Sesamo X - SeSaMO Italia

Transcript

Sesamo X - SeSaMO Italia

P
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S
(A
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A
C
T
S)
Sesamo
X
X
Convegno
della
Società
per
gli
Studi
sul
Medio
Oriente
Milano,
9‐11
giugno
2011
Università
degli
Studi
di
Milano
Bicocca
Memorie
con‐divise.
Popoli,
stati
e
nazioni
nel
Mediterraneo
e
in
Medio
Oriente
Comitato
scientifico:
Paolo
Branca,
Lorenzo
Casini,
Mirella
Cassarino,
Eugenia
Ferragina,
Daniela
Melfa,
Marcella
Simoni,
Lucia
Sorbera,
Alberto
Tonini
Comitato
organizzativo:
Paolo
Branca,
Domenico
Copertino,
Daniela
Melfa
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Edificio
U6
–
Piazza
dell’Ateneo
Nuovo
1
Giovedì
9
giugno
SESSIONE
1:
17.00‐19.00
Panel
1
(AULA
11)
Il
paradigma
barbarico
Paolo
Branca
(Coordina)
‐
Massimo
Guidetti
(Jaca
Books,
Discute)
“Quelle
razze
che
vivevano
porta
a
porta
da
secoli
non
avevano
avuto
mai
né
il
desiderio
di
conoscersi,
né
la
dignità
di
sopportarsi
a
vicenda.
I
difensori
che,
stremati,
a
tarda
sera
abbandonavano
il
campo,
all’alba
mi
ritrovavano
al
mio
banco,
ancora
intento
a
districare
il
groviglio
di
sudicerie
delle
false
testimonianze;
i
cadaveri
pugnalati
che
mi
venivano
offerti
come
prove
a
carico,
erano
spesso
quelli
di
malati
e
di
morti
nei
loro
letti
e
sottratti
agli
imbalsamatori.
Ma
ogni
ora
di
tregua
era
una
vittoria,
anche
se
precaria
come
tutte;
ogni
dissidio
sanato
creava
un
precedente,
un
pegno
per
l’avvenire.
M’importava
assai
poco
che
l’accordo
ottenuto
fosse
esteriore,
imposto,
probabilmente
temporaneo;
sapevo
che
il
bene
e
il
male
sono
una
questione
d’abitudine,
che
il
temporaneo
si
prolunga,
che
le
cose
esterne
penetrano
all’interno,
e
che
la
maschera,
a
lungo
andare,
diventa
il
volto.
Dato
che
l’odio,
la
malafede,
il
delirio
hanno
effetti
durevoli
non
vedo
perché
non
ne
avrebbero
avuti
anche
la
franchezza,
la
giustizia,
la
benevolenza.
A
che
valeva
l’ordine
alle
frontiere
se
non
riuscivo
a
convincere
quel
rigattiere
ebreo
e
quel
macellaio
greco
a
vivere
l’uno
a
fianco
all’altro
tranquillamente?”
(M.
Yourcenar,
Memorie
di
Adriano)
Nel
corso
della
storia,
che
non
si
ripete
mai
ma
spesso
ripresenta
problematiche
simili,
la
percezione
di
altri
popoli
come
invasori,
elementi
estranei,
minacciosi
e
perniciosi
è
una
delle
costanti
più
evidenti.
Specie
in
periodi
di
crisi
economico‐politica,
di
debolezza
delle
istituzioni
e
di
disorientamento
generalizzato,
la
pressione
alle
frontiere
o
la
presenza
di
minoranze
non
trascurabili
ha
innescato
reazioni
emotive
colorate
delle
tinte
più
fosche,
talvolta
persino
apocalittiche.
Il
panel
si
propone
di
analizzare
come
in
alcuni
momenti
salienti
dell'evoluzione
storica
d'Occidente
e
d'Oriente,
voci
diverse
si
siano
levate
sia
per
denunciare
I
gravi
rischi
che
di
volta
in
volta
si
temevano,
ma
anche
per
segnalare
inedite
opportunità
di
integrazione
e
di
rinnovamento,
in
una
dialettica
pluralistica
e
variegata
che
ripercorrere
oggi
può
risultare
stimolante
e
utile,
di
fronte
alle
sfide
che
la
nostra
epoca
si
trova
ad
affrontare.
• Paolo
Branca
(Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore),
Girolamo
Pugliesi
(Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore),
Occidente
e
Oriente,
narrative
a
confronto
All'affacciarsi
di
nuovi
popoli,
sopratutto
quando
questi
per
numero
e
forza
assumono
un
ruolo
decisivo
all'interno
di
una
compagine
socio‐politica
determinata,
si
assiste
all'emergere
di
un
dibattito
tra
chi
guarda
con
favore
all'inserimento
di
queste
nuove
forze
e
chi
invece
le
considera
una
minaccia.
Come
nel
periodo
delle
invasioni
barbariche
nel
periodo
della
decadenza
dell'impero
romano,
così
in
quello
abbaside
troviamo
osservazioni
e
giudizi
sui
turchi
spesso
analoghi
a
quelli
che
sono
stati
espressi
a
proposito
dei
barbari
in
Occidente.
Più
in
generale
a
un
'noi'
variamente
inteso
si
oppone
un
'loro'
altrettanto
omologante
e
pregiudiziale
che
il
corso
della
storia
s'incarica
puntualmente
di
smentire
attraverso
molteplici
forme
di
adattamento
reciproco.
• Antonio
Cuciniello
(Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore),
Gog
e
Magog
tra
storia
ed
escatologia
«Il
timore
di
essere
sopraffatti
e
distrutti
da
orde
barbariche
è
vecchio
come
la
storia
della
civiltà.
Immagini
di
desertificazione,
di
giardini
saccheggiati
da
nomadi
e
di
palazzi
in
sfacelo
nei
quali
pascolano
le
greggi
sono
ricorrenti
nella
letteratura
della
decadenza
dall’antichità
fino
ai
giorni
2
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
nostri»
(Wolfgang
Schivelbusch,
2006).
In
questo
quadro,
se
fosse
possibile
abbozzare
una
mappa
della
coscienza
storica
collettiva,
un
posto
d'onore
sarebbe
da
riservare
a
Gog
e
Magog.
Leggendari
popoli
dell’Asia
centrale
la
cui
collocazione
territoriale
fu
fantasticamente
definita
anche
in
varie
opere
cartografiche
medioevali,
come
quelle
di
Ebstorf
e
di
Hereford,
sono
riscontrabili
sia
nella
tradizione
biblica
sia
in
quella
coranica.
Spesso
rappresentati
come
selvaggi
e
sanguinari,
in
varie
epoche
furono
identificati
con
diversi
popoli
(Sciti,
Unni,
Goti,
Mongoli,
Khazari,
Alani,
Tartari,
Turchi,
Ungari,
Avari),
a
seconda
delle
minacce
che
di
volta
in
volta
si
presentavano
nel
corso
della
storia.
Nello
Pseudo‐Efrem,
un
sermone
sulla
fine
del
mondo
scritto
nel
V
secolo,
si
narra
che
Alessandro
Magno
(rappresentato
nella
sura
18
del
Corano)
fu
talmente
spaventato
da
questi
popoli
immondi
e
antropofagi
che
ostruì
l’accesso
all’Occidente
facendo
costruire
una
robusta
barriera
di
ferro
tra
due
grandi
montagne.
Di
questa
barriera
si
parla
anche
nei
versi
di
Giovanni
Pascoli
(Poemi
Conviviali
–
Gog
e
Magog,
1904)
«Ché
tra
due
monti
grande
era,
di
rosso
bronzo,
una
porta;
grande
sì,
che
l’ombra
ne
trascorreva
all’ora
del
tramonto
mezza
la
valle»;
secondo
le
fonti
islamiche,
reggerà
fino
alla
fine
dei
tempi,
quando
Gog
e
Magog
imperverseranno
sulla
terra
dove
semineranno
terrore
e
distruzione,
prima
di
essere
annientati
dal
fuoco
che
gli
pioverà
addosso
dal
cielo.
• Davide
Tacchini
(Hartford
Seminary/Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore),
America
barbara
e
infedele,
il
diario
americano
di
Sayyid
Qutb
As
the
west
struggles
to
get
to
grips
with
its
newest
enemy,
pundits,
scholars
and
journalists
have
combed
every
inch
of
Osama
bin
Laden’s
life
story
for
clues
to
what
turned
an
apparently
quiet
and
unexceptional
rich
Saudi
boy
into
the
world’s
most
feared
terrorist.
But
the
most
useful
insights
into
the
shaping
of
Bin
Laden
may
lie
not
in
the
rugged
mountains
of
Afghanistan,
or
the
rampant
materialism
of
1970s
Saudi
Arabia,
but
the
biography
of
a
long
dead
Egyptian
fundamentalist
scholar
called
Sayyid
Qutb.
(Robert
Irwin,
The
Guardian,
1
Novembre
2001)
Sayyid
Qutb
è
stato
il
principale
ideologo
del
cosiddetto
islamismo
radicale
ed
il
suo
pensiero
non
solo
ha
gettato
le
basi
per
il
moderno
antiamericanismo
di
matrice
islamica
(che
poi
troverà
nuova
linfa
da
avvenimenti
successivi,
ahimè
a
noi
ancora
terribilmente
vicini),
ma
rappresenta
la
figura
che
maggiormente
ha
rafforzato,
negli
estremismi
dei
giorni
nostri,
la
percezione
secondo
cui
l’Islam
è
attaccato
da
una
cospirazione
internazionale
guidata
dagli
americani
e
dai
sionisti.
Fra
il
1948
ed
il
1950
trascorse
quasi
due
anni
negli
Stati
Uniti
d’America.
Contrariamente
a
quanto
sperava
l’intellighenzia
egiziana
dell’immediato
dopoguerra,
l’esperienza
oltreoceano
lo
riavvicinò
all’Islam
e,
poco
tempo
dopo,
lo
spinse
ad
aderire
ai
Fratelli
Musulmani.
L’America
che
ho
visto
è
una
sorta
di
diario
del
soggiorno
negli
USA
di
Qutb
fra
il
1948
e
il
1950.
Contiene
interessanti
riflessioni
ed
impressioni
su
alcuni
aspetti
della
società
americana
e
sui
suoi
valori
dominanti.
Acute
osservazioni
coesistono
con
ingenuità
e
palesi
inesattezze.
I
temi
che
vengono
affrontati
sono
spesso
ricorrenti
(anche
la
terminologia
utilizzata
lo
è)
e
sono
incentrati
su
aspetti
quali
il
contrasto,
agli
occhi
dell’autore,
stridente,
fra
la
grandezza
nella
scienza
applicata
in
America
e
il
primitivismo
spirituale
e
morale
degli
americani,
l’ammirazione
per
la
forza
fisica
e
per
la
guerra
del
popolo
statunitense,
la
considerazione
della
morte
diffusa
oltreoceano,
il
ruolo
della
religione
e
della
Chiesa
nella
società,
la
morale
sessuale,
etc.
È
indubbio
che
l’ideologia
qutbiana
sia
ancora
oggi
un
punto
di
riferimento
per
la
maggioranza
dei
movimenti
islamisti
contemporanei,
in
diverse
zone
del
mondo
islamico.
L’importanza
di
Amrīkā
allatī
ra’aytu
(l’America
che
ho
visto)
nella
formazione
del
pensiero
di
Sayyid
Qutb
è
fondamentale.
Uno
degli
intellettuali
più
seguiti
dai
leaders
di
quei
movimenti
considerati
responsabili
dei
terribili
attacchi
terroristici
degli
ultimi
decenni,
che
le
amministrazioni
americane
hanno
definito
a
più
riprese
come
il
male
assoluto,
coloro
che
hanno
dichiarato
guerra
all’America,
etc.
deve,
dunque,
parte
consistente
della
radicalizzazione
del
proprio
pensiero
ad
un
soggiorno
negli
Stati
Uniti.
• Beatrice
Nicolini
(Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore),
Dall’Arabia
all’Africa:
dall’‘L’Impero
informale’
all’ossessione
per
il
‘controllo’
“…
The
Imaum
of
Muscat
has
extensive
possessions
in
Africa
…”,
John
Croft
Hawkins
(1798‐1851),
Capitano
dell’Indian
Navy,
il
21
giugno
1842
così
iniziò
il
suo
Memoranda
sulla
situazione
delle
coste
orientali
africane.
Tale
rapporto
era
destinato
all’Amministrazione
anglo‐indiana
sia
nei
presidi
3
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
dell’India
(Bombay
e
Calcutta),
sia
a
Londra.
E
tra
gli
scopi
di
queste
e
altre
numerose
indagini
e
rapporti
vi
era
la
necessità
da
parte
della
Gran
Bretagna
di
identificare
autorità,
poteri
e
leadership
che
potessero
consentire
la
stabilizzazione
di
ciò
che
fu
definito
‘l’Impero
informale’.
Copiosa
letteratura
su
tali
argomenti
specifica
la
presenza
di
porti,
di
isole
e
di
interi
litorali
est‐africani
nelle
mani
di
gruppi
arabi
che
ne
‘controllavano’
‐
o
meglio,
avrebbero
dovuto
controllare
‐
anche
i
movimenti
marittimi.
Questi
movimenti
riguardavano
principalmente
i
commerci
e
la
tratta
degli
schiavi.
E
su
tali
specificazioni
vorremmo
aprire
in
questa
sede
alcuni
spunti
di
ricerca.
In
un
‘nastro
culturale’
come
le
coste
dell’Africa
orientale,
identificate
dale
documentazioni
dell’epoca
da
Capo
Guardafui
a
Cabo
Delgado,
s’impongono
alcune
brevi
riflessioni.
Le
navigazioni
furono
molto
più
ampie
di
quanto
si
possa
supporre:
i
porti
dell’India
occidentale
furono
connessi
con
il
Golfo
Persico/Arabico,
con
la
Penisola
Arabica
e
con
il
Corno
d’Africa
e
con
le
isole
est‐africane.
Entro
tale
quadro,
le
identità
arabe
in
Africa
orientale,
pretese
o
reali,
rappresentano
uno
dei
temi
cruciali
per
una
miglior
comprensione
della
successione
dei
poteri
lungo
le
coste
dell’Africa
orientale.
A
questo
riguardo
si
ritiene
indispensabile
non
seguire
solamente
i
processi
di
dominazione.
Le
leadership
arabo‐omanite
furono
progressivamente
‘costruite’,
in
epoca
contemporanea
soprattutto
dalle
autorità
britanniche
anche
per
consentire
la
creazione
d’autorità,
e
di
poteri
politico‐militari
che
probabilmente
mai
esistettero,
e
non
solo
secondo
le
concezioni
occidentali.
Qui
riteniamo
ebbe
inizio
la
‘costruzione’
del
mito,
la
nascita
del
potere
della
dinastia
degli
Yaribah
(secoli
XVII‐XVIII)
prima
e
dei
Bu
Sa’id
(secoli
XIX‐XX)
poi
dell’Oman
in
Africa
orientale.
Il
loro
potere
fu
un
potere
anche
militare,
rafforzato
da
superiorità
tecnologiche
e
dal
commercio
delle
armi.
Nondimeno,
non
fu
mai
un
‘controllo’,
un
reale
‘dominio’,
un
concreto
‘possedimento’.
I
Bu
Sa’id,
e,
in
particolare
il
loro
esponente
più
‘glorioso’
Sa’id
bin
Sultan
Al
Bu
Sa’id
(1791‐1856),
si
posero
a
capo
di
tale
supposta
ripartizione
del
potere
arabo
‐
grazie
anche
alla
superiorità
etnico‐religiosa
poiché
si
è
ibaditi
solo
per
nascita,
non
per
conversione
‐,
non
certo
priva
di
conflittualità.
Le
comunità
asiatiche
avrebbero
dovuto
rappresentare
la
forza,
sia
militare,
sia
economico‐finanziaria
delle
leadership
omanite.
Tali
gruppi
erano
famosi
nei
resoconti
europei
per
la
loro
aggressività,
crudeltà
e
coraggio
e,
sempre
secondo
tali
fonti,
gli
arabi
stanziatisi
in
Africa
ribadivano
il
loro
tradizionale
attaccamento
ad
essi,
ritenuti
militarmente
più
affidabili
del
mercenariato
arabo.
La
dinastia
omanita
dei
Bu
Sa’id
‘s’impose’
su
tale
ampio
raggio
di
collegamenti
in
Africa
orientale,
godendo
delle
funzioni
mediatrici
e
dei
prestiti
delle
varie
comunità
mercantili
asiatiche
presenti
in
Africa
ed
ampiamente
inserite
nelle
realtà
regionali
africane.
E
proprio
l’emergere
di
una
‘potente’
élite
legata
al
potere
politico
da
un
lato,
e
in
contatto
con
le
popolazioni
autoctone
dall'altro,
fu
l’origine
dello
‘splendore’
commerciale
dei
litorali
est
africani
durante
una
fase
definita,
appunto
di
‘dominio’
e
di
‘controllo’
da
parte
dei
sultani
omaniti.
Nulla
di
più
inesatto
e
obsoleto.
Panel
2
(AULA
12)
“It’s
a
Celebration…”.
Celebrazioni
dell’indipendenza
e
dinamiche
di
inclusione
e
di
esclusione
nel
Medio
Oriente
contemporaneo.
I
Francesco
Mazzucotelli,
Paolo
Maggiolini
(Coordinano)
‐
Lucio
Caracciolo
(Limes,
Discute)
Come
più
volte
osservato
in
letteratura
(Louër
2008),
gli
eventi
storici
che
hanno
portato
alla
formazione
degli
stati
nazionali
in
ambito
arabo
sono
spesso
amplificati
in
veri
e
propri
miti
fondativi
che
non
solo
strutturano
una
memoria
collettiva
più
o
meno
condivisa,
ma
anche
imprimono
un
segno
accentuato
sulle
relazioni
tra
centri
e
periferie
e,
talvolta,
anche
sull’organizzazione
formale
dei
diritti
di
cittadinanza
e
delle
forme
della
partecipazione
politica.
Attraverso
lo
studio
di
alcuni
di
questi
miti
fondativi
(partendo
da
una
serie
di
casi
specifici,
quali
Giordania,
Kuwait
e
Bahrain),
il
gruppo
di
studio
intende
approfondire
mediante
quali
forme
e
canali
le
pratiche
celebrative
e
la
memoria
storica
degli
eventi
che
hanno
condotto
all’indipendenza
“nazionale”
(o
meglio,
alla
proclamazione
di
stati
nazionali)
continuino
a
delineare
possibili
traiettorie
di
appartenenza
e
di
esclusione,
di
prossimità
e
di
lontananza
dai
centri
di
potere
politico
e
sociale,
di
identificazione
e
di
alterità.
Studiare
le
narrative
storiche
e
le
pratiche
celebrative
nello
spazio
pubblico
relative
alla
proclamazione
degli
stati
nazionali
dovrebbe
permetterci
di
articolare
una
serie
di
considerazioni
relative
alle
dinamiche
di
inclusione
e
di
contrapposizione
identitaria
e
politica.
4
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Si
vuole
richiamare
una
particolare
attenzione
alle
modalità
attraverso
cui
le
ricorrenze
e
gli
anniversari
dell’indipendenza
acquisiscono
un
rilievo
rituale,
attraverso
cui
i
regimi
esistenti
celebrano
se
stessi,
equiparando
la
fedeltà
o
la
quiescenza
politica
con
la
lealtà
alla
“nazione”
e
con
la
sua
“unità”;
e
al
medesimo
tempo
come
attori
politici
concorrenti
possono
utilizzare
le
stesse
ricorrenze
per
legittimare
la
propria
opposizione
e
il
proprio
rigetto
degli
assetti
esistenti.
Il
gruppo
di
studio
include
sia
una
dimensione
storica
e
storiografica,
nella
quale
sono
benvenuti
i
contributi
e
le
analisi
che
prendono
in
considerazione
le
narrative
storiche
locali
condivise
e
concorrenti,
la
produzione
e
la
circolazione
di
memorie
e
narrative
e
le
arene
di
trasmissione
di
questi
costrutti
discorsivi,
sia
una
dimensione
antropologica,
nella
quale
sono
ricomprese
le
osservazioni
e
gli
studi
sul
campo
delle
pratiche
celebrative,
delle
forme
di
partecipazione
che
esse
generano
e
dei
rapporti
che
esse
intessono
con
gli
spazi
pubblici.
• Arturo
Marzano
(Università
di
Pisa,
Paris
II),
Celebrare
il
1948
in
Israele:
simboli,
pratiche
e
costruzione
dell’identità
nazionale
Il
presente
intervento
si
pone
l’obiettivo
di
analizzare
il
modo
in
cui
lo
Stato
di
Israele
ha
nel
corso
degli
anni
commemorato
la
propria
indipendenza,
avvenuta
nel
1948.
Partendo
dalle
ragioni
che
portarono
il
parlamento
israeliano
a
identificare
il
5
del
mese
di
iyar
come
Yom
ha‐‘Atzmaut
(Giorno
dell’Indipendenza),
verranno
esaminate
la
simbologia
e
la
ritualità
che
hanno
fatto
da
sfondo
alle
celebrazioni
del
1948
nei
primi
anni
di
esistenza
di
Israele.
In
particolare,
verranno
sottolineati
tratti
comuni
e
cambiamenti
verificatisi
nella
gestione
delle
celebrazioni
da
parte
dello
Stato
di
Israele
e
nella
percezione
che
di
queste
ha
avuto
la
popolazione
israeliana,
così
come
il
ruolo
che
tali
celebrazioni
hanno
avuto
nella
costruzione
dell’identità
nazionale
israeliana.
• Marcella
Simoni
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
Commemorazioni
nazionali
tra
politica
e
cultura
popolare
–
il
caso
dello
Stato
di
Israele
Partendo
dall’idea
che
le
commemorazioni
nazionali
hanno
la
funzione
di
consolidare
i
gruppi
che
le
promuovono,
questo
intervento
guarda
non
solo
al
volto
splendente
dell’unità
rappresentata
e
celebrata,
ma
a
quello
più
oscuro
di
chi
rimane
ai
margini
geografici
e
politici
del
contesto
nazionale,
e
degli
oppositori
(Baroni
e
Brice
2010).
Prendendo
in
esame
il
caso
israeliano,
una
delle
domande
centrali
a
cui
si
cercherà
di
rispondere
è
se,
e
in
che
misura,
si
possa
parlare
della
costruzione
di
una
narrativa
alternativa
a
quella
nazional‐popolare
celebrativa
che
si
fonda
su
alcuni
temi
ricorrenti.
Tra
di
essi,
il
cosiddetto
kibbutz
galuyiot
(la
raccolta
delle
diaspore),
e
la
riunificazione
di
Israele
a
Gerusalemme
(dopo
il
1967);
in
quali
periodi
questa
eventuale
narrativa
alternativa
ha
avuto
maggiore
o
minore
ascolto
e
seguito?
su
quali
temi
è
riuscita
a
trovare
uno
spazio
culturale
e
politico
per
esprimersi?
e
con
quali
mezzi?
Questo
paper
è
quindi
diviso
in
tre
parti.
Nella
prima
si
esamineranno
alcuni
esempi
dei
temi
ricorrenti
nelle
celebrazioni
nazionali
della
fondazione
dello
Stato
di
Israele;
quelli
ad
uso
interno
(per
esempio
attraverso
un’analisi
iconografica
dei
poster
celebrativi
del
giorno
dell’indipendenza)
o
estero/diasporico
(per
esempio
attraverso
la
presentazione
di
alcuni
testi
di
esponenti
politici
israeliani
su
riviste
come
Foreign
Affairs).
Centrale
in
questa
sezione
sarà
la
rappresentazione
del
mito
del
pionierismo
socialista,
come
lo
Stato
di
Israele
si
immaginava
e
auto‐rappresentava
in
diversi
momenti
della
sua
storia
e
infine,
la
rappresentazione
di
Gerusalemme
come
spazio
unificato.
Prendendo
spunto
dalle
celebrazioni
del
1998,
la
seconda
parte
valuterà
in
che
misura
la
revisione
storiografica
degli
anni
Ottanta
si
è
diffusa
nella
cultura
popolare:
oggetto
dell’analisi
di
questa
sezione
saranno
Tkuma
(la
serie
documentaria
in
22
puntate
mandata
in
onda
dalla
televisione
di
stato
in
prima
serata
per
il
cinquantesimo
anniversario
della
fondazione
dello
Stato,
nel
1998),
il
film
Happy
Birthday
Mr.
Mograbi
(Avi
Mograbi
1999)
e
la
puntata
speciale
per
il
giorno
dell’indipendenza
2007
di
Arab
Labor,
sit‐com
creata
da
Sayed
Kashua,
giornalista
palestinese‐israeliano,
firma
di
punta
di
Ha’aretz,
e
scrittore.
Infine,
la
terza
parte
di
questo
intervento
guarderà
al
lavoro
di
alcuni
gruppi
della
società
civile
israeliana
e
mista
israelo‐palestinese
per
contribuire
alla
costruzione
di
un
discorso
critico
diffuso
a
livello
nazionale,
valutandone
la
portata
e
la
possibilità
di
successo.
In
particolare
vorrei
concentrarmi
sul
lavoro
delle
ONG
Zochrot
e
Gush
Shalom,
e
su
alcune
(contro)
manifestazioni
del
1998
e
del
2008.
• Francesco
Mazzucotelli
(Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore),
Lealtà
alla
nazione,
lealtà
al
sovrano:
celebrazioni
delle
feste
nazionali
nei
paesi
del
Golfo
Persico
5
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Il
contributo
si
prefigge
di
investigare
come
le
celebrazioni
delle
feste
nazionali
nelle
monarchie
del
Golfo
Persico
veicolino
forme
di
patriottismo
che,
nella
gran
parte
dei
casi,
costituiscono
espedienti
retorici
per
esprimere
lealtà
alla
dinastia
regnante,
stabilendo
un’equivalenza
nemmeno
troppo
recondita
tra
quest’ultima
e
lo
stato.
Laddove
i
concetti
di
nazione,
nazionalità
(wataniyya)
e
cittadinanza
(muwātina)
sono
spesso
declinati
nel
senso
di
legami
di
fedeltà
di
tipo
tribale
piuttosto
che
di
un
concetto
di
cittadinanza
proprio
di
uno
stato
nazionale
di
tipo
moderno,
le
pratiche
celebrative
“nazionali”
divengono
strumenti
di
integrazione
e
di
cooptazione
politica
rispetto
all’ordine
politico
e
sociale
esistente.
Due
paesi
scelgono
come
propria
festa
nazionale
l’ascesa
al
trono
di
un
sovrano
elevato
a
“padre
della
patria”
(Arabia
Saudita
e
Bahrain),
due
paesi
celebrano
la
propria
festa
nella
ricorrenza
di
battaglie
assurte
retrospettivamente
a
momento
fondativo
(Qatar
e
Kuwait),
un
paese
celebra
il
raggiungimento
di
un
equilibrio
politico
federale
(Emirati
Arabi
Uniti).
Nel
contributo
esamineremo
in
che
modo
la
scelta
delle
date,
ma
anche
dei
luoghi
e
delle
forme
della
celebrazioni
esprima
relazioni
di
potere
e
di
prossimità,
e
come
differenti
modalità
e
fasi
storiche
di
formazione
dello
stato
possano
riflettersi
in
differenti
forme
celebrative.
Vogliamo
esaminare
inoltre
le
forme
di
contestazione
e
le
narrazioni
alternative,
in
particolare
nei
paesi
in
cui
si
è
sviluppata
una
rilevante
opposizione
alla
casa
regnante,
e
dare
conto
delle
reazioni
di
alcuni
ambienti
clericali
rispetto
alla
legittimità
di
queste
forme
di
celebrazione.
• Ronen
Zeidel
(University
of
Haifa),
(together
with
Achim
Rohde
and
Amatzia
Baram),
Between
the
Unknown
Soldier
Monument
and
the
Cemetery:
Commemorating
Fallen
Soldiers
in
Iraq,
1958‐2010
As
elsewhere
in
the
world,
the
commemoration
of
fallen
soldiers
through
monuments
and
commemorative
events
is
a
modern
phenomenon
in
Iraq
and
the
Middle
East
that
is
linked
to
the
emergence
of
nation
states
in
this
region
during
the
colonial
period.
In
the
wake
of
decolonization
and
specifically
in
the
Iraqi
case,
since
the
overthrow
of
the
constitutional
monarchy
in
1958,
Iraqi
state‐building
elites
made
deliberate
efforts
to
foster
a
feeling
of
national
belonging
and
loyalty
to
the
state
among
the
population
residing
in
its
territory.
Developing
a
national
culture
and
discourse
of
remembrance
regarding
Iraqi
soldiers
who
died
in
battle
formed
an
important
part
of
these
nation‐building
efforts.
They
were
most
accentuated
in
the
cultural
sphere,
where
Iraqi
rulers
supported
the
evolution
of
a
distinctively
Iraqi
cultural
and
arts
scene
through
sponsoring
cultural
activities
in
the
fields
of
painting
/
sculpture,
theatre
/
cinema,
literature
/
poetry,
and
monumental
architecture.
This
article
portrays
the
evolution
of
a
state
sponsored
Iraqi
culture
of
remembrance
concerning
the
country’s
wars
and
violent
conflicts
since
the
revolution
of
1958
and
until
today,
thus
covering
the
various
post‐monarchy
regimes
and
the
era
of
the
Ba‘th
regime,
as
well
as
contemporary
efforts
to
re‐construct
an
Iraqi
cultural
memory
after
the
invasion
of
2003.
Due
to
its
exceptional
longevity,
the
Ba‘th
regime
had
the
most
formative
impact
on
the
evolution
of
state
sponsored
culture
and
arts
in
Iraq
in
the
20th
century.
Iraqi
cultural
history
includes
a
rich
religious
tradition
of
commemorating
the
dead,
and
this
remains
a
vibrant
feature
of
Iraqi
popular
culture
until
today.
All
along
the
years
this
strand
existed
alongside
a
dominant
state
sponsored
culture
of
remembrance,
which
during
the
years
of
Ba‘thist
rule
evolved
into
a
militaristic
cult
of
remembering
fallen
soldiers
as
martyrs
in
the
name
of
the
nation.
Since
the
overthrow
of
the
Ba‘th
regime
in
2003
and
the
occupation
of
the
country
by
a
US
led
multinational
force,
a
new
Iraqi
polity
has
been
evolving,
trying
to
stabilize
and
rebuild
the
shattered
Iraqi
state
and
nation.
However,
until
today
no
new
discourse
on
the
country’s
recent
past
and
its
numerous
wars
and
violent
conflicts
has
been
developed
that
could
integrate
the
multilayered
and
contradicting
memories
thereof
among
the
various
sectors
and
subgroups
comprising
Iraqi
society.
This
chapter
argues
that
unless
Iraqis
succeed
in
developing
such
a
new
and
integrated
discourse
on
the
past
and
particularly
a
culture
of
remembering
the
countless
victims
of
wars
and
violence
in
Iraq
in
the
course
of
the
last
four
decades,
a
post‐
conflict
national
reconciliation
will
not
be
achieved,
with
negative
consequences
for
the
process
of
rebuilding
Iraqi
society.
The
paper
will
show
official
commemoration
culture
in
the
fields
of
arts
(the
state
sponsored
monuments
in
Baghdad)
and
state
sponsored
prose
and
will
contrast
it
with
unofficial
prose
as
well
as
the
vibrant
popular
culture
that
evolved
in
public
cemeteries.
It
shows
that
this
is
yet
one
6
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
more
arena
for
the
clash
between
state
and
society
and
neither
the
opposition
to
the
Ba‘th
nor
the
new
regime
have
succeeded
in
bridging
the
gap.
• Pejman
Abdolmohammadi
(Università
di
Genova),
Il
capodanno
persiano
come
celebrazione
dell'identità
nazionale
in
Iran:
dallo
shahal
governo
di
Mahmoud
Ahmadinejad
Il
nazionalismo
iraniano,
a
partire
dal
1925,
con
la
formazione
della
monarchia
dei
Pahlavi
in
Iran,
fino
ai
giorni
nostri,
ha
giocato
un
ruolo
rilevante
nella
vita
politica
del
paese.
Quasi
tutti
i
governi
in
Iran,
nel
corso
del
Novecento,
hanno
dovuto,
in
qualche
modo,
appellarsi
appunto
all’elemento
nazionalista
per
guadagnare
consenso
tra
la
società
civile.
Il
capodanno
persiano,
il
Noruz,
che
viene
celebrato
in
Iran
ogni
anno
il
21
marzo
con
l’inizio
della
primavera,
è
la
festività
nazional‐popolare
più
importante
della
cultura
persiana,
risalente
ai
tempi
dell’antico
impero
persiano
di
Ciro
il
grande
e
di
Dario.
Pertanto
tale
ricorrenza
è
stata
utilizzata,
sul
piano
politico‐culturale,
da
parte
dei
governi,
per
riaffermare
il
proprio
potere
politico
nel
paese.
Questo
paper
intende
esaminare
tre
dei
momenti
storici
più
importanti
nei
quali
la
celebrazione
del
capodanno
persiano
è
diventata
strumento
politico
dei
governanti
per
accrescerne
il
consenso
nella
società:
il
regno
di
Reza
Shah
Pahlavi
(1925‐1941)
la
seconda
fase
del
regno
di
Mohammad
Reza
Shah
Pahlavi
(1953‐1979)
e
il
secondo
mandato
di
Mahmoud
Ahmadinejad
(2009‐2011).
Queste
sono
tre
fasi
importanti
della
politica
contemporanea
iraniana
nel
corso
delle
quali
i
valori
patriottici
sono
diventati
strumento
politico
dei
governi.
Infine
si
dedicherà
anche
uno
spazio
alla
società
civile
iraniana,
sottolineandone
la
nuova
tendenza
patriottica,
come
anche
per
essa
il
Noruz
è
vissuto
come
un’occasione
per
rivendicare
i
principi
e
i
valori
iranici,
basati
essenzialmente
sulla
filosofia
di
Zoroastro
e
sul
“buon
governo”
di
Ciro.
Elementi
questi
in
netto
contrasto
all’islamismo
politico
imperante
dal
1979
con
la
repubblica
islamica
in
Iran.
Così,
ogni
anno,
il
capodanno
persiano,
la
cui
celebrazione,
tra
l’altro,
ha
sempre
incontrato
l’avversità
del
clero
sciita,
è
vissuto
dai
giovani
come
un
momento
di
espressione
critica
nei
confronti
dello
stato
valoriale
a
stampo
islamico‐sciita.
Il
Noruz
è
un
esempio
rilevante
di
come
una
festività
nazional‐popolare
e,
a
tratti,
mitologica,
possa
diventare
come
un
punto
di
riferimento
politico‐culturale
per
i
governi
al
fine
di
affermare
e
di
consolidare
il
proprio
dominio
nel
paese.
Panel
3
(AULA
16)
Lo
specchio
di
Galadriel:
la
Libia
e
l’ambigua
costruzione
della
‘mediterraneità’
italiana
Gianluca
Pastori
(Coordina)
‐
Federico
Cresti
(Università
di
Catania,
Discute)
Il
panel
proposto
si
prefigge
di
analizzare
sotto
diverse
prospettive
e
con
diversi
approcci
metodologici
alcuni
dei
modi
in
cui
la
guerra
italo‐turca
del
1911‐12
ha
contribuito
a
strutturare
il
ruolo
mediterraneo
dell’Italia
e
la
percezione
interna
e
internazionale
della
sua
‘mediterraneità’.
L’esperienza
della
guerra
e
dell’occupazione
della
Libia
svolgono
un
ruolo
importante
nella
costruzione
reale
e
discorsiva
dell’identità
nazionale
italiana
e,
all’interno
di
questa,
nell’elaborazione
della
sua
dimensione
mediterranea.
Il
dispositivo
ideologico
e
narrativo
che
produce
e
sostiene
lo
sforzo
bellico
raccoglie
ed
elabora
alcuni
elementi
centrali
(seppure
contraddittori)
della
identità
geopolitica
italiana,
quali
il
mito
della
continuità
romana
e
imperiale,
la
consapevolezza
di
una
sostanziale
analogia
della
‘grande
proletaria’
rispetto
alle
realtà
della
sponda
sud,
l’attivismo
estetizzante
della
conquista
dannunziana
e
il
suo
problematico
interfacciarsi
con
le
esigenze
di
un
processo
risorgimentale
che
proprio
in
coincidenza
del
conflitto
si
catalizza
in
un
canone
dall’ampia
portata
mitico‐simbolica.
In
tale
prospettiva,
la
relazione
del
paese
con
la
‘quarta
sponda’
si
configura
fin
dall’inizio
come
carica
di
aspettative.
La
convinzione
è
che
la
conquista
–
al
di
là
dei
suoi
benefici
materiali
–
svolga
una
funzione
intrinsecamente
positiva,
a
metà
fra
la
purificazione
e
la
consacrazione;
soprattutto,
ciò
che
si
attende
è
la
palingenesi
nazionale:
la
nascita
di
una
nuova
Italia
e
di
un
nuovo
tipo
di
italiano.
Anche
per
questo,
gli
esiti
dell’azione
militare
e
dell’occupazione
finiscono
con
alimentare
il
senso
di
insoddisfazione
che
aveva
reso
possibile
lo
scoppio
delle
ostilità,
strutturando,
nel
contempo
il
rapporto
ambiguo
che
–
negli
anni
a
venire
–
si
sarebbe
consolidato
fra
l’Italia
e
il
suo
7
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
‘possedimento’,
in
costante
tensione
fra
malcelato
risentimento
e
ricerca
di
una
difficile
‘relazione
privilegiata’.
Come
nello
specchio
di
Galadriel,
dunque,
l’esperienza
della
conquista
riflette
non
solo
molti
dei
tratti
che
caratterizzeranno
il
sistema
delle
relazioni
dell’Italia
con
la
colonia
nordafricana
ma
le
varie
aporie
sottese
al
suo
processo
di
formazione
nazionale.
Negli
anni,
essa
finirà
inoltre
per
assorbire
e
catalizzare
diverse
percezioni
che
–
seppure
eccentriche
rispetto
alla
vicenda
storica
considerata
–
verranno
a
confluire
all’interno
del
medesimo
canone
interpretativo.
La
‘cesura
libica’
inquadra
definitivamente
l’Italia
nel
suo
ruolo
di
realtà
mediterranea;
allo
stesso
tempo,
definisce
in
termini
non
privi
di
ambiguità
i
parametri
del
suo
rapporto
con
questo
mondo,
nel
quadro
di
una
collocazione
storica
e
geopolitica
che
–
seppure
largamente
problematica
–
ancora
struttura
l’azione
internazionale
del
paese.
• Giuseppe
Restifo
(Università
di
Messina),
Americani
e
italiani
alla
conquista
della
Libia
1801‐1911.
C’è
da
chiedersi
come
mai
possa
esistere
una
così
grande
disparità
nella
quantità
di
saggi
dedicati,
rispettivamente
negli
Stati
Uniti
e
in
Italia,
alle
guerre
che
videro
i
due
Paesi
bellicosamente
impegnati
per
la
conquista
della
Libia,
rispettivamente
nel
1801
e
nel
1911.
La
prima
volta
che
la
bandiera
a
stelle
e
strisce
sventolò
su
suolo
non
americano
fu
nel
1804,
a
Derna,
all’interno
di
una
vicenda
bellica
che
si
svolse
sull’arco
di
quattro
anni,
fra
1801
e
1805.
Questa
appare
come
l’espressione
del
primo
capitalismo
statunitense
e
della
sua
proiezione
commerciale
e
militare
nell’ambito
del
Mediterraneo.
La
guerra
non
andò
bene
per
gli
Stati
Uniti:
la
sua
stessa
durata
contro
la
Reggenza
di
Yusuf
Qaramanli,
prescelta
per
la
sua
presunta
debolezza
rispetto
ad
Algeri
e
Tunisi,
segnala
un
sostanziale
insuccesso.
Tuttavia
in
quella
guerra
si
costituiscono
parti
dell’identità
statunitense:
nell’Inno
dei
Marines
si
trova
la
strofa
“to
the
shores
of
Tripoli”
e
il
giovane
tenente
della
Marina
Stephen
Decatur,
protagonista
di
un
ardito
episodio
bellico,
viene
elevato
al
rango
di
eroe
(con
34
cittadine
Usa
che
riprendono
il
nome
da
lui).
Di
tutto
questo
i
cittadini
statunitensi
possono
sapere
grazie
a
una
considerevole
produzione
di
studi.
L’identità
italiana
resta,
d’altro
canto,
sospesa
e
incerta
di
fronte
alle
difficoltà
della
conquista
della
Libia
nel
1911,
per
quanto
preceduta
da
una
propaganda
pervasiva
e
allusiva
alla
dimostrazione
della
forza
militare
della
nazione
e
alla
riconquista
di
un
“mare
nostrum”
liberale
prima
ancora
che
fascista.
L’operazione
era
basata
sulla
edificazione
del
mito
nazionale
del
“bravo
italiano”
e
sulla
strumentalizzazione
di
un
problema
reale,
qual
era
l’emigrazione
di
quel
periodo.
La
stessa
operazione
è
accompagnata
e
seguita
nel
periodo
coloniale
da
una
vasta
produzione
di
scritti
e
studi,
ma
ciò
che
più
incuriosisce
lo
storiografo
è
la
caduta
di
questa
elaborazione
nei
tempi
post‐coloniali,
con
l’insorgenza
di
una
sorta
di
induzione
all’oblio.
La
Libia
“non
deve”
entrare
a
far
parte
di
una
chiara
auto‐consapevolezza
del
popolo
italiano.
Soltanto
in
tempi
recenti
la
storiografia
del
nostro
Paese
inizia
a
recuperare
l’amnesia
collettiva
e
a
portare
validi
contributi
alla
struttura
identitaria
italiana.
• Massimiliano
Cricco
(Università
di
Urbino),
La
battaglia
di
Zanzur
dell’8
giugni
1912
nell’inedita
testimonianza
di
un
ufficiale
italiano
La
battaglia
di
Zanzur
fu
uno
degli
episodi
risolutivi
nel
conflitto
italo‐turco
del
1911‐1912
e
poche
sono
le
testimonianze
dirette
dell'evento
storico
che
favorì
la
vittoria
italiana,
dopo
le
complesse
operazioni
militari
della
guerra
di
Libia.
La
ricostruzione
di
questa
importante
battaglia
è
stata
effettuata
grazie
a
una
lettera
inedita
del
ten.
dei
Lancieri
di
Firenze
Domenico
Orsini,
in
cui
l'ufficiale
italiano
descrive
in
dettaglio
le
fasi
della
battaglia,
esprimendo
il
suo
dolore
per
i
caduti
italiani
e
mostrando
rispetto
per
i
nemici,
di
cui
si
esaltano
il
coraggio,
la
forza
e
le
qualità
belliche.
La
lunga
lettera
è
corredata
da
circa
50
foto
delle
fasi
preparatorie
della
battaglia,
dei
combattimenti
e
della
vita
nell'accampamento,
che
saranno
mostrate
nel
corso
della
presentazione.
• Andrea
Masturzo
(Università
di
Bergamo),
La
carta
geografica
e
le
dinamiche
identitarie:
il
caso
della
cartografia
coloniale
libica
“L’identità
si
dice
in
molti
modi
e
uno
di
questi
è
la
carta
geografica.
Le
rivendicazioni
identitarie,
lo
sappiamo
bene,
sono
conseguenti
a
una
consapevolezza
sociale
acquisita
mediante
un
insieme
di
procedure
in
grado
di
esprimerla.
La
carta
ne
fa
parte:
è
una
rappresentazione
del
mondo
mediante
la
8
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
quale
gli
individui
e
gli
attori
sociali
mostrano
le
loro
logiche
e
rimandano
ai
valori
che
fondano
la
propria
identità”
(Casti,
2004).
Nell’ottica
geografica
‐
che
considera
il
territorio
quale
bene
su
cui
fondare
la
propria
identità
–
non
si
può
prescindere
dall’evidenziare
il
ruolo
svolto
dalla
rappresentazione
cartografica
all’interno
del
processo
di
creazione
dell’identità
sociale
considerandola
“nella
veste
di
racconto
in
grado
di
disvelarci
il
discorso
identitario
vale
a
dire
l’insieme
di
pratiche
territoriali
che
sottendono
la
determinazione
dello
statuto
culturale
di
una
società”
(Ibidem).
La
cartografia
coloniale
della
Libia,
nella
sua
multiforme
produzione,
ben
al
di
là
dall’essere
solo
un
valido
ausilio
alle
esigenze
di
mobilità
espresse
dai
militari
in
colonia,
fu
uno
strumento
importante
attraverso
il
quale
il
colonizzatore
denominò
l’Altrove,
dotandolo
di
valori
simbolici,
mitici
e
ideologici.
All’interno,
quindi,
di
un
quadro
teorico
di
matrice
geografica,
denominato
semiosi
cartografica
(Casti,
1998)
e
utilizzando
lo
strumentario
teorico
che
tale
approccio
ci
offre,
la
ricerca
mira
a
prendere
in
esame
alcune
tipologie
cartografiche
esemplari
di
quella
produzione,
tra
cui
quella
topografica,
quella
dimostrativa
e
quella
tematica
per
svelare
gli
esiti
comunicativi
che
queste
rappresentazioni
ci
offrirono
e
cercare
di
definire
il
ruolo
che
esse
ebbero
nella
costruzione
identitaria.
La
carta
topografica
realizzò
l’occultamento
del
territorio
basico
e
la
sua
sostituzione
con
la
rappresentazione
di
un
territorio
simile
a
quello
della
madrepatria,
intriso
di
valori
collegati
al
progetto
coloniale,
nascondendo,
svilendo
e
banalizzando
i
valori
sociali
del
territorio.
Al
di
là
dall’intenzionalità
riposta
dal
cartografo,
fu
lo
stesso
esplicarsi
della
topografia
a
provocare
l’occultamento
del
territorio
e
a
favorire
l’espressione
dei
valori
occidentali,
maggiormente
legati
alla
materialità.
Una
denominazione
dell’Altrove
che
si
espresse,
quindi,
non
solo
con
contenuti
che
rinviavano
ai
valori
militari
ma
che
fu
incentrata
sulla
comunicazione
dei
valori
di
sviluppo
europei
collegati
alla
valorizzazione
agraria
(Masturzo,
2007).
Per
quanto
riguarda,
invece,
la
cartografia
tematica
analizzeremo
un’opera
cartografica
della
fine
degli
anni
Trenta,
pubblicata
dall’Ente
di
Colonizzazione
della
Libia,
un’opera
composta
da
cartografie
e
cartogrammi
che
la
assimila
al
genere
dell’atlante.
L’opera
appartiene
a
quel
periodo
storico
in
cui
la
Metropoli
cercava
di
realizzare
in
colonia
un
importante
progetto
di
“colonizzazione
demografica”
con
forti
valenze
di
politica
interna
e
ideologica
che
si
realizzò
con
la
costruzione
di
una
rete
di
villaggi
agricoli
nel
nord
della
colonia.
Fondanti,
appaiono
in
questo
genere
di
cartografia
gli
elementi
simbolici
e
quelli
legati
alla
memoria.
Tra
gli
elementi
simbolici,
ad
esempio,
sono
prevalenti
quelli
che
rinviano
all’antica
civiltà
romana
e
per
il
tramite
di
questa
a
quella
dell’ideologia
fascista
(Masturzo,
2010).
A
titolo
di
esempio,
rammentiamo,
in
questa
sede,
una
delle
prime
tavole
dell’Atlante,
la
“tavola
dal
titolo
“Famiglie
coloniche
immigrate”
che
rappresenta
efficacemente
il
modello
di
famiglia
coloniale
di
riferimento
della
colonizzazione
demografica.
La
tavola
è
composta
di
tre
scene
all’interno
delle
quali
si
inserisce,
in
tono
sommesso
rispetto
al
resto
della
rappresentazione,
il
grafico
della
rilevazione
statistica.
Infatti
la
tavola
presenta
le
navi
da
guerra
sullo
sfondo,
una
famiglia
coloniale
in
secondo
piano
e
le
insegne
(signifer)
delle
legioni
romane,
poi
utilizzate
anche
dai
fascisti,
nel
piano
principale.
Se
le
navi
richiamano
la
superiorità
militare
del
colonizzatore,
l’immagine
del
colono,
armato
solo
di
vanga,
evoca
la
figura
centrale
della
colonizzazione
demografica:
il
contadino‐soldato,
motivo
centrale
della
retorica
coloniale
fascista
che
utilizza
sovente
espressioni
quali
legioni
rurali,
milizia
contadina
o
falangi
rurali.
L’istogramma
del
grafico,
che
propone
dati
alquanto
banali,
presenta
al
posto
delle
colonne
le
insegne
dell’esercito
romano,
poi
utilizzate
anche
dalla
milizia
fascista.
E’
forte
quindi
il
richiamo
alla
mitologia
dell’impero
Romano
e
per
il
tramite
di
questa
a
quella
dell’ideologia
fascista”
(Ibidem).
Sempre
per
quanto
riguarda
la
memoria
bisogna
evidenziare
che
la
rappresentazione
veicolata
dai
segni
e
dalla
legenda
che
rinvia
alla
modalità
“descrittiva”
tipica
della
carta
topografica
venne
sostituita
una
rappresentazione
fortemente
iconizzante
che
rinviava
alla
modalità
paesistica
(Casti,
2001)
caratterizzata
dalla
sostituzione
della
visione
zenitale
con
quella
semiprospettica.
Tale
modalità
rappresentativa
permise,
infatti,
alla
rappresentazione
di
evocare
contenuti
legati
al
paesaggio
familiare,
mobilitando
significati
legati
alla
memoria,
nella
rappresentazione
del
villaggio.
La
comunicazione
evocava
argomenti
e
significati
che
volevano
far
leva
sul
piano
emotivo
dell’interprete.
In
definitiva,
con
questo
intervento,
proveremo
a
palesare
il
ruolo
della
carta
geografica
all’interno
delle
dinamiche
di
costruzione
dell’identità
sociale
cercando
di
svelarne
il
funzionamento.
In
particolare
ci
confronteremo
con
un
territorio
dell’Altrove,
dove
i
caratteri
identitari
e
territoriali
autoctoni
furono,
per
la
gran
parte,
occultati
e
sostituiti
con
quelli
relativi
ad
una
progettualità
politico‐sociale
che
aveva
il
suo
fondamento
nelle
dinamiche
metropolitane.
9
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
•
Jakob
Krais
(Freie
Universität
Berlin),
Una
storia
nazionale?
La
storiografia
libica
sul
colonialismo
italiano
Nel
2011
ricorre
il
100°
anniversario
della
conquista
italiana
(almeno
quella
formale)
della
Libia.
Ma
in
quest’anno
pure
il
leader
libico
Gheddafi,
che
la
propaganda
ha
sempre
dipinto
come
eroe
antimperialista,
si
trova
di
fronte
a
una
ribellione
seria.
A
differenza
dell’Egitto
e
della
Tunisia
gli
oppositori
libici
–
particolarmente
in
Cirenaica,
la
regione
orientale
–
non
utilizzano
la
bandiera
ufficiale
del
loro
Paese
ma
l’antica
bandiera
del
regno
senussita
che
Gheddafi
rovesciò
con
un
colpo
di
Stato
nel
1969.
Infatti,
la
Libia
è
sempre
stata
una
nazione
incerta.
Passata
dalla
sovranità
ottomana
al
dominio
italiano,
fu
creata
come
Stato
indipendente
nel
1951
dalle
Nazioni
Unite.
Uno
dei
principali
fattori
unificanti
sembra
essere
stato
il
ricordo
del
colonialismo
italiano
e
la
resistenza
contro
di
esso,
come
lo
ha
dimostrato
Anna
Baldinetti.
Il
regime
si
accorse
di
questo
ruolo
del
passato
come
possibile
fonte
di
un’identità
nazionale
libica
e
lo
promosse
mediante
il
centro
statale
di
studi
storici
a
Tripoli,
fondato
nel
1978
(chiamato
all’inizio
Markaz
buhūth
wa‐dirāsāt
al‐jihād
al‐
lībī,
facendo
riferimento
esclusivamente
alla
resistenza
anticoloniale).
Gli
storici
di
questo
centro
si
proponevano
di
decolonizzare
e
riscrivere
la
storia
della
Libia
coloniale
(come
diceva
esplicitamente
il
direttore
Muhammad
al‐Tāhir
al‐Jarārī),
dando
più
spazio
alle
testimonianze
orali
e
ai
punti
di
vista
della
gente
comune
per
ricostruire
una
vera
storia
popolare.
Storia
popolare
significa,
però,
anche
storia
postcoloniale
nazionalista:
il
programma
storiografico
veniva
effettuato
sotto
l’etichetta
del
jih¡d
contro
gli
invasori
italiani.
Il
mio
intervento
si
propone
di
leggere
la
storiografia
libica
sul
colonialismo
italiano
come
mezzo
di
un
nationbuilding
postcoloniale
(o
neoromantico,
come
lo
chiama
Aziz
al‐Azmeh).
Ritornando
all’attualità,
una
questione
da
approfondire
sarebbe
come
la
Sanūsiyya
viene
presentata:
confraternita
islamica
e
base
principale
della
resistenza
contro
gli
italiani
nella
zona
est
del
Paese
che,
allo
stesso
tempo,
era
l’origine
del
Re
Idrīs,
alleato
degli
americani,
il
quale
Gheddafi
spodestò
con
la
sua
“Rivoluzione
di
Settembre”.
Come
si
concilia
l’uso
propagandistico
dell’eroe
anticoloniale
‘Umar
al‐Mukhtār
(si
ricordi
la
visita
di
Gheddafi
a
Roma
nel
2009)
e
il
disprezzo
del
governo
senussita
fedele
agli
“imperialisti
occidentali”?
Come
si
sono
nazionalizzati
i
disparati
movimenti
di
resistenza
che
hanno
preso
il
nome
di
jihād
dei
libici,
e
che
rappresentano
un'interpretazione
posteriore
non
necessariamente
corrispondente
ai
ricordi
dei
combattenti
(come
suggerisce
John
Davis)?
Come
si
inserisce
l’accento
sull’importanza
per
la
Libia
nel
contesto
arabo,
islamico
o
africano?
Da
qualche
tempo
la
discussione
sul
nazionalismo,
iniziata
da
Eric
Hobsbawm
e
Benedict
Anderson,
si
occupa
della
forza
che
storiografia,
tradizioni
e
memorie
destano
per
la
costruzione
di
un
senso
comune,
nazionale.
In
particolare,
nei
Paesi
colonizzati
da
una
potenza
europea
il
problema
dell’identità
è
stato
di
una
rilevanza
di
primo
piano.
La
storiografia,
enfatizzando
l’anticolonialismo,
non
di
rado
ha
legittimato
i
diversi
regimi
(si
veda,
per
esempio,
il
lavoro
di
James
McDougall
sull’Algeria).
La
storiografia
libica
dagli
anni
settanta
in
poi
si
è
inserita
in
un
discorso
più
ampio
di
postcolonial
studies
(da
Edward
Said
ai
subaltern
studies
di
Gayatri
Spivak
e
Dipesh
Chakrabarty).
Il
centro
tripolino
è,
fra
l’altro,
frutto
della
cosiddetta
rivoluzione
culturale
gheddafiana.
Il
contributo
di
vari
storici
libici
non
ha
tuttavia
mai
dimenticato
il
compito
di
stabilire
un’identità
nazionale
per
la
“società
senza
Stato”
della
jamāhīriyya
–
il
successo
della
quale
deve
ancora
essere
dimostrato.
• Marco
Mozzati,
(Università
di
Pavia),
Come
celebrare
oggi,
a
100
anni
dalla
guerra
di
Libia,
il
nostro
Risorgimento
nelle
sue
idee
e
pratiche
coloniali?
I
temi
coloniali
sono
stati
ampiamente
rimossi
dalla
nostra
memoria
collettiva
ufficiale,
fenomeno
che
ha
costituito
tanto
una
pesante
dimenticanza
quanto
e
soprattutto
una
tenace
resistenza
a
qualunque
tentativo
di
portarli
alla
luce.
La
storiografia
italiana
nel
suo
complesso,
dalle
opere
a
carattere
scientifico
fino
ai
manuali
scolastici,
salvo
coraggiosi
esempi
spesso
di
elevato
valore,
riflette
questa
situazione;
di
modo
che
è
mancato
il
principale
strumento
per
introdurre
nella
nostra
coscienza
nazionale
un
fenomeno
che
ha
appassionato
anima
e
corpo
degli
Italiani
per
oltre
sessant’anni.
La
duplice
ricorrenza
dei
150
anni
dell’unità
italiana
e
dei
100
della
campagna
di
Libia
offre
un’opportunità
unica
di
pensare
ai
problemi
del
nostro
colonialismo
attraverso
le
sue
forti
correlazioni
con
il
Risorgimento.
Due
celebrazioni,
una
di
fusione
fraterna
e
l’altra
di
aggressività,
originate
da
una
stessa
storia
nazionale,
che
una
coincidenza
cronologica
mette
a
un
ineludibile
confronto.
Il
fatto
che
pensiero
ed
azione
di
Garibaldi,
Mazzini
e
il
Risorgimento
italiano
abbiano
influito
sul
risveglio
dell’Asia
e
dell’Africa
ha
già
portato,
oramai
un
quarto
di
secolo
fa,
ad
organizzare
un
10
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
convegno
di
studi
all’Università
di
Pavia
che
ha
messo
in
luce
una
considerevole
massa
di
spunti
sicuramente
significativa
come
prima
ricognizione
della
presenza
culturale
ed
ideale
in
Asia
ed
in
Africa
del
Risorgimento
italiano,
sia
in
fase
contemporanea
sia
nei
momenti
successivi.
Ma
il
Convegno
aveva
chiuso
i
suoi
lavori
prima
che
emergesse
quel
nuovo,
dirompente
apporto
teorico
recato
dal
pensiero
di
Edward
Said
con
i
suoi
“Orientalismo”
e
“Cultura
ed
Imperialismo”,
che
ha
segnato
una
svolta
sul
come
interpretare
fenomeni
come
quello,
appunto,
del
nostro
Risorgimento
che
si
batteva
contro
vecchie
oppressioni
per
stabilirne
di
nuove
di
natura
coloniale,
all’insegna,
come
sostiene
Said,
della
“idea
di
avere
un
impero”,
che
si
preparava
nel
campo
della
cultura,
ma
alla
quale
tutto
doveva
modellarsi.
Il
nostro
contributo
si
propone
di
considerare
come
i
nostri
uomini
del
Risorgimento
avessero
operato
una
netta
scelta
di
campo
in
favore
della
missione
civilizzatrice
e
mai
a
sostegno
della
resistenza
alla
violenza
coloniale.
O,
meglio,
di
ammettere
che
una
scelta
non
era
neppure
necessaria
in
quanto
i
due
campi
potevano
coesistere
in
tutta
naturalezza.
*
*
*
*
*
11
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Edificio
U6
–
Piazza
dell’Ateneo
Nuovo
1
Venerdi
10
giugno
SESSIONE
1:
9.00‐11.00
Panel
1
(AULA
12)
Memoria
e
identità:
il
passato
coloniale
come
eredità
(controversa?)
nel
Sahara
e
nel
Mediterraneo
occidentale
/
Mémoire
et
identité:
le
passé
colonial
comme
héritage
(disputé
?)
au
Sahara
et
dans
la
Méditerranée
occidentale
I
Francesco
Correale
(Coordina)
‐
Cristiana
Fiamingo
(Università
di
Milano,
Discute)
Le
celebrazioni
del
cinquantenario
dell’indipendenza
di
molti
paesi
africani
si
sono
svolte
spesso
nel
segno
della
continuità
delle
relazioni
con
le
vecchie
metropoli.
Come
in
una
specie
di
nemesi
simbolica,
i
rappresentanti
delle
vecchie
“potenze
europee”
sono
stati
invitati
di
gala
in
Mauritania,
in
Nigeria,
nel
Mali,
quasi
a
sancire
una
persistenza
del
vincolo
coloniale
che
oggi
si
esprime
attraverso
la
cooperazione
e
il
sostegno
allo
sviluppo,
ma
che
raramente
viene
analizzato
come
“potere
egemonico”
in
grado
di
determinare
la
fisionomia
culturale
e
sociale
di
quegli
spazi
già
colonie.
Nel
loro
insieme
il
Sahara
e
l’Africa
maghrebina,
con
la
probabile
eccezione
del
Regno
marocchino
e
della
già
citata
Mauritania,
sembrano
nascondere
più
abilmente
il
cordone
ombelicale
che
li
mantiene
in
stretta
relazione
con
le
vecchie
metropoli.
Le
vaste
campagne
di
alfabetizzazione
e
acculturazione
araba
condotte,
per
esempio,
in
Libia
e
in
Algeria
durante
gli
anni
‘60
e
’70,
hanno
determinato
l’apparente
relegamento
del
passato
coloniale
nella
dimensione
rivendicativa:
le
costruzioni
statuali
si
sono
ufficialmente
realizzate
in
netta
rottura
con
il
lascito
metropolitano
e
l’identità
nazionale
si
è
forgiata
sovente
partendo
dalla
lacerazione
dei
legami
culturali
con
gli
ex‐
colonizzatori.
Ma
qual
è
il
confine
che
passa
fra
le
rappresentazioni
nazionaliste
offerte
alle
popolazioni
dell’area
e
le
eredità
che,
in
alcuni
casi,
più
di
cinquant’anni
di
dominazione
europea
hanno
lasciato
in
situ?
E
laddove
la
configurazione
statale
resta
fragile
o,
addirittura,
non
si
è
compiuta,
quanto
e
come
agiscono
le
“ramificazioni
neo‐coloniali”
mediante
le
multinazionali,
le
ONG,
le
agenzie
statali
di
cooperazione,
gli
individui,
etc.?
In
ultimo,
se
l’affrancamento
dal
giogo
politico
diretto
si
è
manifestato
attraverso
le
lotte
di
liberazione,
quanti
e
quali
elementi
dell’esperienza
coloniale
sono
stati
integrati
nei
processi
di
costruzione
identitaria
sopravvenuti
dopo
la
partenza
dei
governi
metropolitani?
Qual
è,
insomma,
l’attualità
della
memoria
coloniale
nei
paesi
dell’area
sahariana
e
maghrebina
quando
perfino
gli
equilibri
post‐indipendenza
sono
rimessi
pesantemente
in
discussione?
Obiettivi
del
panel
Attraverso
l’analisi
di
casi‐studio,
il
panel
intende
proporre
una
riflessione
di
ampio
respiro
sul
rapporto
fra
il
colonialismo,
la
costruzione
della
memoria
e
l’incidenza
politica
e
sociale
dell’eredità
coloniale
nella
morfologia
identitaria
post‐coloniale,
intesa
essa
stessa
come
retaggio
(o
risorsa?)
delle
conformazioni
statali.
L’obiettivo
è
quello
di
una
doppia
valutazione:
‐
sul
piano
epistemologico
della
formazione
della
memoria
e
della
produzione
culturale
nei
paesi
dell’area
sahariana
e
maghrebina:
quali
costruzioni
empiriche
del
sapere
possono
affermare
d’essere
sfuggite
all’influenza
coloniale?
Quali
possono
considerarsi
“decolonizzate”,
pur
avendo
integrato
alcuni
aspetti
direttamente
riconducibili
all’esperienza
coloniale?
‐
sul
piano
dell’eredità
simbolica
e
materiale
ovverosia
della
rappresentazione
e
della
configurazione
degli
spazi
e
delle
pratiche
politiche
e
sociali:
educazione,
sanità,
urbanizzazione,
limiti
amministrativi
interni,
frontiere,
etc.
• Barbara
de
Poli
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
La
politica
berberista
coloniale
e
le
basi
culturali
del
movimento
amazigh
12
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
In
Marocco,
il
movimento
berberista
si
manifesta
negli
anni
‘80
in
seguito
alle
manifestazioni
algerine
di
Tizi
Ouzou
(la
‘primavera
berbera’),
in
risposta
alle
politiche
di
arabizzazione
linguistica
e
culturale
avanzate
dal
governo
sin
dall’indipendenza
–
le
quali
si
sommavano
alla
marginalizzazione
economica
delle
regioni
berberofone.
La
consapevolezza
identitaria
berbera
maturò
dunque
lentamente,
dando
nondimeno
corso
in
pochi
anni
a
una
produzione
letteraria
e
storiografic,
divulgata
anche
a
partire
da
riviste
come
Tifinagh,
finalizzata
a
conferire
centralità
alla
cultura
amazigh.
Parte
di
questa
produzione
assume,
tuttavia,
una
valenza
ideologica
che
supera
le
questioni
linguistiche,
culturali
o
socio‐economiche
contingenti,
per
definire
una
specificità
intrinseca
dei
berberi,
in
netta
contrapposizione
all’identità
e
alla
cultura
araba
dominante
nel
Paese
(approccio
confermato
dal
Manifesto
Amazigh
del
1
marzo
2000).
Tale
narrazione
per
molti
versi
richiama
indirettamente
alcune
narrazioni
storiografiche
e
antropologiche
coloniali,
originate
in
supporto
o
sulla
scia
delle
politiche
separazioniste
della
Residenza,
di
cui
l’etnogenesi
berbera
fu
una
componente
essenziale.
Il
nostro
contributo
si
propone
di
mettere
in
luce
le
analogie
e
corrispondenze
tra
il
discorso
berberista
francese
e
il
discorso
promosso
dal
movimento
amazigh,
e
di
seguire
le
tracce
di
un
lascito
coloniale
che
appare
di
lunga
durata.
• Jesús
M.
Martinez
Milán
(Universidad
Las
Palmas
de
Gran
Canaria),
L’évolution
du
concept
de
«frontière»
chez
le
colonisateur
franco‐espagnol
et
ses
répercussions
dans
l’espace
saharien
occidental
(1900‐1975).
Cette
communication
porte
sur
l’évolution
de
la
notion
de
frontière
chez
les
«
puissances
»
colonisatrices
–
notamment
la
France
–
au
fur
et
mesure
de
leur
pénétration
de
l’espace
saharien.
Elle
porte
également
sur
les
répercussions
que
l’établissement
de
la
frontière
eut
chez
les
populations
hassanophones
du
sud
marocain
et
de
l’espace
saharien.
En
partant
d’une
délimitation
centrée
sur
les
méridiens,
les
parallèles
et
les
accidents
géographiques,
les
colonisateurs
européens
modifièrent
leur
idée
de
frontière
grâce
aux
études
menées
dans
ce
domaine
par
Robert
Montagne
et
François
de
la
Chapelle,
et
à
la
création
du
Centre
d’Etudes
Sociologiques
de
l’Etat‐Major
de
l’armée
d’occupation
du
Maroc.
Ils
essayèrent
donc
d’ajuster
les
limites
de
frontière
aux
espaces
territoriaux
d’une
déterminée
Kabila
(délimitation
anthropologique)
sans
toutefois
prendre
en
considération
que
les
sociétés
nomades,
différemment
des
sédentaires
du
sud
marocain,
n’étaient
pas
forcement
ancrée
à
un
espace
bien
défini.
Le
début
de
la
pénétration
espagnole
au
Sahara
depuis
1930
–
et
de
manière
plus
évidente
à
partir
de
1945
–
compliqua
encore
plus
les
données.
Non
seulement
parce
que
les
Espagnoles
ignoraient
les
avatars
d’une
société
tribale
que
les
intérêts
des
différentes
administrations
coloniales
françaises
(Mauritanie,
Algérie
et
Maroc)
avaient
réussi
à
cantonner
dans
les
compartiments
cloisonnés
;
mais
aussi
parce
qu’à
partir
de
ce
moment,
les
tribus
sahariennes
auraient
souffert
une
division
de
plus
qui
frappait
leur
identité
telle
qu’elles
l’avaient
conçue
avant
la
colonisation
européenne
:
un
ensemble
de
tribus
interdépendantes
parlant
une
même
langue
(le
Hassanya).
• Paolo
Soave
(Università
di
Siena),
“La
cooperazione
indispensabile:
Italia
e
Libia
e
il
paradigma
della
mancata
decolonizzazione?”
I
rapporti
bilaterali
italo‐libici
in
epoca
postcoloniale
delineano
complessivamente
un
contesto
nel
quale
iniziative
di
sempre
più
stretta
cooperazione
economica
e
politica,
enfaticamente
presentate
come
segno
esteriore
dell'amicizia
sbocciata
fra
i
due
paesi,
nascono
in
realtà
con
l'indelebile
marchio
storico
del
vissuto
coloniale.
Da
un
lato
la
Libia,
attraverso
le
iniziative
internazionali
di
Gheddafi
è
costantemente
apparsa
in
questi
anni
alla
ricerca
di
un
profilo
politico
che
potesse
sintetizzare
e
rendere
coese
in
un
coerente
progetto
nazionale
le
multiformi
e
centrifughe
identità
etno‐culturali
che
la
caratterizzano.
In
tal
senso
il
ruolo
più
assertivo
e
in
qualche
modo
autorevole
è
risultato
essere
proprio
quello
esercitato
nei
confronti
dell'Italia,
già
debole
potenza
coloniale
e
ancor
oggi
la
più
vulnerabile
delle
democrazie
occidentali,
esposta
al
“ricatto”
energetico
non
meno,
negli
anni,
che
a
quello
strategico
e
migratorio.
Si
scontrano
e
compongono
continuamente,
nel
rapporto
italo‐libico,
due
nette
mancate
elaborazioni
del
vissuto
coloniale:
mentre
Gheddafi
rivendica
l'oppressione
subìta
con
fierezza
esponendola
in
ogni
occasione
come
prova
di
una
presunta
superiorità
morale
che
unisce
tutti
i
libici
e
di
fronte
alla
quale
l'interlocutore
dovrebbe
piegarsi,
l'Italia,
più
incoerente
e
contraddittoria,
alterna
aperture
a
13
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
prese
di
distanza,
fino
al
recente
cedimento,
sull'intera
linea,
morale,
politica
e
perfino
storiografica,
per
intensificare
la
cooperazione
con
Tripoli.
In
questo
ribaltamento
delle
prospettive,
con
la
debolezza
del
vecchio
colonizzatore
di
fronte
all'assertività
dell'ex
colonizzato,
si
articola
nel
tempo
un
bilateralismo
che
certo
non
ha,
fra
le
sue
premesse,
l'avvenuto
metabolizzazione
della
storia,
quanto
piuttosto
le
strumentalizzazioni
del
passato
che
promanano
dai
rispettivi
sistemi
politici
e
culturali.
Tale
nodo
prorompe,
drammaticamente,
al
momento
in
cui
gran
parte
dello
scenario
mediorientale
viene
attraversato
dall'ondata
rivoluzionaria
alimentata
dalla
richiesta
dal
basso
di
libertà
e
cambiamento
politico.
Ai
subitanei
capovolgimenti
di
leadership
l'Italia
guarda
con
silente
preoccupazione,
attendendo
il
salvifico
intervento
europeo,
fino
all'angosciante
dilemma
della
posizione
da
assumere
di
fronte
agli
sviluppi
libici,
che
sembrano
di
colpo
relativizzare
decenni
di
rapporti
bilaterali
italo‐libici
postcoloniali
ma
mai
realmente
decolonizzati
e,
per
questo,
estemporanei.
• Alessandra
Caragiuli
(Università
Roma
La
Sapienza),
“Spazi
Islamizzati”
La
dominazione
arabo‐musulmana
nel
Mezzogiorno
italiano
ha
lasciato
tracce
indelebili,
ma
è
necessario
attendere
oltre
sette
secoli
prima
che
popolazioni
genericamente
chiamate,
ora
come
allora,
arabe,
tornino
ad
insediarsi
nel
paese.
Tali
popolazioni
presentano
una
variegata
complessità
etnico‐identiaria
che,
amalgamata
nel
sistema
politico‐amministrativo
dell’Impero
Ottomano,
era
esplosa
attraverso
la
scoperta
dei
nazionalismi
all’indomani
della
prima
guerra
mondiale,
e
poi
nel
periodo
post‐coloniale.
Sono
dunque
state
necessarie
varie
centinaia
di
anni
per
osservare
la
ricomparsa
di
qualche
minareto
e
di
alcuni
edifici
consacrati
al
culto
islamico
che
hanno
però
perso
la
monumentalità
delle
costruzioni
religiose
del
passato,
delle
quali
nemmeno
sembrano
aver
memoria.
Ciò
che
inoltre
appare
strabiliante
è
il
numero
dei
luoghi
di
culti,
oltre
700,
tuttavia
nettamente
inferiore
alle
moschee
recensite
in
Francia,
Germania
e
Inghilterra.
“Spazi
islamizzati”
analizzerà
la
costruzione
di
luoghi
di
culto
in
relazione
ai
flussi
migratori
nel
mediterraneo
e
alle
dinamiche
di
territorializzazione
dei
gruppi,
attraversati
da
movimenti
tradizionalisti
ed
islamisti
a
carattere
internazionale.
Il
processo
di
re‐islamizzazione
che,
nei
paesi
arabi,
sembra
comportare
una
rielaborazione
identitaria
dei
nazionalismi
“laici”
post‐coloniali
ritenuti
retaggio
di
un
modello
importato
dall’Europa.
Tale
processo
incide
sugli
effetti
e
sulla
costruzione
della
memoria
dell’epoca
coloniale
proponendo
il
ritorno
ad
un
“impero
religioso”
attraverso
l’espansione
mondiale
di
jamaya
islamya
e
specifici
ordini
regolati
in
base
a
modelli
tradizionali
e
a
norme
di
socialità
comunitaria.
Ad
eccezione
delle
immediate
spinte
religiose
in
risposta
alle
esperienze
coloniali
e
neo‐coloniali,
dalle
testimonianze
raccolte
emerge
che
gli
iniziali
fautori
del
laicismo
rappresentano
attualmente
i
principali
protagonisti
del
processo
di
re‐islamizzazione,
inteso
come
riscoperta
dell’identità
religiosa
individuale
con
conseguente
avvicinamento
alla
fede
e
osservanza
della
pratica
religiosa.
Ciò
determina
un
tentativo
di
riappropriazione
collettiva
degli
spazi
devozionali
pubblici
nel
contesto
di
insediamento.
L’analisi
sarà
dunque
focalizzata
sui
mu’minun
di
origine
tunisina
impegnati
nella
gestione
di
enti
religiosi,
aderenti
a
varie
organizzazioni
islamiste
e
membri
del
partito
tunisino
al
Nahda,
portatore
di
una
nuova
sfida
politica
nella
costituzione
di
un
paese
islamico
con
sistema
democratico
e
sul
caso
della
jamat
tabligh
wa
dawa,
dell’ordine
missionario
sunnita,
che
sta
guidando
apoliticamente
il
processo
di
re‐islamizzazione
in
Italia,
nel
quale
è
forte,
accanto
alla
componente
sud‐asiatica,
quella
nord
africana
e
marocchina,
scevra
oramai
dai
complessi
rivendicativi
generati
dalle
dominazioni
coloniali
del
secolo
scorso.
Panel
2
(AULA
16)
Memorie
condivise
e
fratturate
tra
gli
ebrei
originari
dei
paesi
arabo‐musulmani
in
diversi
contesti
I
Emanuela
Trevisan
Semi
(Coordina)
‐
Elisa
Bianchi
(Università
di
Milano,
Discute)
In
questo
panel
verranno
prese
in
esame
le
memorie
condivise
ma
anche
fratturate
che
si
possono
ritrovare
tra
gli
ebrei
originari
dei
paesi
arabo‐musulmani
sia
nel
contesto
israeliano
che
in
quello
14
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
dei
luoghi
d’origine,
come
l’Egitto,
la
Tunisia
e
il
Marocco.
Verranno
prese
in
considerazione
le
operazioni
di
costruzione
o
ricostruzione
identitarie
in
momenti
di
grandi
cambiamenti
storici
come
è
il
caso
degli
ebrei
egiziani
che
tentarono
di
sottolineare
i
propri
aspetti
più
«
egiziani
»
in
un
momento
in
cui
questi
iniziavano
ad
essere
messi
in
discussione
in
seguito
al
degenerare
del
conflitto
arabo‐ebraico
nella
Palestina
Britannica
e
al
diffondersi
del
sionismo
in
Egitto.
Oppure
l’atteggiamento
che
gli
ebrei
di
Tunisia
nel
dopoguerra
ebbero
verso
l’idea
di
una
Tunisia
indipendente
e
l’azione
politica
da
essi
svolta
dopo
la
perdita
della
tutela
francese
e
di
fronte
all’attività
sionista,
nella
consapevolezza
che
cominciava
a
profilarsi
l’idea
di
un
possibile
futuro
distacco
da
quella
che
era
la
terra
dei
propri
avi.
Nel
caso
degli
ebrei
del
Marocco
saranno
le
memorie
che
essi
hanno
lasciato
nel
contesto
musulmano
del
Marocco
di
oggi,
caratterizzato
dallo
loro
quasi
assenza,
ad
essere
prese
in
esame
al
fine
di
mostrare
quanto
una
condivisione
di
codici
e
comportamenti
consentisse
diversi
usi
della
conoscenza
degli
stessi
ovvero
l’azione
di
condivisione
di
memoria
operata
come
atto
narrativo
da
parte
dello
scrittore
Edmond
El
Maleh.
Nel
contesto
israeliano
verrà
analizzato
a
partire
dai
ricordi
personali
dello
scrittore
ebreo
di
origine
irachena,
Shimon
Ballas,
e
di
altri
autori
mizrahim
di
prima
e
seconda
generazione,
la
letteratura
della
ma’abarah
(il
campo
di
transito)
come
la
storia
“vista
dall’altro”,
ovvero
come
la
storia
della
costruzione
dello
Stato
e
della
nazione
vista
dalla
prospettiva
del
gruppo
non
egemonico.
Un
altro
tema
che
verrà
trattato
sarà
l’impatto
della
guerra
dei
sei
giorni
(1967)
e
di
quella
di
kippur
(1973)
nella
memoria
dei
mizrahim,
gli
ebrei
dei
paesi
arabi,
ripercorrendo
le
tappe
attraverso
cui
la
memoria
dei
due
eventi
si
struttura.
Una
terza
comunicazione
prenderà
in
esame
due
miti
fondativi,
il
ritorno
a
Kfar
Etzion
e
l’espulsione
dei
palestinesi,
Al‐Nakba
per
usarli
come
case
studies
che
mettano
in
rilievo
il
ruolo
dei
media
come
strumenti
nel
processo
di
elaborazione
della
memoria
e
di
uso
politico
del
ricordo.
Per
una
nazione
dispersa
la
virtualità
dei
contenuti
multimediali
può
rappresentare
surrogati
di
identità,
in
cui
home
page
costruite
per
un
friendly
use
esibiscono
prodotti
della
memoria
–
storia
orale,
immagini,
fotografie,
film,
documentari‐
con
gradi
differenziati
di
complessità
di
lettura.
• Emanuela
Trevisan
Semi
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
Il
persistere
di
memorie
condivise
e
fratturate
sugli
ebrei
marocchini
nel
Marocco
di
oggi
Lo
scopo
di
questo
intervento
è
di
mostrare
quanto
la
memoria
della
condivisione
di
un
passato
ebraico‐musulmano
come
è
stato
quello
che
ha
caratterizzato
la
storia
degli
ebrei
in
Marocco
possa
contribuire
ad
interpretare
il
presente
in
maniera
meno
ideologica
e
più
complessa.
Si
cercherà
di
dimostrare
quanto
in
una
società
nella
quale
la
codificazione
dei
rapporti
era
molto
chiara
e
definita
si
potesse
approfittare
della
conoscenza
delle
pratiche
dell’altro
in
diversi
modi
e
quanto
la
memoria
di
quel
passato
condiviso
possa
essere
presente
ancora
oggi.
Verrà
preso
in
esame
in
particolare
l’uso
della
conoscenza
delle
pratiche
dell’«altro»
per
mettere
in
rilievo
come
la
differenza
delle
pratiche
degli
uni
e
degli
altri
potesse
dar
luogo
tanto
alla
creazione
di
spazi
di
connivenza
e
d’apertura
quanto
ad
usi
che
tendevano
ad
offendere
o
a
disconoscere
l’altro.
In
particolare
verrà
discussa
la
trasformazione
di
una
festa,
la
Mimuna,
che
se
un
tempo
celebrava
la
reciprocità
e
la
condivisione
conviviale
del
tempo
della
festa
tra
ebrei
e
musulmani
oggi
è
divenuta
solo
una
delle
feste
tradizionali
ebraiche.
• Irene
Siegel
(Hofstra
University),
Memory
and
Reconfigurations
of
Arab‐Jewish
Affiliation
in
the
Work
of
Edmond
Amran
El
Maleh
For
the
upcoming
SeSaMO
conference,
I’d
like
to
propose
a
paper
on
the
work
of
Moroccan
Jewish
writer
Edmond
Amran
El
Maleh.
El
Maleh’s
writing
is
dedicated
to
the
“narrative
act”
of
re‐
membering
the
co‐extensive
history
of
Arabs
and
Jews
in
Morocco
and
the
larger
Arab‐
Mediterranean
region.
His
work
resituates
and
re‐sites
“Jewish
memory”
and
Jewish
national
identity,
locating
“home”
in
the
Diasporic
realm,
rather
than
the
newly
appointed
“fulcrum”
in
the
form
of
the
Israeli
state.
El
Maleh’s
work
challenges
Jewish
nationalist
narratives
of
margin/center
that
efface
the
Jewish
experience
beyond
the
bounds
of
Europe;
as
well
as
the
marginalization
of
Moroccan
Jews
within
Israel.
In
so
doing,
he
relates
these
narratives
both
to
the
totalizing
discourses
of
French
colonialism
and
the
predations
of
World
War
II.
El
Maleh
instead
elaborates
a
mystical
poetics
of
‘repair,’
rejecting
the
false
secularist
terms
of
European
–
and
Israeli
–
identity,
and
instead
invoking
a
shared
Semitic
continuum.
El
Maleh’s
work
engages
Jewish
and
Islamic
mysticism,
the
work
of
Walter
Benjamin,
and
a
broad
range
of
Arab
and
Mediterranean
modernist
thinkers,
15
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
displacing
and
provincializing
authorizing
European
and
Ashkenazi‐Jewish
narratives.
In
this
way,
he
stages
a
classic
Modernist,
anti‐rationalist
critique
in
a
new
frame,
re‐imagining
contemporary
conceptions
of
Jewish‐Arab
affiliation.
• Filippo
Petrucci
(Università
di
Cagliari),
Ebrei
in
Tunisia
nel
secondo
dopoguerra:
testimonianze
e
racconti
Il
tentativo
che
mi
propongo
con
il
mio
intervento
è
provare
a
raccontare,
tramite
testimonianze
raccolte
in
archivio
e
alcuni
racconti
familiari
pubblicati
di
recente
o
solo
per
la
cerchia
dei
familiari,
le
impressioni
e
le
azioni
degli
ebrei
tunisini
fra
la
fine
dei
’40
e
i
primi
anni
’50.
Il
periodo
storico
preso
in
esame
è
un
momento
fondamentale
per
la
Tunisia
e
anche
per
la
sua
comunità
ebraica.
Uscito
dalla
seconda
guerra
mondiale
dopo
sei
mesi
di
occupazione
nazifascista,
con
bombardamenti
e
invasioni
terrestri
dei
diversi
eserciti
impegnati
nel
conflitto,
il
paese
nordafricano
si
avvia
in
questi
anni
verso
la
transizione
che
lo
porterà
all’indipendenza.
Un
territorio
dominato
dalla
potenza
protettrice
francese,
abitato
ancora
da
migliaia
di
europei
(circa
il
7,4%
del
totale)
dove
si
andava
formando
una
coscienza
nazionale
autonoma
che
avrebbe
dato
luogo
alla
costruzione
di
una
nuova
realtà
indipendente.
In
questo
contesto
va
considerata
la
posizione
della
comunità
ebraica
tunisina
e
la
sua
azione
all’interno
della
comunità
nazionale:
una
realtà,
quella
ebraica,
presente
da
sempre
sul
suolo
tunisino,
e
che
condivideva
lingua,
abitudini
e
stile
di
vita
con
i
propri
connazionali
di
religione
musulmana.
Ciò
che
mi
interessa
mostrare
è
l’attitudine
di
questi
ebrei
verso
l’idea
di
una
Tunisia
indipendente,
il
loro
ruolo
nei
partiti,
la
loro
azione
politica,
le
preoccupazioni
legate
alla
perdita
delle
tutela
francese,
l’attività
sionista,
l’attaccamento
al
proprio
paese,
la
coscienza
di
un
possibile
e
futuro
distacco
da
quella
che
era
la
terra
dei
propri
avi.
La
minoritaria
comunità
ebraica
tunisina
non
reagirà
in
maniera
univoca
in
questo
periodo,
diverse
saranno
le
risposte
che
metterà
in
atto,
e
diverso
anche
l’atteggiamento
verso
chi
stava
operando
allora
per
ottenere
il
distacco
dalla
Francia.
Attraverso
le
opere
di
memorialistica
familiare
e
le
testimonianze
orali
raccolte
nel
corposo
archivio
dello
Yad
Vashem,
vorrei
riuscire
a
ottenere
un
quadro
storico,
chiaramente
incompleto
e
da
approfondire,
ma
capace
di
rendere
l’idea
di
una
comunità
varia,
una
umanità
complessa
e
multiforme
che
allora
abitava
la
Tunisia
non
ancora
indipendente.
• Dario
Miccoli
(European
University
Institute,
Firenze),
Mosé
e
Faruq.
Gli
ebrei
e
lo
studio
della
storia
nell’Egitto
monarchico
(ca.
1920‐1940)
Il
mio
paper
vuole
mettere
in
luce
un
episodio
poco
noto
della
storia
degli
ebrei
egiziani,
vale
a
dire
il
loro
coinvolgimento
nel
dibattito
intellettuale
e
storiografico
dell’Egitto
monarchico,
sottolineando
come
essi
non
furono
–
come
spesso
si
è
detto
–
una
comunità
estranea
alla
società
egiziana,
ma
un
gruppo
che
in
molti
casi
ne
fu
invece
parte
attiva.
È
mia
intenzione
dimostrare
come
l’identità
ebraica
egiziana
poté
essere
declinata
in‐tra
Faraonismo,
richiami
biblici
e
suggestioni
cosmopolite,
finendo
per
complicare
il
binomio
ebraicità‐arabicità
e
reinserendolo
appieno
al
centro
della
storia
culturale
e
intellettuale
del
Medio
Oriente
contemporaneo.
Nel
mio
intervento,
analizzerò
quindi
la
nascita
di
una
Société
des
Etudes
Historiques
Juives
d’Egypte
ad
opera
di
un
gruppo
di
membri
della
borghesia
ebraica
del
Cairo
nel
1925
e
alcuni
libri
di
carattere
storico
e
cronachistico
scritti
negli
anni
’30
e
’40
dall’ebreo
cairota
Maurice
Fargeon
–
Les
Juifs
en
Egypte
(1938);
Médécins
et
avocats
Juifs
au
service
de
l’Egypte
(1939)
e
lo
Annuaire
des
Juifs
d’Egypte
et
du
Proche
Orient
(1943)
–
e
dall’alessandrino
Bension
Taragan
–
Les
communautés
israélites
d’Alexandrie
(1932).
Questi
testi
furono
pubblicati
in
un
decennio
di
grandi
cambiamenti
e
dibattiti
intellettuali
caratterizzati
dalla
fine
del
regno
di
Fu‘ad
e
la
salita
al
trono
del
figlio
Faruq
(1936),
la
stipulazione
del
trattato
anglo‐egiziano
di
Montreux
(1936)
e
le
conseguenze
che
esso
comportò
per
le
comunità
di
minoranza
e,
non
da
ultimo,
il
progressivo
radicalizzarsi
dello
scenario
politico
nazionale
in
parallelo
al
declino
del
partito
Wafd.
Con
questi
libri,
gli
autori
tentarono
quindi
di
sottolineare
l’egizianità
degli
ebrei
in
un
momento
in
cui
essa
iniziava
ad
essere
messa
in
discussione,
anche
in
seguito
al
degenerare
del
conflitto
arabo‐ebraico
nella
Palestina
Britannica
e
al
diffondersi
del
sionismo
in
Egitto.
16
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Per
fare
ciò,
si
cercò
di
ricostruire
e
re‐inventare
in
modo
più
o
meno
scientifico
una
tradizione
e
un
passato
nazionale
per
gli
ebrei,
ricorrendo
da
una
parte
a
richiami
biblici
e
faraonici
–
come
peraltro
era
avvenuto
attraverso
il
cosiddetto
Faraonismo
anche
per
gli
egiziani
musulmani
a
partire
dalla
fine
del
diciannovesimo
secolo
–
e
dall’altra
definendo
l’egizianità
non
tanto
come
una
nozione
giuridica
di
nazionalità,
quanto
piuttosto
come
un
profondo
e
condiviso
sentimento
di
amore
per
la
terra
dove
si
era
scelto
di
vivere
e
che
molti
ebrei
avevano
contribuito
a
far
crescere
dal
punto
di
vista
sociale
ed
economico.
Panel
3
(AULA
13)
Luoghi
della
memoria
in
Medio
Oriente/Places
of
memory
in
the
Middle
East
Domenico
Copertino
(Coordina)
–
Paola
Abenante
(University
of
Bergen,
discute)
Questo
panel
si
propone
come
un
momento
di
riflessione
e
scambio
sulle
questioni
legate
all’edificazione,
ricostruzione,
invenzione
di
luoghi
della
memoria
in
Medio
Oriente.
In
molte
città
mediorientali,
alcuni
luoghi,
ritenuti
significativi
perché
espressioni
di
una
storia
o
di
una
identità
nazionale,
etnica,
religiosa
–
concetti
declinati
in
modo
differente
a
seconda
dei
contesti
e
delle
strategie
messe
in
atto
dai
diversi
attori
in
campo
–,
sono
sottoposti
a
processi
di
trasformazione
che
vanno
indagati
come
importanti
fenomeni
storico‐culturali.
È
utile,
di
conseguenza,
approfondire
le
relazioni
tra
cultura
e
uso
dello
spazio
nelle
città
mediorientali.
Le
trasformazioni
dello
spazio
urbano
che
molte
città
mediorientali
hanno
sperimentato
a
partire
dall’epoca
coloniale
sono
strettamente
collegate
a
importanti
cambiamenti
negli
stili
di
vita,
nelle
forme
dell’immaginazione
delle
persone
e
nelle
relazioni
di
potere
tra
i
gruppi
sociali.
Nell’utilizzo
dello
spazio
urbano
prendono
una
forma
visibile
le
relazioni
di
potere
esistenti
nelle
società:
dagli
scontri,
resistenze
e
adattamenti
tra
i
reciproci
interessi
dei
gruppi
spesso
emergono
forme
spaziali
nuove,
o
quelle
esistenti
si
riadattano.
Nel
periodo
dei
mandati
delle
nazioni
europee
in
Medio
Oriente,
le
città
di
questa
regione
furono
utilizzate
come
cantieri
delle
sperimentazioni
moderniste
degli
urbanisti
coloniali,
interessati
a
tradurre
in
realtà
le
teorie
apprese
in
patria.
Individuate
delle
esigenze
umane
che
si
presumevano
universali,
i
disegnatori
urbani
moderni
ritenevano
possibile
soddisfarle
attraverso
una
pianificazione
urbana
imposta
dall’alto
e
valida
per
qualsiasi
contesto
geografico
e
culturale,
a
prescindere
dalle
caratteristiche
specifiche
delle
società
e
delle
località.
L’obiettivo
di
questa
pianificazione
urbana
era
di
stimolare
la
mobilità
tutelando
contemporaneamente
la
“Natura”
e
la
“Storia”,
oggettivate
in
alcuni
tratti
del
territorio,
come
le
mitiche
oasi
mediorientali
e
i
“centri
storici”.
L’imposizione
di
impianti
urbani
nei
quali
le
città
moderne,
cioè
europee,
erano
separate
da
quelle
preesistenti
rafforzò
la
sensazione
che
anche
le
società
fossero
divise
tra
arabi
ed
europei,
colonizzati
e
colonizzatori.
Trasferirsi
nei
quartieri
moderni
diventò
un
simbolo
di
elevazione
sociale,
che
spinse
gruppi,
famiglie,
individui
dall’elevato
livello
socio‐economico
–
molto
spesso
referenti
delle
autorità
coloniali
nel
controllo
della
società
locale
–
ad
abbandonare
quelle
che
erano
considerate
“città
antiche”,
luoghi
arretrati
e
poco
adatti
alla
vita
moderna.
Nel
corso
del
ventesimo
secolo,
di
conseguenza,
si
diffuse
la
sensazione
che
le
città
antiche
fossero
luoghi
di
miseria
e
arretratezza;
tale
sensazione
si
rafforzò
a
causa
della
conseguente
perdita
di
valore
degli
immobili
e
dell’affluenza
in
queste
aree
di
gruppi
dal
basso
livello
socio‐
economico.
Ai
gruppi
che
si
erano
trasferiti
nei
quartieri
moderni,
il
degrado
delle
città
antiche
sembrò
peggiorare
a
causa
dei
grandi
spostamenti
demografici
di
cui
il
Medio
Oriente
è
stato
teatro
nel
corso
del
Novecento
(l’esodo
dei
Palestinesi,
la
diaspora
degli
Armeni,
le
migrazioni
dei
Kurdi,
lo
sfollamento
del
Golan,
ed
altri
eventi
di
simile
portata),
che
spinsero
molti
gruppi
dalle
scarse
possibilità
economiche
e
ridotte
esigenze
di
manutenzione
degli
immobili
ad
occupare
gli
edifici
svuotati
di
molte
città
antiche.
Il
discorso
sul
degrado,
l’arretratezza
e
lo
stato
di
abbandono
è
uno
strumento
di
potere
che
viene
utilizzato
sia
da
istituzioni
nazionali
e
internazionali
interessate
al
recupero
dei
monumenti
antichi,
intesi
come
simboli
delle
identità
nazionali,
sia
da
attori
privati
che
investono
capitali
monetari
nel
restauro
degli
edifici
“degradati”.
Infatti,
le
più
recenti
trasformazioni
nelle
città
mediorientali
sono
state
introdotte
dall’accresciuto
interesse,
negli
ultimi
decenni,
per
i
cosiddetti
17
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
“centri
storici”,
supportato
in
molti
casi
dall’intervento
di
organizzazioni
internazionali
come
la
United
Nations
Educational
Scientific
and
Cultural
Organization
(UNESCO)
e
la
Agha
Khan
Fund
for
Economic
Development
(AKFED).
Finita
da
tempo
l’epoca
dei
grandi
interventi
pubblici
nella
modernizzazione
delle
città,
attualmente
le
azioni
di
riqualificazione
o
gentrification
delle
città
antiche
(anche
se
spesso
promosse
da
istituzioni
statali)
sono
condotte
soprattutto
da
investitori
del
settore
alberghiero,
turistico
e
culturale,
tranne
nel
caso
dei
principali
monumenti
religiosi
e
civili.
I
contributi
di
questo
panel
potranno
indagare
sia
casi
di
recupero
di
particolari
monumenti,
sia
casi
di
riqualificazione
di
interi
quartieri.
Gli
attori
sociali,
economici,
istituzionali
impegnati
nella
trasformazione
dello
spazio
urbano
mettono
in
campo
molteplici
capitali:
il
capitale
monetario
degli
investitori;
il
capitale
legale‐
istituzionale
degli
enti
governativi
preposti
alla
tutela
dei
beni
storico‐architettonici;
il
capitale
di
influenza
politica
degli
enti
sovranazionali
della
salvaguardia
del
patrimonio
architettonico
(UNESCO,
AKFED)
e
dei
loro
impiegati;
il
capitale
di
conoscenze
tecniche
e
di
relazioni
umane
dei
capomastri
(mo’allem)
e
dei
muratori;
il
capitale
scientifico
e
formativo
degli
architetti
che
dirigono
i
restauri;
il
capitale
simbolico
legato
allo
spazio,
all’abitazione
e
al
movimento,
detenuto
dai
residenti.
Il
capitale
immaginativo
che
i
gruppi
hanno
a
disposizione,
ovvero
la
loro
immaginazione,
va
studiato
come
una
risorsa
molto
importante
nell’interazione
sociale.
Arjun
Appadurai
(2001)
ha
dimostrato
che
nelle
società
contemporanee
l’immaginazione
è
un
fenomeno
collettivo,
sociale,
i
cui
prodotti
non
sono
soltanto
dei
costrutti
mentali
che
si
applicano
alla
realtà
esterna,
come
se
questa
esistesse
prima,
dopo
e
nonostante
essi
(Hannerz
1998
e
2007,
Anderson
1996):
i
capitali
immaginativi
sono
tra
i
materiali
costitutivi
dell’ambiente
urbano;
questi
capitali
alimentano
una
serie
di
valori
(tradizione,
storicità,
identità,
autenticità)
che
vengono
utilizzati,
al
pari
dei
materiali
edilizi
“tradizionali”
(pietra,
legno,
terra,
sabbia)
nella
costruzione,
nel
restauro
e
nella
circolazione
degli
oggetti
spaziali
che
costituiscono
le
località
chiamate
“città
antiche”.
Nei
cantieri
dei
restauri
delle
antichità
si
costruisce
un’immagine
del
passato
locale
che
da
una
parte
costituisce
la
rappresentazione
che
la
nazione
offre
del
proprio
passato
e
della
propria
memoria,
dall’altra
diventa
lo
scenario
dentro
il
quale
i
gruppi
di
investitori
e
di
nuovi
residenti
scelgono
di
vivere
e
di
agire;
i
cantieri
dell’immaginazione
producono
spazi
tanto
concreti
quanto
simbolici,
tanto
reali
quanto
immaginari;
le
relazioni
di
potere
che
agiscono
nel
campo
della
riqualificazione
urbana
consentono
agli
immaginari
di
alcuni
gruppi
di
sopravvivere
ed
escludono
gli
immaginari
di
altri
gruppi.
La
“casa
araba”,
il
“quartiere”,
il
“vicinato”,
la
“città
antica”,
il
“caffè”
sono
spazi
nei
quali
l’investimento
di
capitali
monetari,
immaginativi,
relazionali,
scientifici,
ha
portato
alcuni
gruppi
a
imporre
la
propria
presenza
ai
danni
di
altri
gruppi,
resi
marginali
ed
esclusi
dalla
riqualificazione
e
patrimonializzazione
delle
antichità.
Gli
immaginari
sociali
che
hanno
prodotto
e
continuano
a
produrre
le
città
antiche
mediorientali
come
località
specifiche
si
sono
formati,
sin
dai
primi
decenni
del
Novecento,
a
partire
dalla
convergenza
di
fenomeni
globali,
quali
le
relazioni
coloniali
tra
il
Medio
Oriente
e
le
nazioni
europee,
la
nascita
degli
stati
nazionali
mediorientali,
le
“eredità”
dei
mandati
–
soprattutto
il
mandato
francese
‐,
l’esodo
di
popolazioni
attraverso
i
confini
dei
moderni
stati
nazionali
mediorientali
e
la
conseguente
formazione
di
gruppi
marginali
nelle
principali
città,
l’intervento
di
organismi
sovranazionali
nella
riqualificazione
urbana,
l’assunzione
di
finalità
disciplinari
da
parte
delle
amministrazioni
pubbliche
che
si
occupano
di
catasti
e
censimenti,
lo
sviluppo
del
capitale
dell’imprenditoria
immobiliare.
È
evidente,
di
conseguenza,
che
l’immaginario
legato
ai
luoghi
antichi
si
è
formato
in
prevalenza
con
l’ingresso
della
modernità
in
Medio
Oriente;
eppure
l’immaginario
legato
a
questi
luoghi
è
costruito
attraverso
il
richiamo
a
un
passato
più
remoto,
precedente
al
periodo
dei
mandati
europei.
Nei
cantieri
di
restauro
e
riqualificazione
delle
città
antiche
si
costruiscono
i
luoghi
che
daranno
una
forma
spaziale
agli
immaginari
sociali
(ma
anche
agli
immaginari
individuali)
legati
alla
memoria
e
al
passato;
la
dimensione
temporale
del
ricordo
e
della
nostalgia
per
qualcosa
che
si
è
perso
è
recuperata
nella
dimensione
spaziale
di
una
città
che,
sebbene
sia
chiamata
“antica”,
in
realtà
è
una
città
in
costruzione
(come
ricorda
il
titolo
del
lavoro
di
Christa
Salamandra
A
New
Old
Damascus).
Le
istituzioni
della
salvaguardia
del
patrimonio,
i
nuovi
residenti
e
gli
attori
sociali
della
riqualificazione
costruiscono
questo
spazio‐tempo
utilizzando
una
grammatica
i
cui
elementi
sono
forme
architettoniche,
poesie,
dipinti,
sculture,
musiche,
stili
di
abbigliamento,
oggetti,
tipi
di
arredamento,
storie
raccontate
e
mostrate
in
televisione,
atteggiamenti,
narrazioni,
resoconti
storici.
Ciò
che
viene
costruito
è
una
città,
intesa
come
spazio
sociale,
che
assegna
una
forma
concreta
a
qualcosa
che
sta
al
di
là
delle
possibilità
espressive
di
cui
gli
attori
sociali
dispongono,
perchè
si
trova
nel
territorio
dell’immaginazione
e
della
rappresentazione
(Crapanzano
2007).
La
città
antica
dà
forma
a
quel
retroterra
che
i
promotori
18
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
della
salvaguardia
e
della
riqualificazione
condividono,
fatto
di
immagini
provenienti
da
un
passato
dal
quale
essi
avvertono
un
distacco
e
nei
confronti
del
quale
provano
un
senso
di
nostalgia.
Il
loro
retroterra
comune,
o
immaginario
collettivo,
è
la
memoria
di
un
mondo
sociale
scomparso,
immaginato
come
un
contesto
di
valori
e
relazioni
migliore
del
presente.
In
nome
di
questa
memoria,
essi
si
fanno
promotori
della
riqualificazione
dei
luoghi
antichi,
che
a
loro
parere
hanno
subito
un
degrado
a
causa
delle
dinamiche
che
sin
dall’Ottocento
hanno
posto
le
città
mediorientali
al
centro
di
interessi
internazionali
e
di
movimenti
demografici
difficilmente
controllabili.
Nei
cantieri
dei
restauri
questi
attori
sociali
costruiscono
il
contesto
spaziale
adatto
per
trasformare
la
loro
immaginazione
in
realtà.
Il
retroterra
dei
mustathmarin
prende
forma
nei
cantieri
dell’immaginazione:
qui
essi
rendono
reali
le
forme
urbane
che
dovrebbero
ospitare
valori
come
il
vicinato,
l’amore,
il
calore
familiare,
la
protezione
delle
donne,
la
sacralità
dello
spazio,
il
carattere
maschile,
le
gerarchie
familiari.
Queste
forme,
sognate,
evocate
nei
modi
di
dire,
emergenti
a
tratti
dall’immaginazione
degli
sceneggiatori
e
registi
televisivi,
diventano
concrete
nelle
città
antiche
restaurate
e
valorizzate.
This
panel
is
thought
as
an
occasion
of
reflection
and
debate
about
the
issues
of
production,
building,
reconstruction,
invention
of
places
of
memory
in
the
Middle
East.
Different
actors
claim
certain
urban
places
in
the
Middle
East
to
be
expressions
of
a
national,
ethnic,
religious,
cultural
or
historical
identity
‐
concepts
understood
differently
according
to
different
contexts
and
actors
‐
and
transform
such
places
through
practices
and
strategies
that
is
worth
to
analyze
as
major
cultural
phenomena.
Thus,
it
is
useful
to
deepen
the
relations
between
culture
and
uses
of
the
space
in
Middle
Eastern
cities.
The
current
and
former
transformations
of
urban
space
are
strictly
related
to
changes
in
people’s
lifestyles
and
forms
of
imagination
and
in
power
relations
among
social
groups:
new
spatial
forms
often
emerge
from
‐
and
existing
forms
accommodate
to
‐
encounters,
clashes,
resistances
and
compromises
among
social
groups'
mutual
interests.
The
latest
changes
in
Middle
Eastern
cities
derive
from
the
growing
interest
for
the
ancient
districts
and
so‐called
"old
towns",
often
supported
by
international
organizations
such
as
Unesco
and
Akfed
(Agha
Khan
Fund
for
Economic
Development);
such
interest
resulted
on
the
one
side
in
the
gentrification
of
ancient
districts
and
neighbourhoods,
fostered
by
state
institutions
and
private
investors
in
tourism
and
cultural
amenities,
on
the
other
side
in
the
restoration
of
main
religious
and
civil
monuments.
Contributors
of
this
panel
will
focus
both
on
cases
of
restoration
of
specific
monuments
and
on
cases
of
rehabilitation
or
gentrification
of
entire
neighbourhoods.
• Domenico
Copertino
(University
of
Milano
Bicocca),
Life
in
a
place
of
memory:
being
part
of
the
World
Heritage
in
Damascus
In
this
paper
I
discuss
the
practices
of
Damascus
architectural
heritage
development
as
culturally
meaningful
acts,
through
which
actors
involved
constitute
an
arena
of
confrontation
and
argument
about
the
production
of
a
“place
of
memory”
(Nora
2006,
Halbwachs
1996,
Boyer
1994,
Paolucci
2007)
called
"the
old
city";
as
I
try
to
show,
such
process
is
not
an
even
and
uncontested
one:
what
emerge
from
the
arena
of
heritage
development
are
different
and
multi‐
faceted
forms
of
memory,
in
contrast
to
each
other.
Once
the
site
of
orientalist
imaginary
linked
to
Islamic
immobility
and
Oriental
backwardness,
reified
in
the
spatial
object
called
the
Islamic
city
(Eickelman
1974,
Abu‐Lughod
1987),
during
the
French
mandate
the
old
city
became
the
site
of
colonial
urban
designers'
experiments,
aimed
at
imprinting
modernity
in
the
space
(Rabinow
1989);
stigmatized
by
local
elites
as
the
place
of
marginality
and
overpopulation,
it
was
left
to
uncontrolled
immigration
from
rural
areas
and
from
regions
in
turmoil
beyond
Syrian
borders;
for
this
very
reason
recognized
as
a
site
worthy
of
protection,
the
old
city
was
listed
as
part
of
Unesco
WHL
and
became
the
site
of
different
groups'
converging
interests,
either
rationalized
as
original
and
legitimate
inhabitants'
nostalgia
for
the
place
they
were
forced
to
flee
from,
or
resulting
in
safeguard
institutions'
and
private
investors'
projects
of
restoration
of
buildings
and
gentrification
of
neighbourhoods.
The
ethnographic
analysis
of
heritage
politics
arouses
several
questions
about
the
status
of
the
subjects
who
act
in
this
complex
arena,
in
which
global
and
local
ideas,
representations,
and
practices
merge
and
produce
different
forms
of
memory.
On
the
one
side
of
this
arena
we
find
gentrifiers
‐
a
vast
category
in
which
I
include
both
newcomers
and
descendants
of
affluent
families
that
formerly
“left”
the
old
city,
both
new
residents
and
new
“traditional”
venues
owners,
19
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
whose
representations
of
cultural
heritage
are
evidently
influenced
by
Unesco
discourses;
along
with
Unesco
intellectuals,
free‐lance
architects
and
Syrian
heritage
institutions'
directors,
gentrifiers
are
part
of
an
international
class,
in
Pierre
Bourdieu's
terms
(1979),
which
share
similar
habitus,
concepts
and
practices;
on
the
other
side
we
find
former
residents
of
the
old
city,
blamed
for
the
dilapidation
of
the
architectural
heritage,
who
nevertheless
produce
their
specific
representations
and
forms
of
memory
embedded
in
the
space.
Among
these
poles
we
find
other
actors
‐
master
builders,
old
residents
influenced
by
heritage
discourses,
small
entrepreneurs
of
tourist
sector
‐
whose
practices
and
ideas
make
social
and
cultural
borders
among
categories
fuzzy
and
help
emerge
the
complexity
of
the
production
of
this
place
of
memory.
Whereas
Unesco
and
local
institutions'
intellectuals
propose
an
imagine
of
Damascus
old
city
as
a
place
that
carries
the
weight
of
a
multi‐millenary
past,
a
place
of
memory
linked
firstly
to
the
political
powers
that
through
history
dominated
Syria
(Arameans,
Persians,
Seleucids,
Romans,
Byzantines,
Umayyads,
Seljuqs,
Ayyubs,
Mameluks,
Ottomans),
I'm
interested
in
the
practices
and
strategies
people
actually
living
in
the
old
city,
and
therefore
being
part
of
the
heritage,
carry
out
to
develop
their
own
forms
of
memory
and
to
embed
and
recognize
such
memory
in
specific
forms
and
representations
of
the
space.
• Béatrice
Hendrich
(Justus–Liebig–Universität
Giessen),
Negotiating
and
rebuilding
religious
sites
in
Cyprus
Cyprus
is
culturally
determined
by
all
kind
of
“multi‐“:
Multi‐ethnic,
multi‐lingual,
multi‐
religious.
This
diversity
has
sometimes
resulted
in
new
hybrid
forms,
sometimes
in
atrocities
about
the
right
creed/language/nationality.
The
history
of
“contested
sites”
in
Cyprus
is
long.
Soldiers
and
rulers
of
differing
Christian
confessions
fought
for
the
possession
of
the
island
including
its
many
churches
and
monasteries.
With
the
Ottoman
conquest
in
the
16th
century,
some
major
Gothic
churches
were
turned
into
mosques,
but
at
the
level
of
popular
creed,
graves
and
chapels
turned
into
sites
of
“double
use”
by
Muslims
and
Christians.
This
more
or
less
relaxed
coexistence
and
interblending
continued
until
the
warlike
situation
after
Cypriot
independence
in
the
20th
century.
With
the
division
of
the
island
into
a
northern
and
a
southern
part
after
the
landing
of
Turkish
troops
in
1974
and
the
following
migration
of
citizens
of
the
Turkish
Republic,
ethnic
and
religious
difference
got
a
new
essentialist
quality.
Furthermore,
some
main
religious
sites
happened
to
be
located
at
the
“wrong
side”
of
the
island,
like
the
Apostolos
Andreas
Monastery
at
the
Karpass
Peninsula
in
the
north,
and
the
Hala
Sultan
Tekke
in
the
south.
Needless
to
say
that
many
small
religious
sites,
but
also
those
of
a
certain
historical
and
identical
importance
had
been
destroyed
during
the
fightings.
Restoration
work
is
going
on
since
the
80s.
Big
players
like
the
AKDN
(Aga
Khan
Development
Network)
and
the
UN
(UNOPS)
are
included.
Due
to
a
certain
improving
of
the
north‐south
relations,
protection
and
restoration
of
all
kind
of
architectural
sites
have
grown
by
numbers
and
accelerated.
The
intense
international
financial
support
of
any
(inter‐communal
or
inter‐
religious)
cultural
activity
led
to
a
restoration
activity
that
is
sometimes
realized
disjoined
from
the
general
development
of
the
quarter
and
carried
out
almost
“in
secret”,
e.g.
because
the
(now
orthodox)
neighbourhood
has
no
interest
in
the
protection
of
a
(Muslim/Sufi)
monastery.
Major
sites
like
Apostolos
Andreas
and
Hala
Sultan
remain
as
hostages
in
the
hands
of
governments
and
religious
pressure
groups.
The
paper
will
hint
to
the
history
of
contested
sites
in
Cyprus
and
dwell
on
current
problems
related
to
the
fate
of
religious
sites
at
the
“wrong
site”
or
in
buffer
zones;
it
will
ask
for
actors,
failures
and
symbolic
discourses.
• Anita
De
Donato
(Università
di
Milano‐Bicocca),
The
Timeless
Village.
Political
relations
in
the
construction
of
the
refugee
camp
of
Dheisha
(West
Bank)
as
a
place
of
memory
This
ethnographic
research
focuses
on
the
production
of
the
refugee
camp
of
Dheisha,
placed
in
the
West
Bank,
as
a
place
of
social
construction
of
the
memory
of
the
period
before
the
diaspora
and
of
the
identity
of
its
dwellers,
through
the
analysis
of
the
organization
and
the
use
of
the
space
acted
by
refugees
and
the
management
strategies
of
the
institutional
authorities.
Through
the
spatial
and
symbolic
reproduction
of
the
cultural
and
political
models
that
grounded
the
tribal
“imaged
communities”
of
their
villages
of
origin,
refugees
rebuild
their
social
20
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
world
giving
a
sense
to
the
reality
of
dispersion
and
claim
their
cultural
and
political
specificity
towards
Israeli
occupation
forces,
the
UNRWA
and
the
PNA.
The
construction
of
the
refugee
camp
as
a
place
of
memory
emerges
as
a
political
arena
in
which
different
groups
of
interest
compete
through
the
practices
for
the
definition
of
the
status
of
the
refugee
camp
and
of
its
inhabitants.
The
social
space
of
Dheisha
and
its
meaning
are
shaped
by
the
movements
and
the
power
relations
among
its
inhabitants,
connected
with
the
growing
economic
segmentation,
the
institution
of
the
PNA
and
the
colonial
strategies
acted
by
Israeli
military
forces.
The
management
and
control
strategies
acted
by
the
PNA
and
the
UNRWA
inside
the
refugee
camp
aim
to
change
the
local
interpretation
of
the
historical
and
cultural
memory
of
the
villages
of
origin,
to
stabilize
the
refugee
camp
and
to
integrate
its
dwellers
as
citizens.
The
construction
of
differences
between
citizens
and
refugees,
and
their
respective
imaginaries
of
the
refugee
camp
as
a
“backward”
place
or
as
an
expression
of
“cultural
authenticity”,
are
political
strategies
acted
in
the
context
of
the
growing
competition
for
the
material
and
symbolic
resources
of
the
area.
Concerning
infrastructures
development,
resources
distribution
and
services
administration
acted
by
the
UNRWA
and
the
PNA,
refugees
claim
the
marginality
conditions
implied
by
the
temporariness
of
the
camp,
compared
to
the
surrounding
urban
area,
as
a
form
of
political
opposition
to
keep
the
refugee
camp
as
a
place
of
memory
of
the
refugee
status
and
of
the
related
right
of
return
to
the
lost
lands.
• Luca
Nevola
(Università
Milano
Bicocca),
Hijrah
e
hawtah:
spazi
inviolabili
e
costruzione
dell’identità
sayyid
in
Yemen
Hijrah
e
hawtah
sono
istituzioni
caratteristiche,
rispettivamente,
del
nord
dello
Yemen
e
dello
Hadramawt.
Entrambe
distinguono
uno
spazio
inviolabile,
un'enclave
neutrale
all'interno
del
sistema
tribale.
Tali
spazi
sono
spesso
associati
alla
presenza
dei
sādah
(s.
sayyid),
una
classe
digiurisperiti
che
vanta
la
propria
appartenenza
al
ramo
Hasanī
della
discendenza
del
Profeta.
La
reputazione
dei
sādah,
e
dunque
la
loro
autorità,
si
fonda
su
di
una
memoria
culturale
(Assmann,
1997)
che
enfatizza
il
genos,
l'ephos
e
‐
soprattutto
nel
caso
delle
hawtah
‐
il
topos
(Tullio‐Altan,
1995),
il
«territorio
trasfigurato
dai
miti
d'origine
e
dall'identificazione
del
gruppo
con
esso»
(Fabietti,
1998).
Questi
"spazi
inviolabili"
sono
stati
presi
in
considerazione
dall'analisi
antropologica
in
seguito
agli
stimolanti
paralleli
stabiliti
da
Serjeant
(1962)
tra
le
hawtah
e
lo
haram
meccano.
Lo
"sguardo
trasversale"
dell'antropologia
sì
è
infatti
soffermato
sulla
relazione
tra
"santi"
e
"santuari",
costruendo
"somiglianze
di
famiglia"
che
attraversano
il
tempo
(dalla
Jāhiliyyah
ai
nostri
giorni)
e
lo
spazio
(dall'Atlante
marocchino
fino
all'Arabia
del
Sud),
accomunando
"sistemi
sociali"
caratterizzati
da
un
principio
di
strutturazione
politica
di
tipo
"segmentario".
L'analisi
comparativa
ha
evidenziato
come,
in
tali
contesti,
la
relazione
"santi
/
santuari"
svolga
una
fondamentale
funzione
di
mediazione
(Gellner,
1969;
Fabietti,
1989;
Bédoucha
e
Albergoni,
1991).
Questo
articolo
si
propone
di
istituire
un
parallelo
tra
hijrah
ed
hawtah,
indagando
il
complesso
pratico‐simbolico
che
concorre
alla
delimitazione
di
uno
"spazio
inviolabile".
La
costruzione
dell'inviolabilità
‐
caratteristica
comune
a
tutti
i
luoghi
indagati
‐
è
infatti
implementata
a
mezzo
di
molteplici
linguaggi,
tra
i
quali
spicca
il
linguaggio
dell'onore
(sharaf)
tribale.
In
quest'ottica,
la
"sacralità"
dei
luoghi
e
la
loro
associazione
con
un
"santo"
figurano
come
caso
particolare
all'interno
di
un
modello
più
generale.
Per
dimostrare
quanto
fin
qui
sostenuto,
prenderemo
in
considerazione
le
dinamiche
che
hanno
portato
all'affermazione
della
classe
dei
sādah
all'interno
di
(alcune)
hijrah
ed
hawtah.
Descrivendo
queste
enclaves
alla
stregua
di
"campi
sociali"
(Bourdieu,
1979),
zone
di
lotta
definite
dalla
relazione
tra
capitali
simbolici,
enfatizzeremo
la
stretta
associazione
esistente
tra
sādah
e
"spazi
inviolabili",
poggiante
sulla
costruzione
di
un'identità
sapientemente
differenziata
rispetto
a:
a)
quella
dei
loro
diretti
concorrenti
nel
campo
sociale
(ad
esempio
i
fuqahā
di
origine
qahtanita);
b)
quella
dei
qabāyl
(s.
qabīly),
gli
uomini
della
tribù;
c)
quella
degli
individui
"deboli".
Cercheremo
infine
di
dimostrare
quanto
la
costruzione
selettiva
della
memoria
giochi
un
ruolo
fondamentale
nella
strutturazione
del
capitale
simbolico
dei
sādah.
A
tal
fine
approfondiremo
il
caso
del
santuario
del
profeta
pre‐
islamico
Hūd,
nello
Hadramawt,
e
della
città
di
San’ā’.
• Kobi
Peled
(Ben‐Gurion
University
of
the
Negev),
Rural
Memories
in
an
Urban
Setting:
Grassroots
Conservation
and
Identity
Construction
in
an
Israeli
Arab
town
21
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
This
paper
will
explore
the
contemporary
history
of
an
ancient
well
that
had
been
a
vivid
milieu
de
mémoire,
in
Pierre
Nora’s
term,
for
hundreds
of
years.
In
the
1950s
water
pipelines
were
connected
to
many
houses
in
the
Palestinian
Israeli
town
of
Baqa
al‐Gharbiyya,
where
the
well
was
situated,
and
within
a
few
years
it
was
deserted.
Throughout
the
second
half
of
the
twentieth
century
the
well
had
been
forgotten
as
waste
piled
up
where
once
an
ancient
source
of
life
had
flourished.
This
paper
will
focus
on
the
circumstances
of
a
recent
conservation
project
intended
to
rescue
the
well
from
a
careless
municipal
“development”
plan,
and
to
preserve
the
site
for
the
benefit
of
the
local
population.
The
new
lieu
de
mémoire
of
the
well
deserves
scholarly
attention
because
it
was
built
“from
the
grass
roots,”
by
ordinary
men
and
women
who
conceive
of
their
cultural
heritage
as
an
important
part
of
their
identity
and
oppose
the
“acceleration
of
history,”
as
Nora
put
it.
The
interpretation
of
this
memorial
site
will
be
carried
out
in
a
contextual
symbolic
analysis
of
its
spatial
and
artistic
characteristics,
alongside
oral
and
written
evidence
concerning
the
initiative.
This
multilayered
interpretation
will
revolve
around
the
gap
between
memories
and
relics
of
an
essentially
rural
culture,
and
complex
urban,
social,
and
political
realities.
This
paper
will
study
the
commemoration
initiative
as
an
act
of
anchoring
local
and
national
sentiments
of
belonging
within
a
swiftly
changing
urban
landscape.
It
will
examine
the
historical
dimensions
of
the
commemorative
practices,
emphasizing
the
marginalization
and
the
Israelization
of
the
Palestinians
who
remained
in
the
State
of
Israel
after
the
1948
war.
Various
motifs
of
the
commemoration
agents
will
be
discussed,
as
well
as
sources
of
inspiration,
such
as:
the
Jewish
culture
of
commemoration
in
Israel;
the
Palestinian
national
struggle;
and
the
memorialization
trend
–
a
global
phenomenon
that
strongly
influences
local
societies,
whose
localness
had
once
been
taken
for
granted.
SESSIONE
2:
11.30‐13.00
Panel
1
(AULA
12)
Memoria
e
identità:
il
passato
coloniale
come
eredità
(controversa?)
nel
Sahara
e
nel
Mediterraneo
occidentale
/
Mémoire
et
identité
:
le
passé
colonial
comme
héritage
(disputé
?)
au
Sahara
et
dans
la
Méditerranée
occidentale
II
Francesco
Correale
(Coordina)
‐
Laura
Davì
(ISMU,
Discute)
• Francesco
Correale
(UMR
6173
CNRS
CITERES/EMAM,
Tours),
I
Sahrawi
dei
campi
profughi
di
Tindouf
e
il
racconto
coloniale:
dalla
resistenza
alla
sindrome
di
Stoccolma?
Il
27
febbraio
2011
la
Repubblica
Araba
Democratica
Sahrawi
ha
celebrato,
un
po’
in
sordina,
i
suoi
primi
35
anni.
Annunciata
nel
1976,
al
momento
della
partenza
dell’ultimo
soldato
spagnolo
dal
Sahara,
la
proclamazione
aveva
due
obiettivi
principali:
coprire
il
vuoto
giuridico
lasciato
dal
ritiro
dell’amministrazione
coloniale
spagnola
in
funzione
anti‐marocchina
e
anti‐mauritana;
perfezionare
la
rivoluzione
iniziata
dai
giovani
combattenti
del
Fronte
Polisario.
Tale
rivoluzione
era
destinata
a
sovvertire
i
riferimenti
politici
e
istituzionali
della
popolazione
essenzialmente
nomade,
vincolata
all’organizzazione
tribale,
soggetta,
per
la
sua
sopravvivenza,
alle
politiche
coloniali
varate
dal
Governo
metropolitano
dopo
il
1958,
anno
in
cui
il
territorio
sahariano
fu
dichiarato
“Provincia
spagnola”.
La
guerra
contro
la
Mauritania
fino
al
1978,
e
contro
il
Marocco
fino
al
1991,
e
il
conseguente
stallo
delle
trattative
per
lo
svolgimento
di
un
referendum
di
autodeterminazione
ha
determinato,
negli
anni,
una
situazione
di
permanente
dipendenza
della
popolazione
(stimata
in
approssimativamente
250.000
individui)
dagli
aiuti
esterni.
Le
testimonianze
raccolte
nei
campi
profughi
evidenziano
inoltre
una
condizione
di
subalternità
culturale
nei
confronti
della
vecchia
metropoli
il
cui
dominio
di
quelle
regioni
viene
continuamente
rivendicato
dai
Sahrawi
come
segno
distintivo
di
alterità
rispetto
all’oceano
francese
(e
francofono)
dei
paesi
limitrofi.
Oggetto
della
presente
comunicazione
sarà
dunque
l’analisi
della
relazione
fra
i
Sahrawi
e
l’eredità
storica
lasciata
dalla
Spagna,
nel
tentativo
di
comprendere
le
linee
dominanti
della
costruzione
identitaria
Sahrawi
e
del
suo
consolidamento
in
un
contesto
politico‐sociale
nel
quale
22
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
non
solo
i
canoni
dello
Stato
post‐coloniale
sono
ignorati,
ma
anche
la
decolonizzazione
culturale
sembra
ben
lontana
dall’essere
compiuta.
• Selena
Nobile
(Università
della
Calabria),
Memoria
e
identità
nella
letteratura
“ispano‐
marocchina”
e
nella
letteratura
saharaui
in
lingua
spagnola.
La
presente
comunicazione
propone
di
analizzare
il
tema
della
memoria
e
della
costruzione
dell’identità
nella
letteratura
ispano‐marocchina
e
nella
letteratura
saharaui
in
lingua
spagnola.
In
particolare,
mi
concentrerò
sulla
questione
della
lingua,
per
mettere
in
evidenza
come
lo
Spagnolo,
lingua
coloniale
in
Marocco
e
nel
Sahara
Occidentale,
entri
oggi
nella
costruzione
identitaria
dei
Sahraoui
come
strumento
di
lotta
e
di
resistenza
al
fine
di
rivendicare
un
preciso
spazio
identitario
e
riscattare
la
memoria
dall’oblio;
e
in
Marocco,
come
lingua
che
esprime
il
polimorfismo
identitario
attraverso
un’apertura
verso
una
“transculturazione”
mediterranea.
•
Daniela
Melfa
(Università
di
Catania),
Fuori
dalla
torre
d’avorio.
Nation‐building
e
storiografia
in
Tunisia.
Nelle
recenti
proteste
in
Tunisia
i
manifestanti
hanno
sventolato
assiduamente
la
bandiera
nazionale,
simbolo
di
attaccamento
al
paese
e
coesione
interna.
L’identità
nazionale
tunisina
ha
assunto,
dall’epoca
della
modernizzazione
ottocentesca,
una
fisionomia
peculiare
basata
sul
mito
del
riformismo
di
Stato
(Béatrice
Hibou).
Le
iniziative
progressiste,
che
si
sono
susseguite
in
Tunisia,
hanno
poi
alimentato
nei
cittadini
l’orgoglio
per
svariati
primati
(compreso
il
sentirsi
pionieri
della
‘primavera’
dei
popoli
arabi)
.
L’esperienza
del
colonialismo,
dal
canto
suo,
ha
generato,
in
contrasto
con
uno
spirito
antimperialista,
la
memoria
di
una
società
plurale
e
tollerante.
Al
processo
di
costruzione
dell’identità
nazionale
non
è
rimasta
estranea
la
storiografia
tunisina,
che
attraverso
la
ri‐costruzione
del
passato
ha
veicolato
idee
e
punti
di
riferimento.
Attraverso
una
disamina
della
letteratura
storiografica
il
paper
intende
analizzare
proprio
il
contributo
degli
storici
tunisini.
L’uso
di
categorie
interpretative,
quali
‘cosmopolitismo’
o
‘mosaico’,
così
come
le
scelte
tematiche,
incentrate
sulle
comunità
religiose
ed
etniche,
ma
raramente
aperte
a
una
prospettiva
transnazionale,
rivestono
infatti
un
significato
che
trascende
l’ambito
della
disciplina.
I
paradigmi
della
ricerca
storica
saranno
esaminati
in
relazione
alle
sfide
poste
alla
società
tunisina
dai
regimi
autoritari,
e
interrogativi
saranno
quindi
sollevati
in
merito
alle
ripercussioni
della
svolta
politica
in
atto.
Panel
2
(AULA
16)
Memoria
e
potere
Jolanda
Guardi
(Coordina)
‐
Anna
Vanzan
(Università
di
Milano,
Discute)
Interrogarsi
sulla
relazione
tra
memoria
e
identità
(Fabietti‐Matera
1999)
porta
inevitabilmente
a
considerare
la
relazione
fra
la
prima
–
intesa
come
selezione
sociale
del
ricordo
‐
e
il
potere
inteso
come
i
discorsi
che
il
potere
produce
in
relazione
alla
costruzione
dell’identità
collettiva.
Il
panel
indaga
in
particolare
il
ruolo
di
questi
discorsi
nell’ambito
delle
identità
percepite,
le
quali,
secondo
Halbwachs,
per
sussistere,
hanno
bisogno
di
tre
elementi
fondamentali:
il
riferimento
a
coordinate
spazio‐temporali
determinate,
la
relazione
simbolica
del
gruppo
con
se
stesso,
la
ricostruzione
continua
della
memoria
medesima.
Nell’epoca
odierna
questa
ricostruzione
si
manifesta
in
una
concezione
diversa
delle
coordinate
spazio‐temporali,
in
seguito
all’abbattimento
delle
barriere
fisiche
introdotto
dalla
rete,
che
incide
anche
sulla
relazione
simbolica
del
gruppo
e
sulle
infinite
possibilità
di
ricostruzione
della
memoria.
Il
panel,
quindi,
si
propone
di
indagare
le
strategie
attuali
di
utilizzo
di
strumenti
di
conservazione
della
memoria
tradizionali,
come
a
esempio
gli
archivi
nel
rapporto
con
le
nuove
tecnologie,
ma
anche
di
analizzare
quali
siano
le
strategie
di
selezione
che
sottostanno
al
rapporto
tra
memoria
e
potere
(Jedlowski
1997).
Non
da
ultimo
sarà
interessante
23
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
soffermarsi
sulla
possibilità
di
avviare
un
confronto
critico
con
le
fasi
negative
del
nostro
passato
in
relazione
all’assunzione
di
responsabilità
della
nostra
storia
e
del
modo
in
cui
la
memoria
ha
contribuito
alla
costituzione
di
un’immagine
del
mondo
arabo
partendo
dall’affermazione
di
Benjamin
(1947):
“Solo
a
un’umanità
redenta
il
passato
è
diventato
criticabile
in
ognuno
dei
suoi
momenti”.
• Lorenzo
Declich
(Università
di
Roma
La
Sapienza),
Haram/halal:
la
riscrittura
dell’identità
musulmana
nel
nuovo
mercato
islamico
Negli
ultimi
dieci
anni
la
retorica
del
"conflitto
di
civiltà"
ha
condizionato
la
percezione
e
lo
studio
dell'Islam
contemporaneo.
Quella
teoria
della
storia
peccava,
paradossalmente,
di
astoricità,
mancando
di
valutare
in
prospettiva
diacronica
uno
dei
più
importanti
fenomeni
del
nostro
tempo:
l'integrazione
economica
mondiale.
L'intera
ecumene
islamica
sembrava
cristallizzata
nelle
categorie
e
nei
parametri
fissati
una
volta
per
tutte
nella
storia
post‐coloniale.
Invece
il
mondo
dell'islam
rielaborava
la
propria
identità
in
relazione
al
presente,
dando
vita
a
fenomeni
nuovi
e
a
nuove
dinamiche,
anche
all'interno
di
quella
che
con
una
certa
dose
di
imprecisione
possiamo
chiamare
"diaspora
musulmana".
Alcuni
studiosi,
primo
fra
tutti
Oliver
Roy,
hanno
messo
in
risalto
le
caratteristiche
di
questo
nuovo
"islam
globalizzato",
in
bilico
fra
integrazione
nelle
dinamiche
del
mercato
mondiale
e
reazione
‐
quietistica
o
violenta
‐
a
tale
processo.
A
una
"privatizzazione"
dell'esperienza
religiosa
in
contesti
dove
l'islam
non
è
religione
maggioritaria
e/o
in
risposta
alla
disfatta
dell'Islam
politico
nella
sua
forma
più
radicale
di
alternativa
al
modello
proposto
dall'Occidente,
ha
corrisposto
un'avanzata
di
nuovi
soggetti
economici
e
finanziari
che
basano
il
proprio
businness
sull'"islamità"
dei
propri
prodotti
nella
prospettiva
della
creazione
di
una
nicchia
di
mercato
(un
miliardo
e
200
milioni
di
persone)
che
trovi
la
propria
identità
"islamica"
nel
consumo
di
merci
"islamicamente
corrette".
Il
fenomeno
è
ben
visibile
e
osservabile
dai
più
diversi
punti
di
vista
e
l'esempio
più
eclatante
è
certamente
quello
della
finanza
islamica,
che
prende
corpo
a
partire
dal
divieto
di
usura
(rib_a').
Ciò
su
cui
si
concentra
questo
intervento
è
l'uso,
all'interno
del
processo
di
formazione
di
questa
nuova
identità
islamica
"di
mercato",
della
una
coppia
concettuale:
haram/halal.
Una
dicotomia
che
nel
contesto
del
mercato
globale
non
è
tesa
a
indicare
quali
debbano
essere
gli
orientamenti
generali
dei
musulmani
in
un
quadro
di
"libera
scelta"
degli
individui,
ma
a
determinare
la
"correttezza"
in
senso
"islamico"
delle
merci,
a
partire
dai
cibi
passando
per
i
vestiti
e
i
cosmetici
e
arrivando
addirittura
ai
vaccini.
Il
fenomeno
è
ben
visibile
sulla
internet
dove,
ogni
giorno
di
più,
emerge
una
rete
"islamicamente
corretta"
la
cui
funzione
non
è
soltanto
quella
di
"proteggere"
i
musulmani
ma
anche,
e
soprattutto,
orientare
gli
operatori
del
nuovo
mercato
"islamico"
verso
prodotti
che
incontrino
la
sensibilità
dei
nuovi
consumatori
musulmani.
• Paolo
D’Urbano
(School
of
Oriental
and
African
Studies,
London),
Iam#Jan25:
memoria
digitale
e
potere
nell’Egitto
post‐rivoluzionario
Iam#Jan25
è
un
sito
web
lanciato
una
settimana
dopo
la
caduta
di
Hosni
Mubarak
con
lo
scopo
di
raccogliere
"opere
d'arte
prodotte
durante
o
ispirate
dalla
rivoluzione
del
25
gennaio".
L'iniziativa
è
parte
di
un
progetto
composto
da
altri
siti,
volti
a
preservare
la
memoria
di
questo
cruciale
evento
per
la
storia
del
paese
e
del
Medio
Oriente.
IamTahrir
serve
come
portale,
o
punto
d'accesso,
Iam#Jan25
colleziona
video,
immagini
e
testimonianze
dirette
della
rivoluzione,
mentre
Egypt
Remembers
è
dedicato
alla
commemorazione
dei
martiri
della
rivoluzione.
Tali
iniziative
declinano,
seppur
in
maniera
differente,
il
tema
del
ricordo
e
della
memoria.
Memoria
che,
in
questo
caso,
assume
il
duplice
connotato
di
facoltà
cognitiva
ed
estensione
tecnologica.
Come
concettualizzare
il
rapporto
tra
queste
due
accezioni
di
memoria?
E,
ancora,
tra
memoria
e
potere
nei
media
digitali?
Il
discorso
accademico
sui
nuovi
media
in
Medio
Oriente
tende
ad
adottare
le
teorie
utilizzate
per
lo
studio
dei
mezzi
di
comunicazione
di
massa
(radio
e
tv),
prediligendo
in
particolar
modo
il
concetto
di
sfera
pubblica.
In
realtà,
il
presente
elaborato
suggerisce
che
una
delle
funzioni
principali
dei
media
non
sia
la
semplice
diffusione
di
messaggi,
bensì
quella
di
immagazzinare
informazioni.
Una
funzione
che
diventa
fondamentale
con
l'avvento
dei
media
digitali,
poiché
questi
consentono
ad
un
numero
sempre
maggiore
di
utenze,
siano
esse
individuali
o
collettive,
la
facoltà
di
organizzare
e
produrre
conoscenza.
In
tal
senso,
quello
che
i
nuovi
media
offrono
non
è
solo
uno
spazio
di
espressione
e
comunicazione,
ma
anche
la
facoltà
di
assemblare
“la
legge
di
ciò
che
può
essere
detto”
(Foucault,
Archeologia
del
Sapere):
l'archivio.
Anche
nel
caso
di
Iam#Jan25,
l'utilizzo
del
concetto
di
24
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
archivio
permette
infatti
di
articolare
il
rapporto
tra
memoria
vissuta
e
quella
digitale,
nonché
di
esplicitare
il
potere
che
sottende
tale
relazione.
• Jolanda
Guardi
(Università
di
Milano),
Memoria
e
potere:
per
una
ricerca
azione
in
letteratura
Anche
in
seguito
a
quanto
sta
avvenendo
nel
mondo
arabo,
ritengo
necessaria
una
riflessione
di
carattere
epistemologico
che
cerchi
di
proporre
per
la
discussione
una
serie
di
domande
alle
quali
cercare
di
rispondere
per
riposizionare
la
disciplina.
Nel
mio
intervento,
pertanto,
dopo
una
breve
descrizione
del
rapporto
tra
memoria
e
potere
nell’ambito
dell’analisi
del
discorso,
dove
considererò
la
memoria
come
un
processo
volto
a
selezionare,
attraverso
uno
strumento
di
potere,
la
relazione
accademica,
quale
sia
la
cornice
entro
la
quale
si
debba
comprendere
il
mondo
arabo,
farò
particolare
riferimento
al
discorso
inerente
lo
studio
della
letteratura
araba.
In
tal
senso
il
vocabolo
‘memoria’
diviene
connesso
al
potere,
in
quanto
il
processo
di
attribuzione
di
senso
della
memoria
comporta
una
selezione
e
la
capacità
di
fornire
di
senso
un
argomento
attraverso
la
costruzione,
appunto,
di
una
memoria
è
segno
di
potere.
Presenterò,
inoltre,
alcune
proposte
per
un
modo
di
condurre
la
ricerca
in
letteratura
che
tenga
conto
di
un
approccio
interdisciplinare,
di
una
teoria
della
conoscenza
situata
nonché
di
un
approccio
di
genere.
• Maura
Parisi
(Università
di
Trieste),
La
costruzione
dello
Stato
e
dell’identità
nazionale:
iconografia
e
discorso
geopolitico
nella
Siria
degli
Assad
L’identità
nazionale
e
il
sistema
di
potere
che
hanno
dato
forma
al
paese
per
più
di
quarant’anni
‐
e
che
sono
ora
messe
in
discussione‐
sono
costruzioni
recenti,
frutto
dell’interazione
fra
l’ideologia
del
Ba’ath,
il
partito
al
potere
dal
1963,
e
gli
interessi
della
famiglia
che
da
più
quarant’anni
è
al
vertice
del
paese,
gli
Asad.
Il
primo
elemento
del
paesaggio
che
colpisce
il
viaggiatore
che
approda
in
Siria
non
è
la
bellezza
austera
del
deserto
né
la
varietà
del
patrimonio
archeologico
ma
l’ubiquità
dell’iconografia
di
regime:
essa
accompagna
il
cittadino
in
ogni
istante
e
in
ogni
luogo
della
sua
quotidianità,
creando,
attraverso
la
retorica
associata
alle
immagini,
quello
che
Foucault
chiamava
“il
regime
della
verità”.
L’iconografia
è
tuttora
il
prodotto
più
visibile
degli
sforzi
pluridecennali
del
regime
per
l’imposizione
dell’ordine
e
la
creazione
di
consenso
e
coesione
sociale
in
un
paese
caratterizzato
da
una
geografia
umana
frammentata
e
da
una
tormentata
storia
recente.
La
visione
del
paese
che
ne
emerge
è
fortemente
paternalistica:
le
masse
popolari
hanno
bisogno
di
un
padre,
di
una
guida;
essa
si
sostanzia
nel
sistema
coercitivo
e
nella
propaganda,
che
si
serve
dell’ideologia
socialista
‐e
quindi
inclusiva
‐
del
Ba’ath
da
un
lato
e
della
figura
del
leader
dall’altro.
Le
proiezioni
in
politica
estera,
con
il
ruolo
autoassegnato
di
qalb
al‐‘urūbah
(cuore
dell’arabismo),
di
baluardo
nei
confronti
d’Israele
e
della
penetrazione
straniera
nella
regione
assieme
all’Iran,
ad
Hamas
e
a
Hizbollāh
sono
state,
soprattutto
negli
anni
Duemila,
una
delle
basi
del
consenso
e
del
controllo
interno.
Panel
3
(AULA
13)
Memorie
condivise
e
fratturate
tra
gli
ebrei
originari
dei
paesi
arabo‐musulmani
in
diversi
contesti
II
Emanuela
Trevisan
Semi
(Coordina)
‐
Elisa
Bianchi
(Università
di
Milano,
Discute)
• Claudia
De
Martino
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
Come
Israele
ricorda
sé
stesso:
memoria
dei
mizrahim
e
memoria
degli
askenazim
della
Guerra
dei
Sei
Giorni
e
della
Guerra
dello
Yom
Kippur
a
confronto
Il
paper
vuole
esplorare
la
memoria
duale
di
mizrahim
e
askenazim
di
due
eventi‐cardine
della
storia
nazionale
israeliana.
25
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Se
la
Guerra
di
Indipendenza
è
avvenuta
senza
che
i
mizrahim
vi
partecipassero
in
grandi
numeri
data
la
loro
immigrazione
successiva,
la
Guerra
dei
Sei
Giorni
e
del
Kippur
rappresentano
le
prime
due
esperienze
collettive
nazionali
che
vedono
coinvolti
entrambi
i
gruppi.
Si
tratta
di
due
eventi
che
hanno
profondamente
impattato
sulla
formazione
della
coscienza
nazionale
israeliana,
anche
se
in
modo
opposto.
Essi
avvengono
a
circa
vent’anni
dalla
fondazione
dello
Stato,
mentre
i
sabra
e
i
veterani
europei
e
i
mizrahim,
che
in
larga
parte
coincidono
con
i
nuovi
immigrati,
stanno
ancora
cercando
di
amalgamarsi
in
una
nazione.
Per
quest’ultimi,
i
cui
genitori
sono
spesso
stati
oggetto
di
discriminazione,
il
servizio
militare
e
la
guerra
sono
i
riti
di
iniziazione
alla
cittadinanza
piena,
su
base
paritaria
con
i
“veterani”.
È
importante,
dunque,
analizzare
i
due
conflitti
anche
dal
punto
di
vista
della
storia
sociale,
con
lo
sguardo
rivolto
a
come
la
società
israeliana
si
è
modificata
attraverso
il
rimescolamento
sociale
e
culturale
che
inevitabilmente
qualsiasi
guerra
produce.
Il
1967
rappresenta
una
data
spartiacque
verso
la
creazione
di
una
nuova
coscienza
nazionale
maggiormente
inclusiva
del
dato
religioso
e
dell’appartenenza
etnica.
La
transizione
dall’Yichouv
alla
formazione
di
uno
Stato
dotato
di
istituzioni
e
modelli
sociali
diversi
da
quelli
del
periodo
pioneristico,
si
va
consolidando
proprio
in
quegli
anni,
con
l’ingresso
dei
mizrahim
sulla
scena
politica.
Il
paper
cercherà
di
ripercorre
le
tappe
attraverso
cui
la
memoria
dei
due
eventi
si
struttura
e
se
e
in
quale
misura
avvenga
su
linee
comunitarie.
Proverà
inoltre
a
comprendere
come
i
mizrahim
acquistino
consapevolezza
politica
nel
1971‐73
per
poi
contribuire
sostanzialmente
alla
vittoria
epocale
del
Likud,
erede
di
una
tradizione
politica
bandita
per
30
anni.
È
probabile
che
dalla
partecipazione
alle
due
guerre,
e
dall’acquisizione
“sul
campo”
di
pari
titoli
militari,
sia
scaturita
l’emancipazione
dei
mizrahim
da
quel
complesso
di
inferiorità
sociale
che
aveva
contraddistinto
i
rapporti
tra
le
due
comunità
nel
primo
ventennio.
• Piera
Rossetto
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
In
transito:
storia,
memoria
e
luoghi
narrativi
di
ebrei
arabi
(1948‐1956)
La
Sifrut
ha‐ma’abarah
(letteratura
del
campo
di
transito)
rappresenta
uno
spazio
narrativo
in
cui
autori
israeliani
contemporanei
originari
dei
paesi
arabi
hanno
espresso
le
storie
spesso
dimenticate,
represse
o
marginalizzate
degli
ebrei
cosiddetti
“orientali”
(mizrahim)
emigrati
in
Israele
tra
gli
anni
Cinquanta
e
Sessanta
del
Novecento
da
paesi
del
Nord
Africa
e
del
Vicino
e
Medio
Oriente.
Dopo
aver
introdotto
le
caratteristiche
principali
di
questo
genere
letterario
e
la
sua
collocazione
rispetto
al
canone
della
letteratura
israeliana,
l’intervento
si
propone
di
riflettere
sul
concetto
di
“luogo”,
così
come
teorizzato
entro
la
prospettiva
geografico‐umanistica,
per
leggere
l’esperienza
della
ma’abarah
quale
“luogo
di
memoria”
e
soprattutto
come
“luogo
narrativo”.
Verranno
dunque
analizzate
le
diverse
declinazioni
letterarie
secondo
cui
la
ma’abarah
potrebbe
essere
interpretata:
luogo
narrativo
di
sfida
e
di
resistenza,
di
(dis)continuità
e
(dis)contiguità
culturale
e
territoriale,
di
santificazione
dello
spazio
e
di
esilio.
A
partire
dai
ricordi
personali
dello
scrittore
Shimon
Ballas,
nato
a
Baghdad
e
giunto
in
Israele
nel
giugno
1951,
e
di
altri
autori
mizrahim
di
prima
e
seconda
generazione,
questo
lavoro
intende
presentare
la
sifrut
ha‐ma’abarah
come
la
storia
“vista
dall’altro”,
ovvero
come
la
storia
della
costruzione
dello
Stato
e
della
nazione
vista
dalla
prospettiva
del
gruppo
non
egemonico.
Questa
prospettiva
pone
di
fatto
la
sifrut
ha‐ma’abarah
nel
solco
dei
subaltern
studies
come
“conoscenza
integrativa”,
accanto
al
contributo
dato
dai
“nuovi
storici”
alla
profonda
opera
di
revisione
della
storiografia
israeliana.
L’appello
a
far
emergere,
anche
nella
letteratura
israeliana,
quelle
che
si
potrebbero
definire
delle
coordinate
geografico‐letterarie
mizrahi
è
senza
dubbio
un
appello
a
porre
al
centro
della
letteratura
quelle
opere
che
sono
state
spesso
tenute
ai
margini
e
soprattutto
a
riconoscere,
senza
timore,
ciò
che
le
lega
al
mondo
da
cui
provengono,
ovvero
il
mondo
arabo.
• Aide
Esu
(Università
di
Cagliari),
Media
ed
intrecci
spazio‐temporali
della
memoria
collettiva
di
Israele
e
Palestina
Israele
e
Palestina
hanno
sviluppato
nel
corso
del
conflitto
un
complesso
intreccio
di
narrazioni
della
memoria
collettiva;
terra/spazio,
memoria
e
identità
si
affermano
come
la
triade
che
intesse
queste
narrazioni.
Dalle
loro
differenti
visioni
emerge
un
laboratorio
della
mente
in
cui
lo
spazio
immaginato/sognato
nelle
due
diaspore
si
nutre
di
narrazioni
edificate
su
costruzioni
solide,
capaci
26
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
di
suscitare
pathos
identificativo
e
di
rafforzare
il
senso
di
appartenenza.
È
soprattutto
la
creazione
di
miti
fondati
su
eventi
storici
cruciali
a
rispondere
a
questa
esigenza.
La
comunicazione
prenderà
in
esame
due
miti
fondativi,
il
ritorno
a
Kfar
Etzion
e
l’espulsione
dei
palestinesi,
Al‐Nakba.
Questi
rappresentano
i
processi
fondativi
delle
identità
moderne
grazie
ad
un
repertorio
narrativo
pre‐
moderno
che
fa
ricorso
ad
«una
storia
che
viene
raccontata
per
chiarire
il
presente
alla
luce
del
passato»
(J.Assmann,
1997,
tr.it,
p.
26).
Sono
narrazioni
centrate
sugli
eventi
costitutivi
del
“noi”,
esplicitato
attraverso
medium
diversi,
poesie,
letteratura,
fotografie,
documenti
filmati,
siti
web
etc.
L’altro,
il
palestinese
o
l’israeliano,
è
sempre
esplicitamente
assente
ma
pervasivamente
presente
nella
narrazione
muta,
proiettata,
percepita,
immaginata.
Una
“macchia
bianca”
che
accompagna
ogni
narrazione.
Per
la
memoria
collettiva
israeliana
Kfar
Etzion
rappresenta
la
voce
narrante
per
eccellenza,
un
esempio
costitutivo,
summa
del
pionierismo
sionista
religioso
e
più
recentemente
delle
politiche
strategiche
del
Grande
Israele.
Un
esempio
paradigmatico
sia
per
i
contenuti
che
per
l’eccezionale
durata
che
accompagna
le
trasformazioni
della
narrazione
della
memoria
collettiva
nel
tempo.
Nella
recente
elaborazione
della
Nakba
le
scienze
sociali
palestinesi
hanno
stimolato
un’importante
produzione
multimediale.
La
raccolta
di
documenti
fotografici,
planimetrici
e
di
registrazioni
audio‐video
di
storia
orale
si
è
tradotta
in
una
interessante
sitologia
dedicata
a
tematiche
specifiche:
1. i
rifugiati‐
Shaml
Archive
on
Refugee
Issues,
2. la
memoria
collettiva,
il
sito
Palestine
remembered
è
dedicato
alla
memoria
dei
luoghi
distrutti.
Questi
due
esempi
sono
significativi
per
l’uso
dei
materiali
multimediali
concepiti
nella
duplice
veste
di
strumenti
statici
e
interattivi,
data
base
sui
rifugiati,
mnemoteca
della
storia
orale
(The
audio
Library
of
Oral
History)
e
dei
discorsi
pubblici
(PBC
Program
Archive
contenente
il
“Palestinian
Pubblic
Discorse
after
Oslo”).
Una
sitologia
con
doppia
funzione,
conservatorio
della
memoria
ma
anche
azione
politica
per
la
diffusione
delle
informazioni
sui
diritti
dei
rifugiati
e
del
diritto
al
ritorno.
Questi
esempi
rappresentano
un
caso
di
studio
interessante
per
mettere
in
rilievo
come
oggi
i
media
costituiscano
strumenti
attivi
per
il
processo
di
elaborazione
della
memoria
e
di
uso
politico
del
ricordo.
Per
una
nazione
dispersa
la
virtualità
dei
contenuti
multimediali
può
rappresentare
surrogati
di
identità,
in
cui
home
page
costruite
per
un
friendly
use
esibiscono
prodotti
della
memoria
–
storia
orale,
immagini,
fotografie,
film,
documentari‐
con
gradi
differenziati
di
complessità
di
lettura.
È
una
memoria
privata
presentata
dentro
un
frame
pubblico
in
cui
la
“neutralità”
dei
documenti
segue
un
costrutto
narrativo
meno
evidente.
Entrambi,
Kfar
Etzion
e
Al‐
Nakba,
con
modalità
differenti,
mettono
in
luce
come
il
richiamo
più
evidente
sia
l’uso
del
contenitore
multimediale
finalizzato
alla
ri‐unione
del
popolo
disperso
che
si
nutre
della
memorialistica
in
funzione
di
costruzione
del
corposo
mito
nazionale.
SESSIONE
3:
15.00‐17.00
Panel
1
(AULA
11)
Tra
molte
identità:
donne
in
Israele
e
Palestina
e
la
loro
risposta
all’occupazione
militare
e
alla
violenza
Chiara
Cassinari,
Laura
Aletti,
Rossana
Tamiello
(Coordinano)
–
Aide
Esu
(Università
di
Cagliari,
Discute);
Commenti
di
Franca
Balsamo
(Università
di
Torino).
Le
donne
sono
sempre
state
parte
integrante
del
conflitto
israelo‐palestinese,
in
modi,
settori
e
fronti
diversi:
sono
coinvolte
in
prima
persona
nella
battaglia
demografica
da
un
lato,
ma
anche
nella
resistenza
e
nelle
dimostrazioni
di
massa,
nel
pacifismo
così
come
nel
dialogo
con
l’altra
parte.
Nondimeno,
il
continuo
protrarsi
delle
violenze
legate
al
conflitto
ha
avuto
un
impatto
importante
sulle
vite
delle
donne
israeliane
e
palestinesi,
strette
tra
le
aspirazioni
nazionaliste
dei
due
popoli,
una
soffocante
divisione
dei
ruoli
di
genere
in
entrambe
le
società
e
le
drammatiche
conseguenze
all’interno
del
contesto
privato.
Il
panel
intende
quindi
indagare
alcune
risposte
al
femminile
dagli
anni
’80
ai
nostri
giorni,
mettendo
in
evidenza
alcuni
tentativi
fatti
volti
alla
costruzione
di
un’identità
femminile
palestinese
27
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
e
israeliana,
che
pur
rimanendo
implicata
nella
realtà
quotidiana
del
conflitto,
cerca
di
rompere
i
tradizionali
canoni
di
divisione
di
genere.
L’attivismo
politico
e
sociale
delle
donne
palestinesi
del
Women’s
Work
Committee
durante
gli
anni
’80,
teso
a
cambiare
la
tradizionale
divisione
di
genere
che
regolava
la
sfera
privata
così
come
quella
pubblica;
l’impegno
delle
pacifiste
di
Machsom
Watch,
calatesi
in
un
contesto
militare
e
maschile
con
l’obiettivo
di
raccontare
e
mettere
fine
alla
politica
dei
checkpoint,
per
l’autodeterminazione
del
popolo
palestinese
ma
anche
per
l’impatto
negativo
sulla
società
israeliana;
infine,
una
riflessione
sui
centri
anti‐violenza
nati
in
Israele
che
tentano
di
portare
alla
luce
e
all’attenzione
di
tutti
la
problematicità
della
violenza
domestica
subita
dalle
donne,
troppo
spesso
dimenticata
e
strettamente
legata
alla
militarizzazione
della
società.
• Cristiana
Baldazzi
(Università
di
Trieste),
Il
patrimonio
popolare
palestinese
tra
folklore
e
folklorismo
Perdere
la
memoria
significa
perdere
se
stessi,
la
propria
identità;
analogamente
una
comunità
che
perde
la
memoria
rischia
di
smarrire
la
propria
identità.
Se
per
ogni
società
la
trasmissione
delle
proprie
tradizioni
è
essenziale
e
necessaria,
per
una
società
minacciata
nella
sua
identità,
come
in
Palestina,
essa
assume
significati
del
tutto
propri
di
enorme
rilevanza,
dai
quali
vorrei
partire
per
un’analisi
del
folklore
e
dell’uso
che
ne
viene
oggi
fatto
in
Palestina.
La
nota
intende
prendere
in
esame
alcuni
degli
studi
demologici
palestinesi
a
partire
da
quelli
degli
anni
venti
(Tawfiq
Canaan
e
altri
studiosi
a
lui
contemporanei)
fino
ai
più
recenti,
considerando
il
loro
differente
approccio
al
folklore,
utilizzando
come
griglia
di
riferimento
l’accezione
gramsciana
in
merito.
Tornato
in
auge
soprattutto
con
i
cultural
e
subaltern
studies,
Gramsci
guarda
al
folklore
come
“concezione
del
mondo
e
della
vita
del
popolo,
inteso
come
complesso
delle
classi
subalterne
e
strumentali
che
si
contrappongono
alle
classi
ufficiali
ed
egemoniche”.
La
analisi
di
Gramsci,
pur
critica
e
rigorosa,
fornisce
ancora
oggi
pertinenti
chiavi
di
lettura
che,
a
mio
avviso,
contribuiscono
a
meglio
interpretare
le
diverse
tendenze
emerse
nella
demologia
palestinese,
spinta,
per
ragioni
storiche
note,
a
guardare
al
folklore
secondo
una
prospettiva
soprattutto
nazionalistica,
con
conseguenze
non
sempre
prive
di
forzature
ideologiche.
• Chiara
Cassinari
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
Donne
su
due
fronti.
I
comitati
femminili
degli
anni
Ottanta
nella
West
Bank
L’8
marzo
del
1978
un
piccolo
gruppo
di
donne
appartenenti
alla
borghesia
urbana
palestinese
fondò
il
Women’s
Work
Committee
(WWC),
una
nuova
forma
di
partecipazione
sociale
e
politica
femminile
che
nacque
in
reazione
al
contesto
violento
dell’occupazione
israeliana
e
del
potere
maschile/patriarcale
che
dominava
tutti
gli
ambiti
della
vita
quotidiana.
Le
attiviste
del
WWC
ritenevano
che
l’emancipazione
sociale
e
il
riconoscimento
di
essere
parti
attive
nella
vita
politica
del
loro
popolo
fossero
elementi
necessari
per
arrivare
alla
partecipazione
attiva
delle
donne
nella
lotta
nazionale.
L’azione
del
WWC,
che
negli
anni
Ottanta
si
divise
in
quattro
diversi
comitati,
ebbe
come
scopo
il
miglioramento
delle
condizioni
di
lavoro
delle
donne
operaie,
la
diffusione
dell’alfabetizzazione
e
di
un’educazione
alla
salute
di
base.
I
comitati
intrapresero
inoltre
un’opera
di
sensibilizzazione
che
tendeva
a
sovvertire
l’oppressivo
potere
patriarcale
che
con
le
sue
strutture
dominava
le
vite
delle
donne.
In
questo
ambito
si
pone
la
spinta
verso
l’indipendenza
economica,
la
contestazione
dei
matrimoni
combinati
o
imposti
in
giovane
età,
la
critica
dell’usanza
del
mahr
(dote)
e
la
denuncia
della
violenza
domestica
e
dei
crimini
d’onore.
Le
lotte
in
campo
sociale
dei
comitati
femminili
erano
quindi
animate
da
ideali
che
possiamo
definire
femministi,
in
quanto
puntavano
ad
un
riequilibrio
tra
la
posizione
della
donna
e
quella
dell’uomo
e
mettevano
in
discussione
il
potere
maschile
derivato
dalla
concezione
patriarcale.
L’intervento
cercherà
di
analizzare
il
modo
in
cui
il
discorso
dei
comitati
entrò
in
contrasto
con
i
rigidi
schemi
patriarcali
che
sostenevano
la
società
palestinese,
e
con
le
fazioni
dell’OLP
che
avevano
inizialmente
appoggiato
la
formazione
dei
comitati
femminili
stessi.
Allo
stesso
tempo
si
cercherà
di
evidenziare
come
l’introduzione
degli
ideali
femministi
nella
lotta
per
la
liberazione
delle
donne
e
della
nazione
permise
la
creazione
di
una
nuova
identità
femminile,
in
grado
di
opporsi
non
solo
all’oppressione
esterna,
ma
anche
a
quella
interna.
28
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
•
Giulia
Daniele
(Scuola
Superiore
Sant’Anna
–
Pisa,
Institute
of
Arab
and
Islamic
Studies
–
Exeter
University),
Donne
palestinesi
e
israeliane:
narrative
a
confronto
A
partire
dall’inizio
degli
anni
Novanta,
sia
nel
mondo
accademico
sia
all’interno
dei
movimenti
delle
donne
è
diventato
centrale
il
tema
riguardante
il
rapporto
tra
“femminismo”
e
“nazionalismo”
in
realtà
di
conflitto
e
post‐conflitto.
Tenendo
in
considerazione
la
profonda
inestricabilità
tra
narrative
storiche
e
vite
quotidiane
dei
due
popoli,
palestinese
ed
israeliano,
il
paper
si
propone
di
ridefinire
tale
discorso,
e,
in
particolare,
il
ruolo
giocato
da
donne
attiviste
nel
decostruire
le
proprie
identità
etno‐nazionali
(in
primis
il
fondamento
sionista
alla
base
dello
Stato
di
Israele).
Dopo
aver
delineato
tale
problematica
nel
contesto
dei
principali
movimenti
di
donne
nei
Territori
Occupati
Palestinesi
e
in
Israele,
l’analisi
volge
verso
una
delle
esperienze
congiunte
tra
donne
palestinesi
ed
israeliane
più
conosciute
a
livello
internazionale,
quella
del
Jerusalem
Link.
In
netto
contrasto
con
una
politica
fondata
sulla
paura,
sull’ostilità,
sulla
violenza
nei
confronti
dell’“Altro”,
le
attiviste
coinvolte
hanno
cercato
di
mettere
in
pratica
la
così
definita
“transversal
politics”
attraverso
un
percorso
comune
di
riconoscimento
e
cooperazione.
L’attuale
status
quo
ha
tuttavia
rilevato
numerosi
ostacoli
nell’attuazione
di
simili
iniziative
in
vista
di
future
politiche
alternative.
Sebbene
il
Jerusalem
Link
abbia
tentato
di
costruire
relazioni
egualitarie
e
di
proporre
prospettive
comuni,
negli
ultimi
anni
il
progetto
è
stato
dichiarato
in
parte
fallito
(se
non
totalmente),
a
causa
del
perdurare
di
una
condizione
di
potere
asimmetrico
e
discriminatorio
tra
le
due
parti.
Utilizzando
sia
la
letteratura
esistente
sia
le
interviste
condotte
durante
la
recente
ricerca
sul
campo,
il
mio
contributo
è
diretto
ad
interpretare
parallelamente
le
proposte
innovative
e
le
strategie
fallite
che
sono
emerse
da
analoghe
esperienze
congiunte.
Infatti,
nonostante
la
presente
realtà
israelo‐palestinese
appaia
ancora
lontana
da
prospettive
di
riconoscimento
e
riconciliazione,
diventa
sempre
più
inevitabile
indicare
politiche,
tra
cui
per
esempio
quella
post‐nazionale,
che
possono
essere
in
grado
di
riportare
le
due
narrative
verso
un
cammino
condiviso.
• Laura
Aletti
(School
of
Oriental
and
African
Studies,
London),
Le
donne
di
Machsom
Watch
tra
attivismo,
narrazione
e
nuove
identità
di
genere
in
Israele.
Machsom
Watch,
movimento
femminile
pacifista
israeliano,
compie
quest’anno
10
anni
di
attivismo
passati
ai
checkpoint
israeliani
all’interno
dei
territori
palestinesi.
Ultimo
esempio,
in
ordine
di
tempo,
della
ricca
storia
di
mobilitazioni
pacifiste
al
femminile
di
cui
Israele
è
testimone,
Machsom
Watch
vede
coinvolte
oggi
circa
300
donne
in
monitoraggi
quotidiani
presso
i
principali
posti
di
controllo
israeliani
al
fine
di,
da
un
lato,
difendere
i
diritti
umani
dei
palestinesi,
e,
dall’altro,
di
“svelare”,
attraverso
la
pubblicazione
di
dettagliati
e
quotidiani
reports,
quello
a
cui
assistono.
Proprio
questo
enorme
archivio,
negli
ultimi
anni
incrementato
dalla
produzione
di
video
e
documentari,
acquista
particolare
rilevanza
nella
narrazione
delle
dinamiche
dell’occupazione
attraverso
una
sguardo
del
tutto
singolare.
La
particolarità
dello
scenario
scelto
dalle
attiviste
come
teatro
della
protesta
rappresenta
di
per
sé
un’innovazione
non
solo
all’interno
delle
tradizionali
tipologie
di
manifestazione
adottate
dal
campo
pacifista
israeliano
femminile
e
non,
ma
anche
per
quanto
riguarda
il
pensiero
comunemente
condiviso
sulla
sicurezza
nazionale
israeliana.
L’intervento
tenterà
dunque
di
indagare,
grazie
anche
all’analisi
dell’archivio
del
movimento,
la
costruzione
dell’identità
femminile
delle
donne
di
MW.
Un’identità
divisa
fra,
da
un
lato,
la
preoccupazione
per
i
soldati
(“i
nostri
figli
e
le
nostre
figlie
che
sono
costretti
ad
agire
in
situazioni
disumane
e
che
pagheranno
un
prezzo
altissimo
sul
piano
psicologico”)
e
per
la
società
israeliana
in
generale
“che
diventa
sempre
più
violenta”;
e,
dall’altro,
il
compito
intrapreso
dalle
attiviste
di
essere
testimoni
della
realtà
quotidiana
dell’occupazione
proponendosi
in
quanto
gruppo
di
opposizione
e
con
una
proposta
alternativa
alle
politiche
di
sicurezza
israeliane.
• Rossana
Tamiello
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
I
centri
anti‐violenza
in
Israele
Durante
i
suoi
60
anni
di
esistenza,
la
società
israeliana
ha
compiuto
molti
passi
per
far
progredire
la
condizione
delle
donne.
Le
donne
hanno
fatto
progressi
in
diverse
sfere
della
vita
israeliana,
come
quella
politica,
quella
economica,
quella
educativa,
quella
familiare
e
quella
militare.
29
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
In
Israele
come
nel
resto
del
mondo,
la
violenza
contro
le
donne
è
rimasta
un
problema
nascosto,
invisibile.
Questa
invisibilità
era
indubbiamente
dettata
da
molteplici
fattori:
la
mancanza
di
un
potere
femminile,
in
primo
luogo,
ma
anche
il
fatto
di
essere
talmente
intrinseca
alla
quotidianità
della
vita
delle
donne
da
non
venire
avvertita
come
una
problematica,
ma
piuttosto
come
elemento
legato
alla
normalità
quotidiana
delle
relazioni
tra
i
generi,
degna
di
richiamare
l’allarme
sociale
e
la
necessità
di
sanzioni
solo
in
caso
di
offesa
dei
codici
di
onore
familiare.
In
Israele,
inoltre,
le
problematiche
legate
a
tematiche
femminili
e
alla
violenza
sono
strettamente
collegate
alla
militarizzazione
della
società.
La
presenza
imponente
delle
forze
armate
non
genera
un
maggior
senso
di
sicurezza,
come
si
tenderebbe
a
pensare,
ma
induce
un
aumento
del
fenomeno
della
violenza
di
genere
in
famiglia.
L’esposizione
di
giovani
alla
violenza
durante
il
servizio
militare
li
predispone
all’uso
della
violenza
che
poi
viene
riprodotta
anche
nelle
relazioni
di
genere
e
in
famiglia.
Il
servizio
militare
da,
infatti,
agli
uomini,
e
in
particolare
ai
giovani,
un
senso
di
grande
potere,
che
questi
tendono
ad
esercitare
verso
i
soggetti
più
deboli
della
società:
non
solo
i
palestinesi,
ma
anche
le
donne
in
quanto
tali.
L’intervento
tenterà
quindi
di
spiegare
come
la
crescente
militarizzazione
del
conflitto
in
Israele
sottolinei
l’esistenza
di
uno
stretto
rapporto
tra
militarismo
e
maschilismo
in
quanto
i
processi
di
militarizzazione
dei
territori
e
l’uso
della
forza
tenderebbero
a
riprodurre
la
violenza
a
carico
delle
donne,
legittimando
sul
versante
privatistico
il
ricorso
da
parte
dell’uomo
a
mezzi
cruenti
ogniqualvolta
si
ravvisi
la
necessità
di
riaffermare
il
proprio
potere
sulla
donna.
Panel
2
(AULA
12)
Donne
nel
Medioevo
arabo
tra
mito
e
realtà
Paolo
La
Spisa
(Coordina)
–
Lucia
Sorbera
(The
University
of
Sydney,
Discute)
Il
panel
Donne
nel
medioevo
arabo
tra
mito
e
realtà
sarà
incentrato
sulla
disamina
delle
immagini
con
le
quali
sono
state
rappresentate,
nella
letteratura
araba
medievale
di
adab
e
non,
alcune
figure
femminili
del
mondo
arabo
pre‐islamico
e
islamico
e
del
mondo
arabo‐cristiano.
Attraverso
il
ricorso
alle
categorie
della
moderna
critica
storico‐letteraria
e
storico‐filologica,
e
avvalendosi,
in
taluni
casi,
anche
della
prospettiva
di
genere,
sarà
proposta
una
ricostruzione
del
linguaggio
storiografico
e
letterario
generalmente
utilizzato
per
la
rappresentazione
delle
donne,
ora
vittime
di
una
società
androcratica,
ora
dotate
di
poteri
soprannaturali,
ora
in
diretto
contatto
col
divino.
Il
panel
sarà
costituito
da
tre
comunicazioni,
intitolate
Figure
di
donne
nel
Kitàb
al‐aghani
(Mirella
Cassarino),
Shaghab
la
regina
cattiva
(Letizia
Osti)
e
Il
corpo
della
donna
da
icona
di
resistenza
a
simbolo
di
moralità
nella
letteratura
araba
medievale
(Paolo
La
Spisa),
volte
a
descrivere
e,
soprattutto,
a
spiegare
quel
complesso
di
idee,
leggi,
pregiudizi,
questioni
religiose,
meccanismi
di
carattere
ideologico
e
di
potere
che
hanno
prodotto,
nell’immaginario
collettivo
e
in
letteratura,
narrazioni
nelle
quali
è
possibile
intravedere,
in
filigrana,
l’occhio
di
una
scrittura
quasi
sempre
“al
maschile”.
Si
pensi,
solo
per
fare
qualche
esempio,
alla
figura
della
profetessa
Sajàh
descritta
nel
Libro
dei
Canti
(X
secolo),
o
alla
storia
di
Febronia,
eroina‐martire
protagonista
dello
Stratagemma
della
vergine
nella
versione
di
Abu
al‐Makàrim
(XII‐XIII
sec.)
o,
ancora,
a
Shaghab,
madre
del
califfo
abbaside
al‐Muqtadir
(r.
295/908‐320/932),
ritratta
ora
positivamente,
ora
negativamente,
nelle
fonti
storiche
e
letterarie.
In
quest’ultimo
caso,
un’analisi
delle
fonti
arabe,
non
solo
di
carattere
storiografico,
in
un’ottica
comparativa
intratestuale
e
intertestuale,
consentirà
di
analizzare
la
figura
alla
luce
di
altre
biografie
di
donne
influenti
della
stessa
corte,
ma
appartenenti
all’età
dell’oro
dell’impero.
Le
rappresentazioni
storiche
e
mitologiche
delle
donne
nella
letteratura
araba
medievale
‐
sante
o
maledette,
vittime
o
dominanti
‐
meritano
di
essere
studiate
proprio
perché
riflettono
immagini
e
proiezioni
culturali
fortemente
cariche
di
valori
simbolici
e
ideologici.
• Mirella
Cassarino
(Università
di
Catania),
Figure
di
donne
nel
Kitàb
al‐aghani
(X
sec.)
La
mia
comunicazione
è
volta
a
presentare
qualche
riflessione
aperta
sulla
rappresentazione
di
alcune
figure
di
donne
nel
Kitàb
al‐aghani
(Il
libro
dei
canti)
del
celebre
antologista
arabo
Abu
al‐
Faraj
al‐Isfahani,
vissuto
nel
X
secolo.
Lo
scopo
è
quello
di
esaminare
le
strategie
attraverso
le
quali,
30
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
nell’immaginario
letterario
arabo
medievale,
sono
stati
costruiti,
tra
realtà
storica
e
mito,
personaggi
femminili
dalle
caratteristiche
ora
positive,
ora
negative.
Si
tratta,
da
un
canto,
di
figure
alle
quali
viene
assegnato
un
ruolo
decisamente
passivo
o
di
vittime
e,
dall’altro
canto,
di
figure
dotate
di
poteri
particolari
o
di
potere.
Si
pensi,
per
il
primo
caso,
a
Layla
e
Buthayna,
obbligate
a
non
sposare
l’uomo
amato
in
virtù
del
rispetto
del
codice
tribale,
o
a
Hind,
ripudiata
dal
marito
perché
incapace
di
procreare
e,
per
il
secondo
caso,
a
Zarqa’
al‐Yamama,
lesbica
dotata
di
una
vista
straordinaria
che
le
consentiva
di
scorgere
il
nemico
a
miglia
di
distanza,
o
a
Sajàh,
che
si
autoproclamò
profetessa
in
quanto
convinta
d’essere
depositaria
della
rivelazione
divina
o,
ancora,
a
Zabbà
che
fu
capace
di
imprigionare
il
re
dell’Iràq
e
di
berne
il
sangue.
Prendendo
le
mosse,
da
un
punto
di
vista
metodologico,
dai
numerosi
studi
generali
di
carattere
teorico
che
affrontano
la
storia
delle
donne
e
di
genere
(bibliografia
ampia
in
Wiesner,
2000),
anche
in
prospettiva
letteraria
(per
l’ambito
arabo
si
veda,
in
particolare,
Myrne,
2010),
saranno
messi
in
evidenza:
a) alcuni
processi
di
costruzione
del
linguaggio
storiografico
e
letterario
e
di
istituzionalizzazione
androcentrica
eventualmente
connessi
all’Islàm;
b) i
paradigmi
culturali
che
giustificano
queste
rappresentazioni
di
donne
in
epoca
preislamica
e
islamica.
I
detti
aspetti
saranno
trattati
nel
loro
intreccio
con
tematiche
quali
il
rapporto
fra
soprannaturale
e
potere,
femminile
e
divino,
e
con
gli
stereotipi
legati
tanto
alla
sessualità
quanto
al
gender.
• Paolo
La
Spisa
(Università
Giovanni
Comenio‐Bratislava/Université
catholique
de
Louvaine,
Louvain‐la‐Neuve),
Il
corpo
della
donna
da
icona
di
resistenza
a
simbolo
di
moralità
nella
letteratura
araba
medievale
Nella
letteratura
arabo‐cristiana,
la
donna
appare
come
esempio
di
santità,
sia
essa
madre
o
monaca.
Lo
stratagemma
della
vergine
è
un
topos
della
letteratura
religiosa
di
edificazione,
dove
viene
narrata
la
storia
di
una
monaca
che
preferisce
darsi
al
martirio
piuttosto
che
perdere
la
propria
purezza
per
mano
dell’infedele
che
la
insidia.
Per
realizzare
il
proprio
progetto,
l’eroina
convince
il
suo
persecutore
dell’esistenza
di
un
farmaco
di
invulnerabilità.
La
leggenda
riceverà
successo
anche
nella
letteratura
europea
del
Rinascimento
dove
l’Ariosto
ne
sarà
l’illustre
trasmettitore,
inserendo
lo
Stratagemma
nel
canto
XXIX
dell’Orlando
Furioso.
Senza
voler
ricostruire
quei
complessi
passaggi
di
trasmissione,
ricezione
e
rielaborazione
del
testo
tra
Oriente
e
Occidente,
d’altronde
già
sceverati
da
Levi
Della
Vida
(1940‐41,
1956)
e
Cerulli
(1946),
il
presente
contributo
vuole
riprendere
un
tema
recentemente
messo
in
luce
da
Stephen
J.
Davis
(2010).
Ovvero
quello
del
corpo
della
donna
come
simbolo
di
resistenza
non
violenta
di
fronte
all’invasione
straniera
da
una
parte
e
di
valori
morali
condivisi
dall’altra.
Per
far
ciò
verranno
analizzate
le
seguenti
recensioni
egiziane
della
leggenda:
1)
Storia
dei
Patriarchi
di
Alessandria
(XI
sec.)
2)
Abū
l‐Makārim,
Storia
delle
chiese
e
dei
monasteri
in
Egitto
(XII‐XIII
sec.)
3)
Ğirğis
al‐Makīn,
Mağmū‘
al‐mubārak
(XIII
sec.)
4)
Miracoli
di
San
Giulio
di
Aqfahs
‐
versione
etiopica
fatta
su
testo
arabo
inedito
‐
(XIV
sec.)
5)
al‐Maqrīzī,
Mawā'iz
wa‐al‐i'tibār
fī
dhikr
al‐khitat
wa‐al‐āthār
(XIV‐XV
sec.)
6)
Ibn
al‐Subkī,
Ibn
al‐Subkī,
Tabaqāt
al‐Šāfīyya
(XIV
sec.).
L’appropriazione
e
adattamento
del
testo
durante
il
compleso
percorso
della
sua
trasmissione,
ha
un
grande
ruolo
nel
processo
di
formulazione
di
un’identità
in
costante
relazione
col
passato
e
il
presente.
In
al‐Maqrīzī
è
possibile
osservare
come
il
simbolo
di
resistenza
di
una
minoranza
religiosa
diviene
modello
di
consenso
sociale
e
accordo
morale
della
maggioranza.
Il
corpo
della
donna
è
usato
quindi
ora
per
riscrivere
e
rielaborare
la
storia
della
Chiesa
copta
nel
suo
complesso
rapporto
col
dominatore
musulmano,
ora
per
costruire
una
comune
identità
culturale
araba
nel
contesto
della
società
islamica
medievale.
• Letizia
Osti
(Università
di
Milano),
Shaghab,
la
regina
cattiva
Le
due
figure
femminili
che
sovrastano
il
panorama
storico‐letterario
dell’epoca
‘abbaside
sono
entrambi
connesse
alla
figura
maschile
a
sua
volta
più
prominente,
il
califfo
Hārūn
al‐Rashīd
(r.
170‐
786‐193/809).
Khayzurān,
la
madre,
e
Zubayda,
la
moglie
prediletta,
occupano
un
posto
privilegiato
sia
nella
letteratura
di
adab
che
in
quella
popolare
delle
Mille
e
una
notte,
come
paradigmi
delle
31
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
qualità
proprie
di
una
regina:
generosità,
opere
pie,
eleganza,
e
potere.
Negli
anni
’40
del
Novecento,
la
monografia
di
Nabia
Abbott,
Two
Queens
of
Baghdad.
Mother
and
Wife
of
Hārūn
Al‐Rashīd
(Chicago:
University
of
Chicago
Press,
1946),
organizza
il
materiale
storico‐letterario
su
questi
due
personaggi
in
una
doppia
biografia
che
ne
sottolinea
l’importanza.
In
questa
relazione
ci
si
propone
di
prendere
in
esame
il
materiale
storico‐letterario
su
una
terza
regina,
Shaghab,
madre
al‐Muqtadir
(r.
295/908‐320/932),
con
il
cui
califfato
si
identifica
convenzionalmente
l’inizio
del
declino
‘abbaside.
Le
fonti
attribuiscono
a
Shaghab
diverse
delle
qualità
positive
proprie
alla
sua
posizione,
ma
allo
stesso
tempo
le
addossano
anche
molta
della
responsabilità
per
la
rovina
militare
ed
economica
che
contraddistingue
il
califfato
del
figlio
che,
salito
al
trono
a
soli
tredici
anni,
ne
è
completamente
succube.
Attraverso
l’analisi
puntuale
di
alcuni
khabar,
si
cercherà
di
ricostruire
un
ritratto
di
Shaghab
che
tenga
conto
degli
atteggiamenti
e
fini
diversi
delle
fonti
che
la
descrivono,
contrastandolo
con
quello
delle
più
illustri
colleghe
Khayzurān
e
Zubayda.
Panel
3
(AULA
13)
Nazionalismo,
religione
e
colonialismo.
L'evoluzione
del
Medio
Oriente
e
dei
modelli
politici
regionali:
fattori
esogeni
ed
endogeni
di
cambiamento
(aula
14)
Marco
Di
Donato
(Coordina)
–
Elisa
Giunchi
(Università
di
Milano,
Discute)
In
un
momento
storico
così
attento
alla
pressante
attualità
medio
orientale,
rispetto
agli
eventi
che
drammaticamente
sconvolgono
una
regione
che
negli
ultimi
anni,
escludendo
il
conflitto
israelo‐
palestinese,
ben
poco
aveva
da
consegnare
alle
cronache
degli
storici
contemporanei,
in
una
regione
dove
i
sentimenti
popolari
sono
spesse
volte
legati
alla
religione,
e
nello
specifico
all’Islam,
appare
opportuno
provare
a
chiarificare
alcuni
punti
fondamentali
per
l’attuale
e
passata
comprensione
delle
dinamiche
interne
e
con
l’esterno
di
una
realtà
sociale,
politica
e
geografica
estremamente
ricca
e
complessa.
Il
Panel
di
discussione
che
s’intende
presentare
verterà
proprio
su
quei
punti
maggiormente
dibattuti
all’interno
delle
cronache
più
attuali
e
contemporanee,
ma
che
allo
stesso
tempo
hanno
una
validità
storica
di
lunga
scadenza
e
possono
dunque
risultare
propedeutici
alla
comprensione
di
quanto
oggi
avviene,
ma
soprattutto
potrebbe
accadere,
nel
Vicino
e
Medio
Oriente.
Nell’idea
di
partenza
il
Panel
si
suddividerà
in
cinque
interventi
divisi
fra
di
loro,
ma
legati
tanto
dalla
strettissima
attualità
quanto
dalla
rilevanza
di
ogni
singolo
argomento
nei
confronti
sia
della
regione
geografica
che
della
confessione
islamica.
•
Marco
Di
Donato
(Università
degli
Studi
di
Genova),
Islam
e
Nazionalismo
analisi
di
un
rapporto
fra
passato,
presente
e
futuro
Questo
intervento,
come
può
facilmente
evincersi
dal
titolo
stesso,
si
occuperà
di
analizzare
il
controverso
rapporto
fra
religione
islamica
e
nazionalismo,
con
una
particolare
attenzione
agli
attuali
drammatici
eventi
che
attraversano
il
mondo
arabo.
Due
termini
Islam
e
Nazionalismo
che,
apparentemente
agli
antipodi,
oggi
si
coniugano
attraverso
una
perfetta
e
precisa
commistione.
Specialmente
se
osserviamo
alcune
realtà
islamiche
legate
ai
Fratelli
Musulmani
o
al
Partito
di
Dio
libanese
di
Hezbollah,
non
si
può
non
notare
come
Islam
e
Nazionalismo
siano
divenuti
due
concetti
sovrapposti,
simili,
in
alcuni
casi
del
tutto
coincidenti.
Abbandonato
il
pan‐islamismo
di
fine
'800
ed
inizio
'900,
tali
movimenti
hanno
utilizzato
l'Islam
come
religione
rivoluzionaria
che
fungesse
da
elemento
di
liberazione
nazionale
e
che
allo
stesso
tempo
risultasse
la
base
di
partenza
per
la
costruzione
di
una
nuova
nazione.
Nazione
è
la
parola
chiave.
Il
termine
che
ci
permette
di
rivalutare
il
rapporto
fra
religione
islamica
ed
un
concetto
tutto
occidentale.
Un
concetto
ideologico
per
lungo
tempo
avulso
dall'orizzonte
di
riferimento
islamico,
ma
che
nella
storia
contemporanea
post
coloniale
ha
assunto
un
ruolo
di
estremo
rilievo.
I
Fratelli
Musulmani
in
Egitto,
Hamas
in
Palestina,
Hezbollah
in
Libano,
sono
tutti
validi
esempi
di
come
e
quanto
la
religione
islamica
sia
divenuta
strumento
privilegiato
per
creare
un
programma
a
livello
nazionale,
un
jihad
politico,
ed
il
alcuni
casi
anche
armato,
che
ponesse
la
nazione
come
primo
ed
unico
obiettivo.
Se
Michael
Freeden
osservava
come
il
nazionalismo
sia
un'ideologia
sottile
che
può
accompagnarsi
a
differenti
altre
ideologie,
allora
possiamo
affermare
che
l'onnicomprensiva
struttura
islamica
ha
assimilato
tale
32
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
concetto
facendolo
a
tutti
gli
effetti
proprio.
Un'assimilazione
resa
ancor
più
evidente
dall'analisi
di
un
elemento
apparentemente
estraneo
come
quello
del
martirio,
dove
il
sacrificio
di
sé
diviene
massima
espressione
per
la
lotta
di
liberazione
nazionale.
Il
corpo
dell'uomo,
seguendo
l'esempio
proposto
da
Farhad
Khrosovahar,
diviene
tutt'uno
con
il
corpo
della
nazione
il
cui
smembramento
ideologico
diviene
drammaticamente
pratico
e
reale
nell'atto
del
suicidio
violento.
Non
è
allora
un
caso
che
l'ondata
di
rivolte
del
mondo
arabo
sia
nata
proprio
dal
sacrificio
di
un
giovane
tunisino.
La
partecipazione
elettorale,
le
logiche
di
confronto
parlamentare,
la
redazione
di
un
programma
politico
attento
alla
realtà
locale
e
nazionale,
vanno
ancora
a
confortare
l'ipotesi
esposta
dimostrando
come
questi
movimenti,
queste
organizzazioni,
questi
partiti
abbiano
assunto
una
dimensione
primariamente
nazionale
divenendo
realtà
post‐islamiche,
dove
l'elemento
religioso
si
accompagna
ad
un
respiro
nazionalista
apparentemente
inconciliabile
per
la
natura
stessa
dell'Islam.
Resta
tuttavia
da
sciogliere
quell'ambiguità
di
fondo
relativa
alla
gestione
del
potere,
ambiguità
che
si
è
resa
palese
ad
esempio
in
Egitto
dove
l'attuale
posizione
dei
Fratelli
Musulmani
resta
ancora
tutta
da
interpretare
alla
luce
della
rivolta
di
Piazza
Tahrir.
Resta
ancora
da
comprendere,
come
suggeriscono
le
rivolte
in
Egitto
e
Tunisia,
se
oltre
alle
forze
islamiche
ci
siano
altri
attori
politici
in
grado
di
catalizzare
i
malcontenti
popolari
e
dare
voce
alle
istanze
di
quanti
sono
stati
finora
esclusi
dalla
gestione
del
potere.
Resta
infine
tutta
da
confutare
l'ipotesi
di
Oliver
Roy
il
quale
definendo
i
moti
di
rivolta
egiziani
e
tunisini
con
il
termine
post‐islamic
revolution,
sembra
già
aver
relegato
in
secondo
piano
l'elemento
islamico
nel
Medio
Oriente
che
verrà.
• Ludovico
Carlino
(Universidad
Rey
Juan
Carlos,
Madrid),
Al
Qaeda
ed
il
fallimento
dell’idea
di
Califfato
Islamico
universale
Il
ragionamento
proposto
nel
primo
intervento
differisce
in
maniera
sostanziale
dal
nostro
secondo
spunto
di
riflessione
proposto
da
Ludovico
Carlino,
di
una
realtà
prettamente
transnazionale
come
al‐Qaeda.
Le
prospettive
aperte
dalle
sollevazioni
popolari
che
da
settimane
stanno
scuotendo
il
mondo
arabo
appaiono
ancora
estremamente
incerte.
In
un
momento
storico
di
rilevanza
fondamentale
è
tuttavia
evidente
come
i
gruppi
jihadisti
e
salafiti
che
ruotano
attorno
l’orbita
di
al‐Qaeda
siano
rimasti
del
tutto
estranei
all’ondata
rivoluzionaria
che
sta
alterando
gli
equilibri
della
regione.
In
questo
contesto
la
stessa
ideologia
jihadista
potrebbe
ora
perdere
uno
dei
tasselli
chiave
del
suo
armamentario
ideologico:
solo
il
Jihad
armato
e
la
lotta
per
il
Califfato
universale
possono
portare
ad
una
caduta
dei
regimi
arabi
autocratici.
A
ben
vedere
l’inconciliabile
contrapposizione
tra
le
istanze
democratiche
alla
base
delle
recenti
sollevazioni
e
una
ideologia,
quella
qaedista,
che
qualifica
la
democrazia
un’invenzione
occidentale
e
pertanto
non
conciliabile
con
l’Islam,
ripresenta
tensioni
che
già
in
passato
avevano
minato
alla
base
la
portata
del
massaggio
jihadista‐salafita.
Dalla
sua
nascita,
datata
all’incirca
1988,
al‐Qaeda
ha
subito
una
naturale
evoluzione
nella
sua
ideologia
e
nei
suoi
obiettivi,
una
circostanza
che
ha
risposto
sostanzialmente
alla
necessità
di
adattarsi
alle
differenti
circostanze
createsi
nel
corso
degli
anni.
Ciò
che
d’immutato
è
rimasto
è
stata
tuttavia
l'idea
di
portare
avanti
una
lotta
transnazionale,
in
grado
di
superare
le
specificità
nazionali
del
Mondo
Arabo
con
il
fine
ultimo
di
istituire
un
Califfato
universale
pan‐
islamico.
Con
questo
obiettivo
in
mente
al‐Qaeda
ha
tentato
di
avvicinarsi
a
movimenti
islamisti
locali
considerati
eretici
rispetto
alle
proprie
pratiche,
ma
in
grado
di
garantire
infrastrutture,
appoggio
e
rifugi
sicuri.
Un
contatto
che
tuttavia
ha
reso
particolarmente
evidente
l’impossibilità
di
coniugare
a
priori
la
battaglia
che
al‐Qeada
pretende
di
portare
avanti,
un
Jihad
globale
in
difesa
del
mondo
musulmano
offeso
dagli
infedeli
“Crociati
e
Sionisti”,
con
i
differenti
obiettivi
dei
movimenti
di
resistenza
islamisti
mossi
tuttavia
da
fini
sostanzialmente
nazionalisti.
Questi
movimenti,
pur
utilizzando
un
linguaggio
religioso,
si
sono
impegnati
nella
lotta
armata
sulla
base
di
obiettivi
politici
ben
delimitati
e
delineati,
chiaramente
differenti
rispetto
a
quelli
di
un'organizzazione
priva
a
ben
vedere
di
qualsiasi
orizzonte
politico
realizzabile.
In
questo
contesto
possono
quindi
leggersi
le
tensioni
tra
al‐Qaeda
ed
organizzazioni
come
Hamas
o
i
sunniti
Consigli
del
Risveglio
iracheni,
dove
l'utopistico
obiettivo
di
riunire
la
Ummah
intera
sotto
la
bandiera
di
un
nuovo
Califfato
Islamico
improntato
ai
dettami
di
un
neo‐salafismo
scritturale
si
è
scontrato
apertamente
con
realtà
differenti
e
movimenti
disposti
ad
inserirsi
nel
gioco
democratico
secondo
regole
prettamente
occidentali.
Allo
stesso
tempo
diventa
ancora
più
evidente
come
nelle
circostanze
attuali
non
sia
stata
l’avanguardia
rivoluzionaria
jihadista
tanto
decantata
da
Al‐Zawahyri
e
Bin
Laden
a
guidare
il
risveglio
delle
masse
musulmane,
piuttosto
lo
è
stato
il
desiderio
di
libertà,
di
cambiamento
e
di
democrazia.
Nonostante
la
propaganda
di
al‐Qaeda
abbia
tentato
di
presentare
l’attuale
sollevazione
come
una
rivoluzione
ispirata
e
alimentate
dalle
idee
jihadiste,
le
bandiere
del
Jihad
sono
state
33
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
soppiantate
da
quelle
nazionali
preannunciando
in
tal
modo
il
fallimento
dell’idea
di
Califfato
Universale.
• Pietro
Longo
(Università
di
Napoli
l'Orientale),
Le
rivolte
Arabe
ed
il
Dirotto
Pubblico:
verso
un
nuovo
Costituzionalismo
ideologico?
Le
rivolte
che
oggi
attraversano
e
scuotono
le
coscienze
del
mondo
arabo
sembrano
allora
scaturire,
se
non
da
al‐Qaeda
e
dai
Fratelli
Musulmani,
da
quelle
precise
e
puntuali
istanze
di
libertà,
giustizia
ed
uguaglianza
che
i
popoli
arabi
hanno
chiesto
a
gran
voce
dal
centro
delle
loro
piazze.
Una
riforma
di
un
intero
sistema
che
passa
necessariamente
da
un
riadattamento,
vero
o
presunto
sarà
interessante
osservarlo,
dei
testi
costituzionali
attualmente
alla
base
dei
sistemi
di
potere.
Questo
terzo
articolo,
a
firma
di
Pietro
Longo,
prende
allora
spunto
dagli
episodi
di
scottante
attualità,
relativi
alla
propagazione
di
una
“ondata
rivoluzionaria
attraverso
tutto
il
mondo
arabo‐
islamico,
ed
alle
conseguenze
prodotte
fino
ad
ora
nel
campo
del
diritto
pubblico
“islamico”
con
una
particolare
attenzione
ad
un
paese
chiave:
l’Egitto.
Il
punto
di
partenza
è
la
chiave
di
lettura
fornita
da
uno
dei
massimi
studiosi
del
fenomeno
del
Costituzionalismo
Islamico,
S.
A.
Arjomand
nell’articolo
intitolato
Islamic
Constitutionalism.
Qui
lo
studioso
postula
l’avvicendarsi
di
tre
ondate
di
costituzionalizzazione
che
hanno
interessato
tutta
l’area
islamica
a
partire
dalla
seconda
metà
del
XIX
secolo.
La
prima
fase,
detta
in
modo
emblematico
di
costituzionalismo
liberale,
ha
avuto
inizio
nella
Dawla
ottomana
attraverso
l’adozione
delle
prime
Costituzioni
come
quella
Tunisina
del
1861
e
quella
ottomana
del
1867.
Questa
prima
fase
ha
visto
l’assorbimento
dall’occidente
degli
strumenti
tecnici
atti
a
rendere
responsabili
dinnanzi
alla
comunità
i
rispettivi
governi.
La
seconda
ondata
ha
interessato
la
umma
successivamente
al
secondo
dopoguerra
ed
è
definito
in
termini
di
Costituzionalismo
ideologico
dal
momento
che
i
suoi
fautori,
come
al‐Mawdudi,
Muhammad
Asad
ed
altri,
dichiaratamente
postulavano
la
superiorità
dei
principi
islamici
di
governo
rispetto
a
quelli
occidentali
del
Costituzionalismo
democratico.
Ne
consegue
che
costoro
affermavano
a
gran
voce
la
necessità
di
applicare
de
jure
il
principio
della
sovranità
di
Dio.
Infine
la
terza
corrente,
sviluppatasi
sul
finire
del
secolo
passato,
si
ritiene
abbia
abiurato
la
centralità
del
carattere
ideologico
ed
abbia
ribadito
il
necessario
ritorno
all’idea
di
rule
of
law.
Per
questi
motivi,
detta
corrente
viene
definita
come
post‐
ideologica
nonostante
si
sia
nutrita
soprattutto
della
speculazione
di
intellettuali
musulmani
viventi
come
Yusuf
al‐Qaradawi,
Tariq
al‐Bishri
e
Muhammad
Salim
al‐‘Awwa.
Costoro,
fautori
di
un
pensiero
cosiddetto
“islamico
moderato”
hanno
tentato
una
mediazione
tra
i
due
approcci
precedenti,
proponendo
la
sostanziale
uniformità
dei
principi
di
governo
occidentali
e
quelli
islamici
e
dunque
soluzioni
pratiche
legate
all’applicazione
del
principio
della
sovranità
di
Dio,
sottoforma
della
cosiddetta
“confessional
clause”
e
del
ruolo
delle
corti
nella
veste
di
giudici
delle
leggi,
strappando
questa
funzione
agli
‘ulama’.
Ma
se
questo
è
il
punto
di
partenza,
l’ondata
rivoluzionaria
tutt’ora
in
corso
sembra
promettere
l’apertura
di
una
nuova
fase
della
quale
ancora
sono
oscuri
gli
esiti.
Nel
caso
egiziano
sembrerebbe
palesarsi
la
possibilità,
nell’immediato
futuro,
per
l’adozione
di
emendamenti
costituzionali,
se
non
addirittura
per
l’inaugurazione
di
un
nuovo
processo
costituente,
che
rileverà
soprattutto,
almeno
nelle
promesse
propagandistiche
del
governo
transitorio,
sotto
il
profilo
della
liberalizzazione
del
sistema
politico.
Se
quindi
appare
bene
spianata
la
strada
che
conduce
al
rafforzamento
degli
istituti
di
“accountability”
degli
organi
esecutivi
e
di
quelli
di
“checks
and
balances”
tra
i
poteri,
tuttavia
si
pone
l’interrogativo
di
come
precise
forze
politiche
e
sociali
islamiche
possano
inserirsi
in
questo
contesto,
palesando
quindi
anche
un
ritorno
del
discorso
ideologico.
Ciò
potrebbe
produrre
importanti
novità
nella
nuova
Costituzione
del
paese
in
esame,
non
solo
sotto
il
profilo
delle
fonti
generali
del
diritto
dei
rispettivi
ordinamenti
ma
anche,
e
forse
soprattutto,
nella
creazione
o
nel
rafforzamento,
laddove
esistenti,
di
dispositivi
di
controllo
della
“islamicità”
degli
atti
normativi.
Lo
studio
si
concentrerà
pertanto
sull’analisi
della
Carta
fondamentale
interinale
adottata
dalla
giunta
militare
egiziana,
tradotta
per
l’occasione
in
lingua
italiana.
• Stefano
Torelli
(Università
di
Roma,
La
Sapienza),
Il
modello
della
Turchia
in
prospettiva
storica:
le
differenze
con
il
mondo
arabo.
Ma
allora
sorge
spontaneo
chiedersi:
esiste
una
risposta
endogena
agli
attuali
eventi
in
grado
di
catalizzare
la
forza
propulsiva
degli
stessi
non
lasciando
che
il
vento
delle
rivolte
arabe
si
disperda
senza
aver
raggiunto
i
risultati
prefissati?
Alcuni
indicano
nella
Turchia
una
possibile
risposta
e
34
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Stefano
Torelli
si
occuperà
di
analizzare
le
dinamiche
che
sono
alla
base
del
cosiddetto
modello
turco.
Negli
ultimi
mesi,
a
seguito
della
campagna
di
rivolte
che
potrebbe
cambiare
la
fisionomia
di
alcuni
assetti
politici
e
istituzionali
nel
mondo
arabo,
più
volte
è
stato
chiamato
in
causa
il
cosiddetto
“modello
turco”,
quale
esempio
da
seguire
per
realtà
come
la
Tunisia,
l’Egitto
e
altri
Paesi
mediorientali.
Se
da
un
lato
il
richiamo
alla
Turchia
può
essere
indubbiamente
letto
come
un
implicito
riconoscimento
agli
sforzi
compiuti
da
questo
Paese
nel
corso
degli
ultimi
decenni
verso
un
sistema
pluralistico
e
democratico
che
includa
anche
l’anima
dell’Islam
politico,
è
tuttavia
necessario
ripercorrere
la
nascita
di
tale
modello
e
delinearne
alcune
caratteristiche,
anche
dal
punto
di
vista
storico,
che
in
parte
differiscono
con
quelle
strutturali
dei
Paesi
arabi.
Dagli
anni
Ottanta
in
poi,
in
concomitanza
con
l’apertura
della
politica
turca
alla
società
civile
e
al
processo
di
democratizzazione
intrapreso
in
Turchia,
che
ha
preso
piede
un
altro
tipo
di
nazionalismo,
non
soltanto
basato
sull’eredità
kemalista,
ma
sui
valori
della
cultura
musulmana,
cui
appartiene
la
quasi
totalità
della
popolazione
turca.
La
nascita
di
movimenti
ispirati
all’Islam
politico
ha,
da
un
lato,
fornito
un’alternativa
al
rigido
secolarismo
e
al
“nazionalismo
etnico”
della
Turchia
post‐imperiale
e,
dall’altro
ha
contribuito
a
creare
lo
spazio
necessario
per
l’instaurazione
di
un
nuovo
tipo
di
rapporto
tra
la
Turchia
e
il
mondo
arabo.
Il
modello
del
cosiddetto
“Islam
turco”
ha
saputo
coniugare
i
valori
dell’Islam,
quelli
della
cultura
turca
e
le
condizioni
ambientali
della
globalizzazione
e
del
libero
mercato.
In
questo
modo,
tale
modello
è
riuscito
a
dialogare
anche
con
il
mondo
arabo,
superando
le
divergenze
nazionaliste
che
hanno
separato
questi
due
mondi
per
più
di
60
anni.
Si
tratta
di
un
primo
passo
verso
un
maggiore
dialogo
reciproco,
ma
lo
stesso
mondo
arabo
è
attualmente
in
una
fase
di
transizione
che
è
soltanto
allo
stato
embrionale
e
l’esempio
della
Turchia
potrebbe
essere
replicato
soltanto
a
condizione
che
si
inneschino
i
meccanismi
che,
negli
anni
Ottanta,
hanno
portato
tutte
le
realtà
della
società
civile
e
politica
a
partecipare
alla
vita
pubblica.
Tale
discorso
è
valido
non
solo
per
ciò
che
concerne
l’Islam
politico,
ma
più
in
generale
tutte
le
anime
della
vita
sociale
dei
Paesi
coinvolti.
Ne
risulterà
come
non
si
possa
parlare
in
maniera
semplicistica
di
modello
turco
riferendosi
esclusivamente
all’aspetto
dell’Islam
politico
e
alla
sua
convivenza
con
un
sistema
democratico,
in
quanto
il
cammino
intrapreso
dalla
Turchia
è
più
complesso
e
articolato
rispetto
a
quello,
appena
intrapreso,
da
alcune
realtà
arabe
in
Medio
Oriente.
•
Simone
Comi
(Università
di
Milano),
Gli
Stati
Uniti
in
Medio
Oriente:
presenza
ingombrante
o
elemento
di
stabilizzazione?
Quando
si
parla
di
Medio
Oriente,
una
riflessione
tutt'altro
che
marginale
si
dovrebbe
anche
avere
sul
ruolo
degli
Stati
Uniti
ed
i
loro
interessi
nella
regione.
Fin
dagli
albori
della
Guerra
Fredda,
la
Casa
Bianca
ha
infatti
cercato
di
preservare
o
creare
e,
comunque,
gestire,
i
precari
equilibri
politici
e
strategici
di
un'
area
spesso
dilaniata
da
profonde
crisi.
Le
relazioni
tra
la
maggior
parte
dei
paesi
della
fascia
mediorientale
e
gli
Stati
Uniti
hanno
attraversato
fasi
alterne,
mantenendo
per
molti
anni
un
andamento
curvilineo,
la
cui
parabola
è
stata
spesse
volte
condizionata
dall’avvicendarsi
alla
Casa
Bianca
di
governi
e
uomini
politici
provenienti
da
schieramenti
opposti.
Il
tentativo
di
contenere
il
nazionalismo
arabo
e
il
pan‐islamismo,
fenomeni
potenzialmente
in
grado
di
mettere
in
discussione
l’influenza
e
gli
interessi
statunitensi
nell’area,
può
essere
considerato
uno
dei
pochi
punti
di
convergenza
tra
le
iniziative
di
leadership
spesso
agli
antipodi
per
il
differente
approccio
alle
questioni
mediorientali
e
per
i
rapporti
con
alleati
e
avversari.
Fatta
questa
fondamentale
premessa,
in
quest’ultimo
intervento,
a
cura
di
Simone
Comi,
verrà
quindi
tratteggiata,
seppur
brevemente,
la
politica
estera
statunitense
per
il
Medio
Oriente
dopo
il
crollo
dell’Unione
Sovietica.
Si
cercherà,
inoltre,
di
analizzare
la
possibile
ridefinizione
dei
rapporti
tra
gli
Stati
Uniti
e
i
paesi
dell'area
mediorientale
dopo
le
rivolte
che
hanno
investito
il
Maghreb
negli
ultimi
mesi,
tentando
al
contempo
di
delineare
quello
che
potrebbe
essere
il
futuro
approccio
dell'esecutivo
di
Washington
alle
questioni
che
riguardano
una
regione
che
pare
essere
destinata
a
dover
vivere
un
futuro
tanto
simile
al
suo
tragico
passato.
Gli
Stati
Uniti
e
il
Medio
Oriente:
una
presenza
ingombrante
o
un
elemento
in
grado
di
favorire
la
stabilizzazione
di
un'area
storicamente
dilaniata
da
dispute
e
conflitti?
35
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Panel
4
(AULA
16)
Note
e
riflessioni
sull’orientalismo
italiano
Stefano
Minetti
e
Marco
Demichelis
(Coordinano)
–
Gabriele
Proglio
(Università
di
Torino,
Discute)
Nel
150°
anniversario
dell’Unità
d’Italia
è
essenziale
sottolineare
come,
anche
grazie
al
processo
risorgimentale,
si
sia
giunti
a
poter
delineare
e
trattare
di
una
scuola
orientalistica
italiana,
in
quanto
espressione
di
uno
studio
accademico
approfondito
su
un’area
geografica
che
non
ha
visto
l’Italia,
tranne
che
per
la
Tripolitania‐Cirenaica
e
il
Dodecaneso,
giocare
un
ruolo
da
potenza
coloniale.
È
quindi
oltremodo
importante
riscoprire
il
ruolo
e
l’impatto
che
l’Orientalismo
italiano
ha
conseguito
nel
nostro
paese,
ma
anche
all’estero,
rimarcando
alcuni
aspetti
fondamentali
di
questa
corrente:
un’analisi
tematica
e
metodologica,
la
relazione
con
il
nazionalismo
e
colonialismo
italiano
tra
anti‐fascismo
e
filo‐fascismo,
il
ruolo
dell’Orientalismo
italiano
d’ispirazione
cristiana
nel
pensiero
di
alcuni
suoi
stimati
esponenti.
Questi
approfondimenti
non
hanno
l’intenzione
di
promuovere
un’analisi
apologetica
di
una
realtà
accademica
italiana
d’eccellenza
che
ha
saputo
mostrare
alcuni
dei
più
importanti
studiosi
e
testi
della
storia
dell’Orientalismo
mondiale
o
che
acquisì
enorme
rilevanza
per
le
famose
lezioni
tenute
da
Nallino,
Santillana,
Guidi
presso
centri
accademici
stranieri,
soprattutto
in
Egitto.
Questo
panel
vuole
sottolineare
l’Orientalismo
italiano
in
quanto
sintomatico
di
una
importante
capacità
di
studio
umanistico
della
nostra
accademia
che
in
alcuni
casi
ha
compiuto
errori
grossolani
sposando
il
Fascismo.
• Marco
Demichelis
(Università
di
Torino),
L’Orientalismo
Italiano
tra
colonialismo
e
cultura.
Anti‐fascismo,
propensione
verso
il
regime
o
semplicemente,
Orientalismo?
Questo
paper
si
propone
di
analizzare
sinteticamente
l’Orientalismo
Italiano
all’interno
di
un
percorso
storico‐critico
che
interpreti
l’atteggiamento
ed
il
comportamento
di
alcuni
illustri
accademici,
in
relazione
al
colonialismo
del
nostro
paese
in
Tripolitania
e
Cirenaica,
in
Corno
d’Africa
e
all’insegnamento
della
storia
e
della
cultura
islamica
in
Egitto,
all’inizio
del
XX
secolo.
Lo
studio
in
questione
intende
approfondire
prima
di
tutto
alcune
tra
le
diverse
personalità
dell’Orientalismo
Italiano,
distinguendole
proprio
in
base
alla
loro
propensione
nazionalistica
prima
e
fascista
in
seguito,
in
maniera
concisa,
da
un
Caetani
e
Levi
della
Vida
ad
un
Cerulli.
Successivamente
è
rilevante
esaminare
l’impatto
economico‐politico
che
il
colonialismo
italiano
ebbe
nel
favorire
l’emergere
di
una
vera
e
propria
scuola
orientalistica
in
seguito
al
processo
di
unità
nazionale
e
al
tardo
tentativo
del
nostro
paese
di
occupare
domini
extra‐europei.
È
infine
interessante
indagare,
attraverso
un’analisi
di
fonti
primarie,
l’approccio
e
l’impegno
di
alcuni
autori,
come
Carlo
Alfonso
Nallino,
Ignazio
Guidi
e
il
Santillana,
che
su
richiesta
del
principe
Fu’ad,
vennero
invitati
ad
insegnare
nella
capitale
egiziana
presso
la
Cairo
University
e
al‐Azhar.
Per
quanto
concerne
quest’ultimo
aspetto
è
essenziale
annoverare
come,
all’epoca,
questa
opportunità
venne
a
concretizzarsi
e
in
che
modo
impattò
all’interno
della
Nahÿa
di
quel
decennio.
Come
conclusione
sarebbe
stimolante
riproporre
la
controversia
degli
anni
’60,
apparsa
sulla
rivista
Diogenes,
tra
il
Gabrieli
e
Anouar
Abdel‐
Malek
e
che,
in
anticipo
su
Orientalismo
di
Edward
Said,
riproponeva
un
dibattito
metodologico
e
di
contenuto
nell’ambito
dell’Orientalismo
contemporaneo.
• Stefano
Minetti
(Università
Cattolica
di
Milano),
Gli
orientalisti
italiani:
interessi
e
aspetti
metodologici.
L’Italia
ha
vantato,
nel
corso
del
‘900,
una
grande
tradizione
di
studi
orientali
e
mediorientali,
annoverando
tra
i
propri
studiosi
alcuni
dei
più
celebri
arabisti
ed
orientalisti
dell’epoca:
Gabrieli,
Nallino,
Levi
della
Vida,
eccetera.
L’epoca
di
questi
gloriosi
studi
sembra
essersi,
per
diversi
motivi,
conclusa:
ridotto
il
numero
di
pubblicazioni
di
grande
rilievo
accademico;
scarse
le
traduzioni
in
italiano
di
classici
della
cultura
arabo
islamica;
scarso
–
più
in
generale
–
l’interesse
del
grande
pubblico
per
il
Medio
Oriente
e
per
la
cultura
arabo
islamica.
36
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Pur
essendoci
ancora
studiosi
di
grande
levatura
in
Italia,
sembra
essere
venuto
meno
l’interesse
generale
per
la
materia
o,
forse,
è
cambiato
il
contesto
culturale
in
cui
radicano
questo
tipo
di
studi.
A
partire
da
E.
Said
e
dalla
critica
dei
cultural
studies,
che
significato
ha
oggi
studiare
l’arabo
e
l’islam?
È
possibile
rintracciare
nei
maestri
dell’orientalistica
italiana
del
‘900
una
matrice
culturale
comune
ed
un
metodo
condiviso?
Qualora
esistesse
un
filo
conduttore,
rintracciabile
nel
metodo
di
costoro,
si
potrebbe
ipotizzare
una
ragione
o
una
serie
di
ragioni
per
il
relativo
disinteresse
su
questo
settore
di
studi
avvertibile
nell’Italia
contemporanea.
Scopo
di
questo
intervento
non
è
di
fornire
una
valutazione
esaustiva
degli
aspetti
metodologici
dell’orientalistica
italiana,
quanto
cercare
di
evidenziare
delle
linee
di
tendenza
che
agevolino
la
comprensione
della
situazione
italiana
attuale,
rispetto
ad
altri
paesi
in
cui
l’interesse
per
il
mondo
arabo
e
l’islam
sembra
essere
più
forte.
• Samir
Khalil
Samir
SJ.
(Pontificio
Istituto
Orientale,
Roma),
Gli
studi
arabi
cristiani
in
Italia,
ieri
e
oggi
Gli
studi
arabi
cristiani
non
sono
una
disciplina
a
sé:
sono,
piuttosto,
un
ramo
degli
studi
arabi
che
risale
al
Medioevo.
È
pero
notevole
che
i
primi
libri
al
mondo
stampati
con
caratteri
arabi
siano
stati
dei
libri
arabi
cristiani,
stampati
in
Italia.
Il
primo
fu
un
Orologio
melchita
(kitâb
al‐sawâ’î),
stampato
a
Fano
nel
1514
per
l’uso
dei
cristiani
d’Oriente.
Altri
libri,
in
particolare
la
Bibbia,
furono
stampati
per
i
cristiani,
mentre
libri
di
medicina
e
di
filosofia
araba
furono
stampati
per
gli
orientalisti.
Il
ruolo
dei
missionari
cattolici
fu
importante
a
questa
tappa.
La
fondazione
del
Collegio
Maronita
di
Roma,
nel
1584,
rilancia
gli
studi
arabi
cristiani
e
siriaci,
accanto
agli
studi
arabo
islamici.
Il
grande
monumento
di
letteratura
siriaca
ed
araba
cristiana
è
certamente
la
Bibliotheca
Orientalis
Clementino‐Vaticana
di
Yūsuf
Sim’ān
al‐Sim‘āni,
pubblicata
a
Roma
nella
tipografia
di
Propaganda
Fide
in
4
volumi,
grande
in‐4°,
tra
il
1719
e
il
1728.
Molti
orientalisti
d’Europa
si
sono
formati
con
i
dotti
maroniti.
La
terza
tappa
fu
quella
degli
orientalisti
italiani
che
nell’Ottocento
e
nel
Novecento
si
interessarono
alla
produzione
araba
dei
cristiani,
in
vari
settori:
storia,
diritto,
bibbia,
teologia,
filosofia,
scienza,
apologetica,
letteratura,
etc.
Ci
fermeremo
più
a
lungo
su
questa
fase,
includendo
i
contemporanei,
quali
Ignazio
Guidi,
Enrico
Gismondi,
Carlo
Alfonso
Nallino,
Giorgio
Levi
della
Vida,
Francesco
Gabrieli,
Cristina
d’Ancona,
Fabrizio
Pennacchietti,
Bartolomeo
Pirone,
etc.
*
*
*
*
*
37
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Edificio
U9
–
Viale
dell’Innovazione
10
Sabato
11
giugno
SESSIONE
1:
9.00‐10.45
Panel
1
(AULA
2)
A
room
of
one
own
in
contemporary
Palestinian
literature
Rosella
Dorigo
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia,
Coordina),
Mariaelena
Paniconi,
(Università
di
Macerata,
Discute)
• Dorit
Gottesfeld
(The
Van
Leer
Institute,
Jerusalem),
'Mirrors
of
strangeness':
Contemporary
Palestinian
Women's
Fiction
in
the
West
Bank
and
the
Gaza
Strip
In
the
years
following
the
first
intifada
(1987)
and
the
Oslo
Accords,
a
sense
of
despair
and
helplessness
prevailed
among
the
Palestinians
led
Palestinian
women
writers
to
begin
focusing
on
the
female
experience.
The
changes
that
occurred
in
general
Arab
writing
trends
with
the
rise
of
literary
modernism
also
sidelined
political
and
social
issues.
Young
Palestinian
women
writers
from
the
West
Bank
and
the
Gaza
Strip
were
those
who
continued
to
relatively
emphasize
the
connection
that
between
the
woman’s
problem
and
the
national
one,
while
adopting
modern
and
postmodern
writing
techniques
by
which
they
depict
their
unique
situation.
My
lecture
will
focus
on
the
period
which
follows
the
Oslo
Accords,
through
a
thematic
and
stylistic
analysis
of
the
short
stories
which
were
written
by
three
prominent
young
Palestinian
women
writers
living
in
the
West
Bank
and
the
Gaza
Strip:
Halah
al‐Bakri,
Amani
al‐Junaydi
and
'Aishah
Udah.
It
will
show
how
these
young
Palestinian
women
writers
gaze
as
women
(“others”)
upon
the
reality
of
the
dual
oppression
–
colonial
and
patriarchal
–
within
which
they
live,
and
portray
their
attempt
to
create
an
alternative
version
of
reality
and
also
of
the
past.
It
will
show
the
various
postmodern
elements,
which
they
introduce
into
their
writing,
with
the
woman
and
the
reality
of
occupation
serving
as
the
source
and
inspiration
for
these
uses.
• Maria
Holt
(University
of
Westminster),
Identity
and
Resistance.
Narratives
of
Palestinian
Women
in
Lebanon
and
the
West
Bank
In
the
face
of
escalating
hopelessness,
in
terms
of
living
conditions
and
future
prospects
for
peace
and
security,
as
well
as
the
continuing
Zionist
project
to
delegitimize
and
obliterate
their
national
identity,
Palestinian
women,
as
victims
and
active
participants,
adopt
various
modes
of
resistance
to
protect
themselves
and
their
children.
They
confront
efforts
to
negate
their
identity
through
the
construction
and
articulation
of
a
national
narrative.
The
Palestinian
narrative,
which
is
both
personal
and
communal,
takes
many
forms
and
is
used
to
preserve
the
memory
of
1948,
as
well
as
reminding
the
world
that
the
Palestinian‐Israeli
conflict
remains
unresolved.
But
it
is
also
deployed
to
justify
actions
defined
by
others
as
unethical
or
illegitimate,
such
as
the
killing
of
Israeli
civilians.
The
national
narrative
is
invested
with
the
power
not
only
to
subvert
dominant
meanings
and
religious
discourses
but,
as
well,
to
empower
women
to
perform
otherwise
‘unspeakable’
actions.
Some
scholars
argue
that
women’s
voices
‘differ
significantly
in
form
as
well
as
content
from
dominant
discourse’
(Gal
2002:
215)
and
I
will
test
this
hypothesis
in
the
Palestinian
case
where
violence
has
been
a
persistent
theme
and
narrative
tends
to
be
a
male
construct.
In
2006‐2007,
I
conducted
research
with
Palestinian
refugee
women
in
Lebanon
and
with
women,
refugees
and
non‐
refugees,
in
the
West
Bank
and,
in
this
paper,
I
will
discuss,
firstly,
how
ways
of
enacting
and
narrating
‘resistance’
have
changed
over
time;
secondly,
the
role
of
women
in
constructing
a
national
narrative
to
protect
and
celebrate
their
identity;
and,
thirdly,
modes
of
resistance
adopted
by
women,
some
of
which
challenge
notions
of
‘appropriate
behaviour’.
I
will
argue
that,
through
their
actions
and
their
stories,
women
are
expanding
the
boundaries
of
acceptable,
but
also
unacceptable,
behaviour;
they
are
broadening
understandings
and
methods
of
articulating
‘resistance’
but
at
what
cost?
38
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
•
Mahmoud
Kayyal
(Tel
Aviv
University),
Language
and
Identity
in
Arabic
Writings
in
Israel
This
paper
examines
the
interaction
between
Arab
Palestinian
identity
and
the
linguistic
styles
and
characteristics
of
Arabic
writings
in
Israel.
The
phenomenon
of
Hebrew
linguistic
interference
in
written
Arabic
is
one
of
the
prominent
features
in
these
writings.
Such
linguistic
interference
refers
to
Palestinian
writers
applying
knowledge
from
Hebrew
language
to
their
written
Arabic
language.
It
can
be
assumed
that
the
widespread
interference
of
Hebrew
in
the
spoken
Arabic
language
in
Israel,
as
a
result
of
Israeli‐Palestinians’
integration
in
the
Israeli
society,
can
encourage
Hebrew
interference
in
written
Arabic.
In
the
same
time
the
national
identity
of
these
Palestinians
strengthens
pure
literary
Arabic,
especially
on
the
background
of
the
Arab‐Israeli
conflict.
Consequently,
linguistic
interference
of
Hebrew
in
Arabic
writings
in
Israel
has
moved
through
three
distinct
stages:
1. Hesitancy
stage
(1948‐1967):
there
was
limited
interference
resulted
from
the
lack
of
knowledge
of
Hebrew
language
and
from
the
desire
to
maintain
the
purity
of
the
Arabic
language.
2. Challenge
stage
(1967‐1982):
there
was
increased
interference,
but
this
was
most
likely
to
challenge
the
dominance
of
the
Hebrew
language
and
its
political
discourse.
3. Bilingualism
stage
(after
1982):
the
interference
has
become
more
complex
and
sophisticated
as
a
result
of
increased
skillfulness
of
the
Hebrew
language.
Finally,
it
should
be
noted
that
this
phenomenon
of
Hebrew
interference
in
written
Arabic
is
no
longer
limited
to
the
Israeli‐Palestinian
writings,
but
also
emerging
in
the
writings
of
Palestinian
intellectuals
from
the
diaspora
and
the
West
Bank
and
Gaza
Strip,
who
mainly
reflect
the
lingual
situation
under
the
Israeli
occupation.
So,
maybe
it
is
not
exaggerating
if
we
say
that
Hebrew
interference
has
become
one
of
the
hallmarks
of
the
Palestinian
literature
in
general.
Panel
2
(AULA
12)
Mondi
di
vita
e
appartenenza
religiosa:
prospettive
etnografiche
su
soggettività
ed
Islam
Paola
Abenante,
Daniele
Cantini
(Coordinano)
‐
Mauro
Van
Aken
(Università
Milano
Bicocca),
Domenico
Copertino
(Università
di
Milano
Bicocca,
Discutono).
Il
rapporto
tra
popolo
e
nazione,
così
come
il
rapporto
tra
memoria
e
identità,
in
Medio
Oriente
e
nelle
società
a
maggioranza
musulmana
è
senza
dubbio
grandemente
mediato
dal
ruolo
della
religione
nella
sfera
pubblica
e
in
quella
privata.
Se
l’aspetto
più
pubblico
e
politico
in
senso
ampio
dell’identità
islamica
è
stato
molto
studiato,
i
signficati
etici,
individuali
e
quotidiani
di
questa
identità
politica
e
religiosa,
lo
sono
stati
molto
meno,
almeno
fino
a
pochi
anni
fa.
Coniugando
il
concetto
di
tradizione
discorsiva
di
T.
Asad
con
l’analisi
delle
tecnologie
del
sé
di
M.
Foucault,
le
ricerche
di
S.
Mahmood
e
C.
Hirschkind
hanno
segnato
una
svolta
nel
dibattito
negli
studi
sull’islam,
riportando
l’attenzione
proprio
su
questa
dimensione
etica,
esplorando
cosa
significa
per
i
singoli
individui
essere
e
agire
come
musulmani
virtuosi.
Questi
studi,
apparsi
per
lo
più
negli
ultimi
dieci
anni,
hanno
concentrato
l’attenzione
della
ricerca
al
livello
delle
pratiche,
cercando
di
rendere
conto
delle
esperienze
e
delle
voci
delle
persone
che
vivono
la
sahwa
al‐islamiya
(il
revival
islamico,
o
risveglio
islamico)
nel
quotidiano.
Concentrandosi
in
particolare
sui
processi
di
disciplina
corporei,
Mahmood
e
Hirschkind
hanno
descritto
i
modi
in
cui
gli
individui
si
impegnano
quotidianamente
nell’azione
di
riforma
delle
proprie
sensibilità,
dei
propri
sensi
e
dei
codici
di
comportamento,
per
agire
in
qualità
di
musulmani
virtuosi,
e
hanno
descritto
come
questa
dimensione
etica
ed
individuale
sia
alla
base
di
orientamenti
politici
in
senso
più
ampio.
Allo
stesso
tempo
all’interno
di
questo
spazio
di
dibattito
sulla
soggettività
e
l’Islam,
alcuni
ricercatori
(tra
i
quali
G.
Gregg,
S.
Pandolfo,
K.
Nieuwkerk,
S.
Schielke)
hanno
recentemente
discusso
i
limiti
di
tale
approccio
incentrato
sulla
formazione
dei
“soggetti
musulmani”
nei
termini
della
loro
tradizione
discorsiva
–
ovvero
nei
termini
delle
loro
proprie
credenze
e
pratiche
circa
il
modo
corretto
di
essere
musulmani.
Benché
essenziale
per
evidenziare
la
dimensione
individuale
ed
etica
dell’identità
religiosa,
quest’analisi,
proprio
perché
attenta
a
ricostruire
la
coerenza
e
la
ragion
d’essere
delle
discipline
e
delle
pratiche
religiose,
non
rende
giustizia
alla
complessità
della
39
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
soggettività
e
alla
singolarità
dei
mondi‐della‐vita
(Lebenswelten).
Per
non
cadere
nel
rischio
di
“essenzializzare”
la
‘cultura
della
virtù’
come
nuovo
paradigma
culturale
e
di
analisi
delle
società
a
maggioranza
musulmana,
gli
studi
più
recenti
invitano
a
rendere
conto
di
quali
siano
le
difficoltà
materiali,
morali
e
contingenti
che
gli
individui
incontrano
nel
perseguire
il
loro
ideale
di
virtù,
e
allo
stesso
tempo
invitano
a
esplorare
i
modi
in
cui
le
persone
affiancano,
sovrappongono
e
intrecciano
questo
ideale
con
diverse
appartenenze,
molteplici
affiliazioni
ed
aspirazioni
non
necessariamente
legati
all’esperienza
religiosa
–
personali,
familiari,
economiche,
sociali
etc.
Il
tentativo
è
quello
di
mettere
in
luce
i
modi
in
cui
i
singoli
individui
vivono
la
propria
vita
coniugando
diverse
appartenenze,
e
come
questo
processo
contribuisca
alla
comprensione
della
politica
quotidiana
delle
identità
religiose.
In
questa
prospettiva
ritorna
ad
essere
centrale
un’analisi
dettagliata
del
contesto
all’interno
del
quale
le
persone
vivono
e
mettono
in
pratica
i
loro
ideali,
nella
sua
storicità
e
nella
sua
contingenza.
L’intento
di
questo
panel
è
di
approfondire
questi
diversi
sguardi
sulla
formazione
della
soggettività
e
Islam,
attraverso
contributi
incentrati
su
contesti
etnografici
diversi
sia
per
dimensioni
che
per
tipologia.
Invitiamo
quindi
etnografie
locali
oppure
multi‐locali
incentrate
sulle
dinamiche
generate
dai
contesti
di
emigrazione,
con
particolare
riferimento
a
contesti
migratori
nel
nostro
paese
o
in
altri
paesi
europei;
o
ancora
contesti
transnazionali,
nei
quali
i
riferimenti
costitutivi
delle
diverse
soggettività
riguardino
ambiti
e
provenienze
diversi;
etnografie
che
si
concentrino
su
associazioni
religiose
o
culturali,
gruppi
di
individui
legati
dalla
comune
appartenenza
a
qualche
istituzione,
o
anche
su
singoli
individui.
I
contesti
presi
in
esame
dalle
ricercatrici
e
dai
ricercatori
che
presentano
alcuni
dei
loro
lavori
nel
panel
sono
molteplici,
dall’Egitto
alla
Turchia,
dalla
Malesia
alla
Giordania
e
all’Italia,
dalle
confraternite
sufi
a
gruppi
religiosi,
dagli
abitanti
di
villaggi
agli
studenti
universitari,
con
una
forte
attenzione
alle
dinamiche
transnazionali
che
contribuiscono
a
rendere
maggiormente
complessa
la
costruzione
dell’identità
e
dell’appartenenza
religiosa
e
politica
all’interno
di
mondi‐della‐vita
sempre
più
complessi
e
frammentari.
Particolarmente
importante,
a
nostro
avviso,
è
mettere
in
evidenza
la
costituzione
del
materiale
etnografico,
rendendo
espliciti
i
contesti
e
le
metodologie
di
ricerca,
al
fine
di
rendere
comparabili
i
contributi
e
le
diverse
prospettive
che
verranno
indicate.
Per
rendere
conto
della
molteplicità
di
piani
su
cui
si
articola
la
soggettività,
siamo
infatti
interessati
ad
accogliere
una
pluralità
di
approcci
metodologici.
Invitiamo
ad
esempio
le
etnografie
a
rendere
conto
dei
diversi
registri
discorsivi
messi
in
gioco
dagli
individui
per
identificarsi
in
maniere
contestuali,
strategiche
e
talvolta
apparentemente
contraddittorie,
ma
anche
ad
esplorare
la
dimensione
esistenziale
dell’esperienza
religiosa,
analizzando
i
mondi‐della‐vita
che
si
articolano
all’interno
e
attraverso
le
pratiche
e
i
concetti
religiosi.
Spesso
il
vocabolario
religioso
e
le
pratiche
religiose
infatti
forniscono
agli
individui
un
orizzonte
etico
all’interno
del
quale
trovare
un
senso
a
esperienze
altrimenti
alienanti;
in
altri
casi,
attraverso
differenti
esperienze
quotidiane
gli
individui
riconfigurano
in
maniera
soggettiva
e
contestuale
questi
stessi
concetti
religiosi.
• Paola
Abenante
(University
of
Bergen),
Vivere
l’Islam
in
migrazione:
corpi
e
pratiche
rituali
in
movimento
Nell’intento
di
descrivere
le
dimensioni
soggettive
ed
esistenziali
dell’Islam,
in
questo
contributo
esploro
gli
usi
e
i
significati
che
Nasser,
un
maestro
sufi
egiziano,
attribuisce
alle
sue
credenze
e
pratiche
religiose
nella
vita
quotidiana.
In
particolare
descrivo
come,
attraverso
le
nozioni
mistiche
di
zahir/esteriore‐contingente
e
batin/interiore‐spirituale,
Nasser
dia
senso
ai
suoi
continui
movimenti
migratori
dal
Cairo
a
Bagdad,
fino
ad
arrivare
in
Europa
e
come,
attraverso
le
pratiche
rituali,
riconfiguri
la
sua
soggettività
provata
dalle
esperienze
di
marginalizzazione
ed
esclusione.
Questa
prospettiva
esistenziale
sulla
religione
mi
permette,
allo
stesso
tempo,
di
mettere
evidenza
la
creatività
del
mio
interlocutore
nei
confronti
della
sua
tradizione
religiosa
e
di
mostrare,
più
in
generale,
le
piccole
e
spesso
inconsapevoli,
sebbene
continue,
variazioni
quotidiane
che
gli
individui
apportano
alle
cosmologie
e
alle
pratiche
religiose
da
cui
le
loro
soggettività
sono
informate.
40
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
•
Daniele
Cantini
(Martin‐Luther‐Universitaet
Halle‐Wittenberg/
Università
di
Modena
e
Reggio
Emilia),
L’università
e
la
formazione
della
soggettività
e
dell’appartenenza
religiosa:
un
caso
studio
da
Amman,
Giordania
In
questo
intervento
mi
propongo
di
presentare
le
condizioni
di
vita
degli
studenti
universitari
all’università
della
Giordania
(al‐jami´a
al‐urduniyya)
ad
Amman,
allo
scopo
di
mostrare
come
la
costruzione
della
loro
soggettività
e
delle
loro
molteplici
appartenenze
–
anche
se
in
questa
sede
mi
occuperò
principalmente
della
loro
appartenenza
religiosa
–
siano
influenzate
e
spesso
determinate
dal
contesto
nel
quale
si
trovano
a
vivere
gli
anni
decisivi
per
la
loro
formazione.
Mi
occupo
qui
in
particolare
di
studenti
che
non
appartengono
a
gruppi
religiosi
organizzati,
e
che
non
possono
essere
caratterizzati
né
come
secolaristi
né
come
islamisti,
ma
che
al
contrario
presentano
un´interessante
combinazione
di
influenze
differenti,
dagli
influssi
commerciali
e
non
del
sistema‐mondo
ai
richiami
della
religione
musulmana,
ma
anche
degli
stili
di
vita
propri
degli
studenti
universitari
in
molte
aree
del
mondo,
oltre
che
alle
limitazioni
–
politiche,
economiche,
sociali
–
proprie
del
contesto.
Scopo
di
questa
analisi
è
mostrare
cosa
significhi
essere
giovane
e
musulmano
nella
Giordania
odierna,
in
particolare
per
la
gioventù
urbana
ed
educata,
anche
se
non
necessariamente
di
classe
sociale
elevata,
avendo
un´attenzione
particolare
per
categorie
raramente
studiate,
quali
quella
dei
giovani
studenti
non
inquadrati
politicamente
o
religiosamente.
Basandomi
sui
dati
raccolti
nel
corso
della
mia
ricerca
di
campo
cercherò
dunque
di
mostrare
come
il
contesto
dell´educazione
superiore
in
Giordania
e
ad
Amman
in
particolare
influenzi
in
maniera
decisiva
le
autorappresentazioni
degli
studenti
universitari
e
in
particolare
le
loro
soggettività,
prima
di
addentrarmi
nella
descrizione
di
alcune
storie
di
vita
attraverso
le
quali
penso
divengano
più
comprensibili
i
processi
di
formazione
della
soggettività
e
dell´appartenenza
religiosa,
la
loro
complessità
e
la
relazione
con
il
contesto
e
le
dinamiche
di
potere
locali
ed
internazionali.
• Laura
Menin
(Università
di
Milano
Bicocca),
Corpi,
confini
e
desideri.
Micro‐politiche
delle
modernità
e
soggettività
di
genere
fra
le
giovani
donne
musulmane
a
Milano
Nell’ultimo
decennio,
le
donne
musulmane
sono
state
al
centro
dell’attenzione
dei
media
‘Occidentali’
e
dei
sui
discorsi
pubblici
che
le
hanno
spesso
costruite
come
vittime
passive
o
soggetti
da
emancipare.
Intorno
a
questa
immagine
spesso
si
dibatte
dei
corpi
delle
donne,
delle
libertà
femminili
e
delle
forme
di
religiosità.
Il
mio
intervento
esplora
la
nozione
di
modernità
come
esperienza
vissuta
e
incorporata
analizzando
le
differenti
pratiche
religiose
e
le
posizione
soggettive
che
alcune
giovani
donne
nate
e
cresciute
a
Milano
dall’infanzia
articolano
nella
loro
vita
quotidiana.
Le
mie
riflessioni
si
basano
su
una
ricerca
etnografica
svolta
a
Milano
(2005‐2006)
fra
alcune
giovani
donne
musulmane
di
diversa
provenienza
geografica,
classe
sociale
e
appartenenza
culturale.
Nell’esplorare
gli
immaginari
di
genere
e
i
vissuti
religiosi
delle
giovani
donne
che
ho
incontrato,
seguo
la
prospettiva
tracciata
da
studiose
impegnate
ad
ampliare
l’analisi
delle
nozioni
di
soggettività
e
agentività
oltre
le
categorie
di
subordinazione
versus
resistenza.
L’agentività,
infatti,
non
è
solo
“a
synonym
for
resistance
to
social
norms”,
ma
può
essere
pensata
come
“a
modality
of
action”
(Mahmood
2005:157)
all’interno
di
specifici
regimi
di
potere,
autorità
e
significato.
Al
tempo
stesso,
ritengo
che
dar
voce
anche
alle
espressioni
di
ambivalenza
e
alle
aspirazioni
contraddittorie
(Schielke
2009)
di
cui
sono
permeate
le
traiettorie
personali
delle
donne
che
ho
incontrato
possa
dare
accesso
a
una
conoscenza
più
profonda
della
complessità
della
loro
vita
quotidiana
(Abu‐
Lughod
1993;
Ortner,
2003:34;
Kondo,
1990:45).
Infine,
pur
dando
visibilità
alle
forme
di
agentività
e
alle
posizioni
soggettive,
suggerisco
che
le
giovani
donne
sono
implicate
in
molteplici
discorsi
egemonici
e
micro‐strutture
di
potere
che
partecipano
a
definire
aspetti
intimi
delle
loro
vita
quotiadina,
quali
i
desideri,
gli
immaginari
di
genere
e
alcune
pratiche
corporee.
• Silvia
Vignato
(Università
Milano
Bicocca),
Matrimoni
segreti
e
matrimoni
a
tempo
fra
le
donne
sole
in
Malesia
e
Aceh
Questa
relazione
prenderà
in
esame
le
storie
matrimoniali
di
alcune
donne
marginali,
mai
sposate
o
divorziate,
della
Malesia
Nord‐occidentale
(Penang)
e
di
Aceh
(Banda
Aceh,
Bireuen).
Le
scelte
matrimoniali
delle
donne
qui
presentate
si
svolgono
in
un
contesto
matrifocale
comune
a
tutto
il
mondo
malese,
cioè
in
un'organizzazione
di
parentela
cognatica
e
variamente
orientata
alla
matrilinearità,
una
generale
tendenza
alla
matrilocalità
e
un
contesto
rituale
che
ribadisce
la
centralità
della
casata
materna.
Come
altri
ricercatori
hanno
mostrato
(Peletz
1995,
1996;
Siegel
41
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
2004[1969]),
nel
mondo
malese
il
desiderio
sessuale
(nafsu,
hawa
nafsu)
e
la
capacità
di
controllarlo,
costrutti
centrali
per
la
percezione
di
sé,
sono
oggetto
di
un
discorso
esplicito
e
fortemente
informato
dall'Islam.
Nella
relazione
mostrerò
come,
per
le
donne
mai
sposate,
separate
o
vedove,
il
contesto
matrifocale
permetta
alle
donne
di
appropriarsi,
in
modi
diversi,
di
norme
islamiche
per
restare
in
controllo
della
propria
sessualità.
In
particolare,
descriverò
l'uso
o
il
rifiuto
di
forme
di
matrimonio
non
ratificate
dallo
Stato
ma
nondimeno
valide
agli
occhi
del
diritto
islamico
(nikah
siri
e
perkahwinan
misyar)
in
un
contesto
generale
di
matrimoni
impermanenti.
Sottolineerò
il
diverso
peso
di
fattori
strutturali
come
l'industrializzazione,
in
Malesia,
o
l'
isolamento
e
la
distruzione
dovuti
alla
guerra
civile,
ad
Aceh,
nella
trasformazione
delle
ideologie
di
genere
in
un
contesto
generale
di
internazionalizzazione
e
standardizzazione
dell'islam.
SESSIONE
2:
11.15‐13‐30
Panel
1
(AULA
2)
Tra
iconografia
letteraria
e
azione
politica.
(Ri)scritture
della
memoria
nel
contesto
arabo
contemporaneo
Maria
Elena
Paniconi
(Coordina)
–
Marta
Petricioli,
Università
di
Firenze
e
Leila
El
Houssi
Università
di
Firenze,
Discutono)
Negli
ultimi
anni
molti
contributi
scientifici
pertinenti
agli
ambiti
dell’antropologia,
della
critica
letteraria,
della
filosofia
e
dei
cultural
studies
hanno
messo
in
luce
l’aspetto
dinamico
e
relazionale
della
memoria
collettiva,
che
non
può
essere
intesa
come
patrimonio
immobile
e
“discreto”,
separato
dal
presente
e
dall’oggi,
ma
può
e
deve
essere
intesa
piuttosto
come
un
processo
in
via
di
definizione
continua.
Jan
Assman
(2002)
ha
trattato
dei
processi
di
sedimentazione
e
trasmissione
del
patrimonio
culturale
dimostrando
che
“la
memoria
opera
in
entrambe
le
direzioni,
in
avanti
e
all’indietro”.
Sulle
modalità
di
costruzione
delle
rappresentazioni
di
una
comunità,
sulla
natura
oscillante
dei
movimenti
della
memoria
e
sull’incidenza
di
questi
fenomeni
sull’oggi
ha
lavorato
anche
Alessandro
Portelli
che
in
Storie
Orali
(2007)
conia
la
definizione
di
“memoria‐scandalo”
per
indicare
quella
memoria
che
“resiste
all’atomizzazione
individualista
della
modernità”,
restituendo
alla
comunità
una
“grande
narrazione”.
Una
narrazione
che
nei
racconti
orali
raggiunge,
non
a
caso,
i
toni
dell’epos.
Paul
Ricoeur
a
sua
volta
ne
La
memoria,
la
storia,
l’oblio
(2003)
propone
una
lettura
della
“condizione
storica”
della
vita
umana,
condizione
intessuta
di
memoria
e
di
oblio
e
legge
l’attività
storiografica
come
una
sorta
di
risposta
al
necessario
avvento
dell’oblio.
Obiettivo
del
panel
è
presentare,
attraverso
una
selezione
di
casi
studio,
alcune
delle
interrelazioni
tra
la
codificazione/trasmissione
della
memoria
che
si
ha
per
il
tramite
della
letteratura
da
un
lato
e
la
formazione
di
identità
collettiva
dall’altro.
Anche
ponendosi
in
relazione
alle
rivolte
popolari
in
corso
in
Nord
Africa
e
Medio
Oriente,
i
partecipanti
sono
invitati
a
cogliere
ed
analizzare,
nelle
loro
relazioni,
la
natura
politica
che
lo
stesso
atto
del
“farsi
veicolo
di
memoria”
attraverso
la
scrittura
assume.
Com’è
noto,
molti
scrittori
e
intellettuali
arabi
hanno
incarnato
il
sentimento
dell’appartenenza
nazionale
e
la
consapevolezza
storica
popolare
forgiando,
talvolta
a
loro
insaputa,
una
vera
e
propria
grammatica
per
l’azione
politica.
Si
pensi
solo
al
duo
Negm
–
Jahin,
assurto
a
simbolo
delle
manifestazioni
di
dissenso
popolare
negli
anni
Settanta,
o
a
figure
come
quella
di
Shuhdi
‘Atiyya,
che
hanno
ispirato
vari
autori
egiziani
(Sonallah
Ibrahim
e
Mahmud
al‐
Wardani)
in
una
germinazione
di
rappresentazioni
e
mediazioni
della
memoria
collettiva
di
sicuro
impatto
per
la
coscienza
civile
nazionale.
A
supporto
di
ciò,
saranno
senz’altro
utili
gli
studi
che
hanno
raccolto
le
suggestioni
dell’analisi
socio
letteraria
(Richard
Jacquemond
2002)
per
analizzare
il
campo
letterario
arabo,
mettendo
in
luce
le
intersezioni
tra
sfera
letteraria
e
sfera
politica
che
hanno
scandito
la
vita
culturale
del
mondo
arabo
dalla
fase
postcoloniale
fino
ai
giorni
nostri.
42
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
•
Lorenzo
Casini
(Università
di
Messina),
La
rivoluzione
come
ri‐apertura
di
percorsi
ideali
tra
presente,
passato,
e
nuovi
orizzonti
d’attesa.
Una
riflessione
sul
ruolo
della
poesia
dialettale
in
Egitto
Il
contributo
muove
dall’analisi
dell’attualità,
di
un
2011
apertosi
all’insegna
di
imponenti
moti
di
rivolta
che
hanno
attraversato
molti
paesi
arabi
e
che
in
alcuni
casi
hanno
assunto
il
carattere
di
vere
e
proprie
rivoluzioni
con
l’obbiettivo
di
cambiare
regime/sistema
(taghīr
al‐nizām).
Le
domande
a
cui
si
cerca
di
rispondere
riguardano
il
rapporto
tra
rivoluzione
e
campo
letterario,
con
particolare
riferimento
al
contesto
egiziano:
in
quale
misura
e
in
quale
forma
questi
rivoluzioni
possono
alterare
il
campo
letterario
esistente?
Quali
prospettive
aprono
per
una
reinterpretazione
delle
trasformazioni
letterarie
successive
agli
anni
’60?
La
tesi
discussa
nella
relazione
è
che
le
rivoluzioni
in
corso
abbiano
avuto
già
un
effetto
dirompente
sul
campo
letterario
esistente,
riaprendo
la
possibilità
per
gli
autori
di
interpretare
la
propria
realtà
alla
luce
di
un
rapporto
nuovamente
fecondo
con
il
proprio
passato
e
alla
luce
di
nuovi
orizzonti
d’attesa.
In
questo
quadro
teorico
una
particolare
attenzione
verrà
dedicata
al
ruolo
della
poesia
dialettale
egiziana,
genere
che
sta
conoscendo
una
nuova
fioritura.
• Alba
Rosa
Suriano
(Università
di
Catania),
La
costruzione
della
memoria
collettiva
attraverso
il
ricordo
individuale:
il
ciclo
di
rappresentazioni
al‐Sahraiyya
nel
teatro
egiziano
contemporaneo
La
scelta
di
rappresentare
la
dialettica
tra
ricordo
individuale
e
memoria
collettiva
si
inserisce
nel
discorso
più
vasto
del
rapporto
tra
memoria
e
storia
ed
in
quello
che
vede
a
confronto
l’espressione
della
cultura
di
un
popolo
e
la
sua
memoria.
Secondo
alcuni
semiologi
la
cultura
è
«una
memoria
non
ereditaria
del
collettivo»
(Lotman
e
Uspenskij,
1971).
In
questa
prospettiva
l’identità
culturale
si
costruirebbe
grazie
alla
trasmissione
della
memoria
attraverso
alcuni
mediatori
che,
rielaborandola
e
continuamente
reiterandola
per
mezzo
della
parola,
dell’immagine
e
della
ripetizione
rituale,
fanno
da
tramite
tra
le
generazioni.
Si
analizzeranno
in
questo
contributo
alcuni
casi
paradigmatici
tratti
dalla
letteratura
teatrale
egiziana
contemporanea.
I
testi
presi
in
esame
sono
il
frutto
di
un
lavoro
collettivo
dei
membri
della
compagnia
indipendente
“al‐Misahharati”,
diretta
dalla
regista
Abir
Ali,
e
costituiscono
il
ciclo
di
spettacoli
“al‐Sahraiyya”:
“Halawat
al‐ruh”,
“Hakawi
al‐haramlik”,
“Helw
Masr”
e
“Enta
deys
ala
elby”.
In
questi
testi
si
racconta
la
storia
dell’Egitto
degli
ultimi
cinquant’anni
attraverso
le
tappe
fondamentali
delle
guerre
in
cui
il
Paese
è
stato
coinvolto
(1956,
1967,
1973),
in
un
mosaico
di
racconti
personali
e
ricordi
di
famiglia.
Usando
la
tecnica
teatrale
del
samir,
un
genere
di
rappresentazione
peculiare
della
tradizione
araba,
la
regista
mette
in
scena
la
tessitura
di
quella
memoria
collettiva,
che
è
sia
sedimentazione
del
ricordo
nella
coscienza
del
singolo,
sia
trasmissione
sociale
del
patrimonio
culturale.
• Lucia
Sorbera
(The
University
of
Sydney),
Tracce
di
storia
nelle
“graphie”
della
memoria
femminile.
Storia
e
memoria
in
Atyaf
di
Radwa
‘Ašūr
La
traduzione
del
protagonismo
femminile
in
memoria
letteraria
è
un
dato
storico
e
transculturale,
che
la
critica
di
genere
non
ha
mancato
di
cogliere.
In
quello
che
le
autrici
stesse
definiscono
“un
dialogo
ai
confini
tra
storia
e
letteratura”,
Alessandra
Contini
ed
Ernestina
Pellegrini
(2001)
ripercorrono
le
tappe
che,
nel
corso
del
XX
secolo,
hanno
portato
“dalla
inconsapevolezza
del
valore
della
propria
memoria\scrittura
alla
piena
coscienza
del
valore
fondativo
di
essa
per
la
scoperta
e
reivenzione
di
un
sé
di
genere.
Dai
recinti
e
perimetri
stretti
del
passato
ai
fertili
sconfinamenti
e
spaesamenti
dell’io
contemporaneo,
in
una
utopia
di
trasformazione
che
sovverte
gerarchie
e
parodizza
logiche
di
potere”.
A
proposito
della
letteratura
araba,
Marilyn
Booth
(2001)
ha
evidenziato
il
nesso
tra
scrittura
biografica
e
agency
femminile,
aprendo
la
strada
a
chi,
successivamente,
ha
spostato
l’attenzione
sull’autobiografia
(Nawar
al‐Hassan
Golley,
2003
e
2007).
Parallelamente,
la
critica
letteraria
si
è
interrogata
sugli
esiti
della
féminisation
del
campo
letterario
(R.
Jacquemond,
2003),
alludendo
non
solo
al
prestigio
di
molte
autrici,
ma
anche
al
modo
in
cui
la
loro
attività
ha
influito
sul
modo
di
fare
letteratura
nel
mondo
arabo.
Questo
processo
non
ha
impedito
che,
in
situazioni
e
momenti
storici
ben
precisi,
la
nozione
di
scrittura
femminile
assumesse
connotazioni
negative,
o
quantomeno
43
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
svalutanti,
e
che
la
stessa
critica
femminista
giungesse
a
metterla
in
discussione
(Al‐Zayyat
L.,
1996),
o
a
soffermarsi
sulla
traducibilità
delle
categorie
di
genere
in
arabo
(Mehrez
S.,
2007).
La
mia
analisi
del
romanzo
Atyaf.
Fantasmi
dall’Egitto
e
dalla
Palestina
(1998)
di
Radwa
Ashur
procede
all’interno
di
questa
cornice
critica,
cercando
di
evidenziare
continuità
e
fratture
tra
questo
e
i
suoi
antecedenti
narrativi.
L’analisi
prende
in
considerazione
le
caratteristiche
stilistiche
innovative
rispetto
al
genere,
ma
anche
la
forte
dialettica
tra
storia
e
memoria
nel
romanzo.
Nelle
conclusioni,
si
evidenzia
come
il
modo
di
narrare
la
storia
in
queste
e
in
altre
memorie
femminili
sconfessi
un
pregiudizio
che
a
lungo
ha
pesato
su
tali
produzioni,
dimostrando
che
esse
non
sono
solo
testimonianza
dei
tormenti
della
vita
privata,
intima,
domestica,
ma
esprimono
una
crescente
volontà
e
capacità
di
protagonismo
nella
storia
e
nello
spazio
pubblico.
• Mariangiola
Li
Vigni
(Università
di
Catania),
«Secret
Son»
di
Laila
Lalami:
memoria,
riscrittura
del
passato,
invenzione
dell’identità
Laila
Lalami
(n.
1968
a
Rabat)
appartiene
a
quel
gruppo
di
scrittori
di
origine
marocchina
«who
negotiate
the
space
of
Morocco
from
outside
the
nation»
(Mimoune,
2009),
in
particolare
dal
luogo
della
‘diaspora’
negli
Stati
Uniti.
Nel
mio
intervento,
mi
propongo
di
esaminare
il
secondo
romanzo
di
Lalami,
Secret
Son
(Algonquin
Books,
2009),
in
cui
l’autrice
indaga,
in
chiave
postmoderna,
le
questioni
dell’identità
e
della
memoria
in
relazione
alla
società
e
alla
cultura
del
suo
paese
d’origine.
Adottando
l’approccio
postmoderno
che
fa
dell’identità
il
risultato
di
‘costruzioni
narrative’
(Holstein‐Gubrium,
1999),
Lalami
connota
la
memoria
in
quanto
narrazione
e
persino
‘invenzione’,
e
mostra
come
la
consapevolezza
del
passato
personale
e
familiare
sia
fondamentale
nel
veicolare
le
percezioni
identitarie
di
Youssef,
il
giovane
protagonista
del
romanzo,
nonché
la
stessa
capacità
di
identificarsi,
ad
esempio,
con
gli
eroi
della
letteratura
(marocchina,
inglese
e
anglo‐americana).
Una
volta
discusso
il
rapporto
tra
identità
e
memoria,
si
tenterà
di
evidenziare
come
la
scoperta
della
vera
identità
del
padre
di
Youssef,
il
capitalista
Nabil
Amrani,
determini
la
crisi
identitaria
del
protagonista
e
la
rottura
con
le
aspirazioni
e
i
valori
e
sui
quali
si
è
retta,
sino
a
quel
momento,
la
sua
esistenza
insieme
alla
madre,
la
berbera
Rachida.
Si
metteranno,
quindi,
in
luce
le
motivazioni
che
hanno
condotto
il
personaggio
materno
a
‘inventare’,
attraverso
bugie
e
reticenze,
le
circostanze
del
concepimento
di
Youssef,
e
si
chiarirà
come
la
rivelazione
finale
sul
passato
familiare
di
Rachida
serva
a
riscattare
la
posizione
in‐between
(«half‐Berber
and
half‐Arab»)
di
Youssef.
Proprio
la
duplice
origine
–
araba
e
berbera
–
del
protagonista
gli
permette
di
assurgere
a
metafora
di
un’identità
nazionale
marocchina
‘autenticamente’
ibrida,
facendo
sì
che
Secret
Son
si
configuri,
al
pari
di
altri
testi
della
letteratura
moderna
(Rooke,
1997),
come
esempio
di
allegoria
nazionale.
• Aldo
Nicosia
(Università
di
Bari),
‘Izz
al‐Din
al‐Madani
e
gli
anni
Quaranta
in
Tunisia.
Poesia
del
ricordo
versus
prosa
del
presente?
Recentemente
la
scena
culturale
tunisina,
alla
ricerca
di
punti
fermi
per
leggere
un
presente
contraddittorio
e
spesso
definito
come
“indistinto”,
ha
recuperato
la
memoria
collettiva
di
un’epoca,
quella
della
pre‐indipendenza.
Esempio
di
questa
tendenza
è
l’affresco
storico
del
film
“Thalathun”
(2008),
di
Fadhel
Jaziri,
sui
mitizzati
anni
Trenta,
anni
che,
se
da
un
lato
venivano
criticati
aspramente
da
Abu
l‐Qasim
al‐Shabbi,
vedevano
dall’altro
il
fiorire
di
intellettuali
fecondi
e
rivoluzionari
come
‘Ali
al‐Du’āji
e
al‐Tahir
al‐Haddād,
fino
alla
rilettura
della
Seconda
Guerra
Mondiale
attraverso
l’esplorazione
della
ricca
e
complessa
realtà
interconfessionale
della
Tunisia
(“Le
chant
des
mariées”,
Karin
Albou,
2008).
Il
drammaturgo
e
romanziere
‘Izz
al‐Din
al‐Madani
(1938),
nella
sua
autobiografia
romanzata
“Ayyam
sa‘ida”,
(2008
prima
parte,
2010
seconda
parte),
si
immerge,
attraverso
l’occhio
vigile
di
un
adolescente,
nella
vivacità
dell’atmosfera
sociale,
culturale
e
politica
che
caratterizzava
la
Tunisia
degli
anni
‘40.
Facendo
riferimento
a
studi
critici
che
hanno
indagato
circa
la
scrittura
del
sé
nella
prosa
araba
moderna
e
contemporanea
(Reynolds
and
Dwight
2001;
Rooke
1997;
Ostle
1998),
si
prenderanno
in
analisi
gli
strumenti
narrativi
che
l’autore
utilizza
per
restituire
tale
atmosfera.
Si
porrà
l’accento
anche
su
una
lingua
in
cui
le
varietà
linguistiche
della
darija
e
della
fus‐ha
si
compenetrano
fondendosi,
nel
solco
di
una
pratica
già
sperimentata
e
consolidata
grazie
ad
autori
come
‘Ali
al‐Du’āji,
Bashir
al‐Khurayyif
ed
altri.
44
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
Panel
2
(AULA
12)
“It’s
a
Celebration…”.
Celebrazioni
dell’indipendenza
e
dinamiche
di
inclusione
e
di
esclusione
nel
Medio
Oriente
contemporaneo
Paolo
Maggiolini,
Francesco
Mazzucotelli
(Coordinano),
Discussant
(da
annunciare)
• Paolo
Maggiolini
(LUSPIO,
Roma)
Speeches
of
spaces
in
Amman.
Tempi
e
luoghi
della
celebrazione
del
campo
politico
hashemita
(1921‐1988)
Superando
e
sciogliendo
le
tradizionali
dicotomie
attraverso
cui
l’esperienza
statuale
hashemita
di
Giordania
è
stata
abitualmente
descritta,
il
contributo
si
propone
di
indagare
il
percorso
di
fondazione
e
di
strutturazione
del
Regno
Hashemita
di
Giordania
durante
il
XX
secolo,
immergendosi
nei
tempi
e
nei
luoghi
del
suo
campo
politico
(Zubaida
1993).
Considerato
una
realtà
integralmente
artificiale,
condannato
alla
continua
ricerca
di
una
sua
identità,
lo
stato
hashemita
testimonia,
ciononostante,
il
successo
di
una
radicale
operazione
di
continua
riconfigurazione
e
celebrazione
degli
spazi
e
dei
tempi
della
storia
e
della
memoria
locale.
Amman
ne
è
la
più
autentica
testimone.
Tra
le
sue
vie
il
campo
politico
hashemita
si
è
rappresentato
plasticamente
fin
dalla
sua
nascita,
ancorandosi
nel
territorio
e
legando
a
sé
la
sua
popolazione.
La
capitale
è
così
divenuta
un
luogo
all’interno
del
quale
rigenerarsi
e
celebrarsi
secondo
le
diverse
necessità
politiche
del
momento.
Il
contributo
analizzerà
inizialmente
la
fondazione
della
capitale
hashemita
durante
gli
anni
Trenta,
primo
palcoscenico
dell’Emiro
‘Abdallah
e
del
suo
campo
politico.
In
un
secondo
momento,
verranno
riconsiderati
gli
anni
della
mobilitazione
nazionalista
durante
i
quali
il
popolo
giordano
prenderà
possesso
delle
sue
strade
al
fine
di
proporre
una
personale
interpretazione
dello
stato
hashemita
e
del
suo
campo
politico.
Gli
anni
della
successione
di
Re
Hussein
e
della
sua
maturazione
politica
verranno
analizzati
per
sottolineare
i
diversi
linguaggi
impiegati
nel
celebrare
e
mettere
in
scena
rappresentazioni
differenti
circa
i
temi
dell’identità,
della
cittadinanza
e
della
partecipazione.
Infine,
attraversando
gli
anni
del
Settembre
Nero,
il
contributo
analizzerà
il
discorso
di
Re
Hussein
in
occasione
delle
celebrazioni
per
il
trentaseiesimo
anniversario
dalla
sua
ascesa
al
trono
giordano
(1988).
La
riconfigurazione
della
storia
dello
stato
giordano,
della
sua
popolazione
e
della
casa
regnate
rappresenta
un
momento
necessario
alla
programmazione
del
futuro
dello
stato
hashemita
e
del
suo
campo
politico,
sia
nella
prospettiva
degli
ultimi
dieci
anni
del
regno
di
Re
Hussein
che
della
successione
del
figlio
Re
‘Abdallah
II.
• Enrica
Camporesi
(Università
Ca’
Foscari,
Venezia),
Guerra
civile
latente:
storiografia
e
appartenenza
nazionale
nel
Libano
del
dopoguerra
Si
propone
un’analisi
della
nozione
storiografica
di
“guerra
civile
latente”
elaborata
negli
anni
’90
da
alcuni
intellettuali
e
artisti
libanesi
(tra
gli
altri:
Samir
Qassir,
Elyas
Khury,
Bilal
Khbeiz,
Rabi’
Mroue)
per
descrivere
la
situazione
di
emergenza
e
di
instabilità
politica
consolidatasi
in
Libano
nel
dopo‐guerra
civile.
Le
polemiche
scaturite
nei
primi
anni
’90
attorno
ai
piani
di
ricostruzione
del
centro
storico
di
Beirut
previsti
dal
primo
governo
Hariri
(1992‐98),
il
dibattito
promosso
dalla
società
civile
all’inizio
degli
anni
2000
sulla
celebrazione
del
13
aprile
come
“Giornata
nazionale
della
memoria”
e
la
questione
della
redazione
di
un
libro
di
storia
condiviso
da
tutte
le
comunità
libanesi
costituiscono
a
questo
proposito
alcuni
casi
utili
ad
esemplificare
il
concetto
di
“guerra
civile
latente”,
mettendo
in
luce
le
strette
connessioni
esistenti
tra
problematica
storiografica
e
costruzione
identitaria
nazionale
nel
peculiare
contesto
libanese
(Beydoun,
1984).
La
riflessione
su
storiografia
e
appartenenza
identitaria
prende
forma
anche
alla
luce
del
vivace
dibattito
sollecitato
dalla
società
civile
sin
dagli
anni
’80
sull’elaborazione
delle
memorie
di
guerra,
considerando
il
conflitto
come
un
momento
fondamentale
nel
processo
di
nation
building
del
Libano
contemporaneo
(Hanf,
1993).
Infatti,
attraverso
gli
studi
di
Haugbolle
(2010),
si
presentano
le
tappe
principali
del
dibattito
sviluppatosi
dopo
gli
accordi
di
pace
di
Ta’ef
(1989)
attorno
alla
costruzione
delle
memorie
private
e
collettive
del
conflitto.
Dopo
un
primo
decennio
di
retoriche
governative
orientate
al
principio
di
“dimenticare
per
ricominciare”
(vedi
ad
es.
la
Legge
di
Amnistia
Generale
del
1991
e
i
piani
di
ricostruzione
del
centro
storico
di
Beirut
del
1992‐
45
SeSaMO
X
‐
Abstracts
–
9‐11
giugno
1994),
il
processo
innescato
dai
movimenti
intellettuali,
dagli
artisti
e
dagli
attivisti
civili
ha
portato
solo
recentemente
(in
particolare
dopo
l’assassinio
del
primo
ministro
Rafiq
Hariri,
14/2/2005)
ad
una
parziale
svolta
nelle
politiche
ufficiali
della
memoria
(vedi
ad
es.
riapertura
della
questione
degli
sfollati,
celebrazione
della
“Giornata
della
memoria”).
• Enrico
Bartolomei
(Università
di
Macerata),
“Liberare
gli
ebrei
dal
sionismo”:
il
Movimento
di
resistenza
palestinese
e
la
questione
degli
ebrei
in
Palestina
La
disfatta
araba
del
giugno
1967
apre
un
vuoto
politico
e
militare
nel
quale
si
inseriscono
le
organizzazioni
di
resistenza
palestinesi.
Il
dibattito
politico‐ideologico
che
le
attraversa
rivela
una
pluralità
di
posizioni
vivacemente
discusse.
Per
la
prima
volta
dalla
Nakba,
nei
testi
politici
e
nelle
dichiarazioni
dei
leader,
si
chiarisce
la
differenza
tra
sionismo
e
giudaismo,
si
accetta
la
presenza
di
milioni
di
ebrei
sul
suolo
della
Palestina,
si
propone
l’idea
di
uno
stato
democratico
non
settario
dove
gli
ebrei
avrebbero
goduto
degli
stessi
diritti
dei
palestinesi.
In
che
misura
l’accettazione
della
presenza
ebraica
in
una
Palestina
liberata
dal
sionismo,
che
segna
una
svolta
storica
nel
pensiero
politico
palestinese,
ha
implicato
una
ridefinizione
dei
rapporti
identitari
tra
palestinesi
e
israeliani?
Nel
quadro
dei
processi
di
costruzione
identitaria
e
nazionale
nell’area
mediorientale,
la
relazione,
attraverso
l’analisi
delle
dichiarazioni
dei
leader,
dei
testi
politici
delle
principali
organizzazioni
di
resistenza
e
delle
risoluzioni
ufficiali
dell’Organizzazione
per
la
Liberazione
della
Palestina
(OLP),
si
propone
di
analizzare
il
ruolo
svolto
‐
negli
anni
immediatamente
successivi
alla
Guerra
del
1967
‐
dal
Movimento
di
resistenza
palestinese
nella
formazione
di
una
società
progressista
e
non
razziale
aperta
alla
coesistenza
con
gli
ebrei.
• Maurizio
Scaini
(Università
di
Trieste),
Il
neo‐kemalismo
di
fronte
alla
modernità.
Democrazia,
laicità
e
identità
nazionale
in
Turchia
Sulla
scia
degli
ultimi
moti
che
hanno
interessato
il
Medio
Oriente,
la
Turchia
è
stata
indicata
come
un
possibile
modello
democratico
da
seguire
da
parte
dei
Paesi
interessati
alle
proteste
e
che
si
accingono
a
vivere
un
nuovo
corso.
Questa
proposta,
inizialmente
delineata
da
Erdogan,
oltre
a
indicare
le
ambizioni
regionali
turche,
ha
un
significato
interno
e
rimanda
alle
tensioni
istituzionali
in
atto
negli
ultimi
anni
in
Turchia
tra
neo‐kemalisti
e
filo‐islamici.
Quando
questa
fase
sarà
finita,
la
Turchia
sarà,
molto
probabilmente,
diversa
da
quella
odierna.
Il
kemalismo
è
stato
a
lungo
considerato
dall’Occidente
come
sinonimo
di
modernità:
in
origine,
una
sorta
di
garanzia
contro
possibili
derive
filo‐sovietiche,
più
recentemente
una
diga
contro
l’islam
politico.
Alla
luce
dei
cambiamenti
verificatesi
nella
società
turca
contemporanea,
caratterizzata
da
conflitti
etnici
e
rivendicazioni
identitarie
ma
anche
da
una
crescita
economica
che
ha
favorito
l’emergere
di
un
nuovo
ceto
medio,
diventa,
tuttavia,
naturale
chiedersi
se
il
kemalismo
sia
ancora
la
categoria
politica
più
adatta
per
interpretare
la
Turchia
odierna
e,
soprattutto,
se
si
tratta
di
una
prospettiva
in
grado
di
far
transitare
finalmente
il
Paese
da
una
politica
di
perenne
emergenza,
che
ha
caratterizzato
la
storia
turca
dell’ultimo
secolo,
ad
una
di
normalità.
*
*
*
*
*
*
*
*
*
46