scifigate 3 - Scifigatemagazine

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scifigate 3 - Scifigatemagazine
V
incolo inderogabile di una rivista on-line
senza scopo di lucro è la non periodicità.
Questa volta abbiamo preso però un po'
troppo alla lettera la regola visto che il
nuovo numero giunge ben 7 mesi dopo l'uscita del
precedente. Imprevisti di Fantozziana memoria ci
hanno impedito di tornare on-line rispetto ai tempi
prefissati. Nonostante ciò l'assenza dalla rete ci ha
dato modo di apprezzare una nuova rivista sfogliabile direttamente sul web, affidata all'esperta penna
di Sandro Pergameno e del suo team e alla splendida arte grafica di Tiziano Cremonini. Cronache di
un sole lontano, questo il suo titolo, si occupa prevalentemente di saggistica Sci-Fi e lo fa con quell'eleganza e competenza che spesso sono mancate nei magazine cartacei. Vogliamo pensare che
Sci-Fi Gate sia stato un modello ispiratore per la
neonata rivista che ha raccolto consensi e recensioni nei blog di genere nell'immediato. Avremmo
gradito eguale considerazione nei nostri confronti
da chi gestisce le community di fantascienza, ma
meglio non addentrarci in discorsi che potrebbero
rendere questo editoriale più lungo dell'approfondito saggio sulla Fantascienza Western di Michele
Tetro, di cui nel nuovo numero vi proponiamo la
seconda parte. Spazio dedicato ai Robot manga
curato da Davide Tarò di cui vi presentiamo i suoi
ultimi lavori. Marzo è poi il mese di Capitan America il cui secondo film esce nei cinema italiani il 26.
Un occhio di riguardo anche alla Sci-Fi TV, con il
Doctor Who e la nuovissima Helix, e il flop Sarah
Connor Chronicles. Sperando che la nuvola di
Fantozzi non ci segua come un'ombra, vi auguriamo buona lettura e vi diamo appuntamento al più
presto con il 4° numero di Sci-Fi gate.
Massimiliano H/-25
c
Sci-fi gate
Prodotto dall'X-Files Blue Book/
X-Files Italian Fan Club.
Idea e sviluppo
Massimiliano H7-25,
Simone Ferraro
Graphic designer
Simone Ferraro
Collaboratori
Michele Tetro, Michele Augello,
Lucius Etruscus, Carlo Lanna, Davide
Tarò, Fabio Terenziani, Marco Vittorini,
Elena Romanello,
Sci-Fi Gate è un magazine senza scopo di
lucro, sfogliabile on-line. Non possiede
carattere della periodicità. Le foto sono riprese
da Google. Chi lamenti la violazione dei diritti
di immagine può chiederne la rimozione
scrivendo alla mail della redazione:
[email protected]
“Io ne ho viste cose che voi umani
non potreste immaginarvi. Navi da
combattimento in fiamme al largo
dei bastioni di Orione... e ho visto i
raggi B balenare nel buio vicino alle
porte di Tannhäuser. E tutti quei
momenti andranno perduti nel
tempo come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.”
Roy Batty
BLADE RUNNER
Amarcord
SKY – CANALE 111
OGNI LUNEDI ALLE 21
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The Real
Historians
of Science
La BBC America regalerà agli appassionati di Sci-Fi, a partire dal 19 aprile, uno speciale sulla storia della
Fantascienza in 4 parti. The Real Story of Science Fiction, racconterà la nascita e lo sviluppo di uno dei
più amati rami della narrativa. Il primo episodio tratterà di Robot e a parlarcene non poteva che essere
Rutger Hauer, colui che diede il volto all'indimenticabile replicante Roy Batty in Blade Runner. Il tema del
secondo appuntamento sarà invece lo Spazio. Sarà Nichelle Nichols, tenente Uhura in Star Trek, a narrarci
i viaggi intergalattici. Il 3 maggio David Tennant (Doctor Who) ci racconterà le emozioni di un contatto
alieno, ma gli extraterrestri saranno anche l'oggetto di discussione dell'intervento di Chris Carter (X-Files).
L'ultima puntata sarà dedicata invece al tempo e ai suoi viaggi e paradossi e in proposito numerose le
prospettive offerte dagli intervistati: da Steven Moffat a Tennant, da Karen Gillan a Neil Gaiman.
TERMINATOR 5
Terminator non poteva non finire nel gioco del Reboot. E così il 5° capitolo della
saga, Terminator: genesis avrà volti nuovi,
sebbene quello più familiare di Schwarzy
tornerà a mostrarsi per la gioia dei fans.
Kyle Reese è interpretato da Jai Courtney visto in Spartacus. (uscita 2015)
AIR
Norman Reedus l'apprezzato interprete di Daryl (The Walking
Dead) è nel cast di Air, film post apocalittico ideato da Krickman, la mente creativa della serie zombie dell'AMC. La Terra è
un posto invivibile e per garantire la sopravvivenza della specie umana, due uomini si prendono cura dei superstiti in stato
criogenico. Nel cast anche Djimon Hounsou (Amistad).
STAR WARS 7
Nuovo poster del 4° capitolo di
Transformers (16 luglio 2014)
Sono 4 gli attori in corsa per il ruolo di un giovane apprendista Jedi in Star Wars 7, tra cui Plemmons (Breaking Bad).
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Pergameno è senza dubbio uno dei dieci
editor che hanno fatto la storia della
fantascienza in Italia. È stato direttore
della (mitica) rivista Fantascienza Ciscato,
delle collane dell'Editrice Nord e poi della
Fanucci, e da qualche tempo cura il blog
Cronache di un sole lontano, una delle
fonti più interessanti per chi ama la fantascienza e in particolare la fantascienza
moderna.
Ora la passione per questo genere lo ha
spinto, insieme ad altri amici, a fare un
passo avanti e trasformare l'esperienza del
blog in una rivista vera e propria, distribuita
gratuitamente online in pdf.
Il nome è lo stesso, Cronache di un sole
lontano; la grafica elegante e le splendide
illustrazioni sono di Tiziano Cremonini,
artista di lungo corso autore tra l'altro di
molte copertine per l'Editrice Nord. Tra i
collaboratori i nimi di Flavio Alunni, Nico
Gallo, Massimo Luciani, Umberto Rossi,
Stefano Sacchini, Arne Saknussem e Marc
Welder.
La rivista si occupa soprattutto di libri
recensendo una dozzina di titoli e presentando vari autori. Ma trova spazio anche
qualche recensione cinematografica e un
racconto di Alexia Bianchini. In fondo la
prima puntata di una graphic novel scritta
da Umberto Rossi e disegnata da Cremonini. La rivista è una piacevole sorpresa
nel sonnacchioso mondo della fantascienza. Da scaricare su:
cronachediunsolelontano.blogspot.it
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HOT NEWS
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HOT NEWS
S
i preannuncia un 2014 ricchissimo di proposte fantascientifiche e fantastiche in
generale: per stimolare la curiosità, ecco una piccola rassegna.
Dopo il Reboot di Robocop giunto
nelle sale lo scorso febbraio, a fine
marzo toccherà al patriottico Capitan America in “The winter soldier”, i cui eventi riprendono, nel
rispetto della continuity cinematografica, dall'attacco alieno di New
York ad opera degli alieni nel film
The Avengers. Cap America è ormai differente iconograficamente
parlando rispetto all'eroe patriottico che ricordiamo nei fumetti:
cambiato nell'umore e pure negli
abiti. Abbandonati i colori tradizionali della bandiera USA, indossa
una tuta più moderna e dai cupi
toni. Al fianco di Vedova Nera e
Falcon dovrà fronteggiare un
nuovo nemico: the winter soldier.
Nel cast anche Robert Redford nei
panni di un pezzo grosso dello
S.H.I.E.L.D. Ad ottobre inizia anche
in Italia la saga di Maze Runner,
tratta da quella letteraria di James
Dashner. L’esordiente Wes Ball ha
diretto il primo episodio del ciclo, Il
labirinto (il cui romanzo è edito da
Fanucci) con un cast di soli attori
giovani. Il futuro post-apocalittico
descritto nella storia vede infatti
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una comunità di ragazzi (a cui è
stata cancellata la memoria) vivere in una strana costruzione, che si
scopre essere un labirinto: unire le
forze per uscirne e per capire cosa
ne è stato del mondo è l'unica
soluzione. A marzo negli USA esordisce Divergent. Neil Burger (regista di
The Illusionist e Limitless) porta su
schermo il primo romanzo della saga
firmata da Veronica Roth, edito in
Italia nel 2012 da DeAgostini. Beatrice Prior (Shailene Woodley), Tris per
gli amici e non è un soprannome
casuale, si trova a vivere in un mondo futuro in cui deve scegliere a
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HOT NEWS
quale dei cinque gruppi sociali
nei quali è divisa l’umanità (a
seconda delle facoltà maggiormente sviluppate) appartenere.
Tris scopre però di avere ben tre
facoltà contemporaneamente, la
qual cosa la rende sì eccezionale,
ma anche in pericolo di vita, se il
suo segreto sarà scoperto.
Arriverà a maggio in Italia l’atteso
film tratto dal romanzo All You
Need Is Kill (2004) di Hiroshi Sakurazaka. Edge of Tomorrow è diretto
da Doug Liman, regista di ottimi
thriller come The Bourne Identity e
Fair Game, e racconterà del colonnello Bill Cage (Tom Cruise)impegnato in una sanguinosa guerra contro
una razza aliena. Già le cose non
vanno proprio bene per la razza
umana, ma la situazione peggiora
quando Cage si sveglia e scopre di
essere “intrappolato” temporalmente nello stesso giorno che si ripete
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continuamente, ritrovandosi quindi
a dover combattere sempre la stessa battaglia contro gli alieni. Il 16
luglio arriverà sui nostri schermi Transformers: Age of Extinction, 4° episodio
della fortunata saga dei robot alieni
mutanti, diretto dal consueto Michael
Bay. Lo sceneggiatore Ehren Kruger
mette stavolta Cade (Mark Wahlberg)
e sua figlia Tessa (Nicola Peltz) a
confrontarsi con gli Autobot e i loro
eterni rivali Decepticon.
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HOT NEWS
Sempre a luglio sarà la volta di
La conquista del pianeta delle
scimmie (Dawn of the Planet of
the Apes) di Matt Reeves, ennesimo rimaneggiamento del celebre
romanzo di Pierre Boulle ma soprattutto sequel de L’alba del pianeta
delle scimmie (2011): l’umanità sta
morendo per lasciare spazio alle
scimmie geneticamente evolute
guidate da Cesare, ma gli scontri
fra umani e scimpanzé sono ancora violenti. Nel cast anche Gary
Oldman. Ad ottobre arriverà anche
da noi Guardians of the Galaxy, la
grande produzione diretta e cosceneggiata da James Gunn e tratta
dai comics Marvel omonimi, che dal
settembre scorso sono arrivati anche
nelle fumetterie italiane, grazie a
Panini Comics. Nel cast nomi di
spicco come Bradley Cooper e Vin
Diesel, che però non appariranno di
persona, limitandosi a prestare le loro
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voci ad alcuni degli alieni ingaggiati dal
protagonista per difendere l’universo da
una pericolosa minaccia: a noi ci rimarrà
comunque la soddisfazione di ammirare
la bella Zoe Saldana (Colombiana), nel
ruolo di Gamora. Per finire, novembre
sarà il mese in cui arriverà al cinema
Interstellar di Christopher Nolan, il celebrato autore di Memento e della recente saga di Batman. Sceneggiato insieme
al fratello Jonathan, il film racconta della
scoperta di un tunnel spazio-temporale
che permette di coprire distanze siderali
in tempi brevi... ma cosa ci sarà dall’altra
parte? Contemporanea anche l’uscita
di Hunger Games: il canto della rivolta Parte 1, dal romanzo omonimo di Suzanne Collins (Mondadori 2012), in cui la
“ragazza dei giochi” Katniss Everdeen
(Jennifer Lawrence) diventa il simbolo
della rivolta del mondo del futuro.
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Sci-fi movies
di Massimiliano h7-25
I
l 1941 per gli stati uniti fu un anno
di grandi tensioni per via della
guerra nel vecchio continente.
La necessità di un coinvolgimento
militare degli USA era avvertita da
mezza popolazione. L’altra metà fu
convinta dal discorso di Infamia
pronunciato dal Presidente Roosevelt il 7 dicembre dello stesso anno,
quando fu dichiarata guerra al
Giappone e alla politica Nazista, a
seguito dell’attacco a Pearl Harbor. Patriottismo ed eroismo rappresentavano l’unico cibo per le
menti degli americani e i fumetti
incarnavano un mezzo efficace di
propaganda per educare i giovani
all’antinazismo. Sulla scia del successo di Batman e Superman nacque dalla creatività di Joe Simon
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e Jack Kirby, Capitan America, il
personaggio migliore per dar vita
all’apostolato dei valori democratici americani: giovane statunitense desideroso di servire il paese arruolandosi nell’esercito per combattere Hitler. Emblematica fu la
prima copertina che ritraeva un
determinato Cap mettere K.O. con
un pugno, il temibile Fuhrer.
Il successo del supereroe sopravvisse fino al termine del conflitto e
Steve Rogers come pure il patriottismo bellico andò in ibernazione
fino a quando, negli anni 60, venne risvegliato in tempo per sbandierare, in piena Guerra Fredda,
l'anticomunismo. Poi ci pensò Stan
Lee a dare nuova linfa vitale al
personaggio, facendolo risvegliare
50 anni dopo la Grande Guerra,
sotto l'egida di Nick Fury, e reclutandolo nel team dei Vendicatori,
in missione contro terroristi e supercriminali. Il primo film diretto da Joe
Johnston ha rispecchiato degnamente lo spirito del fumetto, quindi
grandi sono le aspettative per questo secondo capitolo di Capitan
America, i cui eventi prendono il
via dallo scontro alieno che abbiamo assistito nel primo film di The
Avengers. Steve Rogers cerca con
fatica di ambientarsi al nuovo tempo in Washington D.C. fino a quando è richiesto il suo intervento a
seguito di un attacco subito da un
agente dello S.H.I.E.L.D. Cap verrà
coinvolto in una rete di intrighi e
cospirazioni che metteranno a rischio l'organizzazione degli eroi e
la sicurezza nel mondo. Tutto que-
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sto è il preludio ad una minaccia
più grande:The Winter soldier. L'appellativo nasce in antitesi ai “Summer Soldiers” che in guerra erano
considerati i soldati timorosi che
amavano combattere solo in condizioni favorevoli. Il soldato d'inverno è invece il temerario che col
suo sacrifico salva la vita ai compagni. La vera identità del personaggio che dà il titolo al secondo
film (e che qui non vi sveleremo)
sconvolgerà il povero Rogers alle
prese con un passato che non è
riuscito mai a dimenticare. Al fianco dell'eroe americano ci sarà la
bella Vedova Nera Johansson e
l'uomo alato, Falcon. Le premesse
sono ottime. Unica nota stonata è
la nuova cupa divisa. Rivogliamo
la vintage tuta rossa-bianca-blu!
Sci-fi movies
N
ell’estate del 2014 vedremo Nicolas
Cage protagonista di Left Behind,
pellicola che ripropone un tema caro
a milioni di lettori e spettatori nel mondo, che
fonde fantascienza e religione. Non è certo
una novità che autori di fantascienza amino
infarcire le loro storie con elementi religiosi,
ma qui abbiamo un caso contrario: un autore religioso che infarcisce la sua “fede” di
elementi fantascientifici.
Tim LaHaye è uno di quei predicatori televisivi
che ad alcuni di noi europei fanno un po’
sorridere, ma milioni e milioni di americani
amano i suoi racconti e le sue interpretazioni
di fantasiose profezie. Nel 1995 LaHaye capisce che può ampliare sensibilmente il suo
business fondendo due temi molto apprezzati
da credenti e lettori: profezie religiose e
thriller post-apocalittico. Rendendosi conto di
non avere le capacità di affrontare il
secondo genere, LaHaye entra in società
con il prolifico romanziere Jerry B. Jenkins, un
vero e proprio “grafomane” che sforna fiumi
di libri sin dal 1979. Il risultato di questa collaborazione è Left Behind, un bestseller internazionale che ha venduto decine di milioni di
copie nel mondo e che ha dato vita ad una
saga letteraria di ben sedici volumi. Il punto
di partenza è la dottrina del Rapture, il vero e
proprio rapimento divino di cui già parlava il
Vangelo di Matteo (24,37-44) secondo cui ad
un certo punto tutti i buoni cristiani ascenderanno al Cielo contemporaneamente e,
secondo alcune interpretazioni, dopo un
periodo chiamato la Tribolazione ci sarà la
seconda venuta di Gesù Cristo. L’idea di
LaHaye e Jenkins è davvero intrigante: una
volta che i bravi cristiani si sono sistemati in
Cielo... cosa succede a quelli che sono
“rimasti indietro”? Gli esclusi è la traduzione
con cui la milanese Armenia presenta il primo
romanzo nel 2000, dando vita ad un fenomeno editoriale forse non molto noto in Italia ma
da non sottovalutare, visto che dal terzo romanzo la Nord subentra alla Armenia e ne
pubblica molti episodi. Il mondo dunque è
sensibilmente spopolato (sebbene sia davvero difficile credere che i “buoni cristiani”
siano così numerosi) e qui inizia la fantascienza apocalittica: nasce un governo unico che
abbraccia l’intero pianeta, una forza armata
chiamata Tribulation Force, una setta di invasati che rema contro e addirittura l’Anticristo
nella persona del rumeno Nicolae Carpathia.
Nella saga di LaHaye-Jenkins c’è di tutto e
non stupisce che diventi ben presto un ciclo
cinematografico. Dopo essere uscito solo in
home video nel 2000, Left Behind viene distribuito nel mondo in un momento davvero
inquietante: nel settembre 2001.
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Un film che parla dell’imminenza
del Giorno del Giudizio mentre in
TV scorrono le immagini delle Torri
Gemelle che crollano... Sebbene i
nomi di LaHaye e Jenkins siano
misteriosamente omessi dai crediti, la saga ha inizio e nascono un
secondo e terzo episodio, Tribulation Force (del 2002) e World
at War (2005): quest’ultimo giunto
anche in Italia con il titolo Gli esclusi. Il mondo in guerra. Non possono mancare a questo punto le
parodie, così tanto i celebri Simpson quanto American Dad si divertono a sfottere non tanto gli
autori del bestseller, che anzi vanno lodati per aver avuto un’idea
di così grande successo, quanto
la creduloneria di quelli che non
sanno distinguere tra fantascienza e fede. In attesa del remake
del 2014 con Nicolas Cage nel
ruolo che fu di Kirk Cameron (attore celebre per la sua conversione religiosa), non possiamo dunque che congedarci con le parole dell’apostolo Matteo: «Vegliate, dunque, perché non sapete in
quale giorno il Signore vostro verrà». Forse qualcuno ricorderà il Beware! con cui si chiudevano alcuni film di fantascienza in bianco e
nero.
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DI DAVIDE TARO'
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E
ra il giugno del 2011, Leiji Matsumoto
invitato d'onore al Festival dell'animazione di Annecy presentava e commentava il progetto pilota di un nuovo
adattamento del suo mitico personaggio,
un futuro film interamente diretto in 3D-CGI
e proiettato in 3D Stereoscopico (cioè il 3D
degli occhialini). In realtà il film pilota di
Capitan Harlock (pochi minuti di girato)
prodotto dal veterano colosso Toei Animation (che produsse la serie anime originale)
era già stata presentato in anteprima assoluta nel marzo del 2010 durante il Tokyo
Anime Fair. Ad Annecy Matsumoto insieme
agli altri invitati dello staff quali Shinji Aramaki come regista, e i produttori Yoshiyuki
Ikezawa e Joseph Chou spiegava che in
realtà, il corto proiettato non avrebbe avuto quasi nulla a che fare con il progetto
definitivo. Quello che in effetti sarebbe stato conservato nel progetto definitivo era il
character design di Yutaka Minowa, un
animatore dello studio Madhouse (Paprika,
Ninja Scroll, Vampire Hunter D Bloodlust tra i
tantissimi) e il mecha design di Atsushi Takeuchi (Armitage III, Ghost in the Shell, Avalon
tra i tanti) amato da Leiji Matsumoto in persona, per il quale il design dei macchinari
era “organico e vegetale oltre che credibile” (Olivier Fallax, Albator dans une autre dimension, in ANIME-LAND 177 Decembre/Javier
2011/2012).
Rispetto al progetto originale c'è stata la la
ferma volontà di utilizzare la tecnica della
motion capture, molto “pericolosa” per il
popolo di Yamato che ha quasi sempre
raggiunto livelli di eccellenza con l'animazione tradizionale. Il budget è stato impressionante, l'equivalente di 30 milioni di dollari, e l'ambizione era quella di diffondere la
pellicola capillarmente in tutto il mondo,
alla maniera americana, cosa mai successa per un prodotto nipponico. In Giappone
esistono pochi esempi di “veri lungometraggi d'animazione così come li concepisce Hollywood” se si considerano le produzioni dello Studio Ghibli e del regista Hayao
Mi-yazaki, o di Hideaki Anno con i suoi Evangelion che fanno storia a sé più unica
che rara, tutte le altre produzioni fanno
parte di una grande e non ben definibile
schiera che si può annettere concettualmente all'universo anime e manga e che si
indirizza per sua stessa natura ad un ben
preciso pubblico di ragazzi ed otaku. In
Giappone sono convinti che le loro produzioni abbiano un potenziale enorme e potrebbero rivaleggiare con le grandi produzioni della Pixar o della Breamworks, anche
se mancano i corrispettivi mezzi finanziari (vedere, per credere, la serie anime, L'ATTACCO DEI GIGANTI, venduta
in tutta Europa e negli USA, graditissima ogni dove e blockbuster mondiale).
Il regista Shinji Aramaki (suoi i rivoluzionari Appleseed 1 e 2, Star Ship Troopers invasion, Halo Legends) insieme
ai produttori, ha messo su un gran bel
film con una bellezza visiva debordante, nonostante non fosse così
scontato in considerazione della differenza di budget tra un prodotto americano (100 milioni di dollari all'incirca) e il nuovo Capitan Harlock
3D/CGI. nelle sale italiane lo scorso 1°
gennaio e distribuito dalla meritoria
Lucky Red (la stessa che importa per
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lo stivale tutti i film di Miyazaki/Studio
Ghibli). Sono stati utilizzati per il rendering e per l'acquisizione delle
posture e delle espressioni dei visi sia
ARNOLD, un renderer rivoluzionario
che FACEWARE, già utilizzati entrambi
per The Hobbit e Rise of the Planet Of
The Apes, capaci di donare alla capigliatura di Harlock movimenti diversi
a seconda degli stati di animo. Per
forte volere del regista, il lato oscuro
del personaggio di Harlock è stato
esaltato in ogni modo, nella forma
del character fino alla sceneggiatura, quest'ultima curata da Harutoshi
Fukui, scrittore popolare di science
fiction (suo il best seller Lorelei) e sceneggiatore della belle serie anime
del 2010 Mobile Suit Gundam Unicorn. Questo film è un reboot e non
un proseguo della serie Anime. Dopo
secoli di esplorazioni e dopo aver
conquistato l'universo e sfruttato tutte
le risorse, l'umanità vorrebbe ritornare
sulla Terra, ma il piccolo pianeta è
ormai incapace e contrario a riaccogliere i miliardi di umani dispersi nel
cosmo che vorrebbero tornare alla
loro patria madre. Una guerra è alle
porte, ma il Governo Universale, La
Coalizione di Gaia, decide di far
diventare il pianeta un santuario eterno proibito a chiunque. La Terra ben
presto diventa un simbolo, il sogno di
un ritorno a casa impossibile per i tanti viaggiatori. Un solo uomo non è disposto ad accettare questa imposizione e il suo obiettivo diventa quello di
riportare gli umani al loro pianeta d'origine. Il suo codice è S-00999, il suo
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nome è Harlock. Sfidando le autorità,
Harlock diventa il capitano di una
astronave pirata, reclutando a bordo
tutti i reietti che osano sfidare chiunque impedisca loro il ritorno a casa.
Una nuova giovane recluta dell'Arcadia, Yama, un ragazzo volontario che
salva la bella Kei (un membro dell'equipaggio) a rischio della propria vita,
viene a sua volta salvato da Harlock
in persona. Il giovane Yama però nasconde un segreto che lo rende un
personaggio dai toni drammaticamente grigi.
Capitan Harlock ha incassato in Italia
$6,687,566, cifre superiori rispetto a
quelle registrate in Francia e nello
stesso Giappone.
Sci-fi tv
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di Massimiliano H7-25
L
a minaccia di un nemico silenzioso
che si insinua nel nostro organismo
compromettendone le difese immunitarie genera nell'uomo una delle
peggiori paure: il terrore biologico. La
fantascienza, sapiente interprete della
realtà proiettata in una dimensione futuristica ed esasperata, ha esplorato in
lungo e in largo il pericolo di un contagio della razza umana ad opera di
contaminanti provenienti dallo spazio.
Lo ha fatto il grande Carpenter con “La
cosa”, Nyby con “La cosa da un altro
mondo” (solo per citarne alcuni), e, in
TV, Chris Carter in X-Files, sia con la sua
idea della colonizzazione aliena, sia,
prescindendo da razze extraterrestri con
velleità da Conquistadores, attraverso
l'episodio “Ice” , in cui ci ha raccontato
una delle più affascinanti lotte tra entità
biologiche differenti: l'uomo e il batterio
non classificato. Helix, serie creata da
Ronald Moore (Battlestar Galactica) ed
ancora inedita in Italia, possiede un po'
tutto di questi ingredienti: la claustrofobica narrazione, l'efficace resa estetica
prodotta dal bianco tipico delle distese
artiche e da quello più asettico dei laboratori, la cospirazione, la fiducia, il
tradimento, la mano dell'uomo intento
a fare Dio, la straniante percezione
della realtà che inganna i personaggi
nel comprendere ciò che sia vero o
infondato. 13 episodi che ruotano attorno alla missione di un gruppo di scienziati appartenenti al Centro Controllo
Prevenzione Malattie chiamati ad isolare un misterioso virus diffusosi all'interno
di una base in Artide. A capo della spe-
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dizione vi è Alan Farragut (Once and
Again, 4400, The Killing) che sarà emotivamente coinvolto per via della presenza nella base del fratello Peter (Neil
Napier già visto in 300 e Immortals)
contaminato dal virus.
Moore ha le idee chiare sul perché il
terrore biologico attiri il pubblico al
cinema e in tv: “La gente è da sempre
affascinata dal tema delle piaghe che
distruggono la civiltà come la conosciamo, sin dal Medioevo. Si tratta di un fascino malato, di un interesse che muove
dalla terribile paura di essere infettati.
Helix non è La Cosa in cui c'è una dozzina di persone e il posto è isolato.
Parliamo invece di qualche centinaia
di persone che lavorano in strutture di
ricerca, ma anche in settori diversi riservati alla manutenzione delle attrezzature o al rastrellamento pavimenti”. Helix,
trasmesso su SyFy, al suo debutto è stato
visto da 1.800.000 spettatori. Sebbene
siano state mosse anche severe critiche
su dialoghi ed alcuni aspetti della recitazione, sopravvive grazie ad un mix
interessante di sci-fi, horror, thriller, glore.
Aspettiamo Helix doppiato in Italiano.
Fiduciosi che i nostri bravi doppiatori
compiano il miracolo di salvare alcune
performance non certo da Oscar.
speciale
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speciale
D
opo il 23 novembre, l’universo delle serie TV
non è più lo stesso. Doctor Who, la serie più
longeva della televisione inglese, ha festeggiato un compleanno molto importante, il Cinquantennale della sua esistenza, consacrando la simpatia e soprattutto lo charme del suo irriverente protagonista. Day of The Doctor, questo è il titolo dell’episodio celebrativo, si è trasformato in un vero e
proprio evento mediatico e, grazie a Rai 4, anche il
pubblico italiano ha potuto gustarsi questo appuntamento imperdibile per gli appassionati (un po’
meno per chi non abbia perfetta conoscenza di
tutto il mondo di Doctor Who, specie delle ultime
stagioni televisive, perché nel migliore dei casi
capirebbe poco o nulla di quel che che è accaduto in questo episodio). Superando le nostre più
rosee aspettative, la puntata è stata davvero epica in tutti i sensi. Potevamo immaginare che il buon
Steven Moffat (ora al lavoro anche su Sherlock)
potesse portare sul piccolo schermo un prodotto
del genere, dal sapore quasi cinematografico? Il
Day of The Doctor, infatti, non si è rivelato essere
soltanto una chiara e ben studiata mossa commerciale, ma è stato soprattutto un atto d’amore verso
un personaggio eclettico ed irriverente, che in
punta di piedi è entrato nel cuore di tutti.
Un episodio, questo, lungo un’ora e 16 minuti che
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ha saputo miscelare armoniosamente sia il dramma
fantascientifico che la commedia, confermando
nuovamente la formula vincente di questa collaudata commistione di generi. Grandi emozioni,
dunque, per un appuntamento che ha dato una
svolta significativa alle avventure del Dottore,
riuscendo non solo ad alzare il velo su un capitolo
del suo tormentato passato, ma soprattutto mettendo il carismatico personaggio davanti ad una
scelta senza precedenti. Coraggio, determinazione
e destino sono le tre costanti di questo importante
anniversario che si sono intrecciate inesorabilmente, dando vita ad un’interessante ed affascinante
linea narrativa. Dalla Londra del 2013 all’Inghilterra
del 1500, senza dimenticare un viaggio sul pianeta
Gallifrey sconvolto dall’insurrezione dei temibili
Dalek. Un quadro in 3D, ritrovato nei sotterranei di
Trafalgar Square, è stato il punto di partenza di
questa incredibile avventura.
Il Dottore, un convincente e bravissimo Matt Smith,
insieme alla sua fedele Clara, ha incrociato il suo
cammino con ben altri due Dottori: David Tennant
(più in forma che mai) ed il bravissimo, seppur un
po’ attempato, John Hurt. Tre Dottori uniti da un
solo scopo: salvare Londra ed il mondo intero dal
collasso, anche se questa avventura riapre una
ferita non rimarginata a sufficienza nell’animo del
Dottore stesso. C’è un modo per cambiare la storia
e dare una speranza al popolo di Gallifrey, e solo la
sinergia di tre personaggi così diversi tra loro può
sovvertire le sorti della vicenda. Un nuovo inizio,
dunque, per l’intera esistenza del Signore del Tempo, che spiana già da ora il campo per lo speciale
di Natale. Tutto fila liscio in questo Day Of The
Doctor. Se da una parte la trama si fonda su solide
basi, risultando intensa e mai banale, sono gli attori
e le atmosfere a convincere davvero. Perfetto e
really cool è Matt Smith, che offre al suo Dottore un
lato comico senza precedenti; ineccepibile David
Tennant, che torna ad indossare i panni di un personaggio che gli ha donato grande successo; John
Hurt, che rappresenta il Dottore saggio e tormentato, è l’ago della bilancia per tutti gli eventi dell’episodio. Clara, interpretata da Jenna-Louise Coleman, colpisce per i suoi splendidi vestiti, mentre
piacevole è anche il ritorno di Rose Tyler.
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P
ianeta Australia negli anni
Ottanta propone un nuovo
aggiornamento della tematica
post apocalittica (già affrontata
dagli USA negli anni Sessanta, con
pellicole derivanti della preoccupazioni ingenerate dalla Guerra Fredda, e Settanta, con le conseguenze
di tipo urbano di un conflitto atomico), indagando sulla fine della civilizzazione e il ritorno ad un’epoca di
nuovi barbari, di pionieri, di predoni e
di colonizzatori in lotta in un ambiente ostile e desolato. Siamo quindi in
piena ambientazione western. A
lanciare la nuova moda, anche se
non andrebbero dimenticati gli anticipatori “Gli avventurieri del pianeta Terra” (“The Ultimate Warrior”),
1975, di Robert Clouse, e “I predoni
del-l’anno 2000” (“Ravages”), 1979,
di Richard Compton, entrambi con
una forte componente western
(almeno nelle caratterizzazioni dei
personaggi protagonisti), è il film
“Interceptor-Il guerriero della strada”
(“Mad Max 2”), 1982, di George
Miller, sequel di un precedente
“Interceptor” sempre diretto da
Miller e capostipite della trilogia che
si chiuderà con “Mad Max oltre la
sfera del tuono” (“Mad Max Beyond
Thunderdome”), 1985. In un mondo
devastato dall’olocausto atomico, in
cui il bene più prezioso è la benzina,
con cui i pochi superstiti si muovono
su auto rabberciate, la società si è
dissolta, imbarbarendosi, e solo il più
forte e spietato può sperare di sopravvivere. Max Rockatansky (Mel
Gibson), ex poliziotto, ora solitario ed
indifferente wanderer senza più scopo se non quello di “tirare avanti”,
s’imbatte in una comunità di sopravvissuti asserragliata attorno ad un
pozzo di petrolio nel mirino degli Humungus, feroci predoni motorizzati.
Dopo aver salvato la vita ad uno
degli assediati, Max è costretto
(pena la vita) ad aiutare la piccola
comunità nel rintracciare una motrice che possa trasportare la benzina e i superstiti verso la costa.
Con l’aiuto del bizzarro Capitan Gyro
(Bruce Spence), pilota di un girottero, Max procura la motrice e ferma
un attacco dei razziatori guidati dai
sadici Wez (Vernon Wells) e Lord
Homungus (Kiel Nillson). Libero da
ulteriori obblighi Max se ne va per
la sua strada ma viene gravemente ferito dalla banda di Wez, che
distrugge la sua auto Interceptor.
Salvato in extremis da Capitan
Gyro, Max accetta di guidare la
motrice mentre i superstiti, per
altra via, si dirigono verso la costa.
Il convoglio si lancia nel deserto,
seguito da tutti gli Humungus in
una feroce e spettacolare caccia.
Uno dopo l’altro i predoni muoiono in catastrofici incidenti e la
motrice, dopo essersi liberata di
Lord Homungus e Wez (disintegratisi in un sanguinoso scontro frontale l’un contro l’altro), si rovescia
a fine corsa. Nel suo interno, sabbia… Max si rende conto di essere
stato l’involontaria esca per permettere ai sopravvissuti di allontanarsi con la benzina a bordo dei
loro mezzi. “Interceptor-Il guerriero
della strada” è un film strepitoso,
irripetibile per equilibrio delle sue
parti, forsennato nel montaggio e
nel ritmo, tesissimo e iperviolento,
con sequenze da cardiopalma
(magistrale l’attacco dei predoni
alla motrice). George Miller “crea”
un piccolo universo post-atomico
funzionante e credibile, fondendo
diversi generi tra loro, in primis il
western, giocando sulla tipologia
dell’eroe solitario e apparentemente senza valori (resa celebre
soprattutto da Clint Eastwood), il
paesaggio desertico, l’assedio al
fortino, il legame con il bambino
muto (echi da “Il cavaliere della
valle solitaria”), la tipologia “indiana” dei nemici (in particolare di
Wez), l’inseguimento alla motrice
(aggiornamento moderno di tipici
assalti alla diligenza, da “Ombre
rosse” in avanti), la solitudine finale
del protagonista (ovvio rimando a
“Sentieri selvaggi”), dando l’avvio
alla moda del Medioevo Prossimo
Venturo, più volte imitato, mai più
eguagliato. Tecnicamente perfetta (encomiabili musica e fotografia), con virtuosismi di macchina
da lasciare a bocca aperta, a
volte “incredibile” per ciò che si
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vede sullo schermo, questa
pellicola è un caso più che
raro di sequel decisamente
migliore dell’originale.
Immediatamente fiorirono
tutta una serie di film cloni,
che ereditarono il “look” barbarico futurista del capostipite, senza però rinnovarne i
fasti e annegando in una
generale mediocrità. E’ il caso di un vacuo e soporifero
“Alba d’acciaio” (“Steel
Dawn”), 1987, di Lance Hool,
definito, impropriamente, un
fallimentare remake futuribile
di “Il cavaliere della valle
solitaria”, in cui il guerriero
vagabondo Nomad (Patrick
Sway-ze), in un desertico paesaggio post-atomico insegue l’assassino del suo mentore, scoprendo che è diventato il sicario di un dispotico
proprietario terriero che dispensa a suo volere il bene
più prezioso, l’acqua. Diventato amico di una bella vedova e di suo figlio, Nomad
fa piazza pulita dei cattivi e
ristabilisce i giusti equilibri,
andando poi alla ricerca del
suo destino. Storia banale e
stereotipata, neppure supportata da una spettacolarità che l’avrebbe perlomeno
resa vedibile (goffi gli stessi
scontri e duelli all’arma bian-
ca). Ma furono soprattutto
produzioni italiane a saturare
il mercato con pellicole derivative e realizzate con quattro soldi, che fecero coincidere il genere post apocalittico con un breve revival di
spaghetti-western. Se va segnalata l’indubbia (e scaltra)
artigianalità di registi in grado di realizzare film in pochi
giorni e con budget ridotti
all’osso, come Enzo Castellari
(“I nuovi barbari”), Steven
Benson-Aristide Massaccesi
(“Endgame-Bronx lotta finale”), Lucio Fulci (“I guerrieri
dell’anno 2072”), Joe D’Amato e George Eastman-Luigi
Montefiori (Anno 2020: i gladiatori del futuro”), le pellicole da loro dirette vanno
spesso oltre il plagio bello e
buono, con buona pace degli estimatori dei nostri giorni
del “trash italiano”.
Recuperabile invece il TV
movie del 1987 “I cacciatori
del tempo” (“Timestalkers”),
diretto da Michael Schultz,
fantasiosa pellicola incentrata sulle sempre affascinanti implicazioni temporali,
ben interpretata da un istrionico Klaus Kinski nel ruolo di
Cole, uno scienziato del 26°
secolo che per ottenere tutti i
vantaggi della macchina del
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tempo uccide i colleghi e
fugge nel passato, dove pensa bene di eliminare il futuro
presidente degli USA di fine
Ottocento per creare paradossi temporali a lui favorevoli. Ma Georgia (Lauren Hutton), figlia di un suo collega,
è decisa a rintracciarlo con
l’aiuto di Scott McKenzie
(William Devane), studioso di
storia del Far West del 1986.
Analizzando una vecchia
fotografia scattata cent’anni
prima, scoprono che uno dei
personaggi raffigurati (Cole)
ha una pistola ultramoderna
in fondina. I due, tornando
indietro nel tempo, sfidano
l’astuto scienziato, troppo
fiducioso della sua abilità nei
duelli a mano armata, tant’è
che viene freddato in duello
dal timido Scott. In cambio
dell’aiuto fornitole, Georgia,
giocando con le linee temporali, fa sì che Scott possa
intervenire in tempo per salvare da un incidente mortale
la propria famiglia, persa anni prima. Ancora confusione
temporale, stavolta di stampo western, nell’ultimo tassello della trilogia “Ritorno al futuro”, 1990, diretta da Robert
Zemeckis, sotto l'egida protettiva di Spielberg, in grado
di recuperare parte dell’origi-
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nalità del primo film e un certo grado di “indipendenza” dagli episodi
precedenti, anche se girato senza
soluzione di continuità con la parte
seconda (dieci mesi di lavorazione
complessivi). Stavolta una lettera
“centenaria” raggiunge il giovane
Marty McFly (Michael Fox), spedita
dallo scienziato “matto” Doc Emmett (Christopher Lloyd), inventore
di una macchina del tempo (nel
vero senso della parola, visto che si
tratta di una DeLorean), dopo che
questi ha trovato nel Far West di
fine ‘800 l’anima gemella Clara,
decidendo di restare lì. Ma il ragazzo scopre da un vecchio giornale
che Doc è finito ucciso in una sparatoria poco tempo dopo l’aver
scritto la lettera, per mano di un
antenato del solito avversario di
sempre, Biff Tannen. Riesumata la
DeLorean (in giacenza in una miniera abbandonata), Marty si lancia nel passato per salvare Doc,
piombando in pieno Far West. Col
nome propiziatorio di Clint Eastwood rimette le cose a posto, evita
lo scontro mortale tra Doc e Biff e
riguadagna il proprio futuro. Ma
Doc ne sa una più del diavolo:
questa volta ha costruito un intero
treno “temporale”, con cui prende
a scorrazzare per i secoli con la
propria famiglia… Sempre bravi
tutti gli attori, sempre brillanti i dialoghi e le situazioni, piacevole ritrovare ambientazioni western in salsa
fantastico/brillante. Toni epici e seriosi invece per la seconda regia di
Kevin Costner, dopo il pluripremiato western "Balla coi Lupi", un kolossal post apocalittico, che recupera
le certo non più originali atmosfere
di "Mad Max", e di decine di altri Bmovie "del giorno dopo l’olocausto
nucleare" per creare un vasto affresco avventuroso a sua volta debitore del classico western di John
Ford ("I cavalieri del Nord-Ovest").
Nel 2013 descritto in “L’uomo del
giorno dopo”, 1997, gli Stati Uniti
non esistono più, l'America devastata dalla guerra nucleare sta
risorgendo in piccole comunità
rurali isolate e soggette a pericoli
di ogni tipo. Solo chi ha forza, carisma e armi può vantare diritti sui
più deboli, come il sedicente generale Bethlehem (Will Patton), dittatore del clan degli Holnisti, che
tiene in un pugno di ferro alcune
comunità agricole. Qui giunge un
attore itinerante di cui non è rivelato
il nome (Kevin Costner), che dopo
essere sfuggito agli Holnisti si rifugia
nella carcassa d'auto di un portalettere morto. Travestendosi da postino, l'attore cerca rifugio nelle varie
comunità, raccontando false storie
riguardanti la rinascita degli USA e il
ripristino, lento ma costante, delle
comunicazioni. Accolto come un eroe, l'uomo rimane vittima del meccanismo da lui innestato e costretto
a sostenere quel ruolo. Il giovane
Ford Mercury (Larenz Tate) chiede a
sua volta di diventare portalettere
ma l'attacco degli Holnisti porta la
devastazione nel villaggio. Il falso
portalettere e la giovane Abby (Olivia Williams) riescono a scampare
e, mesi dopo, scoprono che Ford ha
costruito un'intera leggenda attorno
al portalettere, organizzando giovani corrieri per rinforzare i vincoli tra le
comunità. La cosa funziona e il portalettere è costretto ad assumersi le
sue responsabilità, in aperto contrasto con Bethlehem. I due gruppi finiscono per scontrarsi e la superiorità
delle armi degli Holnisti causa la
sconfitta dei corrieri. Ma l'ideale e la
leggenda si rinsaldano ulteriormente e alla fine il portalettere, che pure
ha cercato di infrangere la spirale di
violenza da lui suscitata, si ritrova a
capo di un esercito davanti agli
uomini di Bethlehem. Un duello a
singolar tenzone tra i due, secondo
le leggi stesse stabilite dagli Holnisti,
vede il portalettere vittorioso sul dittatore, ucciso poi da un suo stesso
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gregario. La pace può così regnare tra i due gruppi e infine, nel
2043, la figlia del portalettere può
rendere onore al padre, grazie al
quale gli USA sono risorti. Il film,
completamente snobbato ovunque, sia negli USA che in Europa,
forse a causa anche dell'eccessiva lunghezza (170 minuti), riesce
a comunicare comunque l'afflato
epico/avventuroso di certa passata cinematografia, complici gli
stupendi paesaggi naturali dell'Arizona e dell'Oregon (oltre che
di Mateline Falls e delle montagne dello Stato di Washington),
diventando davvero una sorta di
western resuscitato, più efficace
di molti vacui epigoni realizzati ai
nostri tempi che hanno tentato di
osannare le tradizioni, i principi e i
valori della storia americana.
Non esente dalla solita retorica
patriottica all American, stavolta
fondata sull'apologia del glorioso
Servizio Postale dei pionieri del
Nuovo Mondo, istituzione che ha
contribuito alla nascita e alla
crescita degli USA, il film di Costner funziona come avventura
dall'ampio respiro, a volte ingenua, a volte coinvolgente, un po'
troppo prolissa ma alla fine gradevole. Costato 76 milioni di
dollari mai più recuperati… eppure meritevole di una rivisitazione per l’anima western che lo
permea, nel suo riproporre una
nuova espansione ad Ovest, in
territori tornati selvaggi, in vista di
un ritorno dell’ordine, della legge e
della civiltà dopo la caduta nelle
barbarie. Fallimentare anche il remake di un originalissimo serial TV di
fine anni Sessanta, "Selvaggio West",
in grado di coniugare felicemente
western, fantascienza ed ironia, che
ebbe già una riduzione cinematografica con la pellicola "West selvaggio" nel 1980, con gli originali
protagonisti dei telefilm, gli agenti
governativi Jim West (Robert Conrad) e Artemus Gordon (Ross Martin).
“Wild, Wild West”, 1999, di Barry
Sonnenfeld, vede il pazzo sudista
menomato Arliss Loveless (Kenneth
Branagh) rapire tutti gli scienziati
americani per far loro costruire un
gigantesco aracnide meccanico
con cui minacciare gli USA. Per fermarlo sono ingaggiati lo spavaldo
agente Jim West (Will Smith) e l’ex
sceriffo inventore Artemus Gordon
(Kevin Kline), che sul loro avveniristico treno ingaggeranno battaglia
col folle, vincendolo dopo rocambolesche vicissitudini. Per molti non è
stata una buona idea trasformare il
"serio" Jim West di un tempo nel parodico Jim West attuale, per di più
interpretato dall’attore di colore Will
Smith. Il regista Barry Sonnenfeld aveva sperato di bissare il successo di
"MIB-Men in Black", utilizzando nuovamente Smith e la formula di fantastico improntato alla comicità, ma
questa volta i risultati sono pessimi e
la pellicola passa pressoché ignorata da pubblico e critica.
Effettivamente, al di là dei bellissimi
effetti speciali digitali (la tarantola
da guerra è straordinaria), la trama
è solo un pretesto, le battute non
sono brillanti, le situazioni risapute.
L'idea di realizzare un vero western
fantastico era lodevole ma qui finisce malamente sprecata. Ci prova
quindi il regista John Carpenter, che
più volte ha sottolineato il suo amore per il genere western, indicando
come maestri personalità come
John Ford e Howard Hawks e iniettando in molti suoi film valenze tipicamente western. Il suo ritorno alla
regia, nell’emblematico “Fantasmi
da Marte” (“Ghost of Mars”), 2001, si
traduce in un fedele remake del suo
primo film, "Distretto 13: Le brigate
della morte" (con influenze anche
dai successivi "Il signore del male" e
"Vampires"): stessa storia, stessa ambientazione notturna, stesse situaziotipicamente western (il tema del-
l'assedio, l'alleanza tra buoni e cattivi, il cinismo, le battute ironiche),
stessi personaggi (James “Desolation” Williams è un ripetitivo Napoleon Wilson-Jena Plissken del futuro) con la differenza che ci troviamo su un altro pianeta. Ormai colonizzato dall’uomo e fornito d’atmosfera, Marte è una terra di frontiera
dove sono sorti villaggi minerari. In
uno di questi è detenuto il criminale
James "Desolation" Williams (Ice Cube), che deve essere prelevato da
una squadra di polizia, che però si
trova ad affrontare una drammatica situazione: gli abitanti dell’avamposto sono stati posseduti dai
fantasmi energetici degli antichi
marziani, liberati per sbaglio dalla
loro prigione sotterranea, e si scatenano in un’orgia di morte. Solo
Williams e il tosto tenente Melanine
Ballard (Natasha Henstridge), momentaneamente alleati, sfuggono
all’ecatombe, dirigendosi su un treno alla volta della città più vicina,
dopo aver fatto esplodere una
centrale atomica che annienta i
posseduti. Ma l’energia dei fantasmi
marziani si spinge sin lì, costringendo
i nostri a tornare in azione. Del tutto
assente una presunta valenza politica, che vedrebbe nei mostri posseduti il riflesso dei nativi d'America di
fronte all'avanzare dell'uomo bianco
(sebbene il regista dichiari che il
trucco rimandi proprio a costumi e
maquillage indiani, alla fine questi
sembrano più simili ad emuli di Mary
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lin Manson) anche se è evidente che
l'asse portante del film è quello western con tutti i suoi tipici ingredienti:
assedio del fortino, "cowboys e indiani", assalto al treno, addirittura l’utilizzo della "dinamite". Si direbbe che
l'hawksiano Carpenter ripeta sempre
lo stesso film, tutto a detrimento dei
contenuti e dell'originalità, sebbene
tecnicamente la mano del regista si
faccia sentire in positivo: buon ritmo
(nonostante i ripetuti ed inusuali
flashback), impianto classico, effetti
speciali ridotti ma efficaci, rifiuto di
high-tech futuribile, basso budget,
attori adeguati (discreta l'interpretazione molto fisica della statuaria modella Natasha Henstridge). Successo
mediocre, purtroppo. E concludiamo
questa comunque rapida carrellata
sul fantawestern con un accesso al
divertente “Tremors 4 – Agli inizi della
leggenda” (“Tremors 4: The Legend
Begins”, 2004), di S. S. Wilson, ennesimo episodio della saga dei carnivori
vermoni sotterranei gabroidi iniziata
nel 1990 con “Tremors” di Ron Underwood. In questa poco nota pellicola
ci troviamo nel Nevada del 1880,
quando misteriose creature vermoidi
attaccano i minatori di un filone
d’argento. Toccherà al pavido Hiram
Gummer (avo del Burt Gummer che
appare in tutta la serie, interpretato
sempre da Michael Gross) fronteggiare la minaccia pesantemente
armato, fondando poi la cittadella di
Perfection, sede di tutti gli attacchi
dal sottosuolo dei tempi a venire…
SCI-FI ROBOTS
“Robot alti come palazzi di venticinque piani che affrontano mostri della stessa taglia, ecco l'essenza di Pacific Rim”
(Guillermo Del Toro, Full Metal Robots in MAD MOVIES 261, marzo 2013, pag 56)
U
n’epigrafe che ben stigmatizza
il pensiero di Guillermo Del Toro
per sua opera titanica, tanto
bramosamente voluta e tanto combattuta per farla uscire come abbiamo potuto vedere nei cinema di
tutto il mondo, l'estate scorsa.
Eh si, perché non era tutto garantito,
nulla lo è stato fino alla fine per
questo enorme punto nero del
cinema mainstream americano:
troppo intelligente e più sentito (con
il cuore e l'acciaio delle giunture
meccaniche sotto sforzo...) dei
“Transformers” di Michael Bay e
perciò “punito” sin dall'inizio della
sua travagliata produzione, un
blockbuster 'altro' davvero troppo
potente e robotico per piacere a
tutti, o quantomeno per avere la
fiducia incondizionata dei manager
che dettano le leggi del mercato. I
robot di “Pacific Rim” non sono deliri
meccanici alla “Transformers”, ma
possiedono un design leggermente
rétro, con meccanismi e bulloni su
cui si può sentire la fatica del
movimento. La storia narrata è
questa: minacciata dalla comparsa
continua di mostri giganteschi
provenienti dal bordo del Pacifico,
chiamati in codice kaiju ('mostro' in
giapponese), che distruggono una
ad una tutte le città del mondo,
l'umanità intera finanzia la costruzione di mostruosi giganti d'acciaio
pesantemente armati, chiamati in
codice jaeger ('cacciatore' in
tedesco), il cui movimento fisico è
prodotto da un pilotaggio in duo,
due piloti in perfetta simbiosi mentale
e simmetria fisica... un argomento
mai visto e trattato in questi termini
nel contesto di una produzione fotorealistica occidentale.
Dopo una prima delusione con
l’Universal (con cui il regista firmò i
due “Hellboy”) e con l'incontro
altrettanto deludente con i patron
Donna Langley e Adam Fogelson, il
regista, nel marzo del 2011, firma il
contratto con Warner e Legendary
Pictures. La Warner compra il progetto “Pacific Rim” grazie al successo
planetario della trilogia dei “Transformers” di Michael Bay (inutile
negarlo, gli investitori sono tutti molto
contenti di poter “commissionare”
alla Industrial Light & Magic dei robot
dieci volte più grandi ed imponenti di
Optimus Prime) le battaglie urbane e
le successive vendite dei modellini
nei negozi si annunciano favolose.
Poi qualcosa accade in corso
d'opera, il merchandising tanto
atteso non riesce ad essere venduto
alle grandi case (Mattel ecc...)
perché i temi trattati dal film non
sono così 'leggeri' (anche se rimane
un film sostanzialmente per tutti) e ci
si accorderà per un merchandising
più 'scelto' e 'curato' della casa
SCI-FI GATE 40
NECA, con una distribuzione internet e
non da supermercato. Questa decisione
deve aver inficiato non poco sulla data
di uscita del bockbuster: praticamente
attaccato al kolossal “Man Of Steel”,
sempre della Warner, che la dice lunga
sulla aspettative di incasso e la fiducia
dei produttori sul film dei robottoni.
Eppure il film funziona, alla critica piace,
ad un pubblico scelto piace molto, pur
non arrivando alla grandissima ed
indiscriminata audience, negli USA e in
Europa guadagna abbastanza ma è
nell'appetibile mercato cinese che
ottiene un insperato boom e successo
commerciale. In questo film l'approccio
ai movimenti e alla messa in scena dei
robot/Jaeger è molto deciso e propende per il “gigantismo”, John Knoll, supervisore degli effetti speciali di Industrial
Light & Magic, dichiara che sotto le
indicazioni di Del Toro, attraverso l'utilizzo
dell'acqua, degli elementi atmosferici
come vento e pioggia e le numerose
fonti di luci della baia e dalle città, i
movimenti degli Jaeger sembrano più
realistici, e servono per fondere nelle
inquadrature queste enormi creature
meccaniche, alte dai 75 ai 105 metri. La
regia predilige inquadrature dal basso
per calcare la sensazione di gigantismo
dei robot e dei mostri, lo scontro a Hong
Kong di 25 minuti da solo vale tutta la
visione del film, come la singola scena
in cui un Kaiju colpisce e spinge violentemente uno Jaeger verso il mare, e
questi si ferma in tempo per non affondare ma sposta con la sua enorme
massa una boa in acqua, dalla quale
prende il volo un gabbiano, scena che
crea un trait d'union fortissimo tra l'ambiente e gli attori virtuali, mentre il flashback della pilota giapponese Macko,
testimone ancora bambina della
distruzione completa della sua città e
della morte dei suoi cari, interpretata
da Rinko Kikuchi, è commovente e cita
apertamente e poeticamente le distruzioni dei kaiju eiga (film di mostri) giapponesi degli anni 50/60. Ci voleva un
messicano che arriva dal cinema
spagnolo per immettere, come un virus
mutogeno, nel cinema mainstream dei
blockbuster americani il gigantismo e la
poetica dei robot giapponesi, perfettamente ricreata con istanze personali, di
Go Nagai (creatore di Mazinger Z, Getter Robot, Jeeg Robot, Great Mazinger
ecc...). Il film si nutre di un sostrato che
film quali “Godzilla” di Ishiro Honda o
serie anime quali “Neon Genesis Evangelion” e “Patlabor” hanno creato
negli anni.“Pacific Rim” era il film che
mancava nel sistema produttivo sempre più in mano a capitali finanziari,
piuttosto che alle case produttrici.
SCI-FI GATE 41
SCI-FI INTERRUPTUS
SCI-FI GATE 42
N
el secondo appuntamento con la nostra rubrica
dal titolo un po’ bizzarro, questa volta dal calderone immenso delle serie sci-fi, peschiamo una vera
chicca. Amata e poi odiata dal pubblico, Terminator – le
Cronache di Sarah Connor, è stata una serie trasmessa su
Fox Usa per appena 2 stagioni e poi finita tristemente nel
dimenticatoio. Nonostante le buone intenzioni però, le
avventure adrenaliniche ed al limite dell’assurdo di Sarah
Connor e di suo figlio, non hanno attecchito sul pubblico.
Magnetica la prima mini-stagione da 9 episodi, bella la
prima parte della seconda, scialba ed insipida la coda
finale. La cancellazione quindi non è stata del tutto
inaspettata e tanti fattori hanno compromesso non solo
l’insuccesso, ma la qualità della serie stessa. Le Cronache
di Sarah Connor avevano l’insano compito di ridare linfa
ad un noto marchio della fantascienza moderna che, negli
ultimi anni, era stato appannato da altri fenomeni commerciali. L’incursione di Terminator nel campo televisivo, è
stata vista di buon occhio dai fan della saga tanto è vero
che il solo pilot è stato visto da quasi 18 milioni di telespettatori. Nel 2008 fu una manna dal cielo per un network
come quello della Fox, che cercava di trovare la sua dimensione nell’universo seriale. La qualità della serie tv ha retto
per qualche mese, fino a quando il il fattore sci-fi ha lasciato
spazio al teen ed al family drama. Un’occasione sprecata
per una produzione televisiva che potenzialmente aveva di
fronte un futuro roseo.
Ambientata qualche anno dopo Terminator 2 – il giorno del
giudizio, la serie ideata da Josh Fiedman e prodotta da
David Nutter (X-Files), avrebbe dovuto inizialmente colmare
il vuoto temporale creatosi tra il secondo e il terzo lungometraggio. Poi si è preferito sfruttare lo show televisivo per fornire indicazioni narrative utili per la comprensione dell’allora
imminente Terminator Salvaltion (quarto e deludente capitolo della saga) uscito nelle sale proprio durante la trasmissione del serial, sebbene quest’ultimo abbia però deliberatamente ignorato l’interessante linea narrativa che la serie
tv aveva creato alle sue spalle. Una mossa piuttosto azzardata che non ha fatto altro che produrre grossolani errori
nella continuity temporale.
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SCI-FI INTERRUPTUS
Siamo di fronte ad un’opera iper-pop, magnetica, irriverente, con dialoghi ferrati, tanta azione ed impreziosita da una dose eccessiva di
retorica. Sarah Connor interpretata da una convincente Lana Heady (vista in svariate pellicole
ma amata per il suo ruolo di Cercei Lannister
nella serie Game Of Thones), da il volto ad una
moderna Sarah Connor, più bella ma con meno
fascino rispetto alla storica Linda Hamilton.
Insieme a suo figlio John (interpretato da un
troppo effeminato Thomas Dekker approdato
poi successivamente in The Secret Circle), sono
fuggiti dal 1999 a causa dell’arrivo di un Cyborg
dal futuro che vuole uccidere il leader della Resistenza. Aiutati da una robot dal grande fascino, ovvero Cameron con il volto di una bellissima Summer Glau ora in Arrow, si ritrovano catapultati nel 2007. Decisi a tenersi a distanza dal
loro passato, madre e figlio iniziano una nuova
vita anche se la minaccia del futuro e dell’apocalisse continua ad aleggiare sulle loro teste.
Durante quest’avventura John incontra suo zio
Derek (interpretato da Brian Austin Green) e si
trova a vivere un rapporto di odio/amore con
Cameron. Enigmi e rovesci di fortuna non mancano, eppure la serie dopo aver spiccato il volo,
è rimasta impigliata in una rete fatta di frasi già
dette, pallide rivelazioni perdendo tutto il suo
magnetico appeal. Gli stessi sceneggiatori infatti, trovandosi di fronte ad un’opera di questa
portata, hanno deciso di introdurre nuovi personaggi, salti nel tempo (interessanti erano quelli
ambientati dopo l’Apocalisse), nuovi misteriosi
avversari, il tutto per cercare di dar vita ad una
serie tv completa e di ampio respiro.
Nonostante sia solo il tempo a poter decretare
l’ingresso di “Le Cronache di Sarah Connor” nel
novero dei prodotti cult della fantascienza, per
ora è opinione diffusa, che la serie avrebbe
potuto dare molto di più.
SCI-FI GATE 44
Tre infatti sono gli errori determinanti che hanno decretato
l’insuccesso della serie: 1) nel tentare di creare un ponte tra
cinema e tv, l’ideatore ha dato vita ad un prodotto che si
distanziava troppo dalle linee guida lanciate da Terminator; 2)
la fantascienza è stata ben presto scalzata dalla tematica
teen; 3) la non convincente caratterizzazione dei personaggi: se
Sarah era molto vicina al suo alter ego, John è stato raffigurato
come un ragazzo insicuro, viziato, che vuole crescere troppo in
fretta e soprattutto dall’indole troppo pacata per potersi poi
ergere come leader della Resistenza. Una vera occasione
sprecata per la serie di Josh Friedman che preso da un delirio di
onnipotenza, ha portato alla distruzione (almeno sul piccolo
schermo), di un mito che arde ancora nel cuore di ognuno. Il
telefilm è stato Interrotto dopo 31 episodi e con una puntata
che lascia tutto al caso, Born To Run (il finale di serie), cambiò
nuovamente le carte in tavola, proiettando John in un futuro
alternativo dove la sua Cameron è umana e lui non il leader
della Resistenza. Così le Cronache di Sarah Connor ci lasciano
con l’amaro in bocca, con la consapevolezza che la serie
proprio sul più bello (ed ora che aveva ritrovato la sua verve), è
stata tristemente cassata. I poco più di 2 milioni di telespettatori
parlano chiaro. Terminator in salsa serie tv, è arrivata anche qui
in Italia, prima sulle frequenze di Italia 1 (insieme alla serie flop
Bionic Woman) e poi sulla piattaforma di Mediaset Premium.
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U
na delle più antiche leggende giapponesi riguardanti la robotica
e i meccanismi risale al XII secolo ed è contenuta nella raccolta di
racconti Konjaku Monogatari (“Racconti del empo che fu”), in cui
fa la sua apparizione un automa, tra i più antichi della storia del Giappone. La prima serie disegnata, invece, che vede come protagonista
un robot si chiama Tanku Tankuro di Gajo Sakamoto, apparsa per la
prima volta nel 1934 sulle pagine di “Yonen Club” della Kodansha, il
protagonista è un androide dalle fattezze tozze di un antico samurai
con arti rientranti, facenti posto ad armi, raffinati strumenti, ali o ruote
per gli spostamenti celeri.
Nel 1956 l'autore di fumetti Mitsuteru Yokohama serializza Tetsujin 28 Go!
(“Uomo di ferro 28”), dove un robot gigante telecomandato da un
radiocomando è protagonista, insieme al piccolo orfano Shotaro che lo
guida contro un'organizzazione criminale mondiale. Diventerà una serie
di telefilm dal vivo e qualche anno dopo, nel 1963, una serie a cartoni in
bianco e nero, poi ancora un remake a colori nel 1980, ed una serie di
special per l'Home Video negli anni '90. Negli USA avrà immediato successo negli anni '60 sotto il nome di Gigantor. Nel 1952 verrà serializzato
sulla rivista “Shonen” della Kobunsha lo storico ed amatissimo Tetsuwan
Atom (“Atom dal braccio di ferro”) di Osamu Tezuka. Qui la personalità
di un bambino morto, figlio di uno scienziato, trapiantata in un tenero
androide dalle fattezze del caro defunto diventa protagonista delle
storie, che diventeranno anche una serie animata televisiva in bianco e
nero nel 1963, destinata a diventare celebre come prima serie giapponese importata negli USA, con il titolo di “Astroboy”. Ragazzi con innesti
cyborg che combattono la malvagia organizzazione Black Ghost
saranno protagonisti di Cyborg 009 di Shotaro Ishimori, serializzati su
carta dal 1964 e trasposti in animazione nel biennio 1966/67, con due
film animati per il cinema, mentre nel 1968 fu tratta la serie televisiva.
Il primo robot di forma zooide ad essere protagonista fu Doraemon,
gatto robot col marsupio dai contenuti pressoché illimitati, creato da
una coppia di disegnatori chiamata Fujiko Fujio e trasposto in animazione nel 1973 e in una serie remake negli anni 90'. Nel 1972 Go Nagai
crea il robot Mazinger Z per la casa produttrice TOEI Animation, e per la
prima volta nella storia dell'entertainment nipponico l'umano protagonista pilota dall'interno, in fusione mentale e fisica, il robot, mentre nel
1973 viene creata sempre dallo stesso autore l'ammiccante, irriducibile
e fascinosa Cutie Honey, androide dalle prosperose forme femminili in
grado di trasformarsi in sette personaggi differenti, che combatte
contro un super gruppo di formose donne androidi/mostro (Black
Panther) e il perbenismo istituzionale macchiettistico della direttrice
dell'istituto femminile in cui Honey vive. I robot del prolifico Go Nagai
continueranno negli anni con Great Mazinger (“Il Grande Mazinga”,
1974-75), Getter Robot (1974-75), Getter Robot G (“Getta Robot”, 1976),
Kotetsu Jeeg (“Jeeg Robot d'acciaio”, 1975-76) e Ufo Robot Grandizer
(“Atlas Ufo Robot”-Goldrake, 1975-1977). E' interessante notare che i
robot cominciano ad entrare in contesti fino a quel momento avulsi a
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SCI-FI ANIME
loro come i kaiju eiga (film di mostri).
Nel film dal vivo Chikyu Kogeki
meirei- Gojira tai Jigan (“Gozilla contro i giganti”, 1972) di Jun Fukuda
fanno la loro prima apparizione robot
mostri che combatteranno contro
l'enorme lucertolone radioattivo. Anche nelle serie dal vivo tokusatsu (effetti speciali) qualcosa sta cambiando e l'elemento robotico comincia
ad infiltrarsi nelle storie. Nel serial live
“Spectreman”, prodotto dalla Fuji
Television nel 1971, il protagonista
George Gamo (George Kandor) trasformandosi in un gigante combatte
robot mostri altrettanto colossali.
Realizzata nel 1971 e tratta dall'omonimo manga di Shotaro Ishimori, di
qualche anno prima, la serie Kamen
Rider parla del giovane motociclista
Takeshi Hongo, a cui capita un incidente mortale durante una gara.
Viene messo in salvo e trasformato in
cyborg dall'organizzazione segreta
criminale Shocker. cui però presto si
ribella, diventando l’eroe noto come
Kamen Rider. Negli anni successivi
saranno altre serie tokusatsu a prendere a prestito l'elemento robotico,
come nella serie live/animata Kyouryu daisenso I-Zenborg (“I-Zemborg”,
1977), dove i corpi meccanici dei
due protagonisti Hai e Zen, fondendosi ed unendosi, diventano un robot
gigante. Nel 1975 la serie tokusatsu
nota come Himitsu Sentai Gorangen,
di Shotaro Ishinomori, diventerà il
prototipo di mille altre produzioni:
cinque eroi, quattro ragazzi ed una
ragazza, con i colori delle tute e dei
caschi rosso, giallo, rosa, verde, nero,
che combattono vari nemici, alla
fine dell'episodio creano un robot
gigante, formatosi dai cinque velivoli
che all'occorrenza il gruppo usa,
dopo un coreografico combattimento generalmente a mani nude. Se
tutto questo vi ricorda le tantissime
produzioni, tutt'ora in corso, dei sino/
americani “Power Rangers” non vi
sbagliate, questa serie ne è stata il
primissimo prototipo. Le produzioni
con robot raggiungono livelli drammaturgici quasi amletici, con nemici
tormentati come non mai, con le
serie animate, inedite da noi, Raideen (1975-76), Con-Battler V (197677) e Chodenji Machine Voltes V
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(1977-78), per la regia di Tadao Nagahama, futuro regista di alcuni episodi della serie shojo Versailles No Bara
(“Lady Oscar”). I robot sono ancora tre modelli singoli combinabili in una forma umanoide più grande, come i
modelli nagaiani (soprattutto quelli di Getter Robot), che facevano la gioia dei produttori di giocattoli Popy (la
futura Bandai). Nell'aprile 1977 lo studio Nippon Sunrise, sulla base delle esperienze accumulate nella precedente
serie Raideen, inaugura un nuovo filone robotico, quello edipico, in cui i valori del padri non vengono più
accettati (o accettati di malavoglia) dai figli. Citiamo Muteki Chojin Zanbot 3 (“L'invincibile Zambot 3”, 1977),
Muteki Kojin Daitarn 3 (“L'invincibile uomo d'ac-ciaio Daitarn 3”, 1978) e, soprattutto, la mitica e rivoluzionaria
Kidosenshi Gundam (“Guerriero meccanico Gundam”, 1979), tutte dirette da Yoshiyuki Tomino. In queste tre serie,
ma soprattutto in Gundam, il robot diventa un mero meccanismo di guerra, uno strumento spersonalizzato
costruito in più esemplari e reso il più realistico possibile per gli spettatori. L'alone quasi mitico che permeò la
figura del robot in tutte le serie precedenti (soprattutto della TOEI Animation) viene così spazzato via, Gundam
diventa un grandissimo successo commerciale con la vendita dei modellini del Mobil Suit, che continua sino ai
nostri giorni. Nel 1980 viene creata dalla Ashi Productions una serie robotica singolare e sfortunata, tra la space
opera, con personaggi amatissimi dai fan (l'indomita Rosa Aphrodia che assomiglia a Lady Oscar), e la SF più
rinomata, dove il robot è solo elemento di contorno, intitolata Uchu Senshi Baldios (“Baldios, il guerriero dello
spazio”, 1980), interrotta all'episodio 31, proprio nella fase cruciale della sua storia, a causa degli indici d’ascolto
bassi, proprio quando gli ultimi otto episodi erano stati già pianificati ma purtroppo mai realizzati. Il 29 dicembre
1981 Baldios risorge per volontà dei fan e grazie al sostegno delle riviste di animazione in un film inedito, dal titolo
laconico Baldios The Movie, che ne illustra il travolgente ed apocalittico finale. Bisogna aspettare invece il 1982
per vedere i 32 episodi della serie culto Choji Sora Yosai Macross (“Fortezza ultra spazio temporale Macross”) di
Shoji Kawamori, prodotta dallo Studio Nue e Big West per assistere ad una nuova concezione di robot realistico e
di storia d'amore. I Valkyrie sono aerei da guerra trasformabili in tre moduli, di cui uno è anche in una forma
umanoide stilizzata, i meccanismi delle astronavi e dei moduli robotici di combattimento sono estremamente
curati, in maniera tale da creare un nuovo tipo di merchandising ludo-bellico, prodotto poi dalla Takatoku Toys.
La storia d'amore nasce e cresce tra un giovane pilota di Valkyrie e una cantante idol dal nome esotico di Lynn
Minmay (disegnata dal fine tratto di Haruhiko Mikimoto) e viene raccontata anche tramite le musiche e le parole
delle canzoni della giovanissima idol. Nel 1984 verrà prodotto un film per il cinema intitolato Macross – Ai Oboete
imasu ka (“Macross, Ricordi l'amore?”) che è anche uno dei titoli delle canzoni della graziosa e ingenua
adolescente infiocchettata Lynn Minmay. Nel 1987 venne prodotta direttamente per l'Home Video (e quindi
chiamata OAV,Original Anime Video) una serie intitolata Bubble Gum Crisis, diretta da Toshimichi Suzuki, in cui
quattro ragazze che combattono il crimine tecnologico vengono rivestite di potentissime armature corazzate,
che aderiscono però ai loro corpi come delle perfette silhouettes e da cui emerge la loro seducente e prorompente figura femminile. Questa fusione estetica tra il corpo femminile e la macchina già intravista nel “Metropolis” di Fritz Lang non era ancora stata raffigurata in questo modo nell'animazione giapponese.
Non più “semplice” robot quindi, ma l'umano che diventa cyborg. Nel 1995 la più completa e mistica fusione tra
metallo e suadente corpo femminile si avrà con il personaggio del cyborg Motoko Kusanagi nel seminale
capolavoro “Ghost In The Shell” (Kokaku Kidotai), pellicola animata per il cinema diretta dal regista Oshii Mamoru
e tratta molto liberamente dall'omonimo manga di Masamune Shirow.
Il regista Oshii tornerà sul personaggio di Motoko molti anni dopo, nella pellicola animata Ghost In The Shell 2:
Innocence, del 2004. Nel 1988 nasce l'originale progetto “Patlabor” (Kido Keisatsu Patlabor), serie OAV, serie
televisiva e tre film di animazione, per la massima parte con la regia di Mamoru Oshii e del gruppo Headgear, in
cui il robot subisce un'altra capitale trasformazione: non più macchine usate a fini bellici ma elaborati mezzi
bipedi a forma umanoide (dal nome Ingram), prodotti in serie, che la polizia metropolitana di una Tokyo del 1988
ha in dotazione per far fronte al nuovo crimine tecnologizzato. Nel 1995 tutto cambia nuovamente, il nuovo si
fonde sapientemente con il vecchio e nasce la serie televisiva animata dello studio di produzione Gainax dal
titolo “Neon Genesis Evangelion” (Shin Seiki Evangelion) per la regia di Hideaki Anno. Qui le misteriose macchine
umanoidi multifunzione, dalla forma longilinea, denominate EVA accolgono giovani ragazzi e ragazze nel loro
grembo materno in perfetta fusione di spirito e corpo, il robot è nuovamente credibile e realizzato nei minimi
dettagli. Il suo grandissimo successo impone alle case di produzione di giocattoli i colori meno accesi e fino a
quel momento aborriti, come il verde e il viola per l'unità EVA 01. Un anno dopo, la Sunrise produrrà la serie
televisiva Tenku no Esukafurone (“I cieli di Escaflowne”, 1996) che immette il concetto del robot nel fantasy (non
per la prima volta, data la serie precedente Rayheart, tratta dal lavoro del gruppo di fumettiste Clamp), cui viene
aggiunto sapientemente il magico mondo della “visione” e dei tarocchi e una storia molto articolata e complessa. I grandi robot con mantelli e lunghi spadoni hanno meccanismi che ricordano da vicino il genere steampunk,
fuso armoniosamente con la concezione di mecha robotico giapponese.
Nel 1998 la nuova serie di OAV Shin Getter Robot immette il robot componibile di concezione nagaiana degli
anni '70 in un contesto più inquieto, terribile, dannato e apparentemente senza speranza, inventandosi un
sofisticato e titanico prototipo da combattimento del vecchio Getter, vivificato da demoniaci bulbi oculari che
fissano inquietantemente lo spettatore. La serie della Gainax (senza però l'Hideaki Anno di Evangelion) Tengen
Toppa Guren Ragan (“Gurren Lagann”, 2007) fa tornare in auge dopo molti anni i robot componibili di stile
nagaiano, con tre piloti che hanno il comando di tre componenti del robot, in uno stile volutamente deformato e
deformante. In questo caso la meccanica del robot non funziona perfettamente come nel trentennio passato,
anche a causa di trapani/trivelle inverosimili ma molto importanti per la storia, riuscendo a ricreare però
perfettamente, questo si, il mito glorioso del robot degli anni '70.
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narrativa
I
mmaginatevi un pianeta del
tutto privo di metalli, con un
raggio di 26.000 km e un diametro equatoriale di 160.000,
grande circa quindi quattro
volte la terra, e che solo grazie
alla sua bassa densità (l'assenza
di metalli) è paragonabile per
gravità a quella terrestre.
Aggiungeteci che questo mondo, grazie alla sua estensione e
gravità, è stato popolato dai
terrestri fuggiti o semplicemente
espatriati, formando stati, regni,
territori indipendenti, creando
anche delle comunità "aliene".
Colonizzato da decine di piccoli
gruppi, composti da fanatici
religiosi, spostati, eccentrici miliardari e ogni genere di minoranze a disagio nella pur progredita società terrestre, il mondo in questione ospita società
eccentriche e diversissime tra
loro, dai semibarbarici gitani ai
raffinati e snob (almeno in apparenza) abitanti di Kirstendale.
di un sabotaggio interno, si
schianta sul pianeta a 60.000
chilometri dalla colonia terrestre, e lo sparuto gruppo di sopravvissuti dovrà percorrere
quella distanza enorme con i
pochi mezzi che riuscirà a reperire, con l'aggravante di avere
tra i componenti un traditore,
senza contare che il sabotatore
è riuscito a fuggire e ad avvisare
i soldati del Bajardum.
Ecco quindi il Grande Pianeta.
Qui si sviluppa l'odissea di Claude Glystra, inviato dal governo
centrale della Terra, per indagare su un presunto contrabbando
di armi (il pianeta, essendo privo
di metalli, non possiede armi,
energia elettrica, comunicazione a distanza aerei, ferrovie
etc.) e per contrastare Charley
Lysidder, il malvagio e astuto
Bajarnum del Beaujolais, presunto responsabile di tale contrabbando, il quale, a causa delle
sue mire espansionistiche sull'intero pianeta, necessita di armi e
di metallo. Ma l'astronave che
trasporta il nostro eroe, a causa
Glystra comunque non si abbatte ed inizia la marcia verso la
colonia terrestre, incontrando
nell'estenuante viaggio foreste,
animali carnivori, strane società,
affrontando tradimenti e molto
altro. Al gruppo si unisce anche
Nancy, una graziosa nativa, che
poi avrà un ruolo determinante
nella parte finale della storia.
Questo romanzo è una delle
prime opere di Jack Vance, e
leggendolo si riconoscono i temi
tanto cari all'autore, innanzitutto il protagonista che cerca di
portare a termine un compito
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a piedi, su un pianeta sconosciuto), poi la capacità di creare e descrivere sistemi sociali
esotici, strani ma sempre credibili nella loro ferrea logica esistenziale.
Vance, nei suoi romanzi, suscita
sempre meraviglia e divertimento, sorprendendoci con le sue
trovate. Ad esempio, l'invenzione della monolinea è grandiosa
(immaginatevi una corda tesa
attraverso centinaia di km con
un palo a tenere tale corda
ogni 15 metri, a cui sono legati
dei carri di legno per il trasporto), il particolare sistema alberghiero di Kirstendale (città fondata da milionari che non volevano pagare tasse sulla Terra,
ma che sul Grande Pianeta, per
mantenere il loro tenore di vita,
a turno fanno i portieri d'albergo, i vetturini, i facchini etc). Ci
troviamo quindi di fronte ad un
romanzo pieno di idee, di popolazioni e società diverse dalla
nostra, di trovate ingegnose,
che inducono ad una lettura
sempre attenta e partecipe.
"L'odissea di Glystra" ha un
evidente punto in comune con
il "Ciclo di Tschai", là ove è il
pianeta il vero protagonista
dell'opera. Un romanzo di facile
lettura, quindi, mai banale, non
impegnativo ma divertente e
rilassante come la maggior
parte delle opere di Vance, il
quale, con questa sua idea del
Grande Pianeta, ha aperto la
strada ad autori come Larry
Niven e al suo "Ringworld", Bob
Shaw e la sua immensa "Sfera di
Dyson", sino a giungere all'incredibile disco immaginato da
Charles Stross in "Universo distorto". Concludo consigliando, a
chi ancora non lo avesse fatto,
la scoperta o riscoperta delle
altre opere di Vance, dal "Ciclo
di Tschai" a quello dei "Principi
Demoni", dal "Ciclo degli Asutra"
alla "Trilogia di Durdane" e al
"Ciclo della Terra Morente", uno
più bello dell'altro!
L’odissea di Glystra (The Big Planet), di Jack Vance, uscito per la prima volta su
“Startling Stories”, 1952. Pubblicazioni italiane: “Urania”, Arnoldo Mondadori, n. 177
(1958) e n. 680 (1973, ristampa), poi in “Urania collezione” n. 66 (1975) e “Classici di
Urania” n. 86 (1984). Tradotto da Hilia Brinis.
SCI-FI GATE 51
narrativa
P
anem et Circenses: ovvero “pane e
divertimenti”. Una locuzione latina attribuita
a Giovenale che afferma sostanzialmente
che, in cambio di pancia piena e spettacoli,
il popolo avrebbe rinunciato alle proprie responsabilità politiche e, di conseguenza, al proprio potere.
Locuzione che è l’essenza stessa di “Hunger
Games”, fortunata e pluri-ristampata trilogia di
Suzanne Collins, dalla quale sono già stati tratti due
film (il secondo è uscito a fine novembre) ed altri due,
entrambi tratti dall’ultimo volume della trilogia, sono
schedulati per i prossimi due anni, in omaggio al
detto: “non uccidere (troppo presto) la gallina dalle
uova d’oro!” E’ notizia di questi giorni però che il
secondo film, in America, non abbia incassato quanto
ci si aspettava. Panem et Circenses dicevamo. E
guarda caso, Panem è proprio il nome della nazione
dove è ambientata la storia. Una nazione composta
da Capitol City, superficiale, frivola ed opulenta cittàstato ai cui abitanti è diretto il senso della locuzione di
cui sopra, e da 12 distretti (ma una volta erano 13)
che producono di tutto e dai quali Capitol City di fatto
dipende, ma tenuti in stato di sostanziale schiavitù.
Quanto ai “Circenses”, questi sono proprio gli Hunger
Games. I giochi della fame, letteralmente. Quando
infatti gli abitanti del 13° distretto insorsero contro
Capitol City ne derivò una guerra sanguinosa che si
concluse con la completa distruzione del distretto. Da
allora, per “ricordare” agli abitanti degli altri distretti di
quelli che la Collins chiama “i giorni bui”, Capitol City
ha inventato gli Hunger Games: una volta l’anno in
ogni distretto, nel giorno della “mietitura” (chiamarla
“nomination” era forse troppo sfacciato), vengono
estratti a sorte i nominativi di due tributi, un maschio
ed una femmina, scelti esclusivamente tra i ragazzi
tra i 12 ed i 16 anni. I 24 tributi così individuati
vengono… deportati a Capitol City e, dopo un breve
addestramento durante il quale intravedono l’opulenza della capitale, vengono al fine rinchiusi in un’arena
a combattere a morte tra di loro, fin quando non ne
resterà uno solo, che assicurerà a sé stesso, alla sua
famiglia, e marginalmente al suo distretto almeno di
che mangiare per tutto l’anno successivo. Il tutto è
ripreso dalle telecamere e trasmesso sui televisori di
tutti gli abitanti di Capitol City con tanto di presentatori, interviste, rubriche di approfondimento, riassunto
dei momenti salienti della giornata, nella migliore
tradizione dei peggiori reality show. Hunger Games
non è inquadrato precisamente né geograficamente
né temporalmente. Sappiamo che ci troviamo sulla
Terra, certamente, in un futuro presumibilmente non
SCI-FI GATE 52
troppo prossimo per la presenza di hovercraft e per la
straordinaria capacità di Capitol City di creare, tramite
mostruose manipolazioni genetiche, ibridi letali. Nel
terzo romanzo la Collins fa riferimento (sempre guarda caso) all’antica Roma come ad un impero che
aveva prosperato “migliaia di anni fa”. E questo è
tutto. Sappiamo anche che questa “cura” è andata
avanti uguale a sé stessa per 73 anni, durante i quali
i distretti si sono visti regolarmente strappare di mano
i propri figli solo per vederli morire in televisione per
l’esclusivo divertimento del sanguinario pubblico di
Capitol City. Fin quando, in occasione dei 74° Hunger
Games, nel più povero e bistrattato distretto 12 non
viene “nominata” la piccola Primrose Everdeen, la
sorellina dodicenne di Katniss, che prontamente si
offre volontaria al suo posto. Solo che Katniss ha solo
16 anni, non è particolarmente coraggiosa, né forte,
né sicura di sé, anzi. Il distretto 12 è quello delle
miniere di carbone, ed il padre di Katniss era morto
nelle miniere anni prima, lasciando la famiglia senza
alcun sostentamento e la madre incapace di reagire
al lutto. Dopo la morte del padre, Katniss era stata
costretta a fare di necessità virtù ed aveva imparato a
cacciare nei boschi (cosa che sarebbe anch’essa
proibita) con l’inseparabile amico Gale e coi risultati
della sua caccia riusciva a sfamare la sua famiglia ed
aiutare quella di molti altri, al distretto. Ma Katniss ha
anche un debito di riconoscenza… e i debiti di
riconoscenza non vanno molto d’accordo con le lotte
all’ultimo sangue.
Questa è la situazione che descrivono i primissimi
capitoli del primo volume. Poi la vicenda si dipanerà
attraverso i 74esimi ed i 75esimi Hunger Games, l’
“edizione della Memoria”, fino all’inevitabile conclusione. La Collins sostiene di aver avuto l’idea dei
giochi facendo zapping, in televisione, tra le immagini
dei finti reality show e quelle della vera guerra. I romanzi sono scritti in uno stile molto piacevole, adatto
ai ragazzi, ed in effetti la trilogia è diretta ad un pubblico adolescente, almeno nelle intenzioni, perché poi
alcune sequenze soprattutto nel terzo libro sono
francamente piuttosto crude. Ma leggendola la cosa
più interessante è che questi Hunger Games sembrino prendere a prestito molto dal nostro passato, più o
meno recente, e dal nostro presente. Il paragone
ovvio sono le arene dei gladiatori dell’antica Roma, i
Circenses appunto, i giochi del circo, dove gli schiavigladiatori provenienti da ogni angolo dell’impero si
scannavano tra di loro per il piacere dell’Imperatore e
del pubblico. Il paragone un po’ meno ovvio ma
altrettanto evidente è dato dai distretti, nei quali le
condizioni di vita sono terribili, e che vengono descritti
– il distretto 12 almeno – come un Auschwitz giusto
un pelo meno estremo, con tanto di neve e di recinzioni di filo spinato elettrificato. Solo che Auschwitz è
durato 4-5 anni, non 74. E poi c’è il presente, con i
nostri reality show che un po’ vanno anche loro in
questa direzione: anche il pubblico di Capitol City può
infatti decretare, con i propri voti, le proprie simpatie,
a quali tributi indirizzare preziosissimi doni (cibo,
acqua, armi o medicine) e chi invece ignorare e di
fatto condannare a morte. E poi c’è la guerra, naturalmente, a completare il quadro descritto da questi
romanzi di fanta-realtà. Hunger Games è una bella
trilogia, che giusto nell’ultimo volume si concede
qualche lungaggine di troppo, ma era forse inevitabile
dopo aver tenuto i lettori sulla corda per i primi due
volumi. Il primo film è piuttosto aderente al primo
volume, a parte una sensazione generale di “affrettamento” e, soprattutto, la quasi totale assenza di uno
dei protagonisti assoluti del libro, che da’ anche il
titolo: la fame. Fame che nel libro governa le azioni, i
pensieri e le decisioni di Katniss ma che nel film
quasi non si percepisce affatto. Il film tende inoltre a
rendere troppo ed inutilmente fantascientifica l’ambientazione di base, privando la storia della sua componente più importante: che la storia che narra non
necessariamente è lontana da noi perché l’uomo ha
già fatto, tranquillamente, ben di peggio.
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INTERVISTA
I ROBOT PRECARI DI DAVIDE TARO’
Intervista di Elena Romanello
A
ppassionato ed esperto di manga ed
anime ma anche di cultura geek in
generale, Davide Tarò ha recentemente
pubblicato il suo primo romanzo, EMINA Orfani
RoboT, per la casa editrice 001 Edizioni di
Torino, che da sempre si occupa di fumetti
d’autore di varia provenienza, e che è anche lei
al debutto nella narrativa. Un omaggio a Goldrake e ai cartoni animati giapponesi, ma anche una riflessione, non sempre tenera e positiva, su una generazione, come ci racconta
appunto l’autore.
***
Come è nata l'idea di EMINA OrfaniRoboT?
L'idea è nata nel 2009, quando avevo trentatré
anni e ho pensato come dovesse essere un
romanzo fantascientifico sull'animazione giapponese, fuso con la realtà “vera” di tutti i giorni
e dei nostri tempi. Il risultato era una terra ucronica dove Goldrake/Grendizer poteva davvero
ben essere esistito segretamente, tra le pieghe
nascoste della storia recente oltre che essere il
cartone animato giapponese che conosciamo, e se questo fosse successo, COSA e COME
sarebbe davvero cambiato il nostro mondo?
Ho pensato inoltre di fondere queste tematiche con le tematiche della generazione precaria 'da 1000 euro al mese' (quando va bene), constatando che la generazione che amava gli anime e Goldrake/Grendizer quando arrivò in Italia
ed in Europa, era la stessa che ora più o meno in tutta l'Europa (ma soprattutto in Italia) doveva fronteggiare la precarietà e la disoccupazione forzosa, nemici questi ben più letali e subdoli degli invasori
spaziali di Vega.
EMINA OrfaniRoboT non vuole assolutamente essere un romanzo ironico, o leggero, che irride o cita
superficialmente gli anime come Goldrake/Grendizer... vuole essere piuttosto un romanzo che fonde
seriamente gli anime con una realtà molto vicina alla nostra che io chiamo 'Animeucronia' (da 'Anime':
termine coniato dai giapponesi per definire l'animazione, e 'Ucronia' dal greco nessun tempo) e che
verrà sviluppata in altri miei romanzi e racconti.
Quanto pensi che l'animazione giapponese abbia influenzato, nel bene e nel male, la tua generazione?
Moltissimo. Penso che se ora la mia generazione conoscesse a memoria il codice civile o penale, o
meglio i diritti che le spetterebbero invece che le sigle (pur mitiche) degli anni Ottanta, la storia non
sarebbe andata come è andata, soprattutto in Italia, soprattutto dopo la Legge Biagi.
SCI-FI GATE 54
Secondo te, cosa avevano di così strano e innovativo i
robottoni e le altre storie di manga ed anime?
Tutto. Avevano quel senso del sacrificio per il bene
comune, non una idilliaca visione di mondo, ma
avevano ben chiaro come questo mondo dovesse
essere e che purtroppo non era, e i personaggi
facevano del loro meglio, sempre per cambiare le sorti
della partita e sempre con i valori della fratellanza
duramente imparati ed acquisiti con il proprio sudore
della fronte. Dopo anni di intrattenimento animato
basato sui valori a stelle e strisce, dove tutto era dato
per scontato ed acquisito alla nascita, creò non pochi
sconvolgimenti questo sforzo enorme per essere
persone buone da parte di personaggi umani, in
disaccordo con la visione manicheista di scuola
Disneyana di 'essere persone buone' tout court, dalla
nascita come un diritto divino.
Il tuo libro potrebbe dare vita secondo te ad un nuovo
filone letterario basato sull'immaginario fantastico?
Chiamo 'Animeucronia' questo filone, in effetti sono
stato molto onorato e fortunato ad essere menzionato
e ad avere partecipato al PREMIO ITALIA della WORLD
SF 2013 perché capisco perfettamente come questo
“mio” filone narrativo possa destabilizzare per esempio
i lettori abituali di fantascienza (genere molto affine a
questo romanzo) producendo il risultato di non sapere
dove piazzarlo effettivamente.
Il PREMIO ITALIA WORLD SF 2013 ha giudicato EMINA
OrfaniRoboT un libro di fantascienza, io ne sono fiero,
felice e pienamente d'accordo.
Cosa pensi della cultura otaku e della cultura
fantastica in Italia?
Penso che, come tutti i settori, soffra di estrema
parcellizzazione culturale. Molti pensano al proprio
orticello e non fanno 'rete', tutti dicono la loro, pochi
fanno qualcosa di concreto per aiutare a diffondere
la cultura fantastica. Pochi ma buoni, almeno.
Prossimi progetti?
Ho finito di scrivere il soggetto e la sceneggiatura per
Ankoku Grendizer Fan Movie del regista Daniele
Spadoni, disponibile in rete dal Dicembre scorso.
Inoltre a fine ottobre uscirà nelle librerie una antologia di racconti fantastici dal titolo TOnirica a cura di
Alessandro Del Gaudio dove farà la sua comparsa
KODOMO TauriNoruM, un mio piccolo “continuo sui
generis” di EMINA OrfaniRoboT, leggibile e godibile
però in perfetta autonomia dal romanzo. Ho inoltre
scritto il breve racconto di fantascienza Corazzata
Spaziale Mussolini, che ha partecipato al premio
'Stella Doppia' dei ragazzi di Delos Book nel 2012 ma
che è ancora temporaneamente inedito: un progetto che conto di ampliare come portata concettuale
e come numero di pagine nell'immediato futuro.
Mentre nel 2014 dovrebbe vedere la luce il mio secondo romanzo sull' 'Animeucronia'... ma non sarà un
continuo di EMINA OrfaniRoboT... sarà qualcosa di
totalmente nuovo e diverso!
CORAZZATA SPAZIALE MUSSOLINI di Davide Tarò
Sopra i cieli dell'Italia della seconda guerra mondiale, una corazzata vola libera e ribelle...
XXI Anno dell'era fascista, un ragazzo delle campagne italiane, Attalo Agricanto di anni dieci , viene salvato
dalla Corazzata Spaziale Mussolini...“Tu sia il benvenuti sulla Corazzata Spaziale Mussolini!” si sente urlare a
bordo. “Io, comandante Furio Matteotti, ti invito ad entrare! Il mio vessillo è libertà...Ecco, tutto ciò che
rifugge il Fascismo io e il mio equipaggio dentro la corazzata, la nostra nuova casa e patria, lo avremmo
perseguito con una forza centuplicata.
Con il sudore ed il sangue delle nostre anime libere” parole che come anime disperse nel vento danno forza
alle bandiere ed ai vessilli. “Ormai in volo nello spazio quindi, decisi così che la Corazzata Spaziale Mussolini
sarebbe diventata la Corazzata Misterioso Futuro” Queste le ultime parole sentite dal Fascio prima che la
Corazzata prendesse il volo, non autorizzata, e si eclissasse nei cieli per sempre.
FINO ad ORA.
Anno attuale: 1945 Luglio, Ubicazione: Pianeta Terra.
Un nuovo capitolo dell'ANIMEUCRONIA: I personaggi, le astronavi e la tecnologia di questa opera (come già nel primo romanzo di Tarò,
EMINA OrfaniRoboT) si muovono, funzionano con un preciso scopo, sono figli di una storia risorgimentale “realmente” esistita quasi
identica alla nostra, e di una storia degli anni venti del secolo che arriva spietata (e segreta) fino all'esplosione delle bombe nucleari in
Giappone, nel 1945. Tutto sembra parlare della nostra realtà quindi... ANIMEUCRONIA, termine per un “genere” letterario coniato da
Davide Tarò stesso, che deriva dalla infausta ed empia fusione di anime (cartone animato giapponese) e ucronia (nessun tempo) per
dare vita ad una storia che si svolge in una realtà assai simile alla nostra, ma che per qualche evento storico diverso ha creato, per
esempio, una multinazionale che produce robot Simulacra assai simili a quelli che si vedevano negli anime robotici degli anni '70 a
Torino.... o la costruzione di una Corazzata Spaziale poco prima della Seconda Guerra Mondiale assai (troppo) simile a quella che si
vedrà in televisione una trentina di anni dopo nella serie Corazzata Spaziale Yamato di Leiji Matsumoto .
Si scoprirà il perché di questi occulti legami solo all'apparenza, forse, pretestuosi.
Una realtà anime ucronica assai più vasta ed espandibile, e che si sta espandendo, in altri titoli ed opere che lo scrittore Davide Tarò sta
tessendo...
CORAZZATA SPAZIALE MUSSOLINI di Davide Tarò autore del romanzo EMINA OrfaniRoboT edito da 001Edizioni ( Collana Ungraphic), già
segnalato al prestigioso premio di Fantascienza edizione 2013 del WORLD SF ITALIA.
Illustrazioni di Andrea Gatti
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