Veritatis Splendor - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale

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Veritatis Splendor - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale
Veritatis Splendor
La verità nella prospettiva della libertà
Appunti di GIUSEPPE ANGELINI
La Veritatis splendor è documento del magistero di grande lungimiranza, ma insieme documento segnato da una prevedibile acerbità, che
nello stato presente della Chiesa e della teologia
morale appare addirittura inevitabile.
infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi
di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano
e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di
contestazioni parziali e occasionali, ma di una
messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta
l’influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana
dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la
verità. (n. 4b)
Esso segna una presa di distanza del magistero
rispetto alle vie seguite dalla teologia morale
cattolica contemporanea, o da una certa teologia
(ma è teologia largamente seguita).
Prende le proprie distanze però anche dalla tradizione della teologia di scuola (scolastica). In
tal modo l’enciclica viene a trovarsi a navigare
in un mare aperto, per affrontare il quale paiono
come mancare gli strumenti concettuali adeguati. È possibile rilevare uno scarto tra le intenzioni professate, assolutamente apprezzabili, e la
dottrina di fatto proposta, molto problematica.
La diagnosi sintetica dell’enciclica, nel fondo pertinente, dev’essere chiarita. La teologia morale è nata
nel XVI secolo nella forma di casistica, al servizio
delle necessità del confessionale. Da tale sua originaria impostazione casistica non si è mai emancipata. Neppure nel corso del Novecento, quando pure
gli inconvenienti di quella impostazione sono apparsi a tutti evidenti. Le molte proposte di riflessione
fondamentale, talora ispirate alla Scrittura, altre volte alla filosofia contemporanea, sono apparse fino ad
oggi precarie e spiccatamente disperse.
Subito facile da rilevare è la fisionomia assai
singolare del documento. Di solito le encicliche
sono atti di magistero che rispondono a questioni precise, proposte dalla vicenda pastorale della
Chiesa, eventualmente da errori teologici; non
propongono certo la trattazione organica di un
capitolo della teologia. Questa enciclica assume
invece proprio l’aspetto di una sorta di piccolo
trattato di morale fondamentale.
Soprattutto occorrerebbe registrare come nei confronti del discorso morale in genere pesi un diffuso
pregiudizio; quel discorso appare infatti come discorso sulla legge, o rispettivamente sul dovere; si
tratta in ogni caso di un discorso illiberale. Non a
caso, oggi sono rimasti i solo i teologi e i preti a fare
discorsi morali.
All’origine di questa enciclica sta realtà una
precisa emergenza; essa intende censurare un
indirizzo di pensiero della teologia morale avvertito come pericoloso per la fede: l’indirizzo
che propone la tesi della fondazione teleologica
delle norme. Per articolare tale censura
l’enciclica avverte però la necessità di proporre
una trattazione sintetica della figura fondamentale della morale cristiana.
L’enciclica dunque, prima di procedere alla censura
della concezione teleologica della norme morali, intende rimuovere questa obiezione tacita. Lo fa già
con il titolo: esso suggerisce che l’imperativo proposto all’uomo sia il principio della sua libertà, e non
di schiavitù, perché esso procede dallo splendore
della verità, non dunque da un’imposizione eteronoma. Questa tesi radicale è illustrata mediante la
testimonianza biblica; più precisamente, raccogliendo le acquisizioni maggiori del rinnovamento biblico
della morale. a questo è dedicato il Primo capitolo.
Oggi
sembra
necessario
riflettere
sull’insieme dell’insegnamento morale della
Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare
alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell’attuale contesto rischiano di
essere deformate o negate. Si è determinata,
1
titudini, che ovviamente fissano una via di salvezza
valida per tutti; per altro lato si dice invece:
Primo capitolo: sulla traccia di Mt 19,16-21
La scelta appare felice. E tuttavia la lettura del
testo pare pregiudicata da incongrue preoccupazioni armonistiche rispetto alla dottrina morale
recepta. Essa ignora aspetti cruciali del testo:
Gesù indica al giovane i comandamenti come la
prima condizione irrinunciabile per avere la vita
eterna; l’abbandono di tutto ciò che il giovane
possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: “Se vuoi...”. (17b)
a) Anzitutto il tema dell’insufficienza della legge (mosaica); e quindi la necessità del passaggio
dai comandamenti alla sequela. L’osservanza
dei comandamenti non è semplicemente un primo grado della giustizia; essa appare piuttosto
un fraintendimento della giustizia, quando il
soggetto non veda come i comandamenti requisiscano tutta la sua vita, e non fissino invece
semplicemente dei limiti da rispettare. Il rifiuto
della vocazione del giovane rivela una menzogna nascosta nella sua domanda iniziale, apparentemente bella e generosa: Maestro, che cosa
debbo fare di buono per avere la vita eterna?
Capitolo secondo
Come si diceva, è questo il capitolo più preciso e
impegnato dell’enciclica: il confronto con le tesi dei
fautori di una concezione proporzionalista della legge, che ne relativizza la perentorietà, impegna a rivedere la concezione fondamentale dell’agire umano
e cristiano.
Esso è articolato secondo un indice chiaro:
- 1. la legge,
- 2. la coscienza,
- 3. l’atto umano considerato nella tensione tra opzione fondamentale e comportamenti concreti;
- 4. la valutazione dell’atto singolo.
b) Tale menzogna è già insinuata dalla prima e
sorprendente obiezione di Gesù: Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono
(19,17). Giustamente l’enciclica spiega:
1. La legge e la libertà
Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza
della bontà. Gesù mostra che la domanda del
giovane è in realtà una domanda religiosa e
che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l’uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è
Dio stesso, Colui che solo è degno di essere
amato “con tutto il cuore, con tutta l’anima e
con tutta la mente” (Mt 22,37)
Il tema della legge è affrontato, prevedibilmente,
nella prospettiva della tensione tra legge e libertà.
L’obiettivo di fondo è ovviamente quello di negare
che la legge comporti una negazione della libertà
umana. È riuscita l’argomentazione?
A mio giudizio il proposito è frustrato dalla permanenza di una concezione della libertà troppo pregiudicata dalle concezioni correnti (libertà come autonomia). Preciso il rilievo commentando un preciso
passo:
L’enciclica tuttavia non esplicita questa più preciso significato dell’obiezione di Gesù: per conoscere ciò che è buono occorre cercare Dio, e
non una legge suscettibile d’essere insegnata da
un maestro, fosse pure Gesù stesso. Si comprehendis, non est Deus, e d’altra parte se di Dio
effettivamente si tratta, dovrai rimanere sempre
nell’atteggiamento umile di chi invoca per trovarlo, e non nell’atteggiamento di chi vuol sapere.
L’uomo è certamente libero, dal momento che
può comprendere ed accogliere i comandi di
Dio1. Ed è in possesso d’una libertà quanto mai
ampia, perché può mangiare «di tutti gli alberi del
giardino»2. Ma questa libertà non è illimitata: de1
La spiegazione rimanda ad una concezione della libertà che
pregiudizialmente separa conoscenza e agire. L’uomo sarebbe
libero in quanto può comprendere i comandamenti di Dio e può
quindi accettare consapevolmente di sottoporsi ad essi. Ma tale
conoscenza dei comandamenti non comporta ancora il riferimento di essi alla coscienza, alla verità cioè dall’inizio iscritta
nelle forme in cui si realizza la presenza a sé dell’uomo.
c) Si vis perfectus esse…: non propone una scelta opzionale, ma è il minimo per avere la vita
eterna. Su questo punto l’enciclica appare oscillante; per un lato accosta la perfezione alle bea-
2
L’assunzione di un’idea di libertà che dissocia la facoltà di
fare dall’interrogativo sull’identità propria dell’uomo induce a
2
ve arrestarsi di fronte all’«albero della conoscenza del bene e del male», essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà
all’uomo3. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell’uomo trova la sua vera
e piena realizzazione. Dio, che solo è buono,
conosce perfettamente ciò che è buono per
l’uomo, e in forza del suo stesso amore glielo
propone nei comandamenti4. (n. 35b)
Appunto per riferimento a questo disegno Dio ha
detto: quando tu ne mangiassi, certamente moriresti,
o forse meglio: diventeresti certo della tua morte, la
morte diventerebbe per te un destino necessario.
L’albero costituisce la figura metaforica del disegno
umano di cercare con la bocca, dunque mediante
l’esperimento del desiderio, ciò che serve alla vita.
L’uomo di pane soltanto non vive (cfr. Dt 8,2); per
vivere l’uomo ha bisogno di una parola, di una promessa dunque, e quindi della correlativa fede. La
condanna di quell’albero equivale al teorema di tutta
la tradizione sapienziale: il principio della sapienza è
il timore di Dio, dunque la fede. Gli stessi benefici
originari, che rendono possibile il primo cammino
dell’uomo, trovano la loro verità nella parola/promessa di cui sono primi significanti. Il comandamento di Dio non è in tal senso espresso mediante
una notificazione alla mente, ma mediante
l’esperienza sorprendente di accoglienza che quei
benefici originari manifestano. L’intimazione perentoria del comandamento corrisponde all’originaria
necessità di credere per vivere. Quella intimazione
matura soltanto attraverso il tempo disteso; chiede
un tempo pieno.
Le incongruenze del testo trovano puntuale riscontro nella lettura del testo di
Gen 2,16-17
Esso è insistentemente richiamato nel corso di
tutta l’enciclica; ed è interpretato quasi che conoscere il bene e il male significasse decidere
da sé stessi che cos’è bene e che cos’è male.
Questa interpretazione appare, se non impertinente, certo indeterminata. Certo il testo biblico
non si riferisce ad una decisione che sarebbe autorizzata dalla pretesa dell’uomo di sapere, riferita dunque a indebite pretese di conoscenza
universale. Tanto meno si riferisce ad una pretesa di decidere ad libitum, senza criteri. Si riferisce invece alla pretesa di scoprire la differenza
tra bene e male mediante un esperimento di tutto.
Nell’enciclica manca dunque l’attenzione a due profili della legge, la cui considerazione appare invece
essenziale per capire il rapporto positivo tra legge e
libertà; il difetto è comprensibile, perché caratterizza
la teologia tutta fino ad oggi corrente; i due profili
sono:
(a) Conoscere nel testo significa avere esperienza di, non conoscere in accezione intellettuale;
tanto meno stabilire arbitrariamente.
(b) Inoltre, bene e male secondo, l’esegesi più
attendibile, debbono essere intesi non in accezione
precisamente
morale,
piuttosto
nell’accezione più indeterminata propria della
ricerca sapienziale: bene è ciò che conviene alla
vita, male ciò che la pregiudica.
(c) Sicché l’espressione sintetica significa pressappoco come provare tutto; s’intende, tutto ciò
che il desiderio prospetta come attraente, ripromettendosi di scoprire appunto mediante la prova cosa convenga e che cosa no alla vita umana.
il nesso tra legge e coscienza, compresa questa
seconda non come conoscenza, ma come presenza a sé mediata dai primi comportamenti spontanei, dunque come coscienza che per sua natura
rimanda all’agire.
Il nesso tra legge (comandamenti di Dio) e tempo
disteso; indispensabile per intendere la dottrina
del peccato universale.
In questa luce debbono essere intese anche le insuperate difficoltà che l’enciclica incontra a risolvere il
conflitto apparente tra
questi apprezzamenti solo quantitativi della libertà: ampia
ma non illimitata.
Autonomia/eteronomia (nn. 36-41)
3
Vedo qui almeno nominalmente ribadito un rapporto alternativo tra legge e libertà. E tuttavia subito dopo si dice…
La questione è formulata in maniera pregiudicata.
Più precisamente è formulata in questi termini:
l’uomo ha una legge che non è lui a darsi, oppure
egli si dà da sé stesso la norma del proprio agire?
4
Ciò che è bene per l’uomo non sarebbe scritto nella coscienza dell’uomo fin dall’inizio, ma dovrebbe essere appreso attraverso un’istruzione (verbale?) di Dio.
3
La tesi della conoscibilità razionale della legge, congiuntamente a quella che identifica ragione e coscienza, condurrebbe ad accedere alla tesi di
un’auto-nomia morale dell’uomo senza riserve; renderebbe per altro difficile, e anzi impossibile, intendere la possibilità di una rivelazione storica di Dio
(cfr. la famosa obiezione di Lessing nei confronti
d’ogni religione positiva).
(a) Così formulata, l’alternativa appare equivalente all’altra radicale: l’uomo ha o non ha un
dovere (debito)? Se si accetta - come sembra
inevitabile – il nesso essenziale del idea di dovere e connotazione morale dell’agire,
l’affermazione di un’autonomia così intesa appare equivalente alla negazione della morale.
(b) D’altra parte, la tesi dell’autonomia appare
in qualche modo irrinunciabile alla stessa enciclica. Come essa è intesa?
La coscienza dell’uomo, in realtà, non può essere
identificata con la ragione; il chiarimento dei rapporti tra coscienza (in accezione precisamente morale,
ma prima ancora in accezione genericamente ‘psicologica’, è cioè nell’accezione di presenza a sé del
soggetto) e ragione appare obiettivamente imprescindibile per chiarire la questione dell’auto-nomia.
Tale chiarimento consentirebbe e rispettivamente
imporrebbe la stessa ri-trattazione della figura corrente (razionalistica) di ragione. La conoscenza della
legge, o più cautamente la sua notizia, dunque
l’evidenza morale, non ha però i tratti dell’evidenza
razionale, se con una tale evidenza s’intende quella
che potrebbe affermarsi presso la coscienza comunque, a prescindere cioè dalla qualità delle disposizioni libere dell’uomo.
- L’enciclica per un lato rappresenta vede come
pertinente l’accezione per la quale l’autonomia
consiste nel carattere libero (in tal senso autonomo) della soggezione alla legge. L’autonomia
così intesa, a rigore, non è auto-nomia, ma autoprassia; l’uomo deciderebbe infatti in maniera
autonoma dei propri comportamenti, e non invece della legge (nomos). L’autonomia così intesa non riguarda dunque l’alternativa (aporetica) che sopra è stata formulata.
- Per altro lato, l’enciclica afferma il carattere
inditum della legge morale, e rispettivamente la
possibilità di una sua conoscenza razionale.
Sotto entrambi questi due profili sembra possa
essere riconosciuta una vera e propria auto-nomia. È da rilevare per altro l’indubbia reticenza
del testo a parlare espressamente di autonomia
per riferimento a tali determinazioni della legge
morale (indita e razionale). La tale reticenza è
da intendere come riflesso dalla preoccupazione
che così facendo sia autorizzata l’accezione
scadente di autonomia, per la quale il singolo
uomo sarebbe arbitro della legge, e cioè competente a giudicare mediante la sua ragione in maniera esclusiva e insindacabile che cos’è bene e
che cos’è invece male.
Offrono preciso riscontro dell’oscurità che regna nel
testo a proposito di questo plesso di pensieri alcuni
passi, che potrebbero viceversa essere assai più chiaramente formulati a procedere da una chiarificazione
come quella di cui qui si denuncia la mancanza. Per
esempio:
Proibendo all’uomo di mangiare «dell’albero
della conoscenza del bene e del male», Dio afferma che l’uomo non possiede originariamente
in proprio questa «conoscenza», ma solamente
vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza
eterna. (41b)
Per chiarire il senso e la pertinenza di tale
preoccupazione occorrerebbe approfondire il
senso della ragione, e rispettivamente la differenza tra ragione e coscienza. Le due nozioni
vengono invece qui senz’altro identificate (si
veda il n. 43b, che ripropone la dottrina di
Tommaso a proposito della legge naturale come
legge razionale; si vedano poi anche diffusamente i paragrafi dedicati alla coscienza come
giudizio, qualificato come razionale, nn. 59ss).
La consistenza oggettivamente pertinente della
questione dell’autonomia, e sotto altro profilo quella pertinente dal punto di vista della storia delle
idee (ci riferiamo all’interpretazione che della questione dà Kant, che non è certo l’ultima autorità in
materia), pare non adeguatamente compresa nella
forma dell’alternativa ha o non ha l’uomo un dovere? Quale sia però la consistenza pertinente non si
lascia dire facilmente.
4
Conviene procedere per gradi.
La tradizione biblica ci offre al riguardo un modello, che illumina la fenomenologia dell’esperienza
immediata di tutti.
L’istanza dell’autonomia si determina per correlazione antitetica rispetto alla figura, o alle
molte figure di eteronomia; come sempre accade, le figure negative appaiono più facili da
determinare di quelle positive; insieme è più
facile condannare l’eteronomia nelle sue molteplici forme, che apprezzare la figura positiva
di autonomia.
Pensiamo al modello esodo/legge (alleanza). Precede il beneficio di Dio (passaggio del mare); si
tratta di opera che ha da essere ricondotta all’iniziativa originaria e unilaterale di Dio stesso; e tuttavia si tratta anche di cammino dell’uomo; cammino come su ali di aquila. Cammino mediante il
quale soltanto il popolo giunge alla prima consapevolezza della propria identità di popolo di Dio.
L’identità appare in tal senso dischiusa da una storia; più precisamente, dischiusa da un’iniziativa
che precede l’iniziativa umana e per sempre la trascende.
a) Prima figura di eteronomia è quella della
soggezione dell’uomo ad un imperativo che altri proponga nei suoi confronti, sia esso imperativo concreto (ordine) o generale (legge). Un
comportamento eteronomo così inteso appare,
oltre che (eventualmente) lesivo della libertà
umana, scadente sotto il profilo precisamente
morale; a meno che il soggetto conosca e condivida (apprezzi) la ratio dell’ordine concreto
e/o della legge, un comportamento materialmente conforme a tali istanze appare di necessità farisaico: i. e., suggerito da apprezzamenti
diversi da quelli del legislatore.
Quell’identità e rispettivamente il cammino che
l’ha propiziata, per altro, non sono compiutamente
definiti a monte rispetto all’assenso libero che il
popolo offrirà ad essi. Di questo appunto si occupa
la legge. Essa prescrive quanto richiesto agli umani
dalla fedeltà all’accaduto, all’evento che determina
il loro primo accesso alla coscienza. In tanto si può
parlare di fedeltà all’accaduto, in quanto si riconosca che esso ha la forma di una promessa.
b) La seconda figura è quella dell’agire patologico: i. e., da quell’agire che attende dal referto passivo dell’agire effettivamente posto il
criterio per esprimere una valutazione definitiva di bene o di male. L’uomo agirebbe in tal
caso soltanto ipoteticamente, riservandosi la
possibilità di ritrattare l’azione stessa alla luce
delle sue conseguenze. Questa è una seconda
figura di eteronomia.
Questa qualità deve in genere essere riconosciuta a
tutti gli eventi che propiziano la coscienza del soggetto; alla fine, addirittura a tutti gli eventi della vita tout court.
Dunque, autonomia morale certo, ma per riferimento ad una identità che al soggetto è fin
dall’inizio prospettata da una concreta vicenda, la
quale riferisce il soggetto stesso ad una promessa
della quale egli può venire a capo soltanto mediante l’agire. L’identità del soggetto conosce
un’originaria mediazione pratica.
Ma può l’uomo realizzare un apprezzamento
del proprio agire a monte rispetto all’agire
stesso? E come? Più radicalmente, può l’uomo
determinare la propria identità (quella dunque
per riferimento alla quale decidere ciò che
conviene e rispettivamente non conviene a lui
stesso) a monte rispetto alle forme dell’agire
stesso?
Natura e libertà (nn. 46-53)
La natura dell’uomo non deve essere concepita in
termini naturalistici; la negazione è esplicita
nell’enciclica; si dice infatti la «legge naturale»
…viene detta così che non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura
umana (n. 42b).
Alle due domande occorre rispondere francamente di no; fonte del dovere è l’agire effettivo; nelle sue forme spontanee esso esprime
una promessa di sé, che è la fonte dell’agire
dovuto. Il problema centrale della considerazione morale è proprio quello di intendere il
nesso tra queste due forme dell’agire.
Questa affermazione per altro non trova riscontro,
mi pare, in ciò che successivamente si dice per
5
rapporto al corpo. Mi riferisco alla condanna
del modello spiritualistico della libertà umana,
che condanna il corpo all’irrilevanza morale
(n. 48b); la polemica nei confronti dello spiritualismo è del tutto giustificato, certo; pertinente è dunque anche la correlativa raccomandazione di pensare l’unità psicosomatica
dell’uomo, e quindi l’affermazione che
coscienza, della presenza a sé del soggetto) è un dato
di fatto, che deve essere descritta, e quindi anche
pensata. Può essere pensata unicamente a procedere
da una fenomenologia dell’esperienza immediata.
Appunto grazie a tale descrizione fenomenologica
appare come il senso anticipatore del corpo non sia
riconosciuto indagando il corpo organismo, e cercando in esso un ipotetico significato in ipotesi
iscritto nelle sue forme di legalità; riconoscendo invece quale sia il senso anticipatore (o simbolico) che
le prime esperienze della vita (generazione, nutrizione, forme tutte dell’accudimento; ma anche attrattiva
uomo-donna et similia) hanno di fatto sempre esercitato per rapporto alla genealogia della coscienza.
la persona, mediante la luce della ragione
e il sostegno della virtù, scopre nel suo
corpo i segni anticipatori, l’espressione e
la promessa del dono di sé, in conformità
con il sapiente disegno del Creatore»
(48c).
Il modello biblico originario dei rapporti tra grazia e
legge, tra benefici anticipanti di Dio e comandamenti
dati all’uomo, molto potrebbe illuminare a tale proposito. Il senso della legge che Dio dà al popolo sul
Sinai e la sua autorità dipendono appunto dal precedente beneficio unilaterale e gratuito di Dio. A meno
di riconoscere quella grazia originaria e la promessa
di cui essa è gravida, sarebbe impossibile intendere
adeguatamente il senso della stessa legge. In generale, l’imperativo morale appare strettamente connesso
all’esperienza gratuita (meravigliosa, per così dire
magica) che obiettivamente sta all’inizio del venire a
coscienza di sé da parte del soggetto umano.
L’istanza positiva per altro non si vede come sia
attualmente pensata; e la stessa formulazione
dell’istanza appare insoddisfacente. Il “luogo” –
se così si può dire - nel quale l’uomo scopre la
norma del proprio agire non è propriamente il
suo corpo, sono piuttosto quelle prime e spontanee esperienze pratiche della vita, nelle quali
sono scritti i segni anticipatori. Tali esperienze
sono infatti gravide di una promessa, e proprio
per questo anche di un impegno per la libertà
dell’uomo.
Analogamente, non è del tutto proprio parlare di
«unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico» (50a): le inclinazioni biologiche, alle quali qui si fa qui riferimento, non
sono in realtà inclinazioni soltanto biologiche,
ma dense di un incoativo significato spirituale;
in maniera correlativa, si deve dire che non esistono inclinazioni solo spirituali, che sarebbero
solo giustapposte a quelle ‘biologiche’; soltanto
mediante le risorse offerte dall’esperienza “corporea” il soggetto perviene alla conoscenza del
suo destino spirituale. Pressappoco così come si
deve riconoscere che soltanto attraverso il miracolo Gesù può annunciare il regno di Dio.
Riconoscere il nesso della norma morale, e quindi
dell’imperativo ch’essa impone, con l’esperienza
della grazia anticipante - esperienza passiva nel senso di non voluta, ma insieme pratica nel senso di
comportare un agire dell’uomo: il primo cammino
dell’uomo è quello che egli fa come su ali di aquila)
- consentirebbe insieme di riconoscere la forma storico-pratica del manifestarsi della legge eterna.
L’eternità della legge, e quindi la sua immutabilità,
non può infatti essere intesa quasi significasse che
eterna e immutabile è la stessa notizia della legge.
Quella notizia, proprio perché mediata dalle forme
effettive dell’esperienza, è insieme mediata dalle
forme della lingua e della cultura in genere.
L’aspetto più che culturale della norma morale non è
aspetto noto a latere rispetto alla cultura; è piuttosto
aspetto al quale la cultura stessa per sua natura rimanda la libertà del singolo.
Il rilievo che muoviamo può essere espresso anche per riferimento alla nota distinzione che i
filosofi del Novecento (Husserl, Merleau-Ponty,
Marcel) hanno istituito tra Körper e Leib, tra
corpo rappresentato (ma anche praticamente
trattato) come organismo e corpo conosciuto invece attraverso i concreti vissuti del soggetto
connotati sotto il profilo somatico. L’unità del
corpo vissuto con la persona (con le forme della
2. Coscienza (nn. 54-64)
Pare un inconveniens obiettivo della trattazione proposta dall’enciclica il fatto che non sia registrata
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l’obiettiva incertezza semantica che affligge oggi il termine coscienza.
zione degli atti singoli per riferimento a tale opzione
ha un aspetto di pertinenza. Ma tale aspetto non pare
però adeguatamente illustrato dal testo. Non si può
certo separare tra atti categoriali e opzione fondamentale; in tal senso è giustificata la denuncia del n.
65c. Rimane però da pensare in positivo come possa
e debba essere inteso il necessario riferimento
dell’atto singolo alla storia morale complessiva del
soggetto, e quindi alla sua identità morale, in ordine
alla sua pertinente valutazione morale. Per argomentare il nesso reciproco tra opzione fondamentale e
atti singoli occorre appunto rendere ragione di tale
nesso. Di tale nesso è difficile, e anzi impossibile,
rendere ragione a procedere da una concezione oggettivistica della oggettività del norma: qualifico qui
come oggettivistica la concezione che pensa la norma al di fuori del riferimento attuale alla coscienza,
e dunque all’identità del soggetto.
Apparirebbe illuminante anzi tutto mettere a
tema la distinzione tra l’accezione precisamente
morale di coscienza e l’accezione invece genericamente ‘psicologica’ (= autoconsapevolezza).
Questa seconda accezione, divenuta oggi quella
prevalente nel linguaggio corrente, non può essere intesa nella prospettiva cristiana, e più in
generale nella prospettiva generalmente umana,
in senso solo “psicologico” (e cioè come autoconsapevolezza realizzata nelle forme del ‘sentire’, o comunque mediante le forme della strutturazione emotiva dell’Io); neppure può essere
intesa in senso intellettualistico (autoconsapevolezza come conoscenza di sé, o rappresentazione riflessa di sé da parte del singolo).
La coscienza (la presenza a sé, e quindi
l’identità del soggetto) si realizza unicamente
mediante le forme dell’agire. Tra me e me sta il
mio atto. Ma proprio per questo, la coscienza
‘psicologica’ non può essere separata dalla coscienza morale, dall’evidenza cioè della norma
che sola può autorizzare la risoluzione pratica
incondizionata del soggetto.
Non bastano i cenni in tal senso del n. 71a-b, che pure
vanno timidamente in questo senso.
4. Intrinsece malum (nn. 71-83)
La denuncia che l’enciclica propone della dissociazione che il teleologismo produce tra intenzione e
consistenza materiale dell’azione appare del tutto
pertinente; così come la denuncia della operazione
tra fini, beni, o valori da un lato, e azione-mezzo
dall’altro; quindi ancora tra good e wright. Per argomentare però tale denuncia occorrerebbe mostrare
come la figura dell’intrinsece bonum vel malum non
sia figura materialmente determinata, ma sia figura
intenzionata in forma soltanto simbolica attraverso
le risorse offerte dagli atti tipici (le species degli atti). La figura ad esempio dell’uccidere quale species
di atto intrinsece malum non può essere materialmente definita, mediante una casistica (pena di morte, guerra, traffico, aborto, eccetera), anche se la casistica appare una delle risorse indispensabili ad determinarne il senso (specie per riferimento alle oggettivazioni ecclesiastiche, e rispettivamente civili,
della norma morale).
Anche quando il termine coscienza sia inteso in
accezione precisamente morale, occorre ulteriormente distinguere tra accezione attuale e accezione abituale, tra coscienza cioè come giudizio e coscienza invece come attitudine al giudizio. Il primo significato era quello tecnico di
conscientia nel linguaggio scolastico, che non
aveva invece un termine tecnico per la seconda
accezione; a tale assenza corrisponde un difetto
di riflessione della grande scolastica (almeno di
quella tomista, e della sua tradizione successiva)
sul tema corrispondente. La seconda accezione è
divenuta quella ovvia nel linguaggio ‘moderno’.
Il teso dell’enciclica rimane fedele al linguaggio
scolastico. Sarebbe stato utile precisarlo; soprattutto, sarebbe stato necessario almeno prospettare il problema posto dalla distinzione e rispettivamente dal rapporto tra coscienza attuale e coscienza abituale.
Solo dei precetti negativi è detto che obbligano semper e pro semper: in tal senso è ribadita una concezione materialistica della legge immutabile. Mentre
dei precetti positivi infatti si dice
3. Opzione fondamentale (nn. 65-70)
obbligano universalmente; essi sono immutabili;
uniscono nel medesimo bene comune tutti gli
uomini di ogni epoca della storia, creati per «la
a
Il tema dell’opzione fondamentale (n. 65 ) ha un
aspetto di pertinenza; quindi anche la considera7
stessa vocazione e lo stesso destino divino».
Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari
mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila personalmente la
verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù.
Dei precetti negativi della legge naturale invece
si dice che essi
sono universalmente validi: obbligano tutti
e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si
tratta infatti di proibizioni che vietano una
determinata azione semper et pro semper,
senza eccezioni, perché la scelta di un tale
comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della
persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. n. 52
In realtà, anche il non uccidere, così come inteso da Gesù, non appare affatto come un precetto
negativo. La sua comprensione quale determinazione del comandamento dell’amore, necessaria, implica che si riconosca il coefficiente di discrezionalità che il giudizio della coscienza
sempre comporta, anche se esso è diversamente
rilevante nei diversi casi.
Il bene morale è sempre trascendente rispetto
agli atti che pure lo perseguono; anche rispetto
agli atti tipici ai quali si riferisce la legge, per
raccomandarli e rispettivamente proibirli.
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