Cover - Arlian
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Cover - Arlian
COVER Modi di una transcodifica Mostra Siena jazz eje: esposizione delle copertine dei dischi in vinile dell’archivio discografico di Siena jazz. Cover è una raccolta di testi poetici ispirati ad alcune copertine di dischi jazz (anni’50’60). Riflessione preliminare sull’oggetto estetico CD (musica-copertina) ad alto potenziale di senso Il compito è osservare e descrivere queta transcodifica che dalla foto di copertina conduce al testo scritto: la mappa di riferimento è la seguente: Canovaccio esecuzione musicale I(foto) FOTO DI COPERTINA TESTO P(parola) Immagine in assenza Immagine in presenza (foto) L’Immagine può essere in assenza (imm. mentali e immagini letterarie) o in presenza (nel nostro caso, le foto). L’immagine in presenza stabilisce con la parole rapporti di maggiore fedeltà. Una volta costituito il testo partendo dalle foto esso però costituisce immagini in assenza. (Blanchot/Lyotard) : questo simbolo indica la direzione creativa, perciò implica la preesistenza di un primo termine che stringe col nuovo testo rapporti non necessari. Tali rapporti possono essere generalmente intesi come declinazione della modalità improvvisativa (Sparti, Suoni inauditi, Musica in nero, ecc.) Cornice operativo-teorica - teoria Il clivaggio verbo-iconico (J. J. Wunenburger, Filosofia delle immagini) con riferimenti a Lyotard, Discorso, figura e Blanchot, L infinito intrattenimento - operatività Calvino, Lezioni americane,Visibilità Descrizione della transcodifica I: riflessione sulla fotografia (Barthes. La camera chiara). Qualità delle copertine: presenza di scarti, di indecidibilità, di dettagli che incrinano la rappresentazione. Ricerca di una coerenza degli elementi costitutivi dell’immagine fotografica in rapporto al testo musicale. P: Il testo poetico (vedi Barthes) riattiva il mondo cristallizzato della foto (che chiede di per sé di essere attivata, vista la particolarità di incompiutezza che la caratterizza) attraverso modalità distinte e coesistenti – modalità ecfrastica, contestuale, ipertestuale, narrativa, analogico-simbolica ecc. – E’ teso alla ricerca di un senso, cioè di connessioni tra i gli elementi costitutivi. E’ mosso dall’idea che la foto sia costruita, sia concettuale. Ricerca indizi in vista di un senso che abbia una sua compiutezza che si definisce attraverso il ricorso ad elementi extra iconici come il titolo, ma in particolare la musica. In definitiva attraverso la foto di copertina, il testo poetico stabilisce un legame con il testo musicale e con esso condivide le caratteritiche riconducibili alla modalità improvvisative. Si ricostituisce canovaccio e il cerchio si chiude e ricomincia in un gioco infinito. COVER Explorations Da un lato, tendaggio di foulard trasparente mosso da brezza. Dall’altro, Bill, viso adolescente, grandi occhiali, camicia inamidata e un’espressione di sottile sgomento rivolta a chi guarda. Le braccia protese dietro la tenda deviano verso il basso come un raggio lungo l’angolo di rifrazione e si tuffano in un agglomerato soffice e indistinto. Quel che fanno le mani non lo vediamo. Green Dolphin Street Umidità autunnale, nube di pulviscolo che sembra caligine di ciminiere. Io non o se green dolphin street scavalca un fiume, ma tra le barre delle ringhiere sfuma un ponte lontano, gli alberi spogli sembrano seguire degli argini e nella profondità indistinta il profilo della città s’incurva lungo il corso di un fiume immaginario. Sullo slargo grigio cenere si innalza il lampione, che lontane ramature incoronano di tentacoli elettrici. Ad esso tendono le vaghe forme della città, come a una verità sottile, estrema, un filo di lama imponderabile conficcato in chissà quale remoto fondo consistente, Ad esso è costretto il passante cinturato da un tentacolo invisibile che lo trascina. Way out west Clip clop, clip clop fanno gli zoccoli di un cavallo assiderato che cammina da giorni senza sosta o di qualcuno che nella notte del deserto della terra nuova si avvicina con passo esitante ad un bivacco o di chi – certo un folle – si inoltra nella distesa danzando: nuovo pistolero, cavaliere del transitorio che intercetta il ritmo interno dei deserti e sospinge con la sua arma sfolgorante la linea della frontiera in avanti. Clip clop: essenza ritmica della terra ripetutamente nuova e spietata sotto un cielo azzurro offuscato dal calore, costellata da rovine fumiganti, alberi di Joshua, sterpaglie. A due passi da Rollins nella terra chiara sottile e assiderata posa un bucranio. Monk’s music Thelonious in smoking e berretto a scacchi guida un trabiccolo a rotelle, un piatto rosso verniciato a nuovo che lo contiene a malapena rannicchiato. Anche se qui porta gli occhiali scuri dei ciechi, è strabico e ciò che vede non ha eguali. Parte in discesa, il trabiccolo strepita sbanda s’impunta e proietta in aria lo smoking e lo spartito. Dopo l’ascensione Thelonious rovina sul cemento. Segue un tempo solo suo, una lunga o breve comunque imprevedibile pausa di dolore prima di ripartire. Know whant I mean? Cosa ci fai Palladicannone su quel set glaciale, astratto e sofisticato, in quello stanzino geometrico e iperbarico. Cosa ci fanno la tua corporatura da friggitoria notturna, il tuo faccione butterato, i tuoi grossi baffi messicani nel candido accecante, minimalista e incorporeo boudoir della Bertha Shaefer Gallery Una scultura in bronzo di un corpo macilento capovolto, una piccola sfera cremisi su un parallelepipedo etereo, un calice verde, e te, Palladicannone, circonfuso da una luce di finestra evanescente, viso tirato, negro depresso – way am I trataite so bad? – una mano nera petrolio posa sul nulla, l’altra punta il sax dritto alla tempia. Mentre Bill apollineo getta la sua rete da una piccola foto incorniciata posta ai margini dell’allestimento. Milestones È seduto su uno sgabello di un club senza dimensione, sfondo monocromo di terra intrisa di chissà cosa di scuro e grumoso, colori saturi – il nero dei pantaloni, il verde della camicia. – Sulla pelle lucida della fronte scocca una luce minerale, la tessa che promana dall’ottone nichelato della tromba. Miles solipsistico semidio fabbricato da un fabbro o da un falegname o da un ingegnere robotico con un residuo di umanità sembra dire mi dispiace. Già qui il suo corpo da pesopiuma ha qualcosa di vitreo. Relaxin’ Materia allo stato iniziale ma ossidata come il colore di certi stagni intossicati è la dimensione, il vuoto entro cui fluttua l’anima-lamina di Relaxin’: antropomobil di impalpabili superfici triangolari tenute da una esilissima tenace inspiegabile volontà. Workin’ Un opificio orizzontale in prospettiva, il punto di fuga è però esterno, fissato in una distesa immaginaria di capannoni, parcheggi e slarghi di stoccaggio. La foto ritaglia il fronte delle officine, il piano terra della manutenzione e degli imballaggi. Davanti alla fabbrica corre uno stradone non ancora asfaltato, una carreggiata bianca ampia e impolverata. Su un lato è posteggiato un rullo di acciaio levigato che tra poco, nel turno pomeridiano eliminerà ogni asperità del manto, livellerà fino ad annientare gli ultimi, invisibili ostacoli, sbriciolerà gli estremi noccioli delle cose che fino a ieri, prima dell’arrivo della conurbazione produttiva, perduravano. Ora si riposa il mastodonte metallico, mentre l’ipnosi digestiva pervade tutti coloro che lavorano nel cuore produttivo del mondo. Il turno di mattina ha sollevato terra nell’aria. La luce è opaca. …tutto alle spalle di un Davis indolente che posa in un primo piano estemporaneo, Un Davis uomo comune, capelli più lunghi del solito, giacca e cravatta da grandi magazzini. Ma che fa quest’uomo dalle mani e dal viso pulito, questa maschera che fuma sigarette esistenzialistiche? …tutto dietro un filtro blu chiaro, un blu che corrode, fa come dei piccoli fiori elettrici nel manto compatto della polvere, un soffio di gelo sulle strutture inanimate del paesaggio.