Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
Tullio Avoledo
riscrive
LE BARUFFE CHIOZZOTTE
di Carlo Goldoni
grandi classici bur
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-06803-1
Prima edizione Grandi Classici BUR giugno 2014
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
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Alma, a quien todo un Dios prisión ha sido,
Venas, que humor a tanto fuego han dado,
Médulas, que han gloriosamente ardido,
Su cuerpo dejará, no su cuidado;
Serán ceniza, mas tendrá sentido;
Polvo serán, mas polvo enamorado.
Francisco de Quevedo y Villegas
A mio padre.
PREFAZIONE IN FORMA DI RACCONTO
La Compagnia del Solletico
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UNA NOTTE BUIA E TEMPESTOSA
La pioggia sferza i muri del vecchio magazzino con la
rabbia di una sassaiola.
I lampi illuminano un malandato palcoscenico, rivelando presenze inquietanti: figure mascherate, nascoste
nell’ombra e rivelate per qualche istante da quelle improvvise scariche di luce.
Nasi a becco.
Musi mostruosi.
Orbite vuote.
Cappelli a tricorno che proiettano sul muro ombre di
uccelli rapaci.
In un angolo del magazzino, il drago sulla polena di
una nave vichinga sembra animarsi.
Incorniciate dalla luce di un fulmine, due sagome nere
appaiono dietro i vetri della porta d’ingresso. Dita armeggiano frettolose con la serratura.
La porta si apre.
Nello stanzone entrano un ragazzo e una ragazza.
Dietro di loro un muro d’acqua. Chiudono in fretta, come se fossero inseguiti.
«Porca miseria, mi sono lavata come un’anatra.»
Anna si scrolla di dosso la giacca a vento, lanciandola
su una sedia. I jeans sono zuppi di pioggia, e anche il maglione non è messo meglio.
Francesco è altrettanto bagnato.
«Scusami, non trovavo le chiavi. E poi anche tu potevi
tenere meglio l’ombrello.»
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Anna sbuffa, guardandolo con aria di sfida. «È colpa
mia se quello schifo cinese si è rotto?»
«Colpa di chi, se no? Era tuo.»
«Almeno io ce l’avevo, l’ombrello. Accendi la luce,
dai. Senti che freddo. Si gela.»
Francesco ha un’idea solo approssimativa di come si
accendano le luci del magazzino. Aiutandosi con la fiamma di un cerino trova l’interruttore.
Lo preme.
Niente.
«Aspetta, che cerco il quadro generale.»
Quando lo trova, si accorge subito che il salvavita è
saltato, probabilmente per un fulmine. Fa scattare la levetta e i lunghi neon del soffitto ronzano e dopo un po’ si
accendono.
«Finalmente» sbuffa Anna.
Poi si guarda intorno con aria di disapprovazione.
«E questo lo chiami teatro?»
Non è la prima volta nel corso della serata che Francesco si pente di essersi offerto volontario per portare
Anna alle prove. La ragazza è davvero una rottura. Per
essere bella è bella, ma non gliene va bene una. Ha storto il naso quando lui le ha proposto una pizza, e una volta nel locale si è lamentata praticamente di tutto. E finita
la cena il riscaldamento dell’auto era troppo alto, e poi
troppo basso, e la cintura era bloccata e non veniva giù…
Francesco, allungando la mano, le aveva mostrato che
la cintura funzionava benissimo.
Ma non era servito.
In auto c’era odore di fumo, andava troppo piano, i
tergicristalli non funzionavano bene e i vetri erano appannati...
Se te ne stessi un po’ zitta si appannerebbero di meno,
avrebbe avuto voglia di gridarle Francesco. Ma si era
trattenuto. Avevano assoluto bisogno di un’altra attrice e
il tempo non era più molto.
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Mission Impossible, l’aveva definita Andrea.
«Sicché cosa dovrei fare, io?» gli aveva chiesto a tavola,
scartando via con il dorso del coltello un po’ di pomodoro dalla fetta di pizza.
«Orsetta.»
«Stai scherzando? Io non faccio un’orsa. Che cavolo
state provando, Winnie The Pooh?»
Sorridendo, Francesco aveva scosso la testa. «Orsetta
è una ragazza. Anzi, una fanciulla, come scrive Goldoni.»
Anna aveva messo su un’espressione poco convinta,
ma almeno non aveva insistito con le proteste.
«Ma non c’è il riscaldamento, qui dentro?»
«C’è una stufa. Ma si vede che nessuno l’ha accesa.»
Francesco va ad aprire lo sportello di una stufa tonda
in ghisa, di un modello vecchio di almeno ottant’anni.
Guarda dentro.
«L’esca c’è, e non sembra umida.»
Tira fuori di nuovo la scatola di fiammiferi. Apre lo
sportellino in basso e dà fuoco alla carta di giornale che
qualcuno aveva già predisposto sotto i legnetti dell’esca.
Il solito Andrea: l’eterno boy scout, sorride Francesco.
Ci vogliono tre cerini perché la carta e poi la legna
prendano e un fuoco crepitante cominci ad arrossare la
pancia della stufa.
Un sacco di fumo esce dal tubo in alto, facendoli tossire. Francesco regola il tiraggio e il fuoco acquista vigore.
Presto la fiamma è abbastanza stabile da bruciare anche la
legna più grossa, che il ragazzo infila con parsimonia nella
stufa, prendendola da una piccola pila contro il muro.
«Vedrai che in pochi minuti qui farà un bel caldo.»
Sposta due sedie accanto al fuoco.
Sullo schienale di una mette ad asciugare la giacca a
vento di Anna, sull’altra appende il suo montgomery.
«Sono bagnata stonfa.»
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«Lo vedo.»
«Magari potresti mettere anche me ad asciugare su
una sedia.»
Per un attimo quell’immagine entra nella testa del ragazzo, facendolo sorridere.
«Cos’è che hai da ridere?»
«Niente. Non sto ridendo.»
«Sì che stai ridendo.»
«No.»
Anna scuote la testa, brontolando qualcosa a bassa voce.
La pioggia fuori non si sogna di cessare. I tuoni percuotono il capannone vuoto come una grancassa.
La ragazza si guarda intorno con aria scettica.
«Cosa sarebbe, di suo, questo posto?»
«Qui è dove preparano i carri per il carnevale.»
«Tipo quello?» fa lei, indicando un carro di tre anni
prima, parzialmente smantellato per recuperare alcuni
pezzi e riciclarli in un carro nuovo.
Una sirena tagliata a metà rivela l’imbottitura interna
di polistirolo. Nettuno la fissa con sguardo lascivo, ma il
suo fascino regale è irrimediabilmente rovinato da una
crepa che gli attraversa una guancia.
«Mamma mia, che schifo» commenta Anna.
Il palcoscenico di assi grezze scricchiola sotto i suoi
passi. Le Clarks bagnate lasciano impronte precise come
quelle che nei manuali di ballo mostrano i passi per il cha
cha cha o la rumba.
«Una volta qui c’era una fabbrica» spiega il ragazzo.
«Poi è fallita, ma Andrea aveva ancora le chiavi. Lui e gli
altri dei carri sono venuti una volta, poi un’altra, e nessuno ha detto niente. È quasi cinque anni che ci vengono e
non è mai successo niente.»
«Ci saranno stati i sigilli, no? Non mettono i sigilli,
quando una fabbrica fallisce?»
«Magari c’erano» alza le spalle Francesco.
«Magari c’erano» ripete lei, imitandolo. «Certo che
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vale proprio la pena di rischiare la galera, per una reggia
così.»
Batte il piede sulle assi mal connesse, e una nuvola di
polvere si leva come fumo in un numero di magia.
Purtroppo, quando la polvere si posa, lei è ancora lì,
constata il ragazzo, sospirando.
Anna fa il broncio.
«Dove sono gli altri? Siamo noi in anticipo o loro in
ritardo? O tutte e due le cose?»
«Tutte e due le cose.»
Lei si mette le mani dietro la schiena. Cammina su e
giù per il palco, con un’allure da attrice.
Poi si volta di scatto, puntando l’indice contro Francesco.
«Se non arrivano entro cinque minuti mi riaccompagni a casa.»
«Arriveranno. Se non saranno proprio cinque minuti,
magari saranno dieci...»
«Cinque minuti. Punto e basta.»
Prima che Francesco possa replicare, la ragazza va in
fondo al palcoscenico, dove i costumi di scena stanno appesi a un attaccapanni e sembrano sentinelle del buio che
si intravede dietro la pesante tenda di velluto rosso.
«La tenda l’abbiamo presa in un cinema» fa il ragazzo
con orgoglio.
«Ma non mi dire. Pensavo che venisse dal castello del
Conte Dracula.»
Lui fa una smorfia, offeso. È tutta la sera che la stronzetta cerca di farlo arrabbiare. Francesco deve ammettere che in questo è piuttosto brava. Se non fosse così bella,
ma soprattutto se non avessero così disperatamente bisogno di una brava attrice, l’avrebbe già mandata al diavolo
da un pezzo.
Fissa il vapore che le esce dalla bocca, nel gelo dello
stanzone.
«Non puoi chiamarli, i tuoi amici?» sbuffa lei.
«Qui dentro non c’è campo.»
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