Quello che canta Onliù La ragazza entra nel locale quasi in punta di

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Quello che canta Onliù La ragazza entra nel locale quasi in punta di
Quello che canta Onliù
La ragazza entra nel locale quasi in punta di piedi, guardandosi attorno imbarazzata come se si vergognasse
di stare al mondo.
È esile e minuta, con un visino da bambina, ma veste in un modo che era già vecchio ai tempi di mia nonna:
gonna lunga a coprire le caviglie, cappello nero con un velo di pizzo a coprire il volto, guanti lunghi fino ai
gomiti. Sembra l’incarnazione della donna perfetta, secondo i dettami del Tribunale Religioso.
È in momenti come questo, che ringrazio il cielo di non avere una famiglia bigotta. Evviva i pantaloni!
Godiamoceli, finché a noi donne sarà permesso di indossarli!
La seguo con lo sguardo mentre attraversa in punta di piedi la pista da ballo, ignorando le coppie che
danzano, i camerieri in livrea e perfino Aldo, che sta suonando il pianoforte sul palco, sforzandosi di
interpretare con finta passione le solite quattro canzoni che il regime consente di suonare nei luoghi
pubblici. Visto il ritmo con cui le mettono all’indice, sono curiosa di sapere se per la fine dell’estate riuscirà
a farsi una scaletta che duri tutta la sera.
Per come si muove tutta rigida con lo sguardo basso a fissarsi le punte dei piedi, sembrerebbe quasi che
“Miss Scopa Nel Culo” sia entrata in un bordello e non in uno dei più eleganti bar della città.
Ecco, ora ha individuato il suo uomo seduto al tavolo. Lui è quel signore alto, elegante e non
particolarmente bello che pochi minuti fa si è stupito del fatto che gli avessi portato la lista dei cocktail.
Cittadini… sembrano nati ieri! Non lo sanno che nelle località balneari la restrizione alla vendita di alcolici è
sospesa durante il periodo estivo? Altrimenti, di che cosa camperemmo noialtri?
Da vero galantuomo lui si è alzato e le ha stampato due casti baci sulle guance, il massimo di effusioni
consentite in pubblico, poi le ha indicato dove sedersi e lei, remissiva, ha obbedito.
Dio, questi due sembrano proprio usciti dalle pagine di un libro di propaganda del regime!
Sono proprio curiosa di sentire che cosa si dicono, quindi afferro un paio di menù e scivolo con discrezione
a portata di orecchio.
“Te la ricordi questa, amore?”, dice lui, illuminandosi in viso. “È Onliù. La cantavano anche la sera che siamo
conosciuti.”
“Sì che me la ricordo! È una vecchia canzone, vero? Del tempo dei nostri nonni…”
“Giusto”, risponde lui, con aria sognante. Poi s’incupisce in volto. “Peccato solo che la cantasse un gruppo
di negri.”
“Davvero? Avevano il permesso di cantare allora?”, chiede lei, scandalizzata.
“Sai com’è: in America sono sempre stati tolleranti coi negri. Ne hanno anche fatto uno presidente!”
“Se sono così tolleranti, perché non si prendono anche i nostri? Siamo pieni di negri! Più barconi
affondiamo davanti a Lampedusa, più ne arrivano. Ma che ci provano a fare? Che pensano di trovare qui da
noi? Pensano forse che li accoglieremo a braccia aperte?”
“Sono negri, amore mio. Che vuoi che pensino? Sono poco più che bestie…”
“A proposito di bestie. Sai che hanno arrestato il nostro vicino di casa ieri?”
“Il signor Ricciardi?”
“Proprio lui! La moglie l’ha scoperto a masturbarsi in bagno. A masturbarsi, ma ti rendi conto? Pensa se al
posto della moglie fosse entrata la figlia!”
“Che pervertito!”
“E io che lo salutavo sempre quando lo trovavo nell’androne, quel porco! Sembrava una persona così per
bene…”
Basta così. Ho sentito abbastanza stronzate per una sera. Aspetto che Aldo finisca la canzone, poi appoggio
i menù sul tavolo e mi allontano senza attendere la loro ordinazione. Che si fottano. Aspetteranno.
Incrocio Aldo che si dirige in terrazza e lo seguo. Ho bisogno di un po’ di aria fresca, altrimenti impazzisco.
Fuori, la sera è frizzante e salmastra, un toccasana dopo l’aria viziata che ho respirato finora.
Seduto poco più in là c’è anche Martino, il vecchio lavapiatti, col naso sprofondato in un giornale.
A quanto pare, nessuno ha molta voglia di lavorare, stasera.
Senza chiedere il permesso, Aldo si accende una sigaretta a pochi passi da me. Addio alla brezza salmastra.
Vorrei strozzarlo: come fa a venirgli in mente di fumare proprio adesso? Certa gente non ha proprio il
rispetto. Meriterebbe che qualcuno prendesse dei provvedimenti…
Cazzo. Mi sono appena resa conto che sto iniziando a pensare come quei due dentro. Possibile che sia così
facile? Fumare è ancora legale, dopotutto. È uno dei pochi vizi che ci concedono ancora.
Prima che riesca a darmi una risposta, vengo distratta da Martino, che accartoccia il giornale e lo getta a
terra, accompagnandolo con un fiume di improperi.
“Che cazzo di giornale! Soltanto gossip, ricette di cucina e previsioni del tempo! Nemmeno uno straccio di
notizia che fosse una! Ci vuole un bel coraggio a leggere questa merda!”
“Abbassa la voce, Marino!”, gli dico, inorridita. “Qualcuno potrebbe sentirti!”
“Che mi denuncino allora! Pensi che me ne fotta qualcosa, ragazza? Ho già una pila di multe ad aspettarmi
a casa che non ho idea di come farò a pagare, credi che una in più farebbe differenza?”
Si sente una sirena della polizia, giù in strada. D’istinto, sia io che Aldo ci allontaniamo da Martino, come
fosse un lebbroso. Ma non è lui quello che sta gridando, adesso.
C’è un uomo, in mezzo alla via. È ubriaco, lo si capisce a prima vista. Ha appena vomitato accanto a una
panchina e ora sta urlando contro alla gazzella una serie di sproloqui senza senso. I poliziotti non ci
mettono molto a zittirlo. Le manganellate sono così violente che si sente il rumore delle ossa rotte fin da
qui. Passano minuti lunghi come ore, prima che si decidano a smetterla, poi lo trascinano di peso dentro
l’auto. Ha i pantaloni bagnati, ma nel buio non riesco a capire se si tratti di vomito, di piscio o di sangue.
Fisso Martino, che ha osservato tutta la scena con una smorfia di disgusto sul volto.
“Martino, tu sei l’unico tra di noi che ricordi com’erano le cose prima. Come siamo arrivati a questo punto?
Sai spiegarmelo? Perché io proprio non capisco…”
“Colpa del mare, mia cara”, risponde lui, con un sorriso amaro.
“Del mare?”
“Sì, del mare. Le votazioni importanti erano sempre d’estate. E d’estate si va al mare, dico bene? Chi mai
rinuncerebbe a un giorno di mare per andare a votare? Ci siamo divertiti. Chissenefrega dell’astensione! Chi
se ne importa di quello che dicono i giornali! Tanto, chi li leggeva i giornali? Ce ne siamo fregati tutti… e io
ero tra quelli, non credere...”, la sua voce si fa malinconica e sottile, quasi un sussurro. “Fino al giorno in cui
nessuno ha più potuto votare. Ma tanto, ormai, a nessuno importava più niente. È l’indifferenza che ci ha
fregati, cara mia. Ci ha fregati tutti, alla grande!”
Attorno a noi è calato un silenzio tombale, rotto soltanto dallo sciabordio delle onde. Martino si schiarisce
la gola, poi continua.
“C’era una poesie ai miei tempi, che recitava più o meno così: ‘Prima di tutto vennero a prendere gli zingari,
e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano
antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a
prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Quando vennero a prendere me, non
era rimasto più nessuno a protestare’. Questo è quello che è successo, ragazza mia. È successo tanto tempo
fa, molto prima che tu nascessi, e nessuno credeva davvero che potesse mai più ripetersi…”
“Basta con queste stronzate!”, sbotta all’improvviso Aldo, agitando la sigaretta nell’aria “Sono discorsi
pericolosi, non lo capite? Chi si fa gli affari propri campa cent’anni. Impara questa lezione, ragazza. È l’unica
davvero importante nella vita!”
Vorrei rispondergli a tono, ma le parole mi muoiono sulle labbra, stroncate da un trambusto improvviso alle
nostre spalle.
Ci voltiamo tutti e tre nello stesso momento, proprio mentre alcuni agenti fanno irruzione nel locale e si
dirigono decisi verso di noi.
Ci guardiamo. Tutta la spavalderia di poco prima ci ha abbandonati: siamo tre statue di sale, tre animali in
gabbia, con gli occhi sgranati dal terrore.
Gli agenti si fanno avanti e si piantano proprio di fronte ad Aldo, squadrandolo con facce che sembrano
scolpite nel marmo.
“Manuel Ortega, lei è in arresto per essersi introdotto illegalmente nel nostro paese, violando le leggi
sull’immigrazione. Oltre a questo, deve rispondere di contraffazione di documenti di identità e sostituzione
di persona. Ci segua, per favore.”
“Cosa? Ci dev’essere un errore, io mi chiamo Aldo Saracco…”
Gli agenti non lo ascoltano neppure. Fanno scattare le manette appena accenna a muoversi, poi lo
afferrano per le braccia e lo sollevano di peso.
“Aspettate! Chiedete ai miei colleghi chi sono! Chiedetelo a loro, ci lavoro insieme da anni!”
Aldo mi indica, con gli occhi di un condannato a morte.
Per un istante gli agenti esitano. Si fermano e mi scrutano.
Abbasso lo sguardo, e lo trascinano via.
Sento una porta sbattere, alle mie spalle.
È proprio vero: chi si fa gli affari propri campa cent’anni.
Grazie della lezione, Aldo.