(S)montaggio critico. Uomo e natura nel cinema di Werner Herzog

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(S)montaggio critico. Uomo e natura nel cinema di Werner Herzog
(S)montaggio critico.
Uomo e natura nel cinema di Werner Herzog
oltre la soglia dell'alterità originaria
Agostino Arciuolo
"Al pari della creazione, anche la morte del sistema solare avverrà con maestoso
splendore": con queste parole (attribuite al filosofo Blaise Pascal) Werner Herzog apre il suo
Apocalisse nel deserto (Germania 1992). Ci si rende subito conto che il senso profondo della
frase sta tutto nella consapevolezza, tanto implicita quanto lampante, che l'uomo, creatura
fragile come una "canna al vento" (per dirla di nuovo con Pascal), non ha alcuna possibilità di
assistere al solenne spettacolo cosmico dell'inizio o della fine dell'universo. Fosse anche per
negarla, l'occhio umano si trova costretto a fare i conti con questa "scandalosa" e originaria
evidenza: l'esistenza di una realtà immensamente più grande di noi, di una "alterità" primitiva
che, per quanto si possa pensare estranea, distante, talvolta pura apparenza e illusione, rimane
incollata al nostro attonito sguardo, smarrito nella ricerca di una giustificazione alla sua
primordiale incredulità. Eppure l'essere umano non sembra arrendersi di fronte a tutto ciò:
egli, ignaro quasi sempre del prezzo da pagare, continua ostinatamente a inseguire i suoi
progetti, le sue ambizioni, la sua smania di potere.
Ed è esattamente tale sforzo ciò che il nostro regista intende mostrarci: la sua
cinematografia sgorga di figure umane che, sospinte dal loro folle "eroismo", trovano il
coraggio di sfidare ciò che per natura rimane invincibile, di oltrepassare quella "soglia" oltre
la quale c'è solo solitudine e morte: basti pensare a come il delirante egocentrismo di Aguirre
trascini lui e i suoi compagni verso la distruzione, o a come Timothy Treadwell, protagonista
del documentario Grizzly Man, vada incontro, pur mosso da buone intenzioni (o forse proprio
per questo), alla sua tragica fine. Eppure Herzog sembra giustificare le smisurate ambizioni
dei suoi protagonisti, i quali, se non altro, rappresentano un adeguato strumento di
misurazione per indagare la natura umana: secondo un'efficace metafora dello stesso regista,
come gli scienziati riescono a risalire alle proprietà intrinseche di un oggetto sottoponendolo
alle condizioni più estreme, così egli porta i suoi soggetti a varcare i limiti cui per natura sono
destinati per scavare quanto più profondamente nella loro anima e scovarne in tal modo le
radici. La follia viene così elevata al rango di vero e proprio atteggiamento esistenziale, fino a
costituire una via (forse l'unica?) per ritrovare la dignità del nostro essere, per rintracciare
l'essenza di quel minuscolo frammento di realtà che è l'uomo: la megalomania degli "eroi
herzoghiani", in effetti, non è mai motivo di emarginazione (la quale, se c'è, è sempre frutto
della loro iniziativa), e li conduce anzi a rappresentare l'intera umanità, la storia della cui
civiltà risponde pur sempre a un congenito bisogno di antropocentrismo.
A tal proposito vale la pena ricordare che Herzog non esita a criticare alcuni aspetti della
moderna civiltà occidentale, volta allo sfruttamento pianificato dell'ambiente in nome di un
tanto esaltato "progresso", e inconsapevole del fatto che "distruggere la terra significa
distruggere anche l'uomo che la abita"1. The Wild Blue Yonder e Dove sognano le formiche
1
Sono le parole del portavoce degli aborigeni australiani in Dove sognano le formiche verdi.
1
verdi sono pellicole emblematiche da questo punto di vista: nella prima il regista ironizza sul
sogno tipicamente umano di colonizzare lo spazio e mettere l'uomo al riparo in un utopico
"paradiso della tecnica"; nel secondo mette in ridicolo, per mezzo delle poche ma sagge
parole degli aborigeni, l'intera società dei "bianchi", illusa di poter sfruttare indefinitamente le
risorse della terra senza pagarne le conseguenze. Beninteso, Herzog non disapprova l'idea in
sè di un "progresso" tecnico sempre più avanzato, ma soltanto l'illusione che questo possa
portare alla felicità dell'essere umano e al completo controllo della natura: in questo senso,
anche la conoscenza scientifica, per quanto sia in grado di fornire spiegazioni sempre più
precise di fenomeni fisici sempre più complessi, non giungerà mai a cogliere i segreti più
reconditi della realtà2. Così, gli astronauti che partono verso l'"ignoto spazio profondo" non
sono più "evoluti" degli abitanti dell'isola ai margini del mondo di Cuore di vetro, i quali,
dopo aver contemplato il mare per anni, decidono di salire a bordo di una piccola ("troppo
piccola", come ricorda la voce narrante) imbarcazione per scoprire cosa c'è dietro l'orizzonte
(un abisso?): in entrambi i casi siamo di fronte al tentativo, disperato e commovente, di
oltrepassare le colonne d'ercole per raggiungere i confini del tutto che ci circonda; tentativo
destinato per principio al fallimento, nello stesso senso in cui l'orizzonte che ci sta davanti si
allontana non appena facciamo un passo verso di esso: quello conoscitivo rimane un processo
infinito che, malgrado tutto, non approderà mai ad un porto sicuro, imprigionato com'è nella
fitta ragnatela delle relazioni che, volenti o nolenti, intratteniamo col mondo.
Molto spesso lo spingersi oltre il "limite" si traduce in un vero e proprio atto di sfida
contro le stesse leggi della fisica: l'ossessione di volare del protagonista di The White
Diamond rispecchia la tensione a vincere la forza di attrazione gravitazionale per osservare la
terra dall'alto, abbracciandola così in un solo colpo d'occhio; e l'impresa titanica che
Fitzcarraldo sogna di compiere ha come principale nemico proprio le immutabili leggi della
natura. L'audacia di questi uomini li conduce a ribellarsi persino di fronte all'inviolabile
struttura ontologica del reale, li trascina a rifiutare la realtà delle cose nella convinzione che
questa sia imperfetta, sbagliata, e nell'illusione di poterla cambiare, renderla migliore al di là
di ogni compromesso o di ogni moderata interazione con essa: in tal senso il rapporto di
costoro con la natura è sempre tragico, straziante, estremo, oltre la misura e la ragione. Anche
quando la realtà naturale viene fatta oggetto di "contemplazione", quando appare cioè nella
forma dei suoi meravigliosi paesaggi e delle sue incantevoli bellezze, Herzog, pur mosso da
un profondo fascino per essa3, mai vi si immerge panteisticamente. Piuttosto egli si rifugia
nella potenza evocativa del sogno, nell'estasi della visione onirica, creando atmosfere
apocalittiche e scenari sospesi tra realtà e immaginazione, cercando (invano?) nei meandri
della natura uno spiraglio che lo conduca verso le profondità dell'animo umano4. In ogni caso,
il mondo rimane pur sempre estraneo, inaccessibile, impenetrabile: uno iato originario e
incolmabile lo separa dall'uomo, al quale si presentano soltanto due, estreme, possibilità: o si
resta stupiti sull'orlo dell'abisso che ci separa dalla natura, a contemplarla da lontano e senza
2
L'aborigeno commenta il discorso di un dipendente della compagnia petrolifera sulla conoscenza che
l'uomo ha e può avere dell'universo con queste parole: "Voi bianchi siete perduti. Voi non capite la
terra. Fate troppe domande stupide".
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Oserei definire Herzog un "regista esploratore", non tanto in senso prettamente cinematografico,
quanto soprattutto in senso fisico, geografico: egli porta la sua macchina da presa in giro per il
mondo per catturare immagini sempre inedite, nonostante le avversità naturali che più volte ha
dovuto affrontare.
4
Cuore di vetro è un film emblematico in questo senso.
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alcuna possibilità di comunicare con essa (è questo l'atteggiamento che l'occhio del regista,
attraverso la sua macchina da presa, spesso – ma a malincuore – sembra privilegiare), oppure
ci si lancia con tutte le forze oltre il confine, sfidando la realtà in un cammino senza ritorno,
che porta solo alla morte nella più totale solitudine: tertium non datur. Solitudine e morte: è
questo, nel cinema di Herzog, l'inevitabile epilogo di ogni viaggio oltre i limiti. Tuttavia,
anche nelle situazioni più estreme, l' "eroe herzoghiano" non si arrende mai alla supremazia
della natura e mantiene orgogliosamente la propria folle (ma non insensata) dignità: valga su
tutti l'esempio di Aguirre che, rimasto solo nella catastrofe, parla con una scimmia impaurita,
invocando invano la divinità di cui egli si ritiene il "furore"5.
Alla fine però, impassibile a ogni parola, a ogni sguardo e a ogni sforzo umano, non
rimane che la Natura, selvaggia e crudele, nella sua stupida, oscena, "travolgente
indifferenza"6.
Filmografia di riferimento - Werner Herzog
Anche i nani hanno cominciato da piccoli (Germania 1970)
Aguirre, furore di Dio (Germania Messico Perù 1972)
Cuore di vetro (Germania 1976)
Fitzcarraldo (Germania 1981)
Dove sognano le formiche verdi (Australia 1984)
Grizzly Man (USA 2005)
Il diamante bianco (Gran Bretagna Germania 2005)
L'ignoto spazio profondo (Francia Germania Gran Bretagna 2005)
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Questo punto, il rapporto cioè che l'uomo cerca con dio nel momento in cui non riesce con le sue sole
forze ad avere la meglio sulla natura, meriterebbe un discorso a parte.
6
E' la stessa voce di Herzog che, insinuandosi tra le immagini di Grizzly Man, pronuncia queste
parole.
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