si lasciò impregnare
dallo strazio di fronte al corpo morto di sua madre e dal pensiero di quanto fosse
bella, la sua mamma, così perfetta nell’immobile respiro, così bianca di cera.
Jonathan chiamò l’ambulanza; gli chiesero il nome dell’uomo che stavano
portando via e il suo grado di parentela: il ragazzo rispose svelto: nessuno.
(Il racconto è tratto da Nazione Indiana, 23 marzo 2011)
Il battesimo
di Chiara Zingariello
Riconosco mia madre, seduta in giardino, e tutti voi nelle vostre case mentre vi
preparate alla festa. Siete seduti davanti allo specchio. State urlando a vostra
sorella di liberare il bagno. Vi allacciate una scarpa. Fate ipotesi su chi si presenterà a mani vuote.
Mia madre fissa lo sguardo sul fondo chiaro della piscina che ha fatto co-
struire. Immagina di abitare laggiù, di conoscere abbastanza quel posto da non
averne paura. La osservo da vicino. Penso a quante volte i vostri occhi non hanno visto qualcosa, anche nelle strade in cui vivete. Eppure, non fate altro che
chiedervi cosa succederà, dopo, da un’altra parte.
Da quando sono morta, vedo le cose come stanno. Riesco ad ascoltarvi. Ogni
tanto arriva una voce e mi ricordo di voi. Di come esistevate. Di come continuate
ad esistere.
Qualunque cosa sia, capita un sabato di giugno.
Tua madre e le madri del quartiere hanno organizzato una festa per l’arrivo
dei giapponesi in città. Nipponici, così li chiama tua madre. Non è chiaro se lo
dice per darsi un tono o per darlo a loro. Ha trasformato il giardino nella versione zen di un party in piscina. Ed ecco, mentre appende lanterne ai rami di un
albero, che arrivano: padre e figlio, maestro e allievo di arti marziali, due ombre
lunghe sul vialetto d’ingresso.
«Mi hanno detto che sono stati ad allenarsi in Cina», tra le voci che distinguo
c’è Penelope Keller, vicina di casa e presidentessa del Club di Punto Croce. «Ma
cosa vuoi, è un attimo e te li ritrovi in Occidente. Comunque, si vestono all’orientale», la donna spazza via un chicco di riso dal colletto della camicia, «intendo
dire, che non sanno vestirsi».
L’uomo è alto e robusto. Il ragazzo invece è sottile, con la costituzione e i
colori del giunco seccato al sole. Gli occhi un po’ troppo piccoli. I capelli un po’
troppo dritti. Eppure non c’è nulla, in lui, che non vada.
Tiene un mazzo di chiavi appeso al collo: a ogni passo, le chiavi sbattono sul
petto e fanno un rumore di vetri rotti. «Devono essere quelle della palestra»,
dice Luigi Ainardi, professore di educazione fisica. Nelle nostre orecchie, suonano come le chiavi della città.
«Particolare», commenta una vecchia con la bocca piena e un piatto di carta
in mano, «molto particolare».
Tutti si sono voltati a guardarlo. Le famiglie del quartiere, le ragazze più in
vista della scuola e noi, un gruppo di adolescenti nascosti dietro il fumo delle sigarette. Aspettiamo, non sapremmo dire cosa. Sul prato, sotto il portico, attorno
al buffet. Aspettiamo.
I due ospiti camminano fino al centro del prato, davanti alla piscina. Da qui
si accorgono di noi, che ci troviamo dall’altro lato della vasca. Il padre posa una
mano sulla spalla del figlio. Il ragazzo ha già iniziato a rallentare.
«Benvenuti», dice tua madre, andandogli incontro.
«Arigato», risponde l’uomo.
Il rumore delle chiavi si ferma. Il ragazzo giapponese sorride nel sole.
A noi, quel tipo non piace.
Sarà che fino a poco tempo fa gli somigliavamo. Ma da quando abbiamo lasciato lo sport e mollato la parrocchia, da quando ci sentiamo incapaci e capaci
di tutto, quelli come lui ci fanno paura. Non intendiamo dire che ci sentiamo
minacciati. E di certo non abbiamo ragioni per invidiarlo. Piuttosto lo troviamo
pericolosamente vicino: un ragazzo solo che non può nascondersi.
Sarà che le nostre madri ci hanno chiesto di abbracciarlo. «Che cosa ti ha
fatto?», hanno ripetuto prima di uscire di casa, «Neanche lo conosci». Ora, nel
vederlo, piegano la testa: dicono a bassa voce «carino», o «poverino», o entrambe le cose. E si compiacciono della superiorità dei loro figli, ma non hanno il
coraggio di ammetterlo. Come succedeva una volta, quando ci portavano al mare
e ci sgridavano se pestavamo il castello di sabbia del bambino più piccolo: però,
sotto sotto, si sentivano sollevate.
«Piacere di conoscervi», dice il ragazzo giapponese.
Potrebbe essere mio figlio, stanno pensando le nostre madri. Fa’ che non sia
mio figlio. Vorrei che mio figlio fosse suo amico.
«Eppure non c’è niente, in lei, che non vada»: questo vi ho sentito dire di
me. Ma l’ho sempre saputo, cosa pensavate voi ragazzi. Che ero tutta suonata.
Che bevevo forte. Che non era difficile invitarmi a uscire, portarmi nel bosco di
larici vicino alla scuola e raccontare una storia che mi mettesse paura, infilarmi
la mano sotto il vestito. Il giorno dopo, vi scambiavate commenti alla fermata
dell’autobus.
«Cosa dici, ti è piaciuta?»
«Se ti accontenti».
Siete gli stessi che si sono messi in fila per visitare la mia stanza, dopo aver
letto di me sui quotidiani.
adolescente annegata durante un viaggio in cina. tragedia o maledizione?
Voi pensavate che me la fossi cercata. Seduti al banco di una tavola calda,
avete elaborato le vostre teorie: «Le femmine sono più inclini al suicidio», «Chi
non scapperebbe da una città come questa», «E soprattutto i film che guardava:
i film che guardava, e i libri che leggeva». Dopo un po’, col passare delle settimane, siete tornati a parlare di ragazze vive. Ve le sognate la notte, che vi entrano
in camera dalla finestra e vi chiedono di fuggire. A volte, le sognate più grandi.
Incontrarle tra qualche anno in un pub fuori mano. Le immaginate sedute accanto a un uomo adulto, con la giacca da professore e una tasca troppo stretta
all’altezza del cuore. Quel genere di uomo che le fa apparire più bambine dell’età
che hanno. E voi, che siete gli stessi ragazzi di sempre, immaginate di salutarle
con un cenno della testa. Se solo le aveste notate allora. Andarsene, è la cosa più
seducente che potessero farvi.
«Nipponici».
Tua madre porge agli stranieri una ninfea di plastica, ultima lezione del corso
di bricolage per corrispondenza.
«Visto? Persino i fiori, li facciamo resistenti».
Si volta a guardare i suoi concittadini.
«Che questo gemellaggio possa durare nel tempo».
I giapponesi si piegano entrambi in avanti. Tua madre criticherà quel loro
modo di ringraziare, senza fare rumore. Ma non oggi.
È il 1995.
Tuo padre non abita più qui. Tua madre esce con il sindaco della città e lui,
insieme alla proposta di matrimonio, le ha fatto promettere di non dirlo a nessuno. Almeno fino alle elezioni. È lo stesso uomo che entrava in politica due anni
fa, quando il Comune organizzò il viaggio da cui non sei più tornata. Lo stesso
uomo che ora le posa una mano sulla schiena e – una spinta leggera, il collo di
lei che si allunga, il viso che si illumina di una luce innaturale – la offre in pasto
agli ospiti. Lui rimane indietro, beve a piccoli sorsi da un bicchiere di plastica.
Ha una macchia di crema sulla camicia. La copre con la mano.
La storia inizia così.
C’era un annuncio sul giornale locale. Vicino alla foto dell’uomo che convinse
mia madre a votare e, più tardi, a indossare orecchini. L’annuncio diceva: la
mia cina. viaggio culturale nella regione di tsinghai – gita alle mitiche sorgenti maledette – corso di autodifesa cinese. che tu sia fulminato, se non partecipi!
Mio padre l’aveva ritagliato e appeso al frigo perché, lo ripeteva spesso, lo trovava «ridicolo a un passo dal sublime». Chiesi a mia madre di partecipare. Subito mi disse di parlare con lui, in quel periodo vivevano ancora assieme e questo
voleva dire che non erano quasi mai nella stessa stanza. I giorni passarono senza
che trovassi una buona ragione per decidermi a farlo. Poi, una notte che pioveva,
scesi in cucina e lo trovai sveglio ad aspettarla.
«Vieni qui», mi disse lui, prima di avermi vista.
«Perché?», chiesi.
«Voglio guardarti. Voglio vedere la faccia di una che vuole scappare».
Rimasi ferma, oltre la porta della cucina, dove l’ombra del corridoio mi inghiottiva tutta tranne la punta dei piedi.
«Lei non è tornata?», chiesi da quel buio.
«Tornerà», disse mio padre, «abbiamo deciso di rimanere assieme».
Poi prese una bottiglia d’acqua dal frigo e me la allungò, facendola scorrere sul tavolo. Mentre bevevo, riprese a parlare. Non ricordo quali furono le sue
parole. Era per via di «una riunione», o forse di «una punizione», che lei non
tornava: ma ricordo che lo diceva in un modo distante, che la luce del frigo illuminava lui e quel tizio dell’annuncio, l’uomo in doppio petto con il fulmine in
mano, e io capii in quel momento che era una faccenda tra loro, tra mio padre e
un fantasma, e che è sempre una faccenda tra noi e un fantasma.
«Posso andare?», chiesi dopo un po’, anche se non sapevo dove.
Allora mio padre si alzò e uscì dalla luce. Sentii il suo schiaffo arrivarmi sulla
faccia.
«Se vuoi andare, vai. Però ascoltami bene».
Premette il mio viso contro la sua pancia e mi tenne così: sentivo il rumore dei
tuoni, là fuori, e il suo respiro, contro i miei occhi chiusi.
«Non è mai come te lo raccontano», disse nell’oscurità.
Avrei voluto ringraziarlo. Perché mi lasciava libera di scegliere e perché la
mia vita era fatta di infinite possibilità, tra poco mi sarei staccata da lui e sarei
corsa in camera a cercare quel posto sulla cartina. Ma non si trattava solo di
questo. Lo schiaffo non era forte, però continuava a bruciare. E io rimanevo ferma, contro il suo corpo caldo. Lui mi posò una mano sulla testa. Potevo partire
anche subito. Non sarebbe mai stata una vacanza.
Perciò, quando succede, tua madre sta tenendo un discorso sulle prossime
elezioni e gli adulti non si accorgono di nulla. Il ragazzo giapponese si è allontanato dal padre e si è avvicinato a noi, che ronziamo come mosche attorno al
buffet.
«Cosa vuoi?», gli chiede uno dei più grandi, con il ciuffo biondo e il naso da
maiale.
Il ragazzo giapponese indica una bottiglia sul tavolo. Per dire aranciata, dice
«arancio».
«Gente, questo sa parlare».
«Poco», dice il ragazzo, «non bene».
Qualcuno tra noi si sfrega le mani.
«Bene. Bene, invece».
Sono occasioni come queste, a darci piacere. Non ci mostriamo amichevoli,
perché non lo siamo. Abbiamo corpi bianchicci e sedentari. Ci esprimiamo a versi, a spintoni, e quando passa una ragazza la seguiamo per un po’ con l’andatura
degli animali ciechi, che seguono gli odori. Siamo vestiti alla maniera dei padri,
che sono vestiti alla maniera degli americani. Le frasi sulle nostre magliette urlano vendetta. E tuttavia il ragazzo non si muove, ci osserva. Vuole noi, che siamo
i suoi simili. Non gli importa che siamo così diversi da lui.
«Hai sete?»
Lui fa sì con la testa.
Quello che vogliamo noi, non lo sappiamo. Ma c’è una festa, noi non siamo
i festeggiati, e questo è molto di più di quanto potremmo desiderare. Possiamo
rovinarla.
Il biondo prende i bicchieri di plastica. Le nostre madri ci hanno chiesto di
segnarli a pennarello, per un principio di economia che non comprendiamo.
«Come ti chiami?»
Il ragazzo giapponese pronuncia il suo nome. Lo ripetiamo, «Rama».
«No, Ranma».
«Ranma». Ma qualcuno dalle retrovie sta urlando – «Si chiama Giallo!» – e
questo ci fa ridere, ci carica.
«Senti un po’, Giallo: ecco la tua aranciata».
Ranma si allunga sul tavolo. Il biondo ci ripensa e ritira la mano.
«Non subito. Prima farai una cosa per noi».
Tra molti anni, seduta a bordo vasca, mia madre ripenserà a ciò che vide quel
giorno. «Avevamo tutti qualcosa da farci perdonare», dirà con le gambe a mollo
fino alle ginocchia, «avevamo una ragione, per chiederti di tornare».
Non aggiungerà altro. Ma con la mente andrà ai due giapponesi, all’ultima
festa della sua vita. E ancora più indietro, a quando le scrissi dalle Sorgenti
Maledette.
Lei non era venuta con me, per via degli operai che stavano lavorando alla
piscina. La sera prima di partire, mi sorprese a fumare in camera mia. Tenevo la
sigaretta in una mano e l’inalatore per l’asma nell’altra. La finestra era chiusa,
il rumore di un trapano copriva la voce alla radio.
«Gesù, ragazzina», disse lei allontanando il fumo dalla mia faccia, «vuoi
morire?»
Io mi stirai la schiena, mi spruzzai il gas dell’inalatore in bocca e mi buttai
sul letto.
«E tu, mamma? Tu non vuoi morire?»
Aspirai di nuovo il fumo e glielo soffiai in faccia.
«Che sciocca, nessuno vuole morire», rispose lei. «Tutti vogliono salvarsi».
La guardai. Lei mi guardava. E in quel momento capii che avrei potuto ferirla, avrei potuto anche ucciderla se fosse servito a cambiare le cose, e mi venne
da ridere. Quella donna confezionava sacchetti di lavanda per profumare i cassetti. Io non mangiavo carne e mi vestivo di nero. E continuai a ridere, senza
ritegno, per quello che aveva fatto a mio padre e quello che stava facendo a me, e
per il modo in cui cercava di mettersi in salvo, tornando sempre sui suoi passi,
o facendo costruire una piscina, e pensando che non esistesse altra via di uscita,
restarsene a vivere in mezzo a noi. Continuai a ridere, finché non uscì dalla mia
stanza. Non mi avrebbe più rivista. Avevamo solo il sangue in comune.
Tua madre parla, l’uomo giapponese al centro delle sue parole, e le altre donne intorno, come satelliti, i mariti che guardano più che ascoltare, e l’invidia
delle mogli per i suoi capelli rossi, in memoria della donna che era, che vorrebbe
tornare ad essere ma no – «Dopo quello che le è successo», «Prima il marito la
molla, poi la figlia…», «Ho sentito che lui ha lasciato le chiavi sotto lo zerbino,
all’ingresso. Non un biglietto, non una parola», «Abbassa la voce! Ma lei non
aveva già un altro?», «Sarà. Io la trovo invecchiata» –, nessuno che si chieda
dove vanno i figli, che fine hanno fatto.
Ci introduciamo in casa dalla porta sul retro.
Ranma è alla testa del corteo, perché è lui che deve superare la prova. Nel
corridoio, ci sfiliamo le scarpe. Saliamo le scale e i nostri passi lasciano impronte
leggere sui gradini lucidi, poi più nulla: nessuna traccia del nostro passaggio.
«Entra», gli dice qualcuno, quando arriviamo davanti alla camera. Aspettiamo in silenzio che lo faccia. Guardiamo la sua nuca, le spalle contratte. Cerchiamo di immaginare la sua espressione.
«Non bene», sta ripetendo, e si torce le mani.
«Non bene». Stringe la maniglia finché le nocche non gli diventano bianche.
Una parte di noi, è d’accordo con lui. Tu non eri niente di speciale. Facevi
quello che facciamo noi. Fingevi di essere diversa, fingevi di stare nei tuoi panni,
fingevi di non avere paura. Una parte di noi vorrebbe fermarsi, come ci siamo
fermati allora, dopo la tua morte, quando siamo arrivati in tanti per lasciare un
fiore sul tuo letto e non abbiamo portato via nulla; ma l’altra parte desidera questo disastro, un disastro che stiamo facendo insieme, e lo troviamo irresistibile
come rompere una cosa, solo per vedere cosa si nasconde dentro.
Una spinta da dietro lo obbliga a entrare.
La testa di Ranma sbuca oltre la porta socchiusa, i suoi piedi affondano fino
alle caviglie nel tappeto con il disegno di un’araba fenice. Cade, in ginocchio,
davanti all’armadio. La stanza è piena di luce.
«Bravo. Sei stato bravo», diciamo.
«Adesso, lascia fare a noi».
Eccoci.
Siamo la mente e le braccia del ragazzo.
Apriamo l’armadio e spiamo tra i tuoi vestiti. In due rovesciamo un cassetto,
annusiamo le tue mutandine. È uno spettacolo esaltante e terribile, strappare le
pagine del tuo diario e inzupparle del profumo che lasciamo colare sul pavimento da una boccetta di vetro. Mentre soffochiamo una risata isterica, cerchiamo
qualcosa da tenere per noi. L’anello sul comodino, un astuccio azzurro con i tuoi
occhiali da sole, il rossetto che hai rubato al centro commerciale. Dove sei? Dove
sei? chiedono le tue cose sbattute a terra.
Ranma è rimasto in ginocchio. Una mano aggrappata al tappeto e l’altra che
non sa dove stare. Ora alza la testa, i suoi occhi sono vuoti come quelli di certi
animali braccati, o di certi santi. Sono occhi che vedono, ma senza guardare. Ed
è così che ti trova. E tu torni tra noi.
Dopo una settimana di viaggio, le scrissi una lettera. Iniziava con queste pa-
role: «Esiste una storia sulle Sorgenti Maledette. Ma tu non credi alle leggende,
e neanche alle maledizioni». Poi le raccontavo dell’albergo, della zanzariera sul
letto e degli insetti che mi davano il tormento. Della prima corsa attorno alla
sorgente.
Quando finii di scrivere, mi sfilai la maglietta sudata e mi stesi sul materasso.
Non riuscivo a prendere sonno. La mattina seguente, sarei tornata alle sorgenti
per il corso di autodifesa. Combattevamo come un branco di turisti: questo aveva
detto il maestro, un vecchio cinese con i denti scuri, e non sembrava sorpreso. Doveva essere abituato ad allievi come noi, a tipi viziati e brutali, a caviglie slogate,
a brutti ematomi. Probabilmente, lo faceva ogni volta. Raccontava quella storia,
perché le mance raddoppiavano.
Nella foto sei seduta su una sdraio, al centro del rettangolo d’erba dove ora
hanno costruito la piscina. Hai un cappello di paglia e un costume a due pezzi.
Una treccia sottile ti sbuca sulla schiena, tra le scapole arrossate. Prima che il
fotografo scattasse, gli hai voltato le spalle e hai mostrato il dito medio.
O forse sapeva già tutto. Come sarebbe andata a finire. Per questo, il giorno
dopo, raccontò ancora la storia. Chiunque cadeva nelle sorgenti prendeva le sembianze della persona che per ultima vi era annegata. Queste erano le regole della
maledizione: l’acqua fredda riportava a galla i morti, l’acqua calda li ricacciava
a posto.
Tra tutti gli allievi, il maestro indicò me. Poi indicò la pozza. Sorrideva. E
non mi disse che sarei morta quel giorno. Né che Ranma, con un tuffo nella stessa sorgente, mi avrebbe presa con sé. Né che sarei ritornata a casa. Il suo dito mi
puntò di nuovo, quando decise di chiamarmi a combattere con lui. C’erano pali
alti dentro la sorgente e noi dovevamo salirci sopra e rimanere in equilibrio fino
alla fine. Non so perché non dissi niente. Tenevo in tasca le chiavi di casa, l’unica
cosa che mio padre si era lasciato alle spalle. Le strinsi forte, feci un passo avanti.
Pensai che, forse, potevo dare una lezione al maestro e spingerlo in acqua. Forse
nuotavo meglio di quanto credessi. O forse, volevo cadere io. Fino in fondo. Affidarmi al destino, mi sembrava confortante.
Ranma ti vede, appesa al muro, si alza in piedi e prende in mano la tua fotografia. Legge la scritta a margine della cornice: la ragazza col codino, 19761993.
«È mia figlia. Si faceva chiamare così».
La voce gli arriva alle spalle. Quando Ranma si volta, deve alzare la testa per
guardare in faccia tua madre. I capelli rossi le piovono sul viso e la fanno sembrare più alta, più distante, o solo più divina. Noi ci schiacciamo contro l’arma-
dio, lei viene avanti – entra nella stanza – i suoi occhi si riempiono della luce di
fuori ed è come se non vedesse più nulla.
«Non toccarla», sussurra, ma in realtà sta gridando.
Ranma indietreggia, stringe al petto la fotografia. Qualcuno giurerebbe di
averlo sentito dire «Io sono stato lì. Sono stato da lei», ma non c’è tempo per
ricostruire la scena. Tua madre lo spinge verso la finestra aperta, un passo alla
volta, lo spinge toccandolo con un dito, ed entrambi camminano sopra i tuoi
vestiti sparpagliati, sopra il diario strappato e il profumo versato. Un tanfo dolce
e appiccicoso sale da terra. «Lo senti?», dice tua madre, «Questo è il suo odore.
Questa è lei, che mi manca». Ranma non la sta ascoltando. Vuole solo andare
via. Appoggia le mani sul davanzale della finestra, guarda in basso. Lo specchio della piscina riflette il mondo in formato ridotto. Ranma sale sul davanzale,
guarda in basso, valuta la distanza. Sente il buio che si raccoglie e sale dai bordi
dell’acqua. Vuole solo sparire. Vuole solo andare in un posto migliore. Sta pensando di saltare, o forse lo sta facendo. Vuole solo tornare a casa.
Sono qui. Ritornata alla luce dall’acqua. Mi guardate negli occhi e non sapete
chi sono. Sono stata vostra figlia, vostra amica, vostra compagna: la ragazza
morta e mai sepolta. Ora sono il vostro battesimo, la memoria che torna. In superficie, c’è il vento e ci sono i vostri occhi sgranati. Sott’acqua, il peso liquido e
senza tempo della mia attesa. Un’esistenza lunga un’apnea. Ma poi: Ranma è
caduto nella pozza, ogni volta che cade io cado in lui, e il desiderio ci ha riportato
a galla. Le nostre mani aggrappate al bordo della piscina. I nostri polpastrelli
cotti nell’acqua. Il nostro codino, come una serpe sulla pelle bianca. Siamo quello
che voi chiamate miracolo. Quello che mio padre chiama amore. Quello che io
chiamo la fonte di ogni male. Siamo il fatto stesso di un’altra possibilità, fuori
tempo massimo, senza ragione e senza rimedio.
Mia madre, affacciata alla finestra, è più piccola di me. Non potrei mai annegarla, in tutta quest’acqua. Lei non potrebbe lavarmi via, come fa con i suoi
peccati. Così rimaniamo qui, ora, nella marea dei giorni che arrivano e tornano
indietro. E non ci resta che arrenderci, gli uni agli altri, affacciati alla sorgente
dell’inizio e della fine.
2
(Il racconto è tratto da Colla, n° 19, ottobre 2015)
2
Illustrazione di Mar Ramos
Mar Ramos è nata a Reus (Spagna) nel 1986. Laureata in Belle Arti nel 2009 e in Educazione Artistica nel 2013. Artista e insegnante residente a Londra. Qui potete trovare alcuni
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