Cass. Penale 13697_2016

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Cass. Penale 13697_2016
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE PENALE
UDIENZA PUBBLICA
DEL 11 /03/2016
Composta dagli Il1.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DOMENICO GALLO
Dott. MARGHERITA TADDEI
Dott. LUIGI AGOSTINACCHIO
- Presidente - Consigliere _ Consigliere _
SENTENZA
N.
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REGISTRO GENERALE
N.53032/2015
- ReI.
Consigliere -
Dott.
STEFANO FILIPPINI
Dott.
ROBERTO MARIA CARRELLI PALOMBI DI
MONTRONE
- Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
avverso la sentenza n. 1349/2012 CORTE APPELLO di LECCE, del
28/01/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 1110312016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. STEFANO FILIPPINI
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Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. I t'vi.."~ R..o !CA. tt..:>
che ha concluso per . ()
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 153/15 in data 28.1.2015 la Corte di Appello di Lecce ha condannato
alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed € 1.200,00 di multa in ordine ai reati
di cui agli artt. 81 cpv, 474 e 648 c.p. , così rideterminando la pena inflitta in primo grado dal
Tribunale di Lecce con sentenza del 16.12.2011 per il riconoscimento della continuazione con il
reato giudicato a carico dello stesso imputato con sentenza del Tribunale di Lecce del
27.5.2010 .
Invero,
era stato giudicato colpevole dal Tribunale di Lecce in composizione
monocratica in ordine al reato di cui agli artt. 81, 474, in relazione all'art.2. lett. I) e C. 4,
D.L.vo 19.3.2001 n.68 e successo mod., 648 C.p, perché, quale titolare di fatto dì un'attività
commerciale di vendita al dettaglio di prodotti non alimentari, allocata nella sua abitazione,
deteneva per venderli n.53 orologi da polso di vario genere, riportanti noti marchi contraffatti o
alterati
e
n.140
penne
riportanti
il
marchio
contraffatto
acquistati
illegittimamente da persona sconosciuta, taluni privi di marcatura CE sull'imballaggio (n.5 colli
di orologi e n.8 penne), altri privi delle note esplicative in italiano (n.5 colli dì orologi e n.8
penne), altri con note esplicative in altre lingue (n.5 colli di orologi e n.8 penne), altri ancoré)
privi del nome e/o della ragione sociale e dell'indirizzo del fabbricante o del suo mandatario o
responsabile
dell'immissione
sul
mercato
della
Comunità
Europea
(importatore
e/o
distributore) (n.5 colli di orologi e n.8 penne) ed infine altri con riferimenti "ingannevoli" a
marche più conosciute (n.5 colli di orologi e n.8 penne), tutti privi di certificazione di garanzia
e di provenienza, nonché di astuccio della confezione originale. In Surbo, il
II Tribunale lo ha condannato fondando tale sua decisione sulle dichiarazioni rese dai testi e
sulla produzione documentale in atti. La fattispecie concreta risulta ricostruita in sentenza in
rapporto alla deposizione de m.llo della G.d.F.
16.11.2006 allorchè,
in occasione del controllo dell'autovettura condotta dall'imputato,
venivano rivenuti diversi orologi con marchi I
con marchio
su quanto accertato il
, oltre a centoquaranta penne
Gli operatori procedevano poi a perquisizione presso l'abitazione
dell'imputato. Nelle operazioni si rinvenivano seicentotrentuno orologi con marchio
- e millequattrocentoventitre penne marchiate
. Della provenienza di detta merce non si riscontrava alcuna documentazione. L'ausiliario
di PG geom.
i ha confermato la contraffazione dei marchi. Addirittura alcuni orologi
presentavano modelli mai realizzati dalle case.
La Corte di Appello predetta ha riformato la sentenza di primo grado limitatamente al
riconoscimento della continuazione con precedente condanna per ricettazione, confermando nel
resto.
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell'imputato, deducendo:
1. Con il primo motivo di ricorso il difensore dell'imputato lamenta violazione di legge in
relazione all'art. 143 c.p.p. e violazione del diritto di difesa (richiamando l'art. 606, comma l,
lett. b) e c) , c.p.p.,
per i seguenti profili: non solo la mancata traduzione integrale del
decreto di citazione in giudizio, compreso l'avviso della facoltà di richiedere il giudizio
abbreviato,
viola il diritto di difesa, ma lo spirito dell'art. 143 c.p.p. mira a garantire
l'effettività di tale diritto anche rispetto alla sentenza di primo grado, al decreto di citazione nel
giudizio di secondo grado, agli atti di quest'ultimo grado e alla relativa sentenza, che, dunque,
debbono essere tutti tradotti per mettere l'imputato in condizione di esercitare il diritto
all'autonoma impugnazione previsto dall'art. 571 c.p.p., articolando motivi di gravame propri,
magari in contrasto con quelli del difensore.
2. Con il secondo motivo di ricorso il difensore dell'imputato lamenta violazione dell'art. 530
c.p.p. in relazione all'art. 474 c.p. , nonché motivazione assente , comunque illogica e
contraddittoria , c.p.p.) per i seguenti profili: il giudice di appello non ha correttamente
interpretato la normativa sul falso per contraffazione, posto che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, quando emerge almeno il dubbio sulla grossolanità della contraffazione, deve
configurarsi l'ipotesi di cui all'art. 49 c.p .. E' lo stesso giudice di appello a definire i prodotti
sequestrati come visibilmente e oggettivamente contraffatti , fatti con materiale di scarsa
qualità e priva di etichetta mento, aspetti che chiunque avrebbe potuto apprezzare; inoltre, non
conoscendo la lingua italiana, né i relativi caratteri grafici, l'imputato non si è neppure potuto
rendere conto della falsificazione.
3. Con il terzo motivo di ricorso il difensore dell'imputato lamenta violazione dell'art. 530 c.p.p.
in relazione all'art. 648 c.p. nonché difetto probatorio e motivazione assente e comunque
illogica e contraddittoria per i seguenti profili: altrettanto illogica è la motivazione anche in
relazione al reato di ricettazione. Invero non può essere privilegiata la presunzione che
l'imputato abbia ricevuto gli oggetti da terzi, piuttosto che quella di aver partecipato alla
falsificazione, magari semplicemente apponendo targhette o etichette . Nessuna risultanza
permette di affermare che egli non fosse in grado di commettere le falsificazioni.
4. Con il quarto motivo di ricorso il difensore dell'imputato lamenta violazione delle norme in
materia di determinazione della pena nonché degli artt. 3 e 27 della Costituzione; motivazione
carente e comunque illogica; mancata concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 c.p.
per i seguenti profili:
la pena irrogata è sproporzionata e lesiva delle citate norme di rango
costituzionale. Le condizioni personali del condannato avrebbero dovuto indurre a irrogare
pene più miti. Sproporzionato è l'aumento di pena per i reati in continuazione (474 c.p.) . Il
comportamento
collaborativo
dell'imputato al
momento del
sequestro
avrebbe
dovuto
legittimare le attenuanti generiche, negate per la quantità ingente della merce sequestrata,
che però solo in parte è divenuta oggetto di imputazione (193 accessori in tutto); evenienza
che avrebbe imposto la concessione dell'attenuante ex art. 62 n. 4 c.p ..
5. Con il quinto motivo di ricorso (erroneamente indicato come n. 6) il difensore dell'imputato
lamenta violazione di legge per la mancata applicazione della particolare tenuità del fatto in
quanto il modesto valore commerciale degli oggetti, il modesto profitto inerente alla
commercializzazione e le complessive modalità dell'azione avrebbero dovuto imporre la
concessione del beneficio in parola.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. II ricorso è fondato limitatamente al profilo sotto indicato.
1.1. Si procede, per la ragione che meglio si esporrà in seguito, alla preliminare trattazione dei
motivi di ricorso proposti dal difensore con riferimento alla sentenza di condanna, giudicati
infondati,
affrontando
per
ultima,
invece,
la
questione
relativa
all'autonomo
diritto
dell'imputato di proporre impugnazione personalmente, giudicato fondato.
2. II secondo motivo di ricorso risulta infondato.
2.1. II difensore dell'imputato lamenta violazione dell'art. 530 c.p.p. in relazione all'art. 474
c.p., nonché motivazione assente, comunque illogica e contraddittoria, dal momento che il
giudice di appello non avrebbe correttamente interpretato la normativa sul falso per
contraffazione, posto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, quando emerge almeno il
dubbio sulla grossolanità della contraffazione, deve configurarsi l'ipotesi di cui all'art. 49 c.p.;
e, nel caso di specie, è stato lo stesso giudice di appello a definire i prodotti sequestrati come
visibilmente e oggettivamente contraffatti , fatti con materiale di scarsa qualità e priva di
etichetta mento, aspetti che chiunque avrebbe potuto apprezzare; inoltre, il ricorrente deduce
che, dal momento che l'imputato non conosce la lingua italiana, né i relativi caratteri grafici,
egli non si è neppure potuto rendere conto della falsificazione.
AI riguardo, merita osservare che, secondo il più recente orientamento di questa Corte
Suprema, integra il delitto di cui all'art. 474 cod. peno la detenzione per la vendita di prodotti
recanti marchio contraffatto senza che abbia rilievo la configurabilità della contraffazione
grossolana, considerato che l'art. 474 cod. peno tutela, in via principale e diretta, non già la
libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei
cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti
industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta,
pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione
dell'inganno non ricorrendo quindi l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della
contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti
siano tratti in inganno (Cass. Sez. S, sento n. 5260 del 11/12/2013, dep. 03/02/2014, Rv.
258722).
Infatti, il reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, previsto
dall'art. 474 cod. pen., è volto a tutelare, non la libera determinazione dell'acquirente, ma la
pubblica fede, intesa come affidamento dei consumatori nei marchi, quali segni distintivi della
particolare qualità e originalità dei prodotti messi in circolazione; ne consegue che non può
parlarsi di reato impossibile per il solo fatto che la grossolanità della contraffazione sia
riconoscibile dall'acquirente in ragione delle modalità della vendita (prezzo eccessivamente
basso rispetto a quello dei prodotti originali, vendita effettuata in mercatini rionali o
ambulanti), in quanto l'attitudine della falsificazione ad ingenerare confusione deve essere
valutata non con riferimento al momento dell'acquisto, ma in relazione alla visione degli
oggetti nella loro successiva utilizzazione. (Cass. Sez. 2, sento n. 39863 del 2.10.2001, dep.
8.11.2001, rv 220236)
3. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato.
3.1 In questa sede il difensore dell'imputato lamenta violazione dell'art. 530 c.p.p. in relazione
all'art. 648 c.p., nonché difetto probatorio e motivazione assente e comunque illogica e
contraddittoria. Invero, ad avviso del ricorrente, nessun elemento milita a supporto della
presunzione che l'imputato abbia ricevuto gli oggetti da terzi, piuttosto che quella di aver
partecipato alla falsificazione,
magari semplicemente apponendo targhette o etichette.
Nessuna risultanza permetterebbe di affermare che egli non fosse in grado di commettere le
falsificazioni.
AI riguardo, occorre in primo luogo ricordare che, secondo la giurisprudenza prevalente di
questa Corte, che il collegio condivide, «Integra gli estremi del reato di ricettazione la ricezione
o l'acquisto, al fine di trarne profitto, di un oggetto con il marchio contraffatto da parte di chi
abbia consapevolezza dell'apposizione su di esso di un falso segno distintivo della sua
provenienza, atteso che il segno distintivo contraffatto, una volta impresso sul prodotto, si
identifica con esso, così che il delitto di contraffazione non rimane circoscritto al segno, ma
concerne il prodotto medesimo, del quale deve pertanto ritenersi la provenienza delittuosa ai
fini e per gli effetti di cui all'art. 648 cod. pen.» (Cass. Sez. 2 sento n. 11083 del 12.10.2000
dep. 28/10/2000 rv 217381. Cfr. Casso Sez. 2 sento 22.3.1986 n. 7392; Casso Sez. 2 sento
11.7.1989 n. 12349; Casso Sez. 2 sento 18.5.1990 n. 3720; Casso Sez. 2 sento 6.12.1991 n.
12336; Casso Sez. 2 sento 27.7.1996, n. 3154).
3.2. Quanto invece alla parte di doglianza relativa alla pretesa carenza di motivazione in ordine
agli elementi utili ad escludere la partecipazione dell'imputato alla falsificazione, avendo, a dire
del ricorrente, la Corte d'appello sottovalutato gravemente le questioni avanzate dalla difesa
sul punto, devesi ritenere il motivo inammissibile per difetto di specificità in relazione al
principio di autosufficienza del ricorso. Invero, nel caso in esame il ricorrente propone, peraltro
in via ipotetica, una ricostruzione alternativa a quella operata dai giudici di merito, ma, in
materia di ricorso
per Cassazione,
perché sia
ravvisabile la
manifesta
illogicità della
motivazione considerata dall'art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione
contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e
non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza. (si veda, con
riferimento a massime di esperienza alternative, Casso Sez. 1 sento n. 13528 del 11.11.1998,
Rv 212054).
Ed inoltre, la deduzione del vizio di contraddittorietà della motivazione risultante da atto del
processo specificamente indicato, introdotta dalla L. n. 46 del 2006, presuppone che la
motivazione della sentenza sia basata in modo determinante su prova insussistente agli atti, o
su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, ovvero sia contrastata
insuperabilmente da prova presente agli atti ma ignorata (Sez. 5, sento 39048 del 25.9.23.10.2007, rv 238215), si che eliminata - o inserita, secondo i casi - quella prova, l'intera
ricostruzione fattuale sia vanificata. L'indicazione dell'atto probatorio in questione deve poi
assolvere al requisito dell'autosufficienza (Sez. 6, sento 20059 del 16.1- 20.5.2008, rv 240056;
Sez. 1, sento 6112 del 22.1 - 12.2.2009, rv 243225): occorre che al ricorso sia allegato l'atto
processuale
(o
comunque
che
ve
ne
sia
nel
ricorso
l'integrale
trascrizione
ovvero
l'individuazione assolutamente puntuale e completa, che non determini la necessità di alcun
tipo di ricerca e selezione autonoma da parte della Corte di legittimità) dal quale emerga,
senza possibilità di interpretazione o lettura alternative, il contrasto tra quanto affermato in
sentenza e quanto invece in atti. Per questo, quando oggetto della denuncia di vizio è il
contenuto di un esame dibattimentale, e comunque di una dichiarazione, requisito indefettibile
di ammissibilità stessa della denuncia di questo peculiare vizio è la produzione integrale del
verbale nel quale quella dichiarazione è inserita, ovvero la sua integrale trascrizione nel ricorso
(Sez. 4, sent, 37982 del 26.6-3.10.2008, rv 241023; Sez.2, sento 38800 del 1-14.10.2008, rv
241449): ciò non solo per attestare la corrispondenza del dedotto alla realtà -stante
l'impossibilità per il giudice di legittimità di accedere agli atti- ma, ancor più, per verificare se il
senso probatorio dedotto dal ricorrente sia congruo al complesso della dichiarazione. Basti
pensare a come, con
la diffusione della stenotipia come modalità di verbalizzazione,
l'esperienza della quotidiana giurisdizione del merito presenti come usuale, e comunque
tutt'altro che eccezionale, la presenza nello stesso verbale, ed a volte in rapida successione, di
affermazioni tra loro apparentemente del tutto opposte, per lo più proprie delle modalità del
dialogo e del confronto che interviene tra le parti processuali e chi dichiara. Sicché sarebbe ben
possibile estrarre dal verbale la frase che giova alla tesi del contingente ricorrente, e che
tuttavia trova smentita, o completamento, o spiegazione, nelle frasi che precedono o seguono,
a volte anche nel corso dei controesami o delle domande a chiarimento e pertanto, dal punto di
vista grafico, a distanza apprezzabile. La delicatezza strutturale di questo peculiare vizio rispetto
al
giudizio
di
legittimità
e specialmente
per le
prove
dichiarative-
è stata
immediatamente colta: perché l'individuazione del senso probatorio di una dichiarazione, di
sue parti o del suo complesso, è operazione di stretto merito, che in genere presuppone anche
non solo la conoscenza degli altri elementi di prova, ma appunto la stessa valutazione
complessiva di tutte le prove. D'altra parte, non avrebbe senso imporre alla parte l'onere di
indicazione completa del contenuto di una dichiarazione, se poi il controllo, anche di legittimità,
non si realizzasse sull'intero contenuto e, quindi ed appunto, sul senso o significato probatorio
di quella dichiarazione. È tuttavia possibile la "verifica di legittimità" della corrispondenza tra il
senso probatorio dedotto dal ricorrente e il contenuto complessivo della dichiarazione: si tratta
di una verifica certo peculiare, che si caratterizza per il non sostituirsi al compito esclusivo del
giudice del merito, limitandosi invece ad accertare l'eventuale sussistenza del vizio processuale
dedotto, senza alcun vincolo "contenutistico" per il successivo apprezzamento del giudice di
merito nel caso di annullamento con rinvio sul punto. Si tratta di una valutazione incidentale in
cui il giudice di legittimità deve limitarsi a controllare se il senso probatorio della dichiarazione,
dedotto dal ricorrente ed articolantesi su affermazioni (o silenzi) specifici del dichiarante, trovi
sul piano logico una verosimiglianza non immediatamente smentita ovvero non necessitante di
alcuna operazione interpretativo-valutativa ulteriore, imposta, o anche solo consentita, da altre
parti del testo dell'esame complessivamente apprezzato. In tale evenienza, il giudice di
legittimità deve prendere atto dell'apparente astratto contrasto tra quanto affermato nel
provvedimento impugnato e quanto risultante con immediatezza dall'atto probatorio, poi
dell'eventuale astratta decisività di tale contrasto avuto riguardo alla logica del percorso
motivazionale di quel provvedimento, e quindi, in caso positivo, demandare al giudice del
rinvio ogni ulteriore e conseguente, ma originario e libero, apprezzamento, nella pienezza del
giudizio fattuale che caratterizza la valutazione delle prove e che appartiene, appunto, solo al
giudice di merito.
Nel caso di specie, invece, il ricorrente neppure indica quali deduzioni difensive, capaci di
scardinare il ragionamento probatorio svolto dai giudici di primo e secondo grado sul punto,
sarebbero idonee a sovvertire il giudizio di integrazione del reato di ricettazione.
4. Infondato è anche il quarto motivo di ricorso, con il quale il difensore dell'imputato lamenta
violazione delle norme in materia di determinazione della pena nonché degli artt. 3 e 27 della
Costituzione; motivazione carente e comunque illogica al riguardo; mancata concessione
dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 c.p .. E ciò per i seguenti profili: la pena irrogata è
sproporzionata e lesiva delle citate norme di rango costituzionale; le condizioni personali del
condannato avrebbero dovuto indurre a irrogare pene più miti; sproporzionato è l'aumento di
pena per i reati in continuazione (474 c.p.); il comportamento collaborativo dell'imputato al
momento del sequestro avrebbe dovuto legittimare le attenuanti generiche, negate per la
quantità ingente della merce sequestrata, che però solo in parte è divenuta oggetto di
imputazione (193 accessori
in tutto);
evenienza che avrebbe imposto la concessione
dell'attenuante ex art. 62 n. 4 c. p ..
In relazione al primo profilo (eccessività della pena), si deve ricordare che in tema di
determinazione della misura della pena, il giudice di merito, con la enunciazione, anche
sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell'articolo 133 cod. pen.,
assolve adeguatamente all'obbligo della motivazione; infatti, tale valutazione rientra nella sua
discrezionalità e non postula un'analitica esposizione dei criteri adottati per addivenirvi in
concreto (Cass. Sez. 2, sento n. 12749 del 19/03/2008, Rv. 239754; Sez. 4, sento n. 56 del
16/11/1988, rv 180075).
Inoltre, la determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una valutazione
complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicché l'obbligo
della motivazione da parte del giudice dell'impugnazione deve ritenersi compiutamente
osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d'appello, quando egli, accertata
l'irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla adeguata o non
eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente,
tutti gli aspetti indicati nell'art. 133 cod. peno ed anche quelli specificamente segnalati con i
motivi d'appello. (Cass. Sez. 6, sento n. 10273 del 20.5.1989 , rv 181825 e alter conformi). In
ogni caso, vi è richiamo alla motivazione della sentenza di primo grado e - secondo la
giurisprudenza di questa Corte -
«nella determinazione dell'entità della pena, il giudice
d'appello non è tenuto a reiterare l'indicazione degli elementi di cui all'articolo 133 c.p.,
dovendosi presumere che detta determinazione sia stata effettuata o riesaminata anche con
riguardo ad ogni elemento che risulti già acquisito agli atti o altrimenti indicato in sentenza».
(Cass. pen., sez. VI, 5 maggio 1988).
Peraltro, è giurisprudenza consolidata di questa Corte che, qualora la pena sia prossima ai
minimi edittali, non è necessaria motivazione. Per tutte si veda Casso Sez. 4 sento n. 41702 del
20.9.2004 , rv 230278: «La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo
edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo
compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 cod. peno Anzi,
non è neppure necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice
risulta contenuta in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale».
Quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, si deve in proposito rammentare
che, secondo l'orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di attenuanti
generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di
consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione
prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto
quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto
adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo,
per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile
profilo, l'affermata insussistenza. AI contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa
stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in
positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento
sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata
alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica
richiesta dell'imputato volta
all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del
rigetto di detta
richiesta,
senza
che ciò comporti
tuttavia
la stretta
necessità della
contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. (Cass.
Sez. 1/\ sento n. 11361 del 19.10.1992, rv 192381).
In ordine poi al profilo relativo alla mancata concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 n.4.
c.p., (l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio,
cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei
cv
delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque
conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia di
speciale tenuità), il motivo è palesemente infondato.
Invero, la concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, presuppone
necessariamente che il pregiudizio cagionato sia lievissimo, ossia di valore economico
pressoché irrilevante: ai fini dell'accertamento della tenuità del danno è, inoltre, necessario
considerare, oltre al valore in sé della cosa sottratta, anche il valore complessivo del
pregiudizio arrecato con l'azione criminosa, valutando i danni ulteriori che la persona offesa
abbia subìto in conseguenza della sottrazione della "res" (Cass. Sez. 5, sento n. 24003,
del
14/01/2014, Rv. 260201); evenienza quest'ultima che evidentemente non ricorre nella
fattispecie, anche in considerazione della natura plurioffensiva del reato di cui all'art. 474 c.p ..
5. Con il quinto motivo di ricorso (erroneamente indicato come n. 6) il difensore dell'imputato
lamenta violazione di legge per la mancata applicazione della particolare tenuità del fatto in
relazione all'art. 474 c.p.,
in quanto il modesto valore commerciale degli oggetti, il modesto
profitto inerente alla commercializzazione e le complessive modalità dell'azione avrebbero
dovuto imporre la concessione del beneficio in parola.
5.1 Il motivo è infondato.
E' ben vero che l'esclusione della punibilità per particolare tenuità
del fatto, di cui all'art. 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è quindi applicabile ai
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, compresi
quelli pendenti in sede di legittimità. Tuttavia, se la Suprema Corte può rilevare di ufficio ex
art. 609, comma secondo, c.p.p. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto
istituto, deve però limitarsi, attesa la natura del giudizio di legittimità, ad un vaglio di astratta
non incompatibilità della fattispecie concreta (come risultante dalla sentenza impugnata e dagli
atti processuali) con i requisiti ed i criteri indicati dal'art. 131-bis c.p. (Cass., Sez. 2, n. 41742
del 30/09/2015, Rv. 264596) .
Nel caso di specie, a ben vedere, pare evidente che non sussistano i presupposti per il
riconoscimento della causa di non punibilità, ostando al riguardo il fatto che, nella sentenza
d'appello, la condotta è stata considerata non episodica, né di modesto allarme; peraltro, va
considerata anche la natura plurioffensiva del reato ex art. 474 c.p ..
E comunque il motivo di ricorso in parola non risulta specifico, in quanto non puntualmente
correlato con la fattispecie concreta: in particolare, omette di svolgere specifiche deduzioni
circa la sussistenza dei presupposti applicativi dell'istituto, posto che l'art. 474 cod. peno tutela,
in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica,
intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere
dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare
del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, onde la lesività va considerata sotto i
cennati profili.
In secondo luogo, dalla sentenza impugnata emerge che trattasi di fatto non episodico (attesa
10
l'esistenza della precedente condanna riunita in continuazione con la presente) , né di modesto
allarme sociale (considerata la plurioffensività della fattispecie).
6. Parzialmente fondato appare invece il primo motivo di ricorso, che può accogliersi nei soli
limiti infra precisati.
6.1. Come accennato, con tale motivo di doglianza il difensore dell'imputato lamenta violazione
di legge in relazione all'art. 143 c.p.p. e violazione del diritto di difesa (richiamando l'art. 606,
comma 1, lett. b) e c) , c.p.p. , per i seguenti profili: premesso che trattasi di imputato
alloglotta, non solo la mancata traduzione integrale del decreto di citazione in giudizio,
compreso l'avviso della facoltà di richiedere il giudizio abbreviato, viola il diritto di difesa, ma
lo spirito dell'art. 143 c.p.p. mira a garantire l'effettività di tale diritto anche rispetto alla
sentenza di primo grado, al decreto di citazione nel giudizio di secondo grado, agli atti di
quest'ultimo grado e alla relativa sentenza che, dunque, debbono essere tutti tradotti per
mettere lo straniero imputato in condizione di esercitare il diritto all'autonoma impugnazione
previsto dall'art. 571 c.p.p., articolando motivi di gravame propri, magari anche in contrasto
con quelli del difensore.
6.2.
AI riguardo, va premesso che la sentenza di appello (pag. 4) espressamente riconosce
come dagli atti del procedimento (in particolare dal verbale di sequestro redatto in data
16.11.2006) risulti che l'imputato conosce poco la lingua italiana e non è in grado di leggere gli
atti redatti in italiano.
6.3 Va anche premesso che la Corte di appello, dopo aver fatto quel rilievo, ha respinto il
motivo di gravame relativo alla violazione del diritto dell'imputato ad avere la traduzione degli
atti rilevanti, all'epoca formulato con riferimento a quelli formati sino al primo grado di
giudizio, rilevando che la nullità derivante dal mancato rispetto dell'art. 143 c.p.p. è a regime
intermedio e dunque doveva ritenersi sanata, non avendo l'imputato dedotto o dimostrato di
averla tempestivamente eccepita (costante e conforme è la giurisprudenza di legittimità in tal
senso -fra le tante, Sez. III, 18 febbraio 2015, n. 14990, Rv. 263236-).
6.4. Come noto, in materia processuale , la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, nel
senso che, nella ricerca degli eventuali errores in procedendo (opportunamente denunciati con
specifico motivo di ricorso), occorre verificare, ex actis, l'osservanza della legge processuale
(Cass. Sez. U., n. 42792 del 31/10/2001, rv 220092) .
6.5. Nel caso di specie, la disamina delle scansioni temporali degli atti del procedimento e del
processo consente di accertare: - che la sentenza di primo grado è stata deliberata all'udienza
del 16.12.2011; -che l'estratto relativo alla stessa è stato notificato personalmente all'imputato
il 10.4.2012; -che l'atto di appello del difensore è stato depositato in data 11.5.2012; -che
l'atto di citazione per il giudizio di secondo grado è stato notificato all'imputato il 2.9.2013.
Trattasi, dunque, di attività tutte formatesi in epoca anteriore al 2 aprile 2014, data di entrata
in vigore del vigente testo dell'art. 143 c.p.p., introdotto con il D. Lgs. n. 32/2014 di
recepimento dei principi contenuti nell'art. 3 della direttiva 2010/64/UE.
·1"/-1
Il previgente testo dell'art. 143 c.p.p., prevedeva esclusivamente, nei confronti dell'imputato
alloglotta, la nomina dell'interprete al fine di poter comprendere l'accusa e di poter seguire lo
svolgimento degli atti e delle udienze cui partecipava.
Non si prevedeva, all'epoca, l'obbligo di traduzione della sentenza e dunque, correttamente, il
giudice dell'appello ha escluso la possibilità di rilevare la nullità derivante dalla omessa
traduzione degli atti introduttivi del giudizio di primo grado (decreto che dispone il giudizio) in
quanto, come imposto dall'art. 181 c.p.p., comma 3, non eccepita entro il termine previsto
dall'articolo 491 comma 1 c.p.p ..
Né si possono ipotizzare o ravvisare nullità relative alla mancata nomina dell'interprete nel
giudizio di primo grado, posto che l'imputato non ha partecipato allo stesso, rimanendo
contumace.
Né sussiste nullità rispetto alla mancata traduzione della sentenza di primo grado, posto che
l'atto è stato compiuto anteriormente all'entrata in vigore del vigente testo dell'art. 143 c.p.p.
e dunque in epoca nella quale tale obbligo non era normativa mente previsto.
Neppure può ritenersi che il diritto dell'imputato alla traduzione dell'atto in parola (la sentenza
di primo grado) fosse già direttamente derivante dall'art. 3, paragrafo 1, della direttiva
2010/64/UE (secondo cui il diritto alla traduzione si riferisce a "tutti i documenti che sono
fondamentali per garantire [agli imputati o indagati] che siano in grado di esercitare i loro
diritti di difesa e per tutelare l'equità del procedimento"), posto che l'art. 9 della direttiva
fissava il termine di recepimento al 27 ottobre 2013, momento successivo, come già detto, alla
adozione degli atti del primo grado di giudizio, come pure del decreto di citazione in appello
(che fissava la prima udienza del relativo grado al 17.10.2013) .
6.6. Va a questo punto ricordato che, con il D.Lgs. 04/03/2014, n. 32 , pubblicato nella Gazz.
Uff. 18 marzo 2014, n. 64 , è stato introdotto un nuovo testo dell'art. 143 c.p.p. , entrato in
vigore dal 2 aprile 2014 , del seguente letterale tenore :
«Articolo 143 (Diritto all'interprete e alla traduzione di atti fondamentali)
1. L'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente,
indipendentemente dall'esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere
l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle
udienze cui partecipa.
Ha altresì diritto all'assistenza gratuita di un interprete per le
comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare
una richiesta o una memoria nel corso del procedimento.
2. Negli stessi casi l'autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine
congruo tale da consentire l'esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell'informazione di
garanzia, dell'informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure
cautelari personali, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che
dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di
condanna.
3. La traduzione gratuita di altri atti o anche
5010
di parte di essi, ritenuti essenziali per
consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico, può essere disposta dal giudice,
anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza.
4. L'accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dall'autorità giudiziaria. La
conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.
5. L'interprete e il traduttore sono nominati anche quando il giudice, il pubblico ministero o
l'ufficiale di polizia giudiziaria ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da
interpretare.
6. La nomina del traduttore per gli adempimenti di cui ai commi 2 e 3 è regolata dagli articoli
144 e seguenti del presente titolo. La prestazione dell'ufficio di interprete e di traduttore è
obbligatoria.».
6.7 Come esplicitamente previsto dalla norma, è stato ora introdotto il diritto dell'imputato
alloglotta alla traduzione della sentenza. La previsione in esame costituisce all'evidenza
disposizione processuale, rispetto alla quale, in assenza di disposizioni transitorie, va applicato
il normale regime temporale di tali previsioni, e cioè il principio tempus regit actum.
6.8 Nel caso di specie la sentenza di appello è stata resa all'udienza del 28.1.2015 (data alla
quale si è pervenuti dopo che l'udienza del 17 ottobre 2013 era stata rinviata per adesione del
difensore all'astensione dalle udienze proclamata dall'Ordine degli avvocati di Lecce), all'esito
di un giudizio svoltosi nella contumacia dell'imputato.
6.9 Pacificamente risulta dagli atti che la sentenza di secondo grado non è stata tradotta nella
lingua dell'imputato e dunque sussiste, in relazione a tale atto, la violazione dell'art. 143 c.p.p.
nella sua nuova formulazione.
6.10. Fermo dunque l'obbligo di traduzione della sentenza, la violazione di tale obbligo deve
essere inquadrata nel sistema delle invalidità previsto dal nostro ordinamento processuale. AI
riguardo, mette conto rilevare come la mancata traduzione della sentenza nella lingua
comprensibile
all'imputato
alloglotta
non
pare
al
collegio
incidere,
in
effetti,
sulla
legittimità/validità della decisione, bensì soltanto sulla possibilità per l'interessato di attivare
avverso la stessa gli strumenti di reazione previsti dall'ordinamento, id est di proporre
impugnazione. La mancata traduzione non inficia di per sé la decisione, ma incide soltanto sui
termini per proporre impugnazione, dal momento che impedisce al diretto interessato di
prendere contezza delle ragioni che sono state poste a fondamento della condanna pronunciata
nei suoi confronti e, dunque, di esercitare appieno le sue prerogative difensive, che passano
anche attraverso il diretto accesso alle motivazioni, senza il filtro della difesa tecnica, così da
poter meglio valutare l'an ed il quomodo degli ulteriori sviluppi processuali. (cfr., Cass., sez.
sesta, n. 45457 del 29.9.2015).
L'omessa traduzione ha dunque quale unico effetto quello di sospendere o comunque
dilazionare il termine per proporre impugnazione in capo all'imputato, fintanto che questi non
abbia avuto compiuta conoscenza dell'atto in una lingua al medesimo accessibile. In tale senso
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si è del resto già pronunciata questa Corte, in relazione a fattispecie antecedente all'entrata in
vigore del nuovo testo dell'art. 143 c.p.p., là dove ha sancito che la mancata traduzione della
sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotta non integra un'ipotesi di nullità dell'atto ma,
se vi è stata specifica richiesta, i termini d'impugnazione decorrono dal momento in cui la
motivazione della decisione sia stata messa a disposizione dell'imputato nella lingua a lui
comprensibile (Sez. 1, n. 23608 del 11/02/2014, Rv. 259732).
Né dalla stretta correlazione fra la titolarità del diritto alla traduzione della decisione e
l'esercizio del potere autonomo dell'imputato di impugnazione ex art. 571 del codice di rito può
farsi discendere che il difensore non sia legittimato ad eccepire la violazione del diritto
spettante al proprio assistito alloglotta rispetto alla traduzione della sentenza, specie se -come
nella fattispecie- l'imputato resti del tutto silente, posto che quest'ultimo è rappresentato in
giudizio dal difensore e non è personalmente in grado di esercitare il diritto in parola proprio
per effetto della violazione della novellata previsione dell'art. 143 c.p.p. relativa alla traduzione
delle sentenze, dal momento che, ricevendo un atto in lingua che non legge e non comprende,
non può esigere il rispetto dell'obbligo di traduzione né esercitare il diritto di impugnare
personalmente la sentenza.
Neppure può richiedersi, al fine di ravvisare la specificità del motivo di ricorso in cassazione,
che il difensore indichi precisi profili di doglianza o specifiche ragioni di ricorso prospettabili
dall'imputato personalmente, proprio perché la mancata traduzione della sentenza nella lingua
nota all'imputato preclude a quest'ultimo il diretto esame dell'atto, l'effettiva comprensione
dello stesso e, dunque, la reale possibilità di addurre argomenti a difesa.
6.11. Così definito il perimetro della questione processuale che ci occupa, ritiene il Collegio che
nel caso in esame debba essere riconosciuta la violazione dei diritti difensivi dell'imputato con
specifico riguardo al diritto di ottenere la traduzione della sentenza di secondo grado nella
lingua a lui nota all'imputato, con rinvio alla Corte di Appello di Lecce perché provveda
all'adempimento e ai successivi incombenti previsti in relazione alla contumacia dell'imputato.
6.12 . Invero, una volta definiti, con la presente pronuncia, gli ulteriori motivi di ricorso
proposti dal difensore, non può consentirsi il passaggio in giudicato della sentenza di condanna
in esame se non sia stato previamente posto l'imputato in condizione di esercitare il diritto di
impugnazione personale riconosciutogli dall'art. 571 comma 1 c.p. p ..
6.13. AI riguardo, pare al collegio soccorrere la previsione dell'art. 175 comma 2 c.p.p., nella
formulazione ratione temporis applicabile al caso di specie ai sensi dell'art. 15 bis della legge
n. 67/2014, secondo cui «Se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di
condanna, l'imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od
opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del
provvedimento
e
abbia
volontariamente
rinunciato
a
comparire
ovvero
a
proporre
impugnazione od opposizione. A tale fine l'autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica».
6.14 Tale comma va letto alla stregua della sentenza n. 317/2009 della Corte Costo che l'ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente la restituzione
f
1\
dell'imputato,
che
non
abbia
avuto
effettiva
conoscenza
del
procedimento
o
del
provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel
concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata
proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.
Situazione di mancata effettiva conoscenza che deve ritenersi ricorrere anche nei casi, quale
quello in esame, nei quali sia stato violato il diritto ad ottenere la traduzione di un atto
contemplato dal novellato art. 143 c.p.p .. Con la conseguenza che, in presenza di istanza in
merito, l'imputato va posto nelle condizioni di esercitare il diritto alla impugnazione autonoma.
6.15 E' ben vero che la precedente giurisprudenza di questa Corte aveva affermato che "Gli
autonomi diritti di impugnazione attribuiti all'indagato (o all'imputato) e ai difensori trovano
precisi limiti al loro collegato esercizio, da una parte nell'attualità di decorrenza del termine,
dall'altra nell'intervento del provvedimento sollecitato comunque da uno degli aventi diritto. Ed
invero, per il principio dell'unicità del diritto all'impugnazione, una volta che il gravame sia
stato proposto da uno qualsiasi dei soggetti legittimati (indagato o imputato ovvero suo
difensore) e che su di esso sia intervenuta la decisione di merito, detto diritto, avendo
conseguito il suo effetto, si è consumato, onde ne è precluso l'ulteriore esercizio che, essendo
funzionalmente diretto a un
risultato
in
favore
dell'indagato
(o
imputato)
e non al
conseguimento di un interesse pertinente al solo difensore, non può essere reiterato in
presenza di una decisione che ha provveduto sull'impugnazione altrimenti proposta": ex
plurimis Casso 4561/1999 riv 214034; Casso 19835/2006 riv 234655, confermate dalle SS.UU
che, con la sentenza n. 6026/2008 riv 238472, hanno affermato il seguente principio di diritto
"L'impugnazione proposta dal difensore, di fiducia o di ufficio, nell'interesse dell'imputato
contumace (nella specie latitante), preclude a quest'ultimo, una volta che sia intervenuta la
relativa decisione, la possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre a sua volta
impugnazione. (In motivazione, la S.c. ha osservato che l'astratta configurabilità di una
duplicazione di impugnazioni, promananti le une dal difensore, e le altre dall'imputato,
rappresenterebbe una opzione palesemente incompatibile con l'esigenza di assegnare una
"ragionevole durata" al processo, sulla base di quanto imposto dall'art. 111 Costo e dall'art. 6
della
Convenzione
europea
dei
diritti
dell'uomo
e
delle
libertà
fondamentali)".
6.16. Sennonché, il principio dell'unicità dell'impugnazione è stato messo definitivamente in
crisi dalla sentenza n. 317/2009 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato, come già
accennato, l'illegittimità costituzionale dell'art. 175 c.p.p., comma 2 nella parte in cui non
consente
la
restituzione dell'imputato,
che
non
abbia
avuto
effettiva conoscenza
del
procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza
contumaciale, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore
dello stesso imputato. Il giudice delle leggi, nella motivazione della sentenza in parola,
prendendo direttamente in esame la disciplina vigente e, soprattutto, la giurisprudenza di
legittimità, anche a SS.UU. -che, nel ribadire il principio dell'unicità del diritto di impugnazione,
aveva creato un vero e proprio "diritto vivente" dal quale non si poteva prescindere-
ha
rammentato che "la valutazione della questione di legittimità costituzionale concernente l'art.
175 c.p.p., comma 2, doveva essere condotta in riferimento congiunto ai parametri di cui
all'art. 117, comma 1 -in relazione all'art. 6 CEDU, quale interpretato dalla Corte di
Strasburgo- art. 24 Costo e art. 111 Cost., comma 1, ( ... ), giungendo alla conclusione che
(par. 9 della parte motiva) non possono essere richiamati, per convalidare la legittimità
costituzionale della norma censurata, i principi dell'unicità del diritto all'impugnazione e del
divieto di bis in idem, da cui non possono essere tratte conclusioni limitative di un diritto
fondamentale, il cui esercizio non può essere sottratto al suo titolare, che può essere sostituito
solo nei limiti strettamente necessari a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo e non deve
trovarsi di fronte all'effetto irreparabile di una scelta altrui, non voluta e non concordata,
potenzialmente dannosa per la sua persona. Il principio di diritto tratto dalla suddetta sentenza
è il seguente: il diritto di impugnazione attiene alla sfera del diritto di difesa dell'imputato e
non può ritenersi consumato dall'esercizio del parallelo diritto d'impugnazione che spetta al
difensore ne' può essere limitato dal divieto del bis in idem.
6.17 Così ricostruiti i citati insegnamenti, anche al fine di prevenire la formazione di un
giudicato che potrebbe essere successivamente messo in crisi da una successiva impugnazione
dell'imputato
che
autonomamente
dovesse
la
lamentare
sentenza
per
la
violazione
effetto
della
del
mancata
proprio
diritto
traduzione
ad
della
impugnare
stessa,
in
considerazione della infondatezza delle ulteriori deduzioni del difensore, delle ragioni sopra
esposte circa la reale portata del vizio rilevato -non inerente la sentenza in sé ma solo un
adempimento successivo alla stessa- e delle tipologie di provvedimenti di cui questa Corte
dispone, va pronunciato l'annullamento dell'atto impugnato per il solo profilo della omissione
della traduzione della sentenza.
6.12. Può essere formulato il seguente principio di diritto:
"L'omessa traduzione della sentenza nella lingua conosciuta dall'imputato alloglotta avente
diritto alla traduzione della stessa impedisce il passaggio in giudicato della pronuncia in quanto
ha
l'effetto di
sospendere il termine
per proporre
impugnazione
personale da
parte
dell'imputato fintanto che questi non abbia avuto compiuta conoscenza dell'atto in una lingua
al medesimo accessibile" .
6.18. Decorso il termine in parola, in difetto di impugnazione personale da parte dell'imputato,
la sentenza diverrà definitiva.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla omessa traduzione e rinvia alla Corte di
Appello di Lecce per l'adempimento.
Così deciso in Roma il giorno 11 marzo 2016