Grothendieck - Dipartimento di Matematica

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Grothendieck - Dipartimento di Matematica
Alessandro Baricco
Grothendieck
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Se poi scopro che sei anche matematico, significa che potremo andare
insieme in cerca di belle ragazze, e spacciar loro la storia del mitico Grothendieck (che non si legge grotendiec come se fosse nato a Varese, ragazze),
poeta fallito, anzi a dirla tutta, ragazze, geometra, di quelli sporchi e ingessati che odorano di gauloises, di manuali gialli della Springer-Verlag, di
seminari patafisici. Sua madre si chiamava Lotte, si prostituiva durante la
repubblica di Weimar, amava un fotografo ebreo, e ragazze, mica era facile
essere ebrei in quegli anni – che anni gli anni di Weimar, prima o poi ve li
devo raccontare. Era iscritta in un partito, anzi nel mitico partito comunista, recitava e cantava in pièces scadenti, insomma, era una di quelle donne
fatte cosı̀, un po’ Betty Page, un po’ Ute Lemper, un po’ Simone Weil.
Ragazze, un altro giro? poi tutti a casa mia, che mica è finita, la storia del
mitico Grothendieck.
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Che poi se uno deve dirla tutta, la storia di Grothendieck, allora deve
partire dall’inizio, andare a quel campo di prigionia di Rieucros – eh già,
c’erano i campi di prigionia anche in Francia e ben prima della guerra, ci
mettevano i tedeschi di Francia (come, non lo sapevate?) – dove Grothendieck bambino venne internato insieme alla madre come indesiderabile – ve
lo immaginate, un bambino di 12 anni, indesiderabile. E lı̀, in un campo di
prigionia, una donna – perché sono sempre le donne a salvarci – gli spiega
cos’è una circonfernza. Che è una cosa che tutti crediamo di sapere, ma lui
no, lui lo capisce davvero per la prima volta solo lı̀ in mezzo al campo di
prigionia – ne capisce l’essenza voglio dire.
La circonferenza.
E in quella circonferenza lui ci si chiude dentro e lascia passare all’interno
della linea solo quello che, lı̀, in mezzo all’inferno, inferno non è, e cosı̀ si
salva. E da lı̀ dentro, dal suo universo-circonferenza tira fuori gli spazi
nucleari, e gli schemi e i topoi anellati, roba che se ci mettiamo io e voi a
pensarci tutta la vita mica ci riusciamo. E invece lui sı̀, perché aveva capito
l’essenza della circonferenza.
Che poi a un certo punto pure Grothendieck si mette a scrivere una lista
di persone che sono quelli che secondo lui erano “di molto avanti rispetto al
loro tempo”. Vi ricordo che stiamo parlando di uno che aveva capito cos’era
davvero una circonferenza, quindi è il caso di starlo a sentire anche quando
parla di uomini più avanti del
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Che poi a un certo punto pure Grothendieck si mette a scrivere una lista
di persone che sono quelli che secondo lui erano “di molto avanti rispetto al
loro tempo”. Vi ricordo che stiamo parlando di uno che aveva capito cos’era
davvero una circonferenza, quindi è il caso di starlo a sentire anche quando
parla di uomini più avanti del loro tempo. E come li chiama questi uomini in
avanscoperta? Li chiama “i mutanti”. Bum! Les mutants, se sapete un po’
di francese. Uomini con le branchie, gente! Mica come noi che se proviamo
a stare due minuti sott’acqua ci restiamo secchi. E a questo punto, se non
morite dalla voglia di sapere chi sono i mutanti di cui parla Grothendieck,
siete proprio alla frutta. Ve lo dirò nel prossimo messaggio.
Però, corti ’sti 2000 caratteri.
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Cioè. Dunque. Il fatto è che la geometria a quell’epoca era roba fatta da gente che si chiamava Beppo Levi, o Volterra – che erano ebrei, ed
italiani, ed insomma, non era mica semplice essere ebrei ed italiani in Italia
negli anni trenta (che anni gli anni trenta in Italia, ve li racconterò in un
altro messaggio, promesso). Voglio dire. Beppo Levi è già morto e non lo sa,
perché nel frattempo un fanciullo capisce cos’è la circonferenza e insomma,
quel fanciullo non è mica solo. Non so se avete presente quelle famiglie parigine ebree che portano i bambini al Luxembourg e poi li mandano al liceo
Henry quatre, a prepararsi per entrare in Normale, a fare la fine di Paul Nizan, Aden Arabia e tutto il resto. Quelle. Che in Italia, con il cattolicesimo
e il rinascimento e il barocco mica lo sappiamo cosa significa. Simone Weil
(e non leggete Vail, come se fosse nata a Berlino) ama la matematica, i greci,
le Upanishad e il sanscrito, è ebrea, atea, e prega Gesù, ma ama la matematica gente. Algebra = denaro, scrive sui suoi cahiers ancora adolescente,
roba che noi possiamo starci due secoli e non ci arriveremmo a riassumere
tutto in quell’equazione, semplice come la circonferenza, come un accordo
distratto del mitico Mozart.
Avete presente la sorella di Mozart? bravissima al pianoforte, perfetta, ma
con quel fratellino non c’erano versi, non era mica facile essere la sorella
di Mozart a cavallo fra l’Illuminismo e il Romanticismo, che poi quello ti
mangia anche la dote, e insomma, per
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Corti davvero questi 2000 caratteri, gente.
Insomma, anche Simone
Weil ha un fratello, André – eh sı̀, lo ammetto, si tratta del mitico André
Weil – e non è mica facile amare il sanscrito e il greco e i Vangeli e la
classe operaia e la matematica quando tuo fratello è André Weil, ché già è
difficile amare tutta quella roba ed essere ebrei di casa in rue Vaugirard negli
anni venti a Parigi (non so se afferrate), ma se poi avete un fratello come
André Weil, allora capite che state solo strimpellando la matematica, e lui
impietoso tira fuori il don Giovanni, e vi mangia pure la dote. Allora non vi
resta che innamorarvi di Trotzski, fare la spia per gli alleati, e una volta in
Inghilterra lasciarvi morire di fame perché vi impediscono di paracadutarvi
in Francia, e perché insomma non è giusto mangiare quel cibo quando ci
sono i bambini francesi che muoiono di fame.
Era una di quelle donne fatte cosı̀, un po’ Lotte Lenya, un po’ Sarah Lowndes, ma in più bruttina, e se avete letto Le bleu du ciel – di Bataille, gente,
Bataille – sapete cosa intendo. Che poi Bataille era l’amico di Klossowski,
il figlio dell’amante di Rilke, che uno zio ricco e cattolico (il cattolicesimo
polacco, quello della cavalleria contro i carrarmati, ma è una storia che vi
racconterò un’altra volta) aveva preteso fosse educato nella religione cattolica, e quella – l’amante di Rilke – lo affida, fanciullo, a Gide, che è come
affidare un agnello al leone, se capite cosa voglio dire.
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E Klossowski – Pierre Klossowski, il fratello del mitico Balthus – traduce con Benjamin “l’opera d’arte all’epoca etc.”, e legge pubblicamente
Sade nel suo convento, gente, durante tutta la guerra, e pubblicamente discorre di Nietzsche e di Sade e d’Immacolata Concezione. Pum! Insomma,
non so se mi spiego, c’è la guerra, e Klossowski passa il tempo a declamare
in un convento Sade e Nietzsche e Tertulliano, roba che potete starci un
secolo a riflettere sopra, bene a mollo, e ahivoglia ad aspettare le branchie;
e intanto Simone Weil muore di fame per i bambini francesi che muoiono
di fame, Grothendieck impara da sua madre il segreto della circonferenza,
André Weil medita la rivoluzione della geometria, e Beppo Levi non lo sa
ma lui per la Storia è gia morto, un po’ come quel critico di Beethoven, o
come Citati ed i critici letterari italiani tutti.
Lo so, sono come un vecchio Tom Waits. Ma insomma, lo so che mi perdonerete. Alla prossima, e se non siete curiosi di sapere cosa c’entra Sade con
Grothendieck, significa che siete proprio alla frutta.
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Ah, già Grothendieck. Vi avevo promesso la sua lista di mutanti e poi
siamo finiti a parlare di Klossowski. Ma ve l’avevo detto: questo è un libro
scritto cosı̀ come viene. Ma insomma, la lista ve l’avevo promessa, perciò
eccola qua:
Christian Friedrich Samuel Hahnemann,
Charles Darwin,
Walt Whitman,
Georg Friedrich Bernhard Riemann,
Ramakrishna,
Richard Maurice Bucke,
Pierre Alexeiévitch Kropotkine,
Edward Carpenter,
Sigmund Freud,
Rudolf Steiner,
Mohandas Karamchand Gandhi,
Pierre Teilhard de Chardin,
Alexander Sutherland Neill,
Nichidatsu Fujii,
Jiddu Krishnamurti,
Marcel Legaut,
Felix Carrasquer,
. . . Solvic (cosı̀, senza nome).
Punto. Anzi no. Perché avevo detto che questo libro avrebbe avuto
quattro epigrafi, e invece adesso voglio aggiungerne una quinta:
Ramakrishna (Alexander Grothendieck)
Fatto. Ora possiamo andare avanti.
Che gente, i mutanti di Grothendieck, davvero uomini con le branchie. Potrei stare puntate intere a raccontarvi di loro. Ma non adesso, per cui se non
sapete di chi stiamo parlando ve li andate a cercare con google. Perché adesso devo assolutamente dirvi a cosa pensava Grothendieck negli anni ottanta,
quelli delle giacche con le spalline e dell’urlo di Tardelli nella mitica finale al
Bernabeu. Insomma, mentre tutti erano lı̀ convinti che stesse lavorando su
chissà qualche diavoleria delle sue, che so sulla categoria derivata dei fasci
coerenti – dico per dire – lui a cosa pensava? Ai mattoncini Lego. Quelli. I
mattoncini Lego.
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Ai mattoncini Lego. Quelli. I mattoncini Lego. Solo che lui dentro
ci vedeva tutta la teoria dei gruppi modulari. Che storia quella dei gruppi
modulari, ragazzi. C’entarno pure i nazisti. Non ci credete? Vi dò una
dritta, gente. Segnatevi questo nome: Oswald Teichmüller – ne riparleremo.
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Teichmüller, ovviamente. Mica Beppo Levi. Perché Teichmüller era
bello, biondo, della gioventù nazista, e matematico, se afferrate quel che
intendo. E non è facile essere bello biondo matematico e della gioventù
nazista, o almeno non lo era nel settembre del ’43 (che settembre il settembre
del ’43, prima o poi ve lo racconto, promesso) sul fronte russo del fiume
Dnieper. E non lo sapeva Teichmüller, che mentre lui moriva sul fiume
Dniepr, a poca distanza Weil – André – meditava le Bhagavadgita rinchiuso
in una prigione scandinava e un bambino – accompagnato da una madre un
po’ Betty Page un po’ Ute Lemper, non so se vi ricordate – insomma in quel
momento un bambino scopriva l’essenza della circonferenza.
Cristo, cioè, fermatevi un attimo e riflettete a questo: Teichmüller muore
sul Dnieper, e non lo sa ma Weil lo vendicherà, proprio quel Weil che aveva
fondato negli anni trenta alla Normale una società di giovani matematici
morti intitolata a un generale napoleonico (di quelli della campagna di Russia gente, di quelle campagne militari vere, che puzzano di case bruciate e
neve e mustacchi muffiti) anzi, a dirla tutta era più d’una società, ma un nome collettivo, e non è Luther Blissett gente, ma il mitico Nicolas Bourbaki.
Lo vendicherà, il nostro matematico bello biondo e nazista, un matematico
bruno ed ebreo la cui sorella nel frattempo discorre sul letto di morte con un
prete, e discorre delle proporzioni della croce, della grazia divina e della leva
pitagorica, mica come noi che col nostro cattolicesimo e la Controriforma e
l’azione cattolica al massimo ci confessiamo. E lo vendicherà assieme ad un
bambino che impara l’essenza della circonferenza da sua madre, un bambino
che adulto lascerà il mondo accademico per curare le sue capre non si sa
dove sui Pirenei, e lo lascerà lasciando uno schizzo, une esquisse d’un programme, perché cosı̀s’intitolavano, gente, quei tre fogli impregnati di blues,
di quello suonato coi colli di bottiglia, privi di formule eppur pieni del nome
biondo e bello di Teichmüller, che Grothendieck mandò al Cnrs in cambio
della propria libertà. Degli schizzi, dei dessins d’enfants – disegni di bimbi,
se non leggete il francese. Ecco, il senso della morte di Teichmüller era lı̀, in
una manciata di disegni di bimbo, d’un bimbo indesiderabile relegato in un
campo di concentramento francese prima, e in un ufficio del Cnrs poi.
E non so se avete mai visto un ufficio del Cnrs.
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Adesso tranquilli, potete tornare a fare quello che stavate facendo, alle
vostre frattaglie di mondo, ai vostri dischi, alle vostre piccole occupazioni.
Intanto Klossowski – Pierre Klossowski – esce dal convento, e sposa un’americana atea e bellissima, vedova d’un tipo impallinato da eroe in Normandia
– non so se avete presente, lo sbarco in Normandia –, impallinato mentre
Klossowski declamava e metteva in scena Sade e Nietzsche con Daniélou –
quel Daniélou, ragazzi, l’amico di Ratzinger. Sposatosi il nostro Pierre pubblica Sade assieme a quel vecchio volpone di Pauvert – una specie di Roberto
Calasso, ma fico, non so se rendo l’idea –, insegna a Michel Foucault cos’è
la moneta vivente – algebra = denaro, l’avevate mica scordato? –, scrive un
sacco di roba pazzesca. Insomma era una testa fatta cosı̀. Ma è un’altra
storia, che vi racconterò in un altro messaggio, promesso.
Un ultimo regalino, la settima epigrafe: Gentzen che si lascia morire di
fame nella sua Praga tedesca, e la soluzione finale (bum!) delle impurità
matematiche. È David Hilbert, gente, quello dei mitici spazi di Hilbert della
mitica meccanica quantistica, se capite cosa intendo.
Ma vi avevo avvertito, a questi messaggi da 2000 caratteri non farà schifo
niente.
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Ecco, ora voglio spararla grossa (ma poi vi spiego).
Cioè, che tutta
questa faccenda degli spazi di Hilbert è sempre la vecchia storia del teorema
di Pitagora. Sı̀, quello delle medie, che uno voleva andare a giocare a pallone
all’oratorio e invece doveva stare a casa a fare gli esercizi di matematica. Ecco, l’ho detta. Ora vi spiego. E insomma voi dovete immaginarvi tutti questi
matematici (siamo alla fine dell’ottocento, quindi dovete immaginarveli con
delle lunghe barbe curate, abiti di sartoria, cappello, bastone e mantello –
se li avete immaginati in jeans e maglietta avete sbagliato tutto) che stanno
lı̀ alle prese con un’equazione di quelle toste piene di derivate, integrali e
quant’altro. E dovete immaginarvi David Hilbert (dovete immaginarvelo
anche lui con cappello e bastone, non come Matt Damon) che se ne esce e
fa: e se usassimo il teorema di Pitagora? Cosı̀, come se fosse la cosa più
naturale del mondo, come avrebbe potuto dire: e se andassimo a farci una
pizza? Ora, cosa c’entrasse il teorema di Pitagora là in mezzo lo sapeva solo
lui, visto che di triangoli lı̀ non ce n’era neppure l’ombra.
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Perché quello che aveva fatto, Hilbert, era stato prendere il teorema
di Pitagora e togliere tutto quello che era in eccesso, i triangoli, i lati, gli
angoli, tutto. E alla fine gli rimase in mano un teorema ridotto all’osso,
secco e micidiale come un racconto di Carver, se capite cosa intendo. E con
un teorema cosı̀ puoi capirci il mondo intero. Perciò ecco cosa cercherò di
fare con questo libro. Cercherò di capire le mutazioni in atto come Hilbert
capiva il teorema di Pitagora, togliendo tutto quello che è in eccesso. E
alla fine quello che ti rimane è un libro secco e micidiale come un pezzo
di Webern (dico, le variazioni opera 27, avete presente? – che a dirla cosı̀
sembra pazzesca, ma se ci pensate tutta la storia della musica del secondo
novecento l’ha scritta un soldato americano ad un checkpoint di Salisburgo).
E con un libro cosı̀ puoi capirci il mondo intero.
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Dunque, riassumiamo.
Anche se non lo sembra, questo è un libro.
Parla dei barbari, del nuovo che avanza, delle mutazioni in atto nel mondo.
È un libro scritto cosı̀ come viene, per cui se siete distratti magari neanche
ve ne accorgete che è un libro. Però lo è.
Fin qui abbiamo parlato di: Vito Volterra, il Santiago Bernabeu, la gioventù
nazista, Lotte Lenya, Raymond Carver, le giacche con le spalline, Salisburgo,
lo sbarco in Normandia, l’Illuminismo, l’Immacolata Concezione, l’Inghilterra, Matt Damon, il Cnrs, il don Giovanni, Ute Lemper, André Paul Guillard
Gide, Sigmund Freud.
Sembra un’accozaglia senza senso, ma un piano ce l’ho. Sul serio. So esattamente dove voglio andare a parare. Ad esempio so già che la quindicesima
puntata di questo libro la scriverò sul volo Rio de Janeiro-Singapore. Che
ci vado a fare a Singapore? We sail tonight for Singapore. . .
Tom Waits, gente! Su, tutti insieme, we sail tonight for Singapore. . .
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Cioè, lo so. Adesso voi vi starete chiedendo cosa c’entra Grothendieck
con David Hilbert. Il fatto è che mentre Grothendieck, fanciullo indesiderabile, imparava da sua madre l’essenza del cerchio in un campo di concentramento francese per tedeschi, Hilbert scriveva un articolo, e non uno
qualsiasi. Ora. Voi dovete tener presente che Hilbert non era un matematico qualunque, dal teorema di Pitagora aveva eliminato i triangoli, i cateti,
i numeri, e non restava che il teorema, semplice come una accordo di Blind
Willy Mac Tell; cioè, ve l’ho già raccontato, Hilbert purifica il teorema di
Pitagora, e tira fuori gli spazi di Hilbert, una roba bestiale che ancora i
matematici stanno a chiedersi come abbia fatto. Ma David Hilbert prende
quel teorema, lo lascia decantare, aspetta che anche le formule, una a una,
scivolino via, fintanto che ne rimangono dieci, e poi cinque, e poi una, una
sola, una parola, di quelle parole che ci puoi annegare se hai abbastanza
fegato da crederci davvero.
L’infinito.
L’infinito semplice e ideale, puro. Perchè la tastiera dei numeri è finita, ogni
numero è finito, ma il pensiero, il tuo pensiero, lui può essere infinito. Questo
dice – più o meno, gente – David Hilbert nel suo articolo. Ci siete ancora?
non sto scherzando, Hilbert scrive un articolo sull’infinito, che poi detto cosı̀
non sembra, ma è la dichiarazione del programma della soluzione finale delle
impurità matematiche, l’affermazione della matematica pura, gente.
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L’affermazione della matematica pura, gente – la metamatematica, se
non vi fanno paura certi prefissi – e insomma, era la fine degli anni ’20 in
Germania, e una volta o l’altra ve lo devo spiegare, ma parlare di purezza
della matematica e di soluzione finale alla fine degli anni venti in Germania
non era mica come farlo oggi in Italia, col nostro cattolicesimo, la controriforma e tutto il resto. Ma mettiamo che vi dicessi che l’assistente di Hilbert
si chiama Emmy, e che è ebrea, una donna un po’ Ute Lemper, un po’ Teresa
d’Avila, un po’ Simone Weil – e se avete letto Le bleu du ciel, di Bataille
gente, George Bataille, sapete a cosa alludo. Mettiamo che vi dicessi anche
che il suo allievo più brillante, il ventenne Hermann – Klaus Hugo – Weyl
(Weyl gente, e non Weil, e neanche Weill, e non pronunciatelo Ueil come
se fosse nato nel Nebraska, please), scriveva sul diario la seguente frase, che
sarà la nostra dodicesima epigrafe:
In quegli anni l’angelo della topologia e il diavolo dell’algebra
lottavano per l’anima d’ogni singolo matematico.
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In quegli anni l’angelo della topologia e il diavolo dell’algebra lottavano
per l’anima d’ogni singolo matematico.
Allora sentireste nell’aria di quei mitici anni venti-trenta tedeschi, in quelle
aule frequentate da professori in baffetti e giacchette e acqua di colonia, il
vecchio buon puzzo di rivoluzione, e se non lo sentite allora mi dispiace, ma
significa che per voi non c’è veramente più niente da fare. Nel frattempo
Simone Weil, giovane ebrea normalista e atea, residente in rue Vaugirard,
scrive sul suo diario che denaro=algebra, prega il crocifisso ammirando le
proporzioni della croce e legge le Upanishad, Klossowski traduce con Benjamin l’opera d’arte all’epoca della riproducibilità algebrica – pardon, meccanica – e poi se ne va in convento a declamare Sade don Giovanni Freud
e Tertulliano, e Grothendieck, il nostro eroe, se ne sta a giocare coi suoi
disegni di bimbo – dessins denfants, se leggete il francese.
Prendete un bel respiro, gente, che questa è gente con le branchie. L’importante è non perdere l’anima, e sapete cosa intendo.
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Due.
Il secondo capitolo di questo libro comincia qui. Ve lo dico
perché è importante. Nel primo abbiamo parlato di Grothendieck. Magari
ne parliamo anche qui, ma questo è il secondo capitolo, una cosa diversa dal
primo. È importante.
Ora. Forse non l’avete capita e avete dovuto rileggerla. Ma ve l’avevo detto:
questo è un libro da meditarci su, da bere a picoli sorsi, da far decantare
come un vecchio barolo, non una prefazione di Citati – per dire – che potete
buttarla giù in un sorso solo mentre sgranocchiate uno snack a un tavolino
di un bar alla moda.
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Due. Il secondo capitolo di questo libro comincia qui. Comincia con le
narici piene del puzzo acre del tritolo e del sangue perché il secondo capitolo
comincia nella Londra distrutta dalle v2. E non era mica facile vivere in
Inghilterra a quei tempi, non lo era per niente. Se poi eri omosessuale, beh,
allora lo era ancora di meno. Perché se eri omosessuale, a Londra alla fine
degli anni quaranta, se ne fregavano se la guerra l’avevano vinta grazie a
te, se sei tu che hai reso possibile lo sbarco in Normandia – lo sbarco in
Normandia, ve lo ricordate? ve ne ho parlato. Pensavate che fosse una
divagazione, cosı̀ tanto per dire, e invece eccolo qua: ve l’ho detto che ho un
piano. Lo sbarco in Normandia, un milione di uomini mandati a morire cosı̀
in un colpo solo, che oggi neppure riusciamo ad immaginarcela una battaglia
cosı̀ . Tu gliel’organizzi, che senza di te non sapevano neanche da che parte
cominciare, ma poi sei omosessuale e allora di tutto il resto se ne fregano.
Perché se eri omosessuale a Londra negli anni quaranta eri veramente fottuto. Se non eri Lord Britten o William Auden eri veramente fottuto. Perché
ti processano e ti mettono alla gogna e se un minimo di sensibilità ce l’hai
allora vedi che non ti resta altro da fare che mordere una mela piena di
cianuro e aspettare che un principe azzurro venga a svegliarti.
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Due. Il secondo capitolo di questo libro comincia qui. Comincia con le
narici piene del puzzo acre del tritolo e del sangue perché il secondo capitolo comincia nella Londra distrutta dalle v2. E comincia qui perché mentre
Benjamin traduce con Klossowski l’arte all’epoca della riproducibilità meccanica, a Londra qualcuno ha già capito che per capire il mondo intero non
serve l’infinito di Hilbert, e neppure un libro, ma bastano una striscia di
carta lunga abbastanza e una punta. E vi basta pensarle, quella striscia di
carta e quella punta, perché l’idea stessa di riproducibilità meccanica vi appaia per quello che è, qualcosa di vecchio, ammuffito, sorpassato dalla Storia
– anche se Benjamin e Adorno ancora non lo sanno. E neppure sanno che in
Ungheria hanno già capito che è inutile giocare a scacchi, perché tanto uno
dei due non può vincere. Già dalla prima mossa ha già perso e non lo sa –
beh, se è proprio bravo, ma di quelli bravi davvero, e non sbaglia proprio
niente forse può pareggiare – forse.
Ed è per questo che nella Londra bombardata dalle v2, se non vuoi annoiarti
quando giochi a scacchi fai un giro di corsa attorno a casa tua e se torni prima
che l’altro abbia mosso, muovi di nuovo tu.
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Ci siete? Dunque, il punto è questo. E attenzione, perché la sto per
sparare grossa, e dunque tenetevi forte. Che c’entra il fatto che Alan - perché
Alan si chiama il nostro biancaneve, e se siete curiosi di sapere il suo cognome, beh potete sempre cercarvelo su google – dicevo, che c’entra il fatto che
il nostro Alan sia omosessuale in una Londra devastata dalle v2, cosa c’entra
col don Giovanni declamato davanti ai mosaici della mitica battaglia di Lepanto di Fourvière, con Simone Weil che prega forsennatamente il suo Gesù
geometra, con Hilbert e la sua concezione immacolata della matematica?
Semplice.
Il fatto è che le donne mentono.
Attenzione, non voglio dire che dicono le bugie, se capite quel che intendo.
Le donne mentono, perché devono mentire. Punto. Cioè, anche se una
donna dicesse la verità, sarebbe per dire che mente, e sareste punto e a
capo. E insomma, davanti a una mentitrice, non avete che due opzioni:
innamorarvi perdutamente e rovinarvi per lei, o andarvene sbattendo la
porta. Insomma, spendere tutto il vostro tempo a sommergere di rose rosse
un programma traditore, oppure un control-alt-canc, gente, un buon
vecchio control-alt-canc, di quelli rudi e rancorosi, suonati con un collo
di bottiglia al posto della sly.
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Ora. Alan lo dice, e lo prendono per matto, e avrei voluto vedervi a
non prenderlo per matto, quel tipo sudato di maratona e di laboratorio, le
unghie sporche e rose, i seni rigonfi dagli estrogeni castranti – castrazione
chimica gente, ché quello vi toccava a fermare ragazzini per la strada se non
vi chiamavate Gide e non lo facevate alla Cour de Rohan con un fanciullo di
nome Pierre e fratello di Balthasar, e sapete cosa intendo. Il computer è una
donna, dice Alan, di quelle che mentono. E attenzione, dire che il computer
è una donna nella Londra devastata dalle v2 non è come dirlo oggi, con ibm,
microsoft, l’azione cattolica e tutto il resto. Anche perché – e prima o poi
ve lo spiego, promesso – di computer, nella Londra devastata dalle v2, non
ce n’era neanche uno.
Zero.
Né lı̀ né altrove. Lo prendono per matto Alan, ed eppure lui lo sa, che quella
donna in Austria si era fatta formula, formula che diceva di non essere
dimostrabile, e cosı̀ puramente immacolata schiacciava il capo al diavolo
hilbertiano. Diavoli di matematici, roba che noi neanche ce le sogniamo, ed
invece voilà. Quella formula immacolata e mentitrice Alan la prende, ne fa
un bug, ma senza millenium, e voi state lı̀ oggi, a chiedervi se vale la pena
di fidarsi, o se non è forse meglio farla finita e digitare control-alt-canc.
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Ci siete ancora? Resistete ancora un minuto.
Una donna mentitrice è un problema, due donne no, due donne fanno un
pubblico. Cioè, voglio dire. Il punto è proprio questo: per risolvere un problema, basta complicarlo, che detto cosı̀ sembra una cavolata, e invece no.
Volete battere a scacchi Karpov, e allora che fate, invitate anche Kasparov,
e poi giocate con i neri contro Karpov, e con i bianchi contro Kasparov:
quando Karpov muove, voi copiate la sua mossa come vostra prima mossa
contro Kasparov, e la sua risposta coi neri la copiate come vostra contro
Karpov. Rileggetelo un’altra volta gente, e vedrete che non è cosı̀ complicato, non più d’una seduzione ben fatta, di quelle in parrucca e cipria, da
aggiungere alle altre mille e due. Ti travesti da mascalzone con donna Anna,
e fai vestire a Leporello le tue vesti di scellerato con donna Elvira, e intanto
il commendatore attende, ma sapete che ne è valsa la pena.
Copy-cat strategy la chiamano i figli di Alan. Ma sapete come lo chiamano
i francesi quel reato bancario, quello che consiste nell’aprire contemporeamente due crediti in due banche diverse, spacciando all’una come garanzia
il credito ottenuto nell’altra? l’ho letto ieri, seduto al mitico Bonaparte, su
Fluide Glacial, un giornaletto tutto tette e culi di quelli che solo in Francia
in qualche edicola sul Pont Neuf si possono trovare. L’ho letto e ve lo dico:
cavalerie - cavalleria, se non leggete il francese.
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L’ho letto e ve lo dico: cavalerie – cavalleria, se non leggete il francese.
Sissignori, l’unica, per far funzionare la matematica – le matematiche, non
so se afferrate – è essere cavalieri.
Ed intanto, Klossowski nel suo convento lionese declama Sade, Tertulliano,
el Burlador.
Non è un caso gente, non è un caso. Un bel respiro, adesso, e un pensiero.
Hilbert che chiede al giovane von Neumann:
Ma tu sai dirmelo cos’è, veramente, uno spazio di Hilbert?
Quel von Neumann, gente, proprio quello. E attenzione a quel veramente.
Alla prossima.