ANSIA E DEPRESSIONE - Ordine Avvocati Tivoli

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ANSIA E DEPRESSIONE - Ordine Avvocati Tivoli
Nei seguenti tre articoli ci avvarremo prevalentemente del modello ABC della RET
ANSIA E DEPRESSIONE
Rocco Carelli, in «Presenza Cristiana», 2007, vol. 43, n. 3, pp. 22-23
Spesso la gente mi chiede: “Perché le persone si rivolgono a uno psicoterapeuta?”.
La domanda in realtà è retorica, perché chi la formula ha già la risposta: queste persone
pensano che chi si rivolge a uno psicoterapeuta sia un debole e che, se ha dei problemi, uno possa e
debba farcela da sé.
Ebbene, queste persone sbagliano a pensare così. In effetti ci sono almeno tre buone ragioni
per rivolgersi a uno psicoterapeuta quando si sta male psicologicamente:
a)
se si sta male: per cercare di stare bene o, almeno, di stare meno male,
b)
se si sta bene: per stare meglio o per potenziare le proprie capacità, e,
c)
in ambedue i casi: perché viviamo in una società in cui è molto alto il livello di
specializzazione, di delega e di cooperazione. A colui che mi chiede “Perché rivolgersi a uno
psicoterapeuta, quando uno può cercare di risolvere da sé stesso i propri problemi?”, io
rispondo con la domanda “Perché ti rivolgi a un consulente finanziario, quando puoi curare da
te i tuoi investimenti finanziari? Perché ti rivolgi al commercialista per la gestione della
contabilità e non fai da te? Perché ti rivolgi al meccanico per riparare l’automobile e non fai
da te?”. Egli solitamente mi dà la seguente risposta: “Perché il consulente finanziario è più
competente di me nella gestione degli investimenti. Il commercialista è più competente di me
nella gestione della contabilità. Il meccanico è più competente di me nella riparazione
dell’automobile”. “Ecco, replico io, per questa stessa ragione ti conviene rivolgerti a uno
psicoterapeuta: egli è più competente di te nella soluzione dei problemi psicologici”.
Ammesso poi che chi si rivolge a uno psicoterapeuta sia un debole, ci si può chiedere: uno che
è debole cosa deve fare? Deve soffrire e basta? O non è meglio (più utile, più conveniente) per lui
rivolgersi a uno psicoterapeuta?
Ebbene, chi si rivolge a uno psicoterapeuta lo fa perché ha problemi intrapsichici e/o problemi
relazionali; ha emozioni quali l’ansia, la depressione psicogena1, la rabbia e i sensi di colpa; e ha
problemi legati a queste emozioni.
E allora noi, proprio per dare una mano a queste persone, nel presente e nei prossimi articoli
esamineremo le suddette quattro emozioni, descriveremo le idee che generano ciascuna di esse e
cercheremo di imparare a riconoscerle. L’approccio che seguiremo sarà, come al solito, quello della
Logoterapia Cognitiva (la sintesi da me realizzata tra Logoterapia Frankliana e Psicoterapia
Cognitiva).
Faccio presente - ma credo che sia quasi superfluo tanto è ovvio e evidente - che questi
articoli non possono e non intendono sostituirsi all’aiuto che può dare un psicoterapeuta in carne e
ossa che conosce il singolo paziente nella sua unicità e può perciò adattare al singolo caso,
calibrandoli, i suoi interventi psicodiagnostici e psicoterapeutici.
Ansia
Abbiamo due tipi di ansia: l’ego anxiety (ansia legata alle preoccupazioni circa l’immagine di
sé, alle preoccupazioni su come penso che gli altri mi vedono e su come vorrei che mi vedessero o
che non mi vedessero) e la discomfort anxiety (ansia legata alle preoccupazioni circa il proprio
benessere e/o la propria incolumità). Ambedue sono accomunate però dal pensare che una certa
situazione sia terribilmente minacciosa, dall’interpretarla come tale.
Esempio di pensieri che generano l’ego anxiety: “Non sono sufficientemente preparato per
questo esame e quindi sarò certamente bocciato. Ma se ciò dovesse accadere sarebbe una cosa
davvero terribile: tutti penserebbero che sono un incapace, uno stupido, si farebbero beffe di me!”.
1
D’ora in poi solo “depressione”
Esempi di pensieri che generano la discomfort anxiety: “Non padroneggio bene l’Inglese e
quindi non posso fare viaggi all’estero. Pensa che cosa terribile se dovessi smarrirmi: non saprei
come chiedere informazioni, potrei essere denunciato per vagabondaggio e potrei andare a finire in
prigione! E questo sarebbe davvero terribile!”, “Se dovessi perdere questo lavoro, sarebbe terribile:
non avrei più mezzi di sostentamento, presto sarei ridotto in miseria, finirei per diventare un
barbone e per andare a dormire sotto i ponti!”, “Se mi allontano troppo da casa potrei avere una crisi
d’ansia, un attacco di panico, potrei svenire; starei malissimo, nessuno potrebbe soccorrermi e potrei
morire”, “Se vado in quel tale posto potrei prendermi una malattia contagiosa; sarebbe una cosa
davvero terribile”.
In realtà riuscire a scorgere la potenziale pericolosità e minacciosità di una certa situazione è
una cosa estremamente positiva. Quindi l’ansia di per sé non è un’emozione intrinsecamente
negativa. Essa è negativa solo quando è paralizzante o quando ci fa esagerare irrealisticamente la
valutazione della pericolosità di una certa situazione.
Non solo l’ansia non è intrinsecamente negativa, ma anzi è addirittura positiva: è al servizio
della conservazione dell’individuo. Se non ci fosse l’ansia non si prenderebbero provvedimenti
dinanzi a un pericolo o a una minaccia, non si gestirebbero la minaccia o il pericolo in modo
adeguato (con la fuga o con l’attacco).
È arcinoto in campo psicologico e ampiamente dimostrato sperimentalmente il rapporto tra
ansia e apprendimento. Disponendo su un grafico i risultati, si ottiene un andamento a forma di
arco: a un livello basso di ansia si hanno prestazioni mediocri (ansia 1, livello di prestazione 10,
vedi grafico); con l’aumentare dell’ansia migliorano anche le prestazioni (ansia 3, livello di
prestazione 58; ansia 5, livello di prestazione 90, vedi grafico); quando però l’ansia supera un certo
livello, le prestazioni peggiorano rapidamente (ansia 7, livello di prestazione 38; ansia 9, livello di
prestazione 5, vedi grafico).
ansia (asse orizz.) / prestazioni (asse vertic.)
100
80
60
40
20
0
ansia 1
ansia 3
ansia 5
ansia 7
ansia 9
Se mentre attraverso una strada mi accorgo che un’auto sta per venirmi addosso, interpreto
questa situazione come minacciosa e pericolosa per me e quindi metto in atto una adeguata strategia
(che, a seconda della situazione contingente, può consistere nel fermarmi, nel bloccarmi, nello
scansarmi, nel fare un balzo in avanti, ecc.). La reazione di allarme e di ansia mi ha salvato la vita o
mi ha preservato da un grave infortunio. Supponiamo, invece, che mentre attraverso la strada (un
lungo rettilineo a senso unico poco trafficato), vedo a trecento metri di distanza un autobus che sta
sopraggiungendo. Se sono giovane e di sana e robusta costituzione e interpreto questa situazione
come minacciosa e pericolosa per me (perché penso che l’autobus possa venirmi addosso) e quindi
metto in atto una strategia quale quella di fermarmi, bloccarmi, scansarmi, fare un balzo in avanti,
ecc., questa mia reazione di allarme e di ansia è un’esagerazione irrealistica nella valutazione della
pericolosità di quella situazione.
Depressione
Anche per la depressione distinguiamo fra due tipi: quella svalutativa e quella
autocommiserativa. La prima è sorretta dall’idea che io non valgo niente e/o che tu non vali niente
e/o che il mondo (Dio, la vita, il lavoro, ecc.) non vale niente; la seconda è sorretta dall’idea che io
sono molto sfortunato, che capitano tutte a me. E che (in ambedue i tipi di depressione) tutto questo
è terribile e catastrofico.
Esempi di pensieri che generano la depressione svalutativa: “Ho perso il posto di lavoro:
questa è la chiara conferma che sono un inetto, un incapace, un buono a nulla. È una cosa terribile!”,
“Tu con il tuo recente comportamento mi hai deluso profondamente. È stato un colpo terribile.
Ormai per me non sei più quello di una volta: ai miei occhi non valete più niente né tu, né la tua
amicizia! E questa è una cosa terribile!”.
Esempio di pensieri che generano la depressione autocommiserativa: “Ho perso il posto di
lavoro: questa è la chiara conferma che sono proprio sfortunato! Mi va sempre tutto male! Capitano
tutte a me! È una cosa terribile!”.
Ricordo quello che mi disse tanti anni fa un signore alla fermata dell’autobus: “Sono così
sfortunato che se facessi il cappellaio, le persone nascerebbero senza testa”. Lì per lì la cosa mi fece
sorridere per il modo paradossale di esprimersi di questo signore. Ma a pensarci bene è la chiara
espressione di pensieri di aucommiserazione.
E poi mi viene in mente la canzone romanesca “A tocchi, a tocchi, la campana sona”. La terza
strofa dice così:
“E si de’ sfortunati stanno ar monno,
uno de quelli me posso chiamare.
Butto ’na paja a mare e me va a fonno,
all’antri vedo er ferro galleggiare”2.
Rocco Carelli
e-mail: [email protected]
2
Se al mondo ci sono degli sfortunati, io uno di questi mi posso chiamare. A me una pagliuzza, se la butto a mare, va a
fondo; agli altri, se lo buttano a mare, galleggia pure il ferro.
RABBIA
Rocco Carelli, in «Presenza Cristiana», 2007, vol. 43, n. 4, pp. 54-55
Nel precedente articolo abbiamo analizzato l’ansia e la depressione. Nel presente ci
occuperemo di rabbia e di colpa e dei pensieri che generano queste due emozioni, dei pensieri che
sono all’origine di esse.
Rabbia.
In Italiano corretto si usano i termini “ira” e “adirarsi”, ma poiché quando si è adirati non si
bada molto al linguaggio colto, noi seguiremo i termini usati appunto nel linguaggio corrente, e cioè
“rabbia” e “arrabbiarsi”.
Anche per la rabbia - così come abbiamo fatto per l’ansia e la depressione - distinguiamo fra
due tipi: quella verso sé stessi e quella verso gli altri. A parte però il soggetto nei cui confronti
siamo arrabbiati (io stesso o un’altra persona), troviamo sempre, in chi è arrabbiato, la stessa
costellazione di pensieri:
1.
un comandamento (io devo assolutamente…, tu devi assolutamente…, io non devo
assolutamente…, tu non devi assolutamente…, ecc.) imposto da parte di colui che si arrabbia;
una caratteristica particolare del comandamento è che molte volte esso non è promulgato come direbbero i giuristi -, ossia colui a cui esso è imposto non sa neppure della sua esistenza,
perché esso esiste solo nella mente di chi lo emana; la qual cosa diventa evidente quando, in
caso di violazione del comandamento stesso, alla persona che protesta la propria innocenza
perché non sapeva dell’esistenza del comandamento e quindi non si rendeva neppure conto
che stava violando il comandamento, la persona che si arrabbia dice: “E c’era bisogno che te
lo dicessi? Non ci arrivavi da solo (sottinteso: a capire che si deve fare in un certo modo)?”;
insomma il malcapitato non solo deve obbedire al comandamento - forse persino arbitrario -,
ma deve anche leggere nel pensiero dell’iroso legislatore e sapere - forse per scienza infusa? dell’esistenza del comandamento;
2.
violazione del comandamento (a opera mia - e allora mi arrabbio con me stesso - o a opera di
un altro - e allora mi arrabbio con costui -);
3.
spiegazione che viene data del comportamento di violazione: chi ha violato il comandamento
l’ha fatto perché è un irresponsabile, un egoista, un opportunista, un superficialone, uno che
pensa solo a sé, ecc. (come si può notare le spiegazioni che vengono date sono tutte relative a
qualità morali negative della persona - si badi: della persona, non del suo comportamento;
ovvero: si dà un giudizio morale negativo e questo investe tutta la persona, non semplicemente
il suo comportamento!);
4.
con questa sua violazione del mio comandamento l’altro mi procura un danno (e se la
violazione l’ho commessa io, sono io che procuro un danno a me stesso);
5.
questo danno è terribile;
6.
e per questo chi ha commesso la violazione merita una punizione.
Ogni volta che ci arrabbiamo, passiamo sempre attraverso questi sei punti. Un’annotazione
particolare però merita il punto 6. Questa punizione, il più delle volte, è limitata (in forza delle
remore morali, sociali, penali, ecc.) ad azioni simboliche (alzare la voce, tirare pugni a vuoto
nell’aria, battere i pugni sul tavolo, tirare calci verso qualcosa, strappare foto o lettere, distruggere
oggetti appartenenti alla persona che si vuole punire, ecc.) o a comportamenti verbali (insulti,
parolacce, ecc.). Ma se non ci fossero le remore suddette, la punizione sarebbe fisica. E, infatti,
quando queste remore vengono meno, la rabbia mostra tutta la sua virulenza e può portare e porta di
fatto anche a gravi violenze e persino all’omicidio.
Nella pratica psicoterapeutica i problemi più frequentemente presentati sono quelli di ansia o
di depressione, pochi quelli di sentimenti di colpa e rarissimi quelli di rabbia. Eppure la rabbia forse
fa da sola più danni che l’ansia e la depressione messe insieme (oltre alle varie somatizzazioni quali
l’aumento della pressione, il mal di testa, il mal di stomaco, i dolori alla schiena, ecc., essa è causa
di tanti comportamenti violenti e antisociali e di tanti omicidi volontari). Come mai allora sono
poche le persone che vanno in psicoterapia per problemi di rabbia?
Anzitutto perché spesso si nega la rabbia (perché ritenuta un sentimento disdicevole e
socialmente inaccettabile) anche a sé stessi: “Non mi sono arrabbiato. Tutto al più mi sono
leggermente alterato”, dicono le persone, mentre, in realtà sono arrabbiate nere.
Ma la ragione più forte per cui le persone non vanno in psicoterapia pur avendo problemi di
rabbia è la seguente: mentre l’ansia e la depressione vengono interpretate come il segnale di
qualcosa che non va in me che provo ansia e/o depressione, la rabbia viene interpretata come la
logica conseguenza del fatto che qualcuno - altro da me - non sta facendo il suo dovere, non fa
quello che sarebbe giusto facesse, non fa quello che dovrebbe fare: io di mio sarei pacifico, è lui che
mi afa arrabbiare.
Al giorno d’oggi c’è molta rabbia, mi dice qualcuno. Io non posso dire con certezza - benché
la condivida - se questa osservazione corrisponda al vero. Se però è così, la spiegazione è data da
due fatti:
a) le persone hanno più doverismi e comandamenti nei confronti degli altri (gli altri devono
essere, pensare, agire nel modo che io ritengo giusto) e
b) molte persone pensano di sé stesse in relazione agli altri: “Io sono superiore a te”, “Come
osi? Tu non sai chi sono io!”.
Mi viene in mente l’episodio narrato nel cap. IV dei Promessi Sposi su Lodovico, quello che
poi sarebbe diventato padre Cristoforo:
“Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione
[…] e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio […]. Quando [essi] si trovarono viso a viso,
il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono
corrispondente di voce: «fate luogo».
«Fate luogo voi», rispose Lodovico. «La diritta è mia».
«Co’ vostri pari, è sempre mia».
«Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei»…”.
Sentimento di colpa (brevemente: colpa)
Il sentimento di colpa è un sentimento complesso, perché ha qualcosa della depressione,
qualcosa della rabbia e un’idea, anche se solo implicita, di onnipotenza.
Chi si sente in colpa dà su di sé un giudizio negativo del tipo “sono un poco di buono, sono un
fannullone, ecc.” (e in ciò questo sentimento è simile alla depressione di tipo autosvalutativo). Il
giudizio negativo però, nel caso della depressione, riguarda il valore personale, nel caso del
sentimento di colpa non riguarda il valore personale (ed ecco la differenza con la depressione), ma è
di tipo morale (e in questo è simile alla rabbia). Analogamente alla persona arrabbiata, infatti, chi si
sente in colpa attribuisce a sé (al proprio comportamento superficiale, imprevidente, egoistico, ecc.,
quindi a una qualità morale - terzo punto della rabbia -) la colpa dell’accaduto. La persona che si
sente in colpa dice: “Questo è accaduto perché io sono stato superficiale, imprevidente, egoista, ecc.
Avrei dovuto farlo prima…, sarei dovuto intervenire prima…, avrei dovuto capirlo…, avrei dovuto
prevederlo…”, ecc. E in questo, se si guarda bene, c’è sempre - benché implicita e ben nascosta anche l’idea di onnipotenza. Intanto, infatti, uno può dire “Avrei dovuto prevederlo…, avrei dovuto
capirlo…, ecc.”, in quanto pensa di sé che era in grado di prevedere quello che sarebbe accaduto, di
capire quello che stava succedendo, se solo si fosse soffermato un po’ a esaminare il problema con
maggiore cura e attenzione e minore superficialità! Ma spesso quello che la persona ritiene che
sarebbe stata in grado di prevedere se solo si fosse soffermata a riflettere con maggiore attenzione,
questo, dicevo, può essere previsto - e non sempre lo è - solo da persone altamente competenti!
Un’ultima annotazione prima di concludere il nostro discorso sulle emozioni fatto in questi
due ultimi articoli. Noi nel nostro approccio riconosciamo solo le suddette quattro emozioni
negative (ansia, depressione, rabbia e colpa). Le altre emozioni sono un mix di due o più di queste
quattro emozioni fondamentali. Facciamo attenzione, perciò, a non classificare come emozioni
espressioni quali “Mi sento… respinto, offeso, umiliato, ecc.”; l’espressione “Mi sento”, infatti, a
pensarci bene, significa “Mi ritengo / mi giudico / penso di essere … respinto, offeso, umiliato,
ecc.!”. E questo a pensarci bene ancora sono nostri pensieri, inferenze, interpretazioni, ecc.
Impariamo perciò a non dire “mi sento… respinto, offeso, umiliato, ecc.”, ma a dire “mi ritengo…
respinto, offeso, umiliato, ecc”! Il “mi sento” usiamolo solo per le sensazioni enterocettive,
propriocettive e nocicettive (in sostanza per le sensazioni provenienti dal sistema neurovegetativo).
Rocco Carelli
e-mail: [email protected]
L’ANALISI DEL PROBLEMA
Rocco Carelli, in «Presenza Cristiana», 2007, vol. 43, n. 5, pp. 54-55
Nei due articoli precedenti abbiamo visto che la causa (a livello sia di genesi che di
mantenimento) delle quattro principali emozioni negative o inappropriate o inutilmente spiacevoli
(ansia, depressione psicogena, rabbia e colpa) è data dai nostri modi di pensare erronei e/o
disfunzionali e/o irrealistici.
Ma se le cose stanno così, è ovvio che, se vogliamo prevenire e/o gestire e/o attenuare e/o
eliminare emozioni e reazioni fisiologiche negative, ci basterà modificare questi modi di pensare
erronei e/o disfunzionali e/o irrealistici e tutto andrà a posto.
E questo è esattamente quello che impareremo a fare ora.
Per venire a capo di questi problemi impareremo, come prima cosa, ad applicare il cosiddetto
“modello A-B-C per la soluzione dei problemi emozionali”:
la A sta per Activating event (evento attivante),
la B sta per Beliefs system (sistema di convinzioni: significati attribuiti agli eventi e valutazioni
date agli stessi),
la C sta per Consequences (conseguenze emozionali, ovvero ansia, depressione, rabbia, colpa;
conseguenze fisiologiche, ovvero pianto, rossore, pallore, sudorazione, tremore, ecc.;
conseguenze comportamentali, ovvero urlare, dire parolacce, tirare calci, pugni, ecc.).
In ogni emozione troviamo sempre i tre elementi suddetti. Per imparare, allora, a risolvere i
nostri problemi emozionali ci tornerà utile imparare a individuare la struttura del nostro problema
usando il modello A-B-C (ovvero imparare a stabilire qual è l’A, qual è il B e qual è il C), e poi a
cercare di migliorare la situazione modificando i modi erronei di pensare. Si tratta cioè di imparare
a fare le seguenti tre cose:
a)
analizzare il problema (intercettare e catalogare i pensieri erronei3),
b)
determinare gli obiettivi che vogliamo raggiungere e formulare gli stessi in termini
comportamentali osservabili e infine
c)
confutare i modi di pensare erronei.
Una volta individuata la struttura del problema, usando il modello A-B-C, è facile passare alla
modificazione dei modi di pensare erronei e giungere così a ridurre di intensità o addirittura a
eliminare le proprie emozioni negative e a modificare le proprie reazioni e i propri comportamenti
indesiderati, a ridurne il numero e/o l’intensità.
Procediamo con ordine e vediamo come si può procedere per individuare la struttura del
proprio problema ed elaborare l’A-B-C.
In questo articolo ci occuperemo dei primi due punti (analisi del problema e determinazione
degli obiettivi), nel prossimo articolo ci occuperemo dell’altro punto (la confutazione dei modi di
pensare erronei).
a) Analisi del problema intercettare e catalogare i pensieri erronei
L’analisi del problema, quando si segue il modello A-B-C, consiste appunto nel cercare di
individuare i tre elementi del problema a cui accennavamo poco prima, ovvero l’evento attivante
(l’A), il sistema di convinzioni (il B) e le conseguenze (il C).
Si fa a sé stessi una vera e propria intervista, le cui domande di base sono le seguenti:
•
per far emergere e individuare l’ A: cosa è successo? quando? chi ha fatto/detto… cosa…?;
•
per far emergere e individuare il B: quando vedo/odo (ho visto/udito) questa cosa (l’A appena
individuato) cosa mi sono detto? cosa ho pensato? cosa significa questo per me? e se così
fosse, cosa succederebbe?;
•
per far emergere e individuare il C: quando mi dico (mi sono detto) questo (il dialogo
interiore, i significati attribuiti all’A emersi nel B) cosa provo/sento (ho provato/ho sentito)?.
3
D’ora in poi, per brevità, useremo solo questo aggettivo, ma la formulazione completa è “pensieri erronei e/o
disfunzionali e/o irrealistici”.
Questo ovviamente è lo schema di base per analizzare la struttura del proprio problema.
Queste domande sono generate dal modello dello psichismo umano che uno ha nella mente e dalle
ipotesi che egli, in base a questo modello, formula circa la genesi del malessere: se io so che le mie
emozioni sono generate da un modo erroneo di pensare, è evidente che, di fronte a delle emozioni,
andrò a cercare qual è questo modo erroneo di pensare, dove si annidano i miei errori cognitivi. Se
so che le emozioni negative sono essenzialmente le quattro che abbiamo più volte visto, è evidente
che, di fronte a delle emozioni, andrò a cercare di stabilire in quale delle quattro emozioni-base si
colloca quella che io provo in questo momento. E così via.
Avvertenza. Se, nel nostro modello della genesi e del mantenimento delle emozioni, noi
facciamo dipendere queste ultime non dai fatti, ma dal significato che noi attribuiamo ai fatti, è
evidente che nel fare l’analisi del problema presteremo particolare attenzione a distinguere bene ciò
che è A (evento attivante) - su cui il più delle volte abbiamo pochissimo potere di intervento - da ciò
che è B (il nostro sistema di convinzioni) - che invece dipende da noi -. Spesso nel nostro dialogo
interiore noi mescoliamo insieme ciò che è A e ciò che è B. Per aiutarci in questa operazione,
faremo il cosiddetto “test della fotocamera”: è A tutto ciò e solo ciò che può essere fotografato con
una macchina fotografica, con una cinepresa/videocamera, o registrato con un audioregistratore4.
Esercizio. Proviamo a separare, nel seguente esempio, gli A dai B, i fatti dalle opinioni:
“Quando vedo le rondini migrare verso l’Africa, mi prende una grande tristezza”.
Il C (conseguenze emozionali) è rappresentato dalle parole “mi rattristo”.
Qual è, nella parte restante della frase, l’A? e qual è il B?
Avete fatto il test della fotocamera? Cosa si vede nella foto che avete fatto?
Probabilmente avete risposto “Le rondini che migrano verso l’Africa”. È così che avete
risposto? Se è così, fate attenzione! Non si vedono le rondini che migrano verso l’Africa! Non
urtatevi e seguitemi pazientemente. Cosa si vede? Guardate bene! Si vedono solo delle rondini che
volano. E basta! Forse stanno andando verso un paese o una città poco più a Sud della vostra, ma
questo non vuol dire che stiano migrando verso l’Africa: che stiano migrando lo pensate voi (cioè è
nella vostra mente)! Forse stanno davvero migrando verso l’Africa. Ma voi, stando a quello che
potete vedere, con certezza potete dire solo che le rondini stanno volando! Tutt’al più potete dire
che volano lungo la direzione Nord-Sud. Null’altro. Questo è l’“A”. Tutto ciò che resta è “B”:
“migrano” è un “B”; nell’espressione “una grande malinconia”, anche l’aggettivo “grande” è un
“B”. Stabilire che una cosa è grande o piccola è una classica attività mentale, fatta di ricordi, di
confronti con emozioni simili passate, di una serie di pesate e soppesate e di una conclusione:
“L’emozione che sto provando adesso è grande (sottinteso: più dell’emozione di quella volta, meno
di quella che potrei provare domani, pari a quella provata un mese fa, ecc.)”. e questi, come si vede,
sono tutti pensieri.
Anni fa vedevo dalla finestra di casa una vecchietta che usciva da casa, si trascinava col suo
bastone in direzione del supermercato e rientrava dopo un’oretta circa con la busta della spesa. Io
provavo una grande pena per lei: “Poverina, mi dicevo, avrebbe bisogno di qualcuno che le desse
una mano, che le risparmiasse la fatica di andare a fare la spesa!”. Un giorno decisi di parlare con un
vicino di casa per cercare di fare qualcosa per questa vecchietta. Prima ancora che io esponessi il
problema, egli mi additò la vecchietta e disse: “La vedi questa? Dentro casa si annoia da morire. E
allora, col pretesto di andare a fare la spesa, esce e va a fare una passeggiata”. Anche io avevo
mischiato insieme gli A e i B. Qual era l’A? Che camminava in una certa direzione (all’andare), che
portava in mano una busta del supermercato (al ritorno). Che fosse andata al supermercato, che
fosse costretta ad andare a fare la spesa da sé, che portasse una busta pesante, ecc. erano tutte cose
presenti solo nella mia testa. Erano tutti film che mi facevo io. O, più scientificamente, erano tutti B.
b) Determinazione degli obiettivi e formulazione degli stessi in termini comportamentali
osservabili
Se non sai dove vuoi andare non puoi stabilire neppure qual è la strada giusta per arrivarci.
4
Per semplicità in questa sede non ci occupiamo dell’olfatto e del gusto.
Ebbene, anche se sembrerà strano, spesso noi non sappiamo dove vogliamo andare. Almeno in
relazione ai nostri problemi psicologici. Alla mia domanda “Qual è l’obiettivo che vuoi
raggiungere?”, quasi sempre i pazienti hanno risposto: “Voglio sentirmi normale, voglio stare
bene!”. Come se fosse una risposta pienamente soddisfacente.
In realtà essa è tutto tranne che soddisfacente. Le risposte “voglio sentirmi normale!”, “voglio
stare bene!” sono vaghe: significano tutto e nulla. La risposta che ci aiuta è quella che vien fuori
rispondendo alla domanda: “Cosa voglio essere capace di fare al termine della psicoterapia? Quale
livello di prestazione considererò accettabile?”. “Riterrò che l’obiettivo è stato raggiunto se al
termine della psicoterapia avrò…”. Al posto dei puntini possiamo provare a mettere le seguenti
frasi: “terminato la preparazione della tesi”, “imparato a essere puntuale / a non rinviare / a restare
calmo in mezzo al traffico / ad accettare le critiche”, ecc. Mi riterrò soddisfatto, se riuscirò a portare
a compimento questo mie progetto (nel caso della tesi) o a fare queste cose almeno 3 volte su 5,
oppure 4 volte su 5, ecc.
Un obiettivo così formulato offre il vantaggio di poter stabilire con precisione in quale
direzione si vuole andare, di verificare se ci sono stati dei miglioramenti e di trarre incoraggiamento
a mano a mano che i risultati appaiono a portata di mano.
Rocco Carelli
e-mail: [email protected]