IL GESTO DELL` INTER-ATTORE Spazio corpo

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IL GESTO DELL` INTER-ATTORE Spazio corpo
n. 8 Ottobre / Dicembre 2013
IL GESTO DELL’ INTER-ATTORE
Spazio corpo movimento. Gli ambienti del Gruppo T al Museo del
Novecento di Milano
di Alice Devecchi
«I nostri ambienti fanno danzare lo spettatore, o lo trasformano in ginnasta, come la
Scultura da prendere a calci». 1
Gabriele Devecchi
PICCOLO PREAMBOLO
La Scultura da prendere a calci [fig. 1], di Gabriele Devecchi (1959/60) conserva
nella sua struttura gli elementi tradizionali di una scultura. È un volume
apparentemente solido, con un basamento circolare che ne definisce con precisione i
confini. Tuttavia il materiale di cui è costituita, così come il nome che porta,
contraddicono subito la qualità scultorea dell’oggetto. Infatti la gommapiuma
(moltoprene per la precisione) di cui sono fatti i moduli che la compongono –
parallelepipedi tenuti insieme da un elastico che li connette tra loro e al basamento –
è morbida e non plasmata. Si presta a essere presa a calci; a me fa venire in mente
quella palle di gommapiuma con cui si gioca da piccoli per non farsi male. Non c’è
abilità plastica nella lavorazione di questa scultura. La fase ‘plastica’ è delegata
all’‘attore’ che con un gesto ludico, liberatorio, dissacratorio, distruttivo e costruttivo
ad un tempo, dà forma, provvisoria, all’oggetto. L’azione del corpo – il calcio che, in
deroga alle istruzioni, può essere qualsiasi altro gesto trasformatore – è la
determinante estetica non solo dell’oggetto artistico ma anche dello spazio che si
viene a creare intorno. I parametri spaziali che determinano l’ambiente in cui la
scultura è collocata sono continuamente messi in discussione dall’esplosione della
forma che segue al calcio. Ad essere plasmato è anche l’‘attore’ che nel gesto del calcio
diventa opera.
GLI AMBIENTI DEL MUSEO DEL 900
Il Museo del Novecento espone nella sezione dedicata all’arte cinetica e programmata
quattro ambienti di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele
Devecchi.
Ambiente a shock luminosi [fig. 2], di Anceschi, realizzato per la mostra parigina
Nouvelle Tendence del 1964 è costituito da uno spazio bianco diviso in due corridoi
percorribili di uguale lunghezza. Due fonti luminose, nascoste da un cielino in tela, si
accendono e si spengono in una sequenza programmata. Percorrendo i corridoi si
viene abbagliati dalla luce a tal punto da perdere la percezione visiva della morfologia
dello spazio. Il corpo si affida passo dopo passo alla capacità cinestetica con cui
ricostruisce le coordinate spaziali.
Ambiente stroboscopico n°4 del 1967 [fig. 3] è uno degli esiti della ricerca di Boriani
sugli ambienti interattivi cominciata nel 1964 con Spazio + linee luce + spettatore,
presentato anch’esso alla mostra Nouvelle Tendence di Parigi. Pareti a specchio,
pavimento a strisce rosse e verdi, ad esclusione del quadrato centrale delimitato da
quattro pannelli specchianti che ruotano sull’asse verticale al passaggio del visitatore,
sono i tratti salienti di questo ambiente. I sensori di movimento azionano anche i
proiettori stroboscopici a luce alternata rossa e verde. Gli specchi del perimetro, le
luci stroboscopiche degli stessi colori primari usati per le strisce del pavimento, la
rotazione dei pannelli azionata dal movimento del visitatore, perturba la percezione
dei confini dello spazio e della sua conformazione provocando forte disorientamento.
Topoestesia (1965-70) riprende la struttura labirintica, articolata in tre spazi, che
Colombo usa in varie declinazioni a partire dall’esposizione zagabrese del 1965, Nova
Tendencjia 3.
Tre tunnel, oscuri, percorribili, cambiano progressivamente morfologia tramite
inclinazioni della pavimentazione fino a un massimo di 30 gradi in direzioni
successivamente opposte, e tramite illuminazioni ritmiche di luce ultravioletta e
rossa. L’ultimo dei tre tunnel [fig. 4] è una porzione dell’ambiente Spazio elastico
(1966), una griglia tridimensionale ortogonale costruita con elastici che, mossi da
motori elettrici, rendono mutevoli le coordinate spaziali. L’intermittenza della luce e
l’inclinazione dei piani del percorso disorienta il fruitore destabilizzando il suo
equilibrio e costringendolo a continui aggiustamenti cinestetici.
Ambiente - strutturazione a parametri virtuali [fig. 5], di Devecchi (1969) è la prima
versione di Ambiente zag-nt esposto nella mostra Nova tendencjia 4 a Zagabria.
L’ambiente è definito da due parallelepipedi disegnati da un margine luminoso
proiettato attraverso una fenditura sulle pareti laterali di una scatola spaziale a pianta
trapezoidale. Le linee di luce si estendono e si contraggono seguendo il movimento
delle due fonti luminose che ruotano a velocità e ritmo variabile corrompendo i
normali indizi della percezione spaziale. Il fruitore è immerso e insidiato dai due
rettangoli luminosi in movimento e reagisce esplorando l’ambiente cinesteticamente.
I PALLONI
Grande oggetto pneumatico - Ambiente a volume variabile merita di essere
ricordato, nonostante non sia tra quelli esposti in museo, non solo perché è l’unico
ambiente firmato collettivamente, ma anche in quanto sposta al 1960 (l’ambiente
viene presentato in quell’anno alla Galleria Pater di Milano) l’inizio della ricerca del
Gruppo sulle tematiche ambientali: sette palloni in polietilene si gonfiano e sgonfiano
secondo un programma che li alterna; i visitatori, immersi nel medesimo spazio dei
palloni, sono costretti continuamente a muoversi, spostare questi oggetti, scavalcarli,
sollevarli, uscire dalla stanza. Nel gioco che si stabilisce l’attivazione del dispositivoopera passa per l’attiva-azione del pubblico che interviene nella situazione
programmata con la sua imprevedibile reazione. La dialettica di programma e caso
origina un continuo mutare del volume, reale e percepito, dello spazio in cui il
fruitore è immerso, in cui si sente alternativamente invitato e respinto.
PAROLE CHIAVE
1. immersività e interattività
Dal lessico contemporaneo, attraversato dalla rivoluzione tecnologica digitale,
abbiamo guadagnato la parola “interattività”, che indica la capacità di un medium di
lasciare che l’utente eserciti un’influenza sul suo contenuto. I media interattivi
basano il loro funzionamento sulla presenza di un fruitore che con essi stabilisce una
relazione attiva.
“Interattivo” e “immersivo” sono aggettivi normalmente utilizzati per videogiochi e
software, dispositivi programmati per assumere modalità di funzionamento diverse a
seconda dei comportamenti dell’utente.
Afferma Anceschi: «L’arte che Munari ha battezzato programmata porta questo nome
perchè è
legata a doppio filo con le tappe iniziali della rivoluzione tecnologica
dell’elettronica». E ancora: «un protagonista della computergrafica del calibro di
Alessandro Polistina ha riconosciuto che gli ambienti cibernetici di Boriani
anticipano l’interattività immersiva della realtà virtuale».2
Gli ambienti del Gruppo T sono immersivi perchè il fruitore li abita, li percorre con
tutto il suo corpo. Entrare in un ambiente vuol dire immergervisi, accettare le regole
del gioco che vigono in uno spazio in cui ogni gesto produce una reazione. Sono
interattivi innanzitutto perchè richiedono l’attraversamento, sono lì in attesa,
scattano solo quando vi si impiglia lo spettatore o meglio l’inter-attore. Si compiono
nella loro forma provvisoria con l’immersione e i gesti del cosiddetto utente.
E poi perchè gli accadimenti programmati per avvenire nello spazio hanno un effetto
sulla percezione dell’utente, innescando reazioni previste dal programma ma
imprevedibili nelle modalità perchè legate alla sensibilità estetica individuale.
Proprio Giovanni Anceschi ha riflettuto a lungo sulla vicinanza tra le opere d’arte
programmata e le strutture ipertestuali del web: «Il cibernauta non è uno spettatore
passivo ma un utente interattivo, un cooperante, spesso un coautore. Le transizioni
sono sempre transizioni ‘aperte’: cliccando, sai come parti ma non sai come si
configura il terreno di atterraggio. [...] Ogni sito è un ‘luogo in costante attesa’,
‘trappola pronta a scattare se stimolata dall’interazione’».3
2. partecipazione
Si è trasformata in interattività mentre il suo colore politico-sociale sbiadiva via via.
Ma in origine partecipazione è la parola d’ordine: l’impegno dell’intellettuale negli
anni ’60 è la proiezione sociale del fare, il contributo attivo alla trasformazione in
senso democratico della società. «La stagione dell’arte programmata e delle nuove
tendenze è stata straordinaria perchè aveva un’anima non, come si dice oggi
eufemisticamente ‘etica’, ma ‘politica’. Avevamo la pretesa di cambiare il soma del
mondo.»4
Italo Mussa sottolinea quanto il dibattito sulla dimensione sociale dell’artista sia stato
acceso soprattutto nell’ambito di Nuove Tendenze: «Le mostre Nove Tendencije
hanno segnato un primo punto di contatto tra operazione artistica e intervento
critico, all’interno di una problematica estetica precisa. L’ideologia del fare viene
messa a raffronto con la società, naturale destinataria del linguaggio della visione. Il
problema arte e società diventa sempre più determinante».5
In ambito storico-artistico la stagione informale aveva divaricato il gap tra opera
d’arte e pubblico sino a trasformarlo in un abisso di incomunicabilità. Al clima
esistenziale dell’Informale e dell’Espressionismo astratto, che enfatizza il drammatico
‘essere-nel-mondo’ dell’individuo (Heidegger) si va gradualmente sostituendo
un’attitudine più collettiva, che recupera il valore progressivo e politico della scienza
e della tecnologia attraverso il linguaggio astratto-geometrico, e l’utilizzo della
macchina nella progettazione e nella realizzazione dell’opera d’arte.
Anceschi, Boriani, Colombo e Devecchi si fanno le ossa con la pittura informale. Nel
settembre del 1959 espongono le loro ultime opere informali. Quando diviene
definitivamente chiaro che i mezzi tradizionali non sono adatti a stimolare
l’attitudine partecipativa dello spettatore cercano di mettere a punto una metodologia
di lavoro che rimodula il rapporto tra artista (operatore) e spettatore (fruitore).
La “partecipazione”, parola mutuata dal linguaggio politico, definisce appunto
un’apertura dell’opera all’intervento attivo di uno spettatore che diventa fruitore
passando dalla contemplazione dell’opera all’uso della stessa. Al pubblico viene
ingiunto di agire; agire per sperimentare le sue potenzialità di azione dal microcosmo
dell’opera d’arte al macrocosmo del vivere sociale. Lo spettatore (spectare) diviene
fruitore perché dall’uso dell’opera trae frutto (fruire da fruitus o fructus).
L’artista sente l’urgenza di arretrare dalla sua posizione elitaria per diventare
progettista di ‘semilavorati’ destinati ad essere usati e completati da chi li manipola.
Il gesto creatore dell’artista, consolidato da una lunga tradizione, lascia il posto al
gesto di un pubblico attivamente partecipante.
Negli ambienti del Gruppo T partecipazione è prendere parte (partem capere),
diventare parte dello spazio stesso dell’opera, usando il corpo in movimento come
strumento di esplorazione attiva e costruttiva, istanza conoscitiva privilegiata.
3. l’interfaccia-corpo
La cerniera tra l’opera e il destinatario è il corpo, concepito come interfaccia aptica
sensibile al variare dei parametri spaziali dell’ambiente in cui è immerso. “Aptico”
significa ‘capace di entrare in contatto con’ e usato in relazione al corpo si riferisce al
ruolo di mutuo contatto tra noi e l’ambiente che il corpo attraversa.
Il corpo come mezzo di adesione prima alla realtà, strumento cognitivo fondamentale
per l’appercezione del mondo.
Il corpo con la sua gestualità, l’esserci somatico nell’opera, è l’elemento che sposta
l’ago della bilancia verso la partecipazione più che l’interattività. Nel passaggio
dall’una all’altra il corpo si è liquefatto: nella realtà virtuale del videogioco o del web,
modelli di interattività, la componente estetica legata alla sensorialità corporea si è
concentrata sulla punta delle dita, privandoci di quella capacità di costruzione
dell’ambiente che ci circonda fondata sul dialogo tra corpo e spazio.
Negli ambienti del Gruppo T il corpo è l’interfaccia necessaria al colloquio tra noi e
l’ambiente.
4. cinestesia
Il corpo è costellato di recettori muscolari, articolari, vestibolari che permettono la
propriocezione, la percezione di sé in relazione allo spazio. La percezione dello spazio
avviene con uno scambio di informazioni tra il corpo e l’ambiente in cui è immerso.
La cinestesia, senso del movimento, è regolata da una sorta di legge di funzionamento
che la assimila agli apparati omeostatici che cercano l’equilibrio con l’ambiente.
Afferma Ernst Gombrich in uno studio - Il senso dell’ordine - che pur occupandosi di
psicologia dell’arte figurativa fa riferimento al nostro apparato cinestetico: «Tale
equilibrio richiede sempre azione. Dev’esserci un ‘meccanismo di feedback’ che
registra e si contrappone a qualsiasi deviazione dall’equilibrio».6
Il ‘meccanismo di feedback’ del corpo è la cinestesia, quella che quando camminiamo
in discesa o in salita interviene spostando il nostro baricentro per aggiustare
l’equilibrio disturbato dai cambi di pendenza. «Ma tali movimenti correttivi –
aggiunge Gombrich – sono divenuti automatici e non esigono attenzione.
Raggiungono la coscienza soltanto quei disturbi che investono l’intero sistema».7
La cinestesia ha una memoria. Essa reagisce ai disturbi percettivi provocati dalla
morfologia dello spazio selezionando il gesto adatto ad affrontare l’ostacolo. Ad
esempio, i gradini di una scala sono ostacoli uniformi, ripetuti in una serie più o
meno lunga; li percorriamo con movimenti diventati automatici, al di sotto della
soglia della coscienza. Una scala con gradini tutti di altezza diversa ci costringono a
dare un’occhiata ad ogni passo.
«Ho scelto proprio la scala – afferma Colombo – perché è una di quelle cose di cui
facciamo normalmente esperienza. Abbiamo addirittura delle regole, memorizzate da
sempre, che riguardano la prevedibilità della morfologia del gradino: siamo sicuri
che un gradino sarà uguale a quello successivo perché così si è convenzionato».8
I gradini della Bariestesia, di cui Colombo realizza diverse versioni a partire dal 1975,
sono differenti uno dall’altro, hanno alzata e pedata di misure e pendenze diverse.
L’equilibrio di chi li percorre è perturbato ad ogni passo, l’attenzione cinestetica vigila
sull’omeostasi perduta e attiva i movimenti necessari per recuperarla.
Nel 1970 Boriani e Devecchi presentano la Camera distorta alla ormai celebre mostra
Vitalità del Negativo nell’arte italiana 1960/70, curata da Achille Bonito Oliva.9
L'ambiente, basato su un principio della psicologia transazionale noto come 'camera
di Ames', è arredato con porte, finestre, mobili, televisore e copia a olio in bianco e
nero della Venere di Dresda di Giorgione. La camera e gli arredi sono deformati
secondo un principio di anamorfosi tridimensionale, tale che osservandolo da un
determinato punto di vista viene percepito un normale ambiente a pianta
rettangolare. Una volta che si percorre l’ambiente, si scopre la distorsione delle
dimensioni prima considerate reali.
Aldo Visalberghi ci ricorda che «Le apparecchiature per lo studio di complesse
illusioni percettive costruite da Ames mostrano [...] il carattere ‘prognostico’ del
fenomeno percettivo che, anziché rispecchiamento di una realtà oggettiva esterna, è
sempre
[...]
una
forma
straordinariamente
complicata
di
aggiustamento
dell’organismo all’ambiente, basata su fattori molteplici dei quali solo una parte
corrisponde ai cosiddetti stimoli sensoriali, mentre un’altra parte è costituita dalle
nostre abitudini, dalle nostre aspettazioni e assunzioni che operano a livello
subconscio».10
5. arte come protesi
In quest’ottica l’arte è intesa come una sorta di protesi necessaria all’apprensione
della realtà, uno strumento che si pone come amplificatore di alcuni meccanismi di
funzionamento della relazione tra persona e mondo, nello specifico tra corpo e
spazio. Le dinamiche dell’interazione tra corpo e spazio sono messe sotto la lente
d’ingrandimento, riprodotte in una scala dimensionale controllabile che ne svela le
modalità allo scopo di renderne cosciente l’individuo.
Riprendendo le parole di Italo Mussa: «Ciò che viene sottoposto ad analisi precise
sono i processi formativi e di memorizzazione delle facoltà percettive. L’ambiente è
uno spazio visuale (o ‘campo’) perfettamente progettato in cui lo spettatore,
estraniato dal mondo ‘esterno’, si trova coinvolto in se stesso e le sue facoltà psicopercettive vengono sottoposte ad esercizi aventi sempre funzioni estetiche».11
6. cultura del progetto
Secondo l’ipotesi teorica di Argan l’arte programmata contrappone il ‘progetto’ al
‘non progetto’ della Pop Art.12
Il ‘non-progetto’ culmina nel culto ossessivo
dell’oggetto, nella trasformazione della cosa qualunque in opera d’arte. Nelle
intenzioni dei ‘cinetico-programmati’ il culto dell’oggetto deve essere rimpiazzato
dalla cultura del progetto.
D’altra parte se l’opera diviene con il divenire del visitatore, non esiste forma
compiuta dell’oggetto-opera. Di compiuto c’è solo il progetto che è il programma con
cui gli accadimenti devono avvenire. Il progetto permette all’opera di essere
ricostruita anche in assenza dell’autore, il progetto prevede la definizione di tecniche
e materiali necessari al raggiungimento dello scopo, il progetto proietta il fare in una
dimensione costruttiva e non più rappresentativa, lontana dal procedere casuale
dell’artista ispirato e molto più vicina a quello di un tecnico. Anche per questo motivo
l’artista smette di chiamarsi artista per diventare operatore.
1 Intervista inedita a Gabriele Devecchi, in Cinema e avanguardie artistiche nella Milano degli anni
’60 e ’70, tesi di laurea di Alice Devecchi, A.A. 2004/2005, Università degli Studi di Milano.
2 Giovanni Anceschi, “Memi immaginali”, in Trent’anni dopo. L’avanguardia gestaltica degli anni
sessanta, Baleri Italia, Milano, 1993, p. 21.
3 Giovanni Anceschi, “La fatica del web”, Il Verri, n. 16, maggio 2001, pp. 31-32.
4 Intervista a Giovanni Anceschi in Mariastella Margozzi e Lucilla Meloni (a cura di), Gli ambienti del
Gruppo T. Le origini dell'arte interattiva (catalogo della mostra, Roma, GNAM, 15 dicembre 2005 –
28 maggio 2006), Silvana, Cinisello Balsamo, 2005, p. 21.
5 Italo Mussa, Il Gruppo Enne e la situazione dei gruppi in Europa negli anni ’60, Bulzoni, Roma,
1976, pp. 9-10.
6 Ernst H. Gombrich, Il senso dell’ordine (1979), Phaidon, Milano, 2010, p. 29.
7 Ibidem.
8 Jole De Sanna, “Storia come filtro della qualità. Intervista a Gianni Colombo”, in Vittorio Fagone (a
cura di) I Colombo, Mazzotta, Milano, 1995, p. 290.
9 Achille Bonito Oliva (a cura di), Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70, (catalogo della
mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 30 novembre 1970 - 31 gennaio 1971), Centro Di, Firenze
1970.
10 Aldo Visalberghi, “Il concetto di transazione” in Gillo Dorfles, Il divenire delle arti (1959),
Bompiani, Milano, 1998, p. 27.
11 Italo Mussa, Il Gruppo Enne…, cit., p.12.
12 Giulio Carlo Argan, “Testimonianze sulla XXXII Biennale”, Il Ponte, agosto/settembre 1964.
Immagini:
1. Gabriele Devecchi, Scultura da prendere a calci, 1959/60, foto Giacomo Devecchi.
2. Giovanni Anceschi, Ambiente a shock luminosi, 1964.
3. Davide Boriani, Ambiente stroboscopico n°4, 1967.
4. Gianni Colombo, Topoestesia, 1965/70.
5. Gabriele Devecchi, Ambiente - strutturazione a parametri virtuali, 1969.