Sesamo X - SeSaMO Italia
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P A P E R S (A B S T R A C T S) Sesamo X X Convegno della Società per gli Studi sul Medio Oriente Milano, 9‐11 giugno 2011 Università degli Studi di Milano Bicocca Memorie con‐divise. Popoli, stati e nazioni nel Mediterraneo e in Medio Oriente Comitato scientifico: Paolo Branca, Lorenzo Casini, Mirella Cassarino, Eugenia Ferragina, Daniela Melfa, Marcella Simoni, Lucia Sorbera, Alberto Tonini Comitato organizzativo: Paolo Branca, Domenico Copertino, Daniela Melfa SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Edificio U6 – Piazza dell’Ateneo Nuovo 1 Giovedì 9 giugno SESSIONE 1: 17.00‐19.00 Panel 1 (AULA 11) Il paradigma barbarico Paolo Branca (Coordina) ‐ Massimo Guidetti (Jaca Books, Discute) “Quelle razze che vivevano porta a porta da secoli non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda. I difensori che, stremati, a tarda sera abbandonavano il campo, all’alba mi ritrovavano al mio banco, ancora intento a districare il groviglio di sudicerie delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico, erano spesso quelli di malati e di morti nei loro letti e sottratti agli imbalsamatori. Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria come tutte; ogni dissidio sanato creava un precedente, un pegno per l’avvenire. M’importava assai poco che l’accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l’odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza. A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?” (M. Yourcenar, Memorie di Adriano) Nel corso della storia, che non si ripete mai ma spesso ripresenta problematiche simili, la percezione di altri popoli come invasori, elementi estranei, minacciosi e perniciosi è una delle costanti più evidenti. Specie in periodi di crisi economico‐politica, di debolezza delle istituzioni e di disorientamento generalizzato, la pressione alle frontiere o la presenza di minoranze non trascurabili ha innescato reazioni emotive colorate delle tinte più fosche, talvolta persino apocalittiche. Il panel si propone di analizzare come in alcuni momenti salienti dell'evoluzione storica d'Occidente e d'Oriente, voci diverse si siano levate sia per denunciare I gravi rischi che di volta in volta si temevano, ma anche per segnalare inedite opportunità di integrazione e di rinnovamento, in una dialettica pluralistica e variegata che ripercorrere oggi può risultare stimolante e utile, di fronte alle sfide che la nostra epoca si trova ad affrontare. • Paolo Branca (Università Cattolica del Sacro Cuore), Girolamo Pugliesi (Università Cattolica del Sacro Cuore), Occidente e Oriente, narrative a confronto All'affacciarsi di nuovi popoli, sopratutto quando questi per numero e forza assumono un ruolo decisivo all'interno di una compagine socio‐politica determinata, si assiste all'emergere di un dibattito tra chi guarda con favore all'inserimento di queste nuove forze e chi invece le considera una minaccia. Come nel periodo delle invasioni barbariche nel periodo della decadenza dell'impero romano, così in quello abbaside troviamo osservazioni e giudizi sui turchi spesso analoghi a quelli che sono stati espressi a proposito dei barbari in Occidente. Più in generale a un 'noi' variamente inteso si oppone un 'loro' altrettanto omologante e pregiudiziale che il corso della storia s'incarica puntualmente di smentire attraverso molteplici forme di adattamento reciproco. • Antonio Cuciniello (Università Cattolica del Sacro Cuore), Gog e Magog tra storia ed escatologia «Il timore di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di palazzi in sfacelo nei quali pascolano le greggi sono ricorrenti nella letteratura della decadenza dall’antichità fino ai giorni 2 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno nostri» (Wolfgang Schivelbusch, 2006). In questo quadro, se fosse possibile abbozzare una mappa della coscienza storica collettiva, un posto d'onore sarebbe da riservare a Gog e Magog. Leggendari popoli dell’Asia centrale la cui collocazione territoriale fu fantasticamente definita anche in varie opere cartografiche medioevali, come quelle di Ebstorf e di Hereford, sono riscontrabili sia nella tradizione biblica sia in quella coranica. Spesso rappresentati come selvaggi e sanguinari, in varie epoche furono identificati con diversi popoli (Sciti, Unni, Goti, Mongoli, Khazari, Alani, Tartari, Turchi, Ungari, Avari), a seconda delle minacce che di volta in volta si presentavano nel corso della storia. Nello Pseudo‐Efrem, un sermone sulla fine del mondo scritto nel V secolo, si narra che Alessandro Magno (rappresentato nella sura 18 del Corano) fu talmente spaventato da questi popoli immondi e antropofagi che ostruì l’accesso all’Occidente facendo costruire una robusta barriera di ferro tra due grandi montagne. Di questa barriera si parla anche nei versi di Giovanni Pascoli (Poemi Conviviali – Gog e Magog, 1904) «Ché tra due monti grande era, di rosso bronzo, una porta; grande sì, che l’ombra ne trascorreva all’ora del tramonto mezza la valle»; secondo le fonti islamiche, reggerà fino alla fine dei tempi, quando Gog e Magog imperverseranno sulla terra dove semineranno terrore e distruzione, prima di essere annientati dal fuoco che gli pioverà addosso dal cielo. • Davide Tacchini (Hartford Seminary/Università Cattolica del Sacro Cuore), America barbara e infedele, il diario americano di Sayyid Qutb As the west struggles to get to grips with its newest enemy, pundits, scholars and journalists have combed every inch of Osama bin Laden’s life story for clues to what turned an apparently quiet and unexceptional rich Saudi boy into the world’s most feared terrorist. But the most useful insights into the shaping of Bin Laden may lie not in the rugged mountains of Afghanistan, or the rampant materialism of 1970s Saudi Arabia, but the biography of a long dead Egyptian fundamentalist scholar called Sayyid Qutb. (Robert Irwin, The Guardian, 1 Novembre 2001) Sayyid Qutb è stato il principale ideologo del cosiddetto islamismo radicale ed il suo pensiero non solo ha gettato le basi per il moderno antiamericanismo di matrice islamica (che poi troverà nuova linfa da avvenimenti successivi, ahimè a noi ancora terribilmente vicini), ma rappresenta la figura che maggiormente ha rafforzato, negli estremismi dei giorni nostri, la percezione secondo cui l’Islam è attaccato da una cospirazione internazionale guidata dagli americani e dai sionisti. Fra il 1948 ed il 1950 trascorse quasi due anni negli Stati Uniti d’America. Contrariamente a quanto sperava l’intellighenzia egiziana dell’immediato dopoguerra, l’esperienza oltreoceano lo riavvicinò all’Islam e, poco tempo dopo, lo spinse ad aderire ai Fratelli Musulmani. L’America che ho visto è una sorta di diario del soggiorno negli USA di Qutb fra il 1948 e il 1950. Contiene interessanti riflessioni ed impressioni su alcuni aspetti della società americana e sui suoi valori dominanti. Acute osservazioni coesistono con ingenuità e palesi inesattezze. I temi che vengono affrontati sono spesso ricorrenti (anche la terminologia utilizzata lo è) e sono incentrati su aspetti quali il contrasto, agli occhi dell’autore, stridente, fra la grandezza nella scienza applicata in America e il primitivismo spirituale e morale degli americani, l’ammirazione per la forza fisica e per la guerra del popolo statunitense, la considerazione della morte diffusa oltreoceano, il ruolo della religione e della Chiesa nella società, la morale sessuale, etc. È indubbio che l’ideologia qutbiana sia ancora oggi un punto di riferimento per la maggioranza dei movimenti islamisti contemporanei, in diverse zone del mondo islamico. L’importanza di Amrīkā allatī ra’aytu (l’America che ho visto) nella formazione del pensiero di Sayyid Qutb è fondamentale. Uno degli intellettuali più seguiti dai leaders di quei movimenti considerati responsabili dei terribili attacchi terroristici degli ultimi decenni, che le amministrazioni americane hanno definito a più riprese come il male assoluto, coloro che hanno dichiarato guerra all’America, etc. deve, dunque, parte consistente della radicalizzazione del proprio pensiero ad un soggiorno negli Stati Uniti. • Beatrice Nicolini (Università Cattolica del Sacro Cuore), Dall’Arabia all’Africa: dall’‘L’Impero informale’ all’ossessione per il ‘controllo’ “… The Imaum of Muscat has extensive possessions in Africa …”, John Croft Hawkins (1798‐1851), Capitano dell’Indian Navy, il 21 giugno 1842 così iniziò il suo Memoranda sulla situazione delle coste orientali africane. Tale rapporto era destinato all’Amministrazione anglo‐indiana sia nei presidi 3 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno dell’India (Bombay e Calcutta), sia a Londra. E tra gli scopi di queste e altre numerose indagini e rapporti vi era la necessità da parte della Gran Bretagna di identificare autorità, poteri e leadership che potessero consentire la stabilizzazione di ciò che fu definito ‘l’Impero informale’. Copiosa letteratura su tali argomenti specifica la presenza di porti, di isole e di interi litorali est‐africani nelle mani di gruppi arabi che ne ‘controllavano’ ‐ o meglio, avrebbero dovuto controllare ‐ anche i movimenti marittimi. Questi movimenti riguardavano principalmente i commerci e la tratta degli schiavi. E su tali specificazioni vorremmo aprire in questa sede alcuni spunti di ricerca. In un ‘nastro culturale’ come le coste dell’Africa orientale, identificate dale documentazioni dell’epoca da Capo Guardafui a Cabo Delgado, s’impongono alcune brevi riflessioni. Le navigazioni furono molto più ampie di quanto si possa supporre: i porti dell’India occidentale furono connessi con il Golfo Persico/Arabico, con la Penisola Arabica e con il Corno d’Africa e con le isole est‐africane. Entro tale quadro, le identità arabe in Africa orientale, pretese o reali, rappresentano uno dei temi cruciali per una miglior comprensione della successione dei poteri lungo le coste dell’Africa orientale. A questo riguardo si ritiene indispensabile non seguire solamente i processi di dominazione. Le leadership arabo‐omanite furono progressivamente ‘costruite’, in epoca contemporanea soprattutto dalle autorità britanniche anche per consentire la creazione d’autorità, e di poteri politico‐militari che probabilmente mai esistettero, e non solo secondo le concezioni occidentali. Qui riteniamo ebbe inizio la ‘costruzione’ del mito, la nascita del potere della dinastia degli Yaribah (secoli XVII‐XVIII) prima e dei Bu Sa’id (secoli XIX‐XX) poi dell’Oman in Africa orientale. Il loro potere fu un potere anche militare, rafforzato da superiorità tecnologiche e dal commercio delle armi. Nondimeno, non fu mai un ‘controllo’, un reale ‘dominio’, un concreto ‘possedimento’. I Bu Sa’id, e, in particolare il loro esponente più ‘glorioso’ Sa’id bin Sultan Al Bu Sa’id (1791‐1856), si posero a capo di tale supposta ripartizione del potere arabo ‐ grazie anche alla superiorità etnico‐religiosa poiché si è ibaditi solo per nascita, non per conversione ‐, non certo priva di conflittualità. Le comunità asiatiche avrebbero dovuto rappresentare la forza, sia militare, sia economico‐finanziaria delle leadership omanite. Tali gruppi erano famosi nei resoconti europei per la loro aggressività, crudeltà e coraggio e, sempre secondo tali fonti, gli arabi stanziatisi in Africa ribadivano il loro tradizionale attaccamento ad essi, ritenuti militarmente più affidabili del mercenariato arabo. La dinastia omanita dei Bu Sa’id ‘s’impose’ su tale ampio raggio di collegamenti in Africa orientale, godendo delle funzioni mediatrici e dei prestiti delle varie comunità mercantili asiatiche presenti in Africa ed ampiamente inserite nelle realtà regionali africane. E proprio l’emergere di una ‘potente’ élite legata al potere politico da un lato, e in contatto con le popolazioni autoctone dall'altro, fu l’origine dello ‘splendore’ commerciale dei litorali est africani durante una fase definita, appunto di ‘dominio’ e di ‘controllo’ da parte dei sultani omaniti. Nulla di più inesatto e obsoleto. Panel 2 (AULA 12) “It’s a Celebration…”. Celebrazioni dell’indipendenza e dinamiche di inclusione e di esclusione nel Medio Oriente contemporaneo. I Francesco Mazzucotelli, Paolo Maggiolini (Coordinano) ‐ Lucio Caracciolo (Limes, Discute) Come più volte osservato in letteratura (Louër 2008), gli eventi storici che hanno portato alla formazione degli stati nazionali in ambito arabo sono spesso amplificati in veri e propri miti fondativi che non solo strutturano una memoria collettiva più o meno condivisa, ma anche imprimono un segno accentuato sulle relazioni tra centri e periferie e, talvolta, anche sull’organizzazione formale dei diritti di cittadinanza e delle forme della partecipazione politica. Attraverso lo studio di alcuni di questi miti fondativi (partendo da una serie di casi specifici, quali Giordania, Kuwait e Bahrain), il gruppo di studio intende approfondire mediante quali forme e canali le pratiche celebrative e la memoria storica degli eventi che hanno condotto all’indipendenza “nazionale” (o meglio, alla proclamazione di stati nazionali) continuino a delineare possibili traiettorie di appartenenza e di esclusione, di prossimità e di lontananza dai centri di potere politico e sociale, di identificazione e di alterità. Studiare le narrative storiche e le pratiche celebrative nello spazio pubblico relative alla proclamazione degli stati nazionali dovrebbe permetterci di articolare una serie di considerazioni relative alle dinamiche di inclusione e di contrapposizione identitaria e politica. 4 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Si vuole richiamare una particolare attenzione alle modalità attraverso cui le ricorrenze e gli anniversari dell’indipendenza acquisiscono un rilievo rituale, attraverso cui i regimi esistenti celebrano se stessi, equiparando la fedeltà o la quiescenza politica con la lealtà alla “nazione” e con la sua “unità”; e al medesimo tempo come attori politici concorrenti possono utilizzare le stesse ricorrenze per legittimare la propria opposizione e il proprio rigetto degli assetti esistenti. Il gruppo di studio include sia una dimensione storica e storiografica, nella quale sono benvenuti i contributi e le analisi che prendono in considerazione le narrative storiche locali condivise e concorrenti, la produzione e la circolazione di memorie e narrative e le arene di trasmissione di questi costrutti discorsivi, sia una dimensione antropologica, nella quale sono ricomprese le osservazioni e gli studi sul campo delle pratiche celebrative, delle forme di partecipazione che esse generano e dei rapporti che esse intessono con gli spazi pubblici. • Arturo Marzano (Università di Pisa, Paris II), Celebrare il 1948 in Israele: simboli, pratiche e costruzione dell’identità nazionale Il presente intervento si pone l’obiettivo di analizzare il modo in cui lo Stato di Israele ha nel corso degli anni commemorato la propria indipendenza, avvenuta nel 1948. Partendo dalle ragioni che portarono il parlamento israeliano a identificare il 5 del mese di iyar come Yom ha‐‘Atzmaut (Giorno dell’Indipendenza), verranno esaminate la simbologia e la ritualità che hanno fatto da sfondo alle celebrazioni del 1948 nei primi anni di esistenza di Israele. In particolare, verranno sottolineati tratti comuni e cambiamenti verificatisi nella gestione delle celebrazioni da parte dello Stato di Israele e nella percezione che di queste ha avuto la popolazione israeliana, così come il ruolo che tali celebrazioni hanno avuto nella costruzione dell’identità nazionale israeliana. • Marcella Simoni (Università Ca’ Foscari, Venezia), Commemorazioni nazionali tra politica e cultura popolare – il caso dello Stato di Israele Partendo dall’idea che le commemorazioni nazionali hanno la funzione di consolidare i gruppi che le promuovono, questo intervento guarda non solo al volto splendente dell’unità rappresentata e celebrata, ma a quello più oscuro di chi rimane ai margini geografici e politici del contesto nazionale, e degli oppositori (Baroni e Brice 2010). Prendendo in esame il caso israeliano, una delle domande centrali a cui si cercherà di rispondere è se, e in che misura, si possa parlare della costruzione di una narrativa alternativa a quella nazional‐popolare celebrativa che si fonda su alcuni temi ricorrenti. Tra di essi, il cosiddetto kibbutz galuyiot (la raccolta delle diaspore), e la riunificazione di Israele a Gerusalemme (dopo il 1967); in quali periodi questa eventuale narrativa alternativa ha avuto maggiore o minore ascolto e seguito? su quali temi è riuscita a trovare uno spazio culturale e politico per esprimersi? e con quali mezzi? Questo paper è quindi diviso in tre parti. Nella prima si esamineranno alcuni esempi dei temi ricorrenti nelle celebrazioni nazionali della fondazione dello Stato di Israele; quelli ad uso interno (per esempio attraverso un’analisi iconografica dei poster celebrativi del giorno dell’indipendenza) o estero/diasporico (per esempio attraverso la presentazione di alcuni testi di esponenti politici israeliani su riviste come Foreign Affairs). Centrale in questa sezione sarà la rappresentazione del mito del pionierismo socialista, come lo Stato di Israele si immaginava e auto‐rappresentava in diversi momenti della sua storia e infine, la rappresentazione di Gerusalemme come spazio unificato. Prendendo spunto dalle celebrazioni del 1998, la seconda parte valuterà in che misura la revisione storiografica degli anni Ottanta si è diffusa nella cultura popolare: oggetto dell’analisi di questa sezione saranno Tkuma (la serie documentaria in 22 puntate mandata in onda dalla televisione di stato in prima serata per il cinquantesimo anniversario della fondazione dello Stato, nel 1998), il film Happy Birthday Mr. Mograbi (Avi Mograbi 1999) e la puntata speciale per il giorno dell’indipendenza 2007 di Arab Labor, sit‐com creata da Sayed Kashua, giornalista palestinese‐israeliano, firma di punta di Ha’aretz, e scrittore. Infine, la terza parte di questo intervento guarderà al lavoro di alcuni gruppi della società civile israeliana e mista israelo‐palestinese per contribuire alla costruzione di un discorso critico diffuso a livello nazionale, valutandone la portata e la possibilità di successo. In particolare vorrei concentrarmi sul lavoro delle ONG Zochrot e Gush Shalom, e su alcune (contro) manifestazioni del 1998 e del 2008. • Francesco Mazzucotelli (Università Cattolica del Sacro Cuore), Lealtà alla nazione, lealtà al sovrano: celebrazioni delle feste nazionali nei paesi del Golfo Persico 5 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Il contributo si prefigge di investigare come le celebrazioni delle feste nazionali nelle monarchie del Golfo Persico veicolino forme di patriottismo che, nella gran parte dei casi, costituiscono espedienti retorici per esprimere lealtà alla dinastia regnante, stabilendo un’equivalenza nemmeno troppo recondita tra quest’ultima e lo stato. Laddove i concetti di nazione, nazionalità (wataniyya) e cittadinanza (muwātina) sono spesso declinati nel senso di legami di fedeltà di tipo tribale piuttosto che di un concetto di cittadinanza proprio di uno stato nazionale di tipo moderno, le pratiche celebrative “nazionali” divengono strumenti di integrazione e di cooptazione politica rispetto all’ordine politico e sociale esistente. Due paesi scelgono come propria festa nazionale l’ascesa al trono di un sovrano elevato a “padre della patria” (Arabia Saudita e Bahrain), due paesi celebrano la propria festa nella ricorrenza di battaglie assurte retrospettivamente a momento fondativo (Qatar e Kuwait), un paese celebra il raggiungimento di un equilibrio politico federale (Emirati Arabi Uniti). Nel contributo esamineremo in che modo la scelta delle date, ma anche dei luoghi e delle forme della celebrazioni esprima relazioni di potere e di prossimità, e come differenti modalità e fasi storiche di formazione dello stato possano riflettersi in differenti forme celebrative. Vogliamo esaminare inoltre le forme di contestazione e le narrazioni alternative, in particolare nei paesi in cui si è sviluppata una rilevante opposizione alla casa regnante, e dare conto delle reazioni di alcuni ambienti clericali rispetto alla legittimità di queste forme di celebrazione. • Ronen Zeidel (University of Haifa), (together with Achim Rohde and Amatzia Baram), Between the Unknown Soldier Monument and the Cemetery: Commemorating Fallen Soldiers in Iraq, 1958‐2010 As elsewhere in the world, the commemoration of fallen soldiers through monuments and commemorative events is a modern phenomenon in Iraq and the Middle East that is linked to the emergence of nation states in this region during the colonial period. In the wake of decolonization and specifically in the Iraqi case, since the overthrow of the constitutional monarchy in 1958, Iraqi state‐building elites made deliberate efforts to foster a feeling of national belonging and loyalty to the state among the population residing in its territory. Developing a national culture and discourse of remembrance regarding Iraqi soldiers who died in battle formed an important part of these nation‐building efforts. They were most accentuated in the cultural sphere, where Iraqi rulers supported the evolution of a distinctively Iraqi cultural and arts scene through sponsoring cultural activities in the fields of painting / sculpture, theatre / cinema, literature / poetry, and monumental architecture. This article portrays the evolution of a state sponsored Iraqi culture of remembrance concerning the country’s wars and violent conflicts since the revolution of 1958 and until today, thus covering the various post‐monarchy regimes and the era of the Ba‘th regime, as well as contemporary efforts to re‐construct an Iraqi cultural memory after the invasion of 2003. Due to its exceptional longevity, the Ba‘th regime had the most formative impact on the evolution of state sponsored culture and arts in Iraq in the 20th century. Iraqi cultural history includes a rich religious tradition of commemorating the dead, and this remains a vibrant feature of Iraqi popular culture until today. All along the years this strand existed alongside a dominant state sponsored culture of remembrance, which during the years of Ba‘thist rule evolved into a militaristic cult of remembering fallen soldiers as martyrs in the name of the nation. Since the overthrow of the Ba‘th regime in 2003 and the occupation of the country by a US led multinational force, a new Iraqi polity has been evolving, trying to stabilize and rebuild the shattered Iraqi state and nation. However, until today no new discourse on the country’s recent past and its numerous wars and violent conflicts has been developed that could integrate the multilayered and contradicting memories thereof among the various sectors and subgroups comprising Iraqi society. This chapter argues that unless Iraqis succeed in developing such a new and integrated discourse on the past and particularly a culture of remembering the countless victims of wars and violence in Iraq in the course of the last four decades, a post‐ conflict national reconciliation will not be achieved, with negative consequences for the process of rebuilding Iraqi society. The paper will show official commemoration culture in the fields of arts (the state sponsored monuments in Baghdad) and state sponsored prose and will contrast it with unofficial prose as well as the vibrant popular culture that evolved in public cemeteries. It shows that this is yet one 6 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno more arena for the clash between state and society and neither the opposition to the Ba‘th nor the new regime have succeeded in bridging the gap. • Pejman Abdolmohammadi (Università di Genova), Il capodanno persiano come celebrazione dell'identità nazionale in Iran: dallo shahal governo di Mahmoud Ahmadinejad Il nazionalismo iraniano, a partire dal 1925, con la formazione della monarchia dei Pahlavi in Iran, fino ai giorni nostri, ha giocato un ruolo rilevante nella vita politica del paese. Quasi tutti i governi in Iran, nel corso del Novecento, hanno dovuto, in qualche modo, appellarsi appunto all’elemento nazionalista per guadagnare consenso tra la società civile. Il capodanno persiano, il Noruz, che viene celebrato in Iran ogni anno il 21 marzo con l’inizio della primavera, è la festività nazional‐popolare più importante della cultura persiana, risalente ai tempi dell’antico impero persiano di Ciro il grande e di Dario. Pertanto tale ricorrenza è stata utilizzata, sul piano politico‐culturale, da parte dei governi, per riaffermare il proprio potere politico nel paese. Questo paper intende esaminare tre dei momenti storici più importanti nei quali la celebrazione del capodanno persiano è diventata strumento politico dei governanti per accrescerne il consenso nella società: il regno di Reza Shah Pahlavi (1925‐1941) la seconda fase del regno di Mohammad Reza Shah Pahlavi (1953‐1979) e il secondo mandato di Mahmoud Ahmadinejad (2009‐2011). Queste sono tre fasi importanti della politica contemporanea iraniana nel corso delle quali i valori patriottici sono diventati strumento politico dei governi. Infine si dedicherà anche uno spazio alla società civile iraniana, sottolineandone la nuova tendenza patriottica, come anche per essa il Noruz è vissuto come un’occasione per rivendicare i principi e i valori iranici, basati essenzialmente sulla filosofia di Zoroastro e sul “buon governo” di Ciro. Elementi questi in netto contrasto all’islamismo politico imperante dal 1979 con la repubblica islamica in Iran. Così, ogni anno, il capodanno persiano, la cui celebrazione, tra l’altro, ha sempre incontrato l’avversità del clero sciita, è vissuto dai giovani come un momento di espressione critica nei confronti dello stato valoriale a stampo islamico‐sciita. Il Noruz è un esempio rilevante di come una festività nazional‐popolare e, a tratti, mitologica, possa diventare come un punto di riferimento politico‐culturale per i governi al fine di affermare e di consolidare il proprio dominio nel paese. Panel 3 (AULA 16) Lo specchio di Galadriel: la Libia e l’ambigua costruzione della ‘mediterraneità’ italiana Gianluca Pastori (Coordina) ‐ Federico Cresti (Università di Catania, Discute) Il panel proposto si prefigge di analizzare sotto diverse prospettive e con diversi approcci metodologici alcuni dei modi in cui la guerra italo‐turca del 1911‐12 ha contribuito a strutturare il ruolo mediterraneo dell’Italia e la percezione interna e internazionale della sua ‘mediterraneità’. L’esperienza della guerra e dell’occupazione della Libia svolgono un ruolo importante nella costruzione reale e discorsiva dell’identità nazionale italiana e, all’interno di questa, nell’elaborazione della sua dimensione mediterranea. Il dispositivo ideologico e narrativo che produce e sostiene lo sforzo bellico raccoglie ed elabora alcuni elementi centrali (seppure contraddittori) della identità geopolitica italiana, quali il mito della continuità romana e imperiale, la consapevolezza di una sostanziale analogia della ‘grande proletaria’ rispetto alle realtà della sponda sud, l’attivismo estetizzante della conquista dannunziana e il suo problematico interfacciarsi con le esigenze di un processo risorgimentale che proprio in coincidenza del conflitto si catalizza in un canone dall’ampia portata mitico‐simbolica. In tale prospettiva, la relazione del paese con la ‘quarta sponda’ si configura fin dall’inizio come carica di aspettative. La convinzione è che la conquista – al di là dei suoi benefici materiali – svolga una funzione intrinsecamente positiva, a metà fra la purificazione e la consacrazione; soprattutto, ciò che si attende è la palingenesi nazionale: la nascita di una nuova Italia e di un nuovo tipo di italiano. Anche per questo, gli esiti dell’azione militare e dell’occupazione finiscono con alimentare il senso di insoddisfazione che aveva reso possibile lo scoppio delle ostilità, strutturando, nel contempo il rapporto ambiguo che – negli anni a venire – si sarebbe consolidato fra l’Italia e il suo 7 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno ‘possedimento’, in costante tensione fra malcelato risentimento e ricerca di una difficile ‘relazione privilegiata’. Come nello specchio di Galadriel, dunque, l’esperienza della conquista riflette non solo molti dei tratti che caratterizzeranno il sistema delle relazioni dell’Italia con la colonia nordafricana ma le varie aporie sottese al suo processo di formazione nazionale. Negli anni, essa finirà inoltre per assorbire e catalizzare diverse percezioni che – seppure eccentriche rispetto alla vicenda storica considerata – verranno a confluire all’interno del medesimo canone interpretativo. La ‘cesura libica’ inquadra definitivamente l’Italia nel suo ruolo di realtà mediterranea; allo stesso tempo, definisce in termini non privi di ambiguità i parametri del suo rapporto con questo mondo, nel quadro di una collocazione storica e geopolitica che – seppure largamente problematica – ancora struttura l’azione internazionale del paese. • Giuseppe Restifo (Università di Messina), Americani e italiani alla conquista della Libia 1801‐1911. C’è da chiedersi come mai possa esistere una così grande disparità nella quantità di saggi dedicati, rispettivamente negli Stati Uniti e in Italia, alle guerre che videro i due Paesi bellicosamente impegnati per la conquista della Libia, rispettivamente nel 1801 e nel 1911. La prima volta che la bandiera a stelle e strisce sventolò su suolo non americano fu nel 1804, a Derna, all’interno di una vicenda bellica che si svolse sull’arco di quattro anni, fra 1801 e 1805. Questa appare come l’espressione del primo capitalismo statunitense e della sua proiezione commerciale e militare nell’ambito del Mediterraneo. La guerra non andò bene per gli Stati Uniti: la sua stessa durata contro la Reggenza di Yusuf Qaramanli, prescelta per la sua presunta debolezza rispetto ad Algeri e Tunisi, segnala un sostanziale insuccesso. Tuttavia in quella guerra si costituiscono parti dell’identità statunitense: nell’Inno dei Marines si trova la strofa “to the shores of Tripoli” e il giovane tenente della Marina Stephen Decatur, protagonista di un ardito episodio bellico, viene elevato al rango di eroe (con 34 cittadine Usa che riprendono il nome da lui). Di tutto questo i cittadini statunitensi possono sapere grazie a una considerevole produzione di studi. L’identità italiana resta, d’altro canto, sospesa e incerta di fronte alle difficoltà della conquista della Libia nel 1911, per quanto preceduta da una propaganda pervasiva e allusiva alla dimostrazione della forza militare della nazione e alla riconquista di un “mare nostrum” liberale prima ancora che fascista. L’operazione era basata sulla edificazione del mito nazionale del “bravo italiano” e sulla strumentalizzazione di un problema reale, qual era l’emigrazione di quel periodo. La stessa operazione è accompagnata e seguita nel periodo coloniale da una vasta produzione di scritti e studi, ma ciò che più incuriosisce lo storiografo è la caduta di questa elaborazione nei tempi post‐coloniali, con l’insorgenza di una sorta di induzione all’oblio. La Libia “non deve” entrare a far parte di una chiara auto‐consapevolezza del popolo italiano. Soltanto in tempi recenti la storiografia del nostro Paese inizia a recuperare l’amnesia collettiva e a portare validi contributi alla struttura identitaria italiana. • Massimiliano Cricco (Università di Urbino), La battaglia di Zanzur dell’8 giugni 1912 nell’inedita testimonianza di un ufficiale italiano La battaglia di Zanzur fu uno degli episodi risolutivi nel conflitto italo‐turco del 1911‐1912 e poche sono le testimonianze dirette dell'evento storico che favorì la vittoria italiana, dopo le complesse operazioni militari della guerra di Libia. La ricostruzione di questa importante battaglia è stata effettuata grazie a una lettera inedita del ten. dei Lancieri di Firenze Domenico Orsini, in cui l'ufficiale italiano descrive in dettaglio le fasi della battaglia, esprimendo il suo dolore per i caduti italiani e mostrando rispetto per i nemici, di cui si esaltano il coraggio, la forza e le qualità belliche. La lunga lettera è corredata da circa 50 foto delle fasi preparatorie della battaglia, dei combattimenti e della vita nell'accampamento, che saranno mostrate nel corso della presentazione. • Andrea Masturzo (Università di Bergamo), La carta geografica e le dinamiche identitarie: il caso della cartografia coloniale libica “L’identità si dice in molti modi e uno di questi è la carta geografica. Le rivendicazioni identitarie, lo sappiamo bene, sono conseguenti a una consapevolezza sociale acquisita mediante un insieme di procedure in grado di esprimerla. La carta ne fa parte: è una rappresentazione del mondo mediante la 8 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno quale gli individui e gli attori sociali mostrano le loro logiche e rimandano ai valori che fondano la propria identità” (Casti, 2004). Nell’ottica geografica ‐ che considera il territorio quale bene su cui fondare la propria identità – non si può prescindere dall’evidenziare il ruolo svolto dalla rappresentazione cartografica all’interno del processo di creazione dell’identità sociale considerandola “nella veste di racconto in grado di disvelarci il discorso identitario vale a dire l’insieme di pratiche territoriali che sottendono la determinazione dello statuto culturale di una società” (Ibidem). La cartografia coloniale della Libia, nella sua multiforme produzione, ben al di là dall’essere solo un valido ausilio alle esigenze di mobilità espresse dai militari in colonia, fu uno strumento importante attraverso il quale il colonizzatore denominò l’Altrove, dotandolo di valori simbolici, mitici e ideologici. All’interno, quindi, di un quadro teorico di matrice geografica, denominato semiosi cartografica (Casti, 1998) e utilizzando lo strumentario teorico che tale approccio ci offre, la ricerca mira a prendere in esame alcune tipologie cartografiche esemplari di quella produzione, tra cui quella topografica, quella dimostrativa e quella tematica per svelare gli esiti comunicativi che queste rappresentazioni ci offrirono e cercare di definire il ruolo che esse ebbero nella costruzione identitaria. La carta topografica realizzò l’occultamento del territorio basico e la sua sostituzione con la rappresentazione di un territorio simile a quello della madrepatria, intriso di valori collegati al progetto coloniale, nascondendo, svilendo e banalizzando i valori sociali del territorio. Al di là dall’intenzionalità riposta dal cartografo, fu lo stesso esplicarsi della topografia a provocare l’occultamento del territorio e a favorire l’espressione dei valori occidentali, maggiormente legati alla materialità. Una denominazione dell’Altrove che si espresse, quindi, non solo con contenuti che rinviavano ai valori militari ma che fu incentrata sulla comunicazione dei valori di sviluppo europei collegati alla valorizzazione agraria (Masturzo, 2007). Per quanto riguarda, invece, la cartografia tematica analizzeremo un’opera cartografica della fine degli anni Trenta, pubblicata dall’Ente di Colonizzazione della Libia, un’opera composta da cartografie e cartogrammi che la assimila al genere dell’atlante. L’opera appartiene a quel periodo storico in cui la Metropoli cercava di realizzare in colonia un importante progetto di “colonizzazione demografica” con forti valenze di politica interna e ideologica che si realizzò con la costruzione di una rete di villaggi agricoli nel nord della colonia. Fondanti, appaiono in questo genere di cartografia gli elementi simbolici e quelli legati alla memoria. Tra gli elementi simbolici, ad esempio, sono prevalenti quelli che rinviano all’antica civiltà romana e per il tramite di questa a quella dell’ideologia fascista (Masturzo, 2010). A titolo di esempio, rammentiamo, in questa sede, una delle prime tavole dell’Atlante, la “tavola dal titolo “Famiglie coloniche immigrate” che rappresenta efficacemente il modello di famiglia coloniale di riferimento della colonizzazione demografica. La tavola è composta di tre scene all’interno delle quali si inserisce, in tono sommesso rispetto al resto della rappresentazione, il grafico della rilevazione statistica. Infatti la tavola presenta le navi da guerra sullo sfondo, una famiglia coloniale in secondo piano e le insegne (signifer) delle legioni romane, poi utilizzate anche dai fascisti, nel piano principale. Se le navi richiamano la superiorità militare del colonizzatore, l’immagine del colono, armato solo di vanga, evoca la figura centrale della colonizzazione demografica: il contadino‐soldato, motivo centrale della retorica coloniale fascista che utilizza sovente espressioni quali legioni rurali, milizia contadina o falangi rurali. L’istogramma del grafico, che propone dati alquanto banali, presenta al posto delle colonne le insegne dell’esercito romano, poi utilizzate anche dalla milizia fascista. E’ forte quindi il richiamo alla mitologia dell’impero Romano e per il tramite di questa a quella dell’ideologia fascista” (Ibidem). Sempre per quanto riguarda la memoria bisogna evidenziare che la rappresentazione veicolata dai segni e dalla legenda che rinvia alla modalità “descrittiva” tipica della carta topografica venne sostituita una rappresentazione fortemente iconizzante che rinviava alla modalità paesistica (Casti, 2001) caratterizzata dalla sostituzione della visione zenitale con quella semiprospettica. Tale modalità rappresentativa permise, infatti, alla rappresentazione di evocare contenuti legati al paesaggio familiare, mobilitando significati legati alla memoria, nella rappresentazione del villaggio. La comunicazione evocava argomenti e significati che volevano far leva sul piano emotivo dell’interprete. In definitiva, con questo intervento, proveremo a palesare il ruolo della carta geografica all’interno delle dinamiche di costruzione dell’identità sociale cercando di svelarne il funzionamento. In particolare ci confronteremo con un territorio dell’Altrove, dove i caratteri identitari e territoriali autoctoni furono, per la gran parte, occultati e sostituiti con quelli relativi ad una progettualità politico‐sociale che aveva il suo fondamento nelle dinamiche metropolitane. 9 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno • Jakob Krais (Freie Universität Berlin), Una storia nazionale? La storiografia libica sul colonialismo italiano Nel 2011 ricorre il 100° anniversario della conquista italiana (almeno quella formale) della Libia. Ma in quest’anno pure il leader libico Gheddafi, che la propaganda ha sempre dipinto come eroe antimperialista, si trova di fronte a una ribellione seria. A differenza dell’Egitto e della Tunisia gli oppositori libici – particolarmente in Cirenaica, la regione orientale – non utilizzano la bandiera ufficiale del loro Paese ma l’antica bandiera del regno senussita che Gheddafi rovesciò con un colpo di Stato nel 1969. Infatti, la Libia è sempre stata una nazione incerta. Passata dalla sovranità ottomana al dominio italiano, fu creata come Stato indipendente nel 1951 dalle Nazioni Unite. Uno dei principali fattori unificanti sembra essere stato il ricordo del colonialismo italiano e la resistenza contro di esso, come lo ha dimostrato Anna Baldinetti. Il regime si accorse di questo ruolo del passato come possibile fonte di un’identità nazionale libica e lo promosse mediante il centro statale di studi storici a Tripoli, fondato nel 1978 (chiamato all’inizio Markaz buhūth wa‐dirāsāt al‐jihād al‐ lībī, facendo riferimento esclusivamente alla resistenza anticoloniale). Gli storici di questo centro si proponevano di decolonizzare e riscrivere la storia della Libia coloniale (come diceva esplicitamente il direttore Muhammad al‐Tāhir al‐Jarārī), dando più spazio alle testimonianze orali e ai punti di vista della gente comune per ricostruire una vera storia popolare. Storia popolare significa, però, anche storia postcoloniale nazionalista: il programma storiografico veniva effettuato sotto l’etichetta del jih¡d contro gli invasori italiani. Il mio intervento si propone di leggere la storiografia libica sul colonialismo italiano come mezzo di un nationbuilding postcoloniale (o neoromantico, come lo chiama Aziz al‐Azmeh). Ritornando all’attualità, una questione da approfondire sarebbe come la Sanūsiyya viene presentata: confraternita islamica e base principale della resistenza contro gli italiani nella zona est del Paese che, allo stesso tempo, era l’origine del Re Idrīs, alleato degli americani, il quale Gheddafi spodestò con la sua “Rivoluzione di Settembre”. Come si concilia l’uso propagandistico dell’eroe anticoloniale ‘Umar al‐Mukhtār (si ricordi la visita di Gheddafi a Roma nel 2009) e il disprezzo del governo senussita fedele agli “imperialisti occidentali”? Come si sono nazionalizzati i disparati movimenti di resistenza che hanno preso il nome di jihād dei libici, e che rappresentano un'interpretazione posteriore non necessariamente corrispondente ai ricordi dei combattenti (come suggerisce John Davis)? Come si inserisce l’accento sull’importanza per la Libia nel contesto arabo, islamico o africano? Da qualche tempo la discussione sul nazionalismo, iniziata da Eric Hobsbawm e Benedict Anderson, si occupa della forza che storiografia, tradizioni e memorie destano per la costruzione di un senso comune, nazionale. In particolare, nei Paesi colonizzati da una potenza europea il problema dell’identità è stato di una rilevanza di primo piano. La storiografia, enfatizzando l’anticolonialismo, non di rado ha legittimato i diversi regimi (si veda, per esempio, il lavoro di James McDougall sull’Algeria). La storiografia libica dagli anni settanta in poi si è inserita in un discorso più ampio di postcolonial studies (da Edward Said ai subaltern studies di Gayatri Spivak e Dipesh Chakrabarty). Il centro tripolino è, fra l’altro, frutto della cosiddetta rivoluzione culturale gheddafiana. Il contributo di vari storici libici non ha tuttavia mai dimenticato il compito di stabilire un’identità nazionale per la “società senza Stato” della jamāhīriyya – il successo della quale deve ancora essere dimostrato. • Marco Mozzati, (Università di Pavia), Come celebrare oggi, a 100 anni dalla guerra di Libia, il nostro Risorgimento nelle sue idee e pratiche coloniali? I temi coloniali sono stati ampiamente rimossi dalla nostra memoria collettiva ufficiale, fenomeno che ha costituito tanto una pesante dimenticanza quanto e soprattutto una tenace resistenza a qualunque tentativo di portarli alla luce. La storiografia italiana nel suo complesso, dalle opere a carattere scientifico fino ai manuali scolastici, salvo coraggiosi esempi spesso di elevato valore, riflette questa situazione; di modo che è mancato il principale strumento per introdurre nella nostra coscienza nazionale un fenomeno che ha appassionato anima e corpo degli Italiani per oltre sessant’anni. La duplice ricorrenza dei 150 anni dell’unità italiana e dei 100 della campagna di Libia offre un’opportunità unica di pensare ai problemi del nostro colonialismo attraverso le sue forti correlazioni con il Risorgimento. Due celebrazioni, una di fusione fraterna e l’altra di aggressività, originate da una stessa storia nazionale, che una coincidenza cronologica mette a un ineludibile confronto. Il fatto che pensiero ed azione di Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento italiano abbiano influito sul risveglio dell’Asia e dell’Africa ha già portato, oramai un quarto di secolo fa, ad organizzare un 10 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno convegno di studi all’Università di Pavia che ha messo in luce una considerevole massa di spunti sicuramente significativa come prima ricognizione della presenza culturale ed ideale in Asia ed in Africa del Risorgimento italiano, sia in fase contemporanea sia nei momenti successivi. Ma il Convegno aveva chiuso i suoi lavori prima che emergesse quel nuovo, dirompente apporto teorico recato dal pensiero di Edward Said con i suoi “Orientalismo” e “Cultura ed Imperialismo”, che ha segnato una svolta sul come interpretare fenomeni come quello, appunto, del nostro Risorgimento che si batteva contro vecchie oppressioni per stabilirne di nuove di natura coloniale, all’insegna, come sostiene Said, della “idea di avere un impero”, che si preparava nel campo della cultura, ma alla quale tutto doveva modellarsi. Il nostro contributo si propone di considerare come i nostri uomini del Risorgimento avessero operato una netta scelta di campo in favore della missione civilizzatrice e mai a sostegno della resistenza alla violenza coloniale. O, meglio, di ammettere che una scelta non era neppure necessaria in quanto i due campi potevano coesistere in tutta naturalezza. * * * * * 11 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Edificio U6 – Piazza dell’Ateneo Nuovo 1 Venerdi 10 giugno SESSIONE 1: 9.00‐11.00 Panel 1 (AULA 12) Memoria e identità: il passato coloniale come eredità (controversa?) nel Sahara e nel Mediterraneo occidentale / Mémoire et identité: le passé colonial comme héritage (disputé ?) au Sahara et dans la Méditerranée occidentale I Francesco Correale (Coordina) ‐ Cristiana Fiamingo (Università di Milano, Discute) Le celebrazioni del cinquantenario dell’indipendenza di molti paesi africani si sono svolte spesso nel segno della continuità delle relazioni con le vecchie metropoli. Come in una specie di nemesi simbolica, i rappresentanti delle vecchie “potenze europee” sono stati invitati di gala in Mauritania, in Nigeria, nel Mali, quasi a sancire una persistenza del vincolo coloniale che oggi si esprime attraverso la cooperazione e il sostegno allo sviluppo, ma che raramente viene analizzato come “potere egemonico” in grado di determinare la fisionomia culturale e sociale di quegli spazi già colonie. Nel loro insieme il Sahara e l’Africa maghrebina, con la probabile eccezione del Regno marocchino e della già citata Mauritania, sembrano nascondere più abilmente il cordone ombelicale che li mantiene in stretta relazione con le vecchie metropoli. Le vaste campagne di alfabetizzazione e acculturazione araba condotte, per esempio, in Libia e in Algeria durante gli anni ‘60 e ’70, hanno determinato l’apparente relegamento del passato coloniale nella dimensione rivendicativa: le costruzioni statuali si sono ufficialmente realizzate in netta rottura con il lascito metropolitano e l’identità nazionale si è forgiata sovente partendo dalla lacerazione dei legami culturali con gli ex‐ colonizzatori. Ma qual è il confine che passa fra le rappresentazioni nazionaliste offerte alle popolazioni dell’area e le eredità che, in alcuni casi, più di cinquant’anni di dominazione europea hanno lasciato in situ? E laddove la configurazione statale resta fragile o, addirittura, non si è compiuta, quanto e come agiscono le “ramificazioni neo‐coloniali” mediante le multinazionali, le ONG, le agenzie statali di cooperazione, gli individui, etc.? In ultimo, se l’affrancamento dal giogo politico diretto si è manifestato attraverso le lotte di liberazione, quanti e quali elementi dell’esperienza coloniale sono stati integrati nei processi di costruzione identitaria sopravvenuti dopo la partenza dei governi metropolitani? Qual è, insomma, l’attualità della memoria coloniale nei paesi dell’area sahariana e maghrebina quando perfino gli equilibri post‐indipendenza sono rimessi pesantemente in discussione? Obiettivi del panel Attraverso l’analisi di casi‐studio, il panel intende proporre una riflessione di ampio respiro sul rapporto fra il colonialismo, la costruzione della memoria e l’incidenza politica e sociale dell’eredità coloniale nella morfologia identitaria post‐coloniale, intesa essa stessa come retaggio (o risorsa?) delle conformazioni statali. L’obiettivo è quello di una doppia valutazione: ‐ sul piano epistemologico della formazione della memoria e della produzione culturale nei paesi dell’area sahariana e maghrebina: quali costruzioni empiriche del sapere possono affermare d’essere sfuggite all’influenza coloniale? Quali possono considerarsi “decolonizzate”, pur avendo integrato alcuni aspetti direttamente riconducibili all’esperienza coloniale? ‐ sul piano dell’eredità simbolica e materiale ovverosia della rappresentazione e della configurazione degli spazi e delle pratiche politiche e sociali: educazione, sanità, urbanizzazione, limiti amministrativi interni, frontiere, etc. • Barbara de Poli (Università Ca’ Foscari, Venezia), La politica berberista coloniale e le basi culturali del movimento amazigh 12 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno In Marocco, il movimento berberista si manifesta negli anni ‘80 in seguito alle manifestazioni algerine di Tizi Ouzou (la ‘primavera berbera’), in risposta alle politiche di arabizzazione linguistica e culturale avanzate dal governo sin dall’indipendenza – le quali si sommavano alla marginalizzazione economica delle regioni berberofone. La consapevolezza identitaria berbera maturò dunque lentamente, dando nondimeno corso in pochi anni a una produzione letteraria e storiografic, divulgata anche a partire da riviste come Tifinagh, finalizzata a conferire centralità alla cultura amazigh. Parte di questa produzione assume, tuttavia, una valenza ideologica che supera le questioni linguistiche, culturali o socio‐economiche contingenti, per definire una specificità intrinseca dei berberi, in netta contrapposizione all’identità e alla cultura araba dominante nel Paese (approccio confermato dal Manifesto Amazigh del 1 marzo 2000). Tale narrazione per molti versi richiama indirettamente alcune narrazioni storiografiche e antropologiche coloniali, originate in supporto o sulla scia delle politiche separazioniste della Residenza, di cui l’etnogenesi berbera fu una componente essenziale. Il nostro contributo si propone di mettere in luce le analogie e corrispondenze tra il discorso berberista francese e il discorso promosso dal movimento amazigh, e di seguire le tracce di un lascito coloniale che appare di lunga durata. • Jesús M. Martinez Milán (Universidad Las Palmas de Gran Canaria), L’évolution du concept de «frontière» chez le colonisateur franco‐espagnol et ses répercussions dans l’espace saharien occidental (1900‐1975). Cette communication porte sur l’évolution de la notion de frontière chez les « puissances » colonisatrices – notamment la France – au fur et mesure de leur pénétration de l’espace saharien. Elle porte également sur les répercussions que l’établissement de la frontière eut chez les populations hassanophones du sud marocain et de l’espace saharien. En partant d’une délimitation centrée sur les méridiens, les parallèles et les accidents géographiques, les colonisateurs européens modifièrent leur idée de frontière grâce aux études menées dans ce domaine par Robert Montagne et François de la Chapelle, et à la création du Centre d’Etudes Sociologiques de l’Etat‐Major de l’armée d’occupation du Maroc. Ils essayèrent donc d’ajuster les limites de frontière aux espaces territoriaux d’une déterminée Kabila (délimitation anthropologique) sans toutefois prendre en considération que les sociétés nomades, différemment des sédentaires du sud marocain, n’étaient pas forcement ancrée à un espace bien défini. Le début de la pénétration espagnole au Sahara depuis 1930 – et de manière plus évidente à partir de 1945 – compliqua encore plus les données. Non seulement parce que les Espagnoles ignoraient les avatars d’une société tribale que les intérêts des différentes administrations coloniales françaises (Mauritanie, Algérie et Maroc) avaient réussi à cantonner dans les compartiments cloisonnés ; mais aussi parce qu’à partir de ce moment, les tribus sahariennes auraient souffert une division de plus qui frappait leur identité telle qu’elles l’avaient conçue avant la colonisation européenne : un ensemble de tribus interdépendantes parlant une même langue (le Hassanya). • Paolo Soave (Università di Siena), “La cooperazione indispensabile: Italia e Libia e il paradigma della mancata decolonizzazione?” I rapporti bilaterali italo‐libici in epoca postcoloniale delineano complessivamente un contesto nel quale iniziative di sempre più stretta cooperazione economica e politica, enfaticamente presentate come segno esteriore dell'amicizia sbocciata fra i due paesi, nascono in realtà con l'indelebile marchio storico del vissuto coloniale. Da un lato la Libia, attraverso le iniziative internazionali di Gheddafi è costantemente apparsa in questi anni alla ricerca di un profilo politico che potesse sintetizzare e rendere coese in un coerente progetto nazionale le multiformi e centrifughe identità etno‐culturali che la caratterizzano. In tal senso il ruolo più assertivo e in qualche modo autorevole è risultato essere proprio quello esercitato nei confronti dell'Italia, già debole potenza coloniale e ancor oggi la più vulnerabile delle democrazie occidentali, esposta al “ricatto” energetico non meno, negli anni, che a quello strategico e migratorio. Si scontrano e compongono continuamente, nel rapporto italo‐libico, due nette mancate elaborazioni del vissuto coloniale: mentre Gheddafi rivendica l'oppressione subìta con fierezza esponendola in ogni occasione come prova di una presunta superiorità morale che unisce tutti i libici e di fronte alla quale l'interlocutore dovrebbe piegarsi, l'Italia, più incoerente e contraddittoria, alterna aperture a 13 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno prese di distanza, fino al recente cedimento, sull'intera linea, morale, politica e perfino storiografica, per intensificare la cooperazione con Tripoli. In questo ribaltamento delle prospettive, con la debolezza del vecchio colonizzatore di fronte all'assertività dell'ex colonizzato, si articola nel tempo un bilateralismo che certo non ha, fra le sue premesse, l'avvenuto metabolizzazione della storia, quanto piuttosto le strumentalizzazioni del passato che promanano dai rispettivi sistemi politici e culturali. Tale nodo prorompe, drammaticamente, al momento in cui gran parte dello scenario mediorientale viene attraversato dall'ondata rivoluzionaria alimentata dalla richiesta dal basso di libertà e cambiamento politico. Ai subitanei capovolgimenti di leadership l'Italia guarda con silente preoccupazione, attendendo il salvifico intervento europeo, fino all'angosciante dilemma della posizione da assumere di fronte agli sviluppi libici, che sembrano di colpo relativizzare decenni di rapporti bilaterali italo‐libici postcoloniali ma mai realmente decolonizzati e, per questo, estemporanei. • Alessandra Caragiuli (Università Roma La Sapienza), “Spazi Islamizzati” La dominazione arabo‐musulmana nel Mezzogiorno italiano ha lasciato tracce indelebili, ma è necessario attendere oltre sette secoli prima che popolazioni genericamente chiamate, ora come allora, arabe, tornino ad insediarsi nel paese. Tali popolazioni presentano una variegata complessità etnico‐identiaria che, amalgamata nel sistema politico‐amministrativo dell’Impero Ottomano, era esplosa attraverso la scoperta dei nazionalismi all’indomani della prima guerra mondiale, e poi nel periodo post‐coloniale. Sono dunque state necessarie varie centinaia di anni per osservare la ricomparsa di qualche minareto e di alcuni edifici consacrati al culto islamico che hanno però perso la monumentalità delle costruzioni religiose del passato, delle quali nemmeno sembrano aver memoria. Ciò che inoltre appare strabiliante è il numero dei luoghi di culti, oltre 700, tuttavia nettamente inferiore alle moschee recensite in Francia, Germania e Inghilterra. “Spazi islamizzati” analizzerà la costruzione di luoghi di culto in relazione ai flussi migratori nel mediterraneo e alle dinamiche di territorializzazione dei gruppi, attraversati da movimenti tradizionalisti ed islamisti a carattere internazionale. Il processo di re‐islamizzazione che, nei paesi arabi, sembra comportare una rielaborazione identitaria dei nazionalismi “laici” post‐coloniali ritenuti retaggio di un modello importato dall’Europa. Tale processo incide sugli effetti e sulla costruzione della memoria dell’epoca coloniale proponendo il ritorno ad un “impero religioso” attraverso l’espansione mondiale di jamaya islamya e specifici ordini regolati in base a modelli tradizionali e a norme di socialità comunitaria. Ad eccezione delle immediate spinte religiose in risposta alle esperienze coloniali e neo‐coloniali, dalle testimonianze raccolte emerge che gli iniziali fautori del laicismo rappresentano attualmente i principali protagonisti del processo di re‐islamizzazione, inteso come riscoperta dell’identità religiosa individuale con conseguente avvicinamento alla fede e osservanza della pratica religiosa. Ciò determina un tentativo di riappropriazione collettiva degli spazi devozionali pubblici nel contesto di insediamento. L’analisi sarà dunque focalizzata sui mu’minun di origine tunisina impegnati nella gestione di enti religiosi, aderenti a varie organizzazioni islamiste e membri del partito tunisino al Nahda, portatore di una nuova sfida politica nella costituzione di un paese islamico con sistema democratico e sul caso della jamat tabligh wa dawa, dell’ordine missionario sunnita, che sta guidando apoliticamente il processo di re‐islamizzazione in Italia, nel quale è forte, accanto alla componente sud‐asiatica, quella nord africana e marocchina, scevra oramai dai complessi rivendicativi generati dalle dominazioni coloniali del secolo scorso. Panel 2 (AULA 16) Memorie condivise e fratturate tra gli ebrei originari dei paesi arabo‐musulmani in diversi contesti I Emanuela Trevisan Semi (Coordina) ‐ Elisa Bianchi (Università di Milano, Discute) In questo panel verranno prese in esame le memorie condivise ma anche fratturate che si possono ritrovare tra gli ebrei originari dei paesi arabo‐musulmani sia nel contesto israeliano che in quello 14 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno dei luoghi d’origine, come l’Egitto, la Tunisia e il Marocco. Verranno prese in considerazione le operazioni di costruzione o ricostruzione identitarie in momenti di grandi cambiamenti storici come è il caso degli ebrei egiziani che tentarono di sottolineare i propri aspetti più « egiziani » in un momento in cui questi iniziavano ad essere messi in discussione in seguito al degenerare del conflitto arabo‐ebraico nella Palestina Britannica e al diffondersi del sionismo in Egitto. Oppure l’atteggiamento che gli ebrei di Tunisia nel dopoguerra ebbero verso l’idea di una Tunisia indipendente e l’azione politica da essi svolta dopo la perdita della tutela francese e di fronte all’attività sionista, nella consapevolezza che cominciava a profilarsi l’idea di un possibile futuro distacco da quella che era la terra dei propri avi. Nel caso degli ebrei del Marocco saranno le memorie che essi hanno lasciato nel contesto musulmano del Marocco di oggi, caratterizzato dallo loro quasi assenza, ad essere prese in esame al fine di mostrare quanto una condivisione di codici e comportamenti consentisse diversi usi della conoscenza degli stessi ovvero l’azione di condivisione di memoria operata come atto narrativo da parte dello scrittore Edmond El Maleh. Nel contesto israeliano verrà analizzato a partire dai ricordi personali dello scrittore ebreo di origine irachena, Shimon Ballas, e di altri autori mizrahim di prima e seconda generazione, la letteratura della ma’abarah (il campo di transito) come la storia “vista dall’altro”, ovvero come la storia della costruzione dello Stato e della nazione vista dalla prospettiva del gruppo non egemonico. Un altro tema che verrà trattato sarà l’impatto della guerra dei sei giorni (1967) e di quella di kippur (1973) nella memoria dei mizrahim, gli ebrei dei paesi arabi, ripercorrendo le tappe attraverso cui la memoria dei due eventi si struttura. Una terza comunicazione prenderà in esame due miti fondativi, il ritorno a Kfar Etzion e l’espulsione dei palestinesi, Al‐Nakba per usarli come case studies che mettano in rilievo il ruolo dei media come strumenti nel processo di elaborazione della memoria e di uso politico del ricordo. Per una nazione dispersa la virtualità dei contenuti multimediali può rappresentare surrogati di identità, in cui home page costruite per un friendly use esibiscono prodotti della memoria – storia orale, immagini, fotografie, film, documentari‐ con gradi differenziati di complessità di lettura. • Emanuela Trevisan Semi (Università Ca’ Foscari, Venezia), Il persistere di memorie condivise e fratturate sugli ebrei marocchini nel Marocco di oggi Lo scopo di questo intervento è di mostrare quanto la memoria della condivisione di un passato ebraico‐musulmano come è stato quello che ha caratterizzato la storia degli ebrei in Marocco possa contribuire ad interpretare il presente in maniera meno ideologica e più complessa. Si cercherà di dimostrare quanto in una società nella quale la codificazione dei rapporti era molto chiara e definita si potesse approfittare della conoscenza delle pratiche dell’altro in diversi modi e quanto la memoria di quel passato condiviso possa essere presente ancora oggi. Verrà preso in esame in particolare l’uso della conoscenza delle pratiche dell’«altro» per mettere in rilievo come la differenza delle pratiche degli uni e degli altri potesse dar luogo tanto alla creazione di spazi di connivenza e d’apertura quanto ad usi che tendevano ad offendere o a disconoscere l’altro. In particolare verrà discussa la trasformazione di una festa, la Mimuna, che se un tempo celebrava la reciprocità e la condivisione conviviale del tempo della festa tra ebrei e musulmani oggi è divenuta solo una delle feste tradizionali ebraiche. • Irene Siegel (Hofstra University), Memory and Reconfigurations of Arab‐Jewish Affiliation in the Work of Edmond Amran El Maleh For the upcoming SeSaMO conference, I’d like to propose a paper on the work of Moroccan Jewish writer Edmond Amran El Maleh. El Maleh’s writing is dedicated to the “narrative act” of re‐ membering the co‐extensive history of Arabs and Jews in Morocco and the larger Arab‐ Mediterranean region. His work resituates and re‐sites “Jewish memory” and Jewish national identity, locating “home” in the Diasporic realm, rather than the newly appointed “fulcrum” in the form of the Israeli state. El Maleh’s work challenges Jewish nationalist narratives of margin/center that efface the Jewish experience beyond the bounds of Europe; as well as the marginalization of Moroccan Jews within Israel. In so doing, he relates these narratives both to the totalizing discourses of French colonialism and the predations of World War II. El Maleh instead elaborates a mystical poetics of ‘repair,’ rejecting the false secularist terms of European – and Israeli – identity, and instead invoking a shared Semitic continuum. El Maleh’s work engages Jewish and Islamic mysticism, the work of Walter Benjamin, and a broad range of Arab and Mediterranean modernist thinkers, 15 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno displacing and provincializing authorizing European and Ashkenazi‐Jewish narratives. In this way, he stages a classic Modernist, anti‐rationalist critique in a new frame, re‐imagining contemporary conceptions of Jewish‐Arab affiliation. • Filippo Petrucci (Università di Cagliari), Ebrei in Tunisia nel secondo dopoguerra: testimonianze e racconti Il tentativo che mi propongo con il mio intervento è provare a raccontare, tramite testimonianze raccolte in archivio e alcuni racconti familiari pubblicati di recente o solo per la cerchia dei familiari, le impressioni e le azioni degli ebrei tunisini fra la fine dei ’40 e i primi anni ’50. Il periodo storico preso in esame è un momento fondamentale per la Tunisia e anche per la sua comunità ebraica. Uscito dalla seconda guerra mondiale dopo sei mesi di occupazione nazifascista, con bombardamenti e invasioni terrestri dei diversi eserciti impegnati nel conflitto, il paese nordafricano si avvia in questi anni verso la transizione che lo porterà all’indipendenza. Un territorio dominato dalla potenza protettrice francese, abitato ancora da migliaia di europei (circa il 7,4% del totale) dove si andava formando una coscienza nazionale autonoma che avrebbe dato luogo alla costruzione di una nuova realtà indipendente. In questo contesto va considerata la posizione della comunità ebraica tunisina e la sua azione all’interno della comunità nazionale: una realtà, quella ebraica, presente da sempre sul suolo tunisino, e che condivideva lingua, abitudini e stile di vita con i propri connazionali di religione musulmana. Ciò che mi interessa mostrare è l’attitudine di questi ebrei verso l’idea di una Tunisia indipendente, il loro ruolo nei partiti, la loro azione politica, le preoccupazioni legate alla perdita delle tutela francese, l’attività sionista, l’attaccamento al proprio paese, la coscienza di un possibile e futuro distacco da quella che era la terra dei propri avi. La minoritaria comunità ebraica tunisina non reagirà in maniera univoca in questo periodo, diverse saranno le risposte che metterà in atto, e diverso anche l’atteggiamento verso chi stava operando allora per ottenere il distacco dalla Francia. Attraverso le opere di memorialistica familiare e le testimonianze orali raccolte nel corposo archivio dello Yad Vashem, vorrei riuscire a ottenere un quadro storico, chiaramente incompleto e da approfondire, ma capace di rendere l’idea di una comunità varia, una umanità complessa e multiforme che allora abitava la Tunisia non ancora indipendente. • Dario Miccoli (European University Institute, Firenze), Mosé e Faruq. Gli ebrei e lo studio della storia nell’Egitto monarchico (ca. 1920‐1940) Il mio paper vuole mettere in luce un episodio poco noto della storia degli ebrei egiziani, vale a dire il loro coinvolgimento nel dibattito intellettuale e storiografico dell’Egitto monarchico, sottolineando come essi non furono – come spesso si è detto – una comunità estranea alla società egiziana, ma un gruppo che in molti casi ne fu invece parte attiva. È mia intenzione dimostrare come l’identità ebraica egiziana poté essere declinata in‐tra Faraonismo, richiami biblici e suggestioni cosmopolite, finendo per complicare il binomio ebraicità‐arabicità e reinserendolo appieno al centro della storia culturale e intellettuale del Medio Oriente contemporaneo. Nel mio intervento, analizzerò quindi la nascita di una Société des Etudes Historiques Juives d’Egypte ad opera di un gruppo di membri della borghesia ebraica del Cairo nel 1925 e alcuni libri di carattere storico e cronachistico scritti negli anni ’30 e ’40 dall’ebreo cairota Maurice Fargeon – Les Juifs en Egypte (1938); Médécins et avocats Juifs au service de l’Egypte (1939) e lo Annuaire des Juifs d’Egypte et du Proche Orient (1943) – e dall’alessandrino Bension Taragan – Les communautés israélites d’Alexandrie (1932). Questi testi furono pubblicati in un decennio di grandi cambiamenti e dibattiti intellettuali caratterizzati dalla fine del regno di Fu‘ad e la salita al trono del figlio Faruq (1936), la stipulazione del trattato anglo‐egiziano di Montreux (1936) e le conseguenze che esso comportò per le comunità di minoranza e, non da ultimo, il progressivo radicalizzarsi dello scenario politico nazionale in parallelo al declino del partito Wafd. Con questi libri, gli autori tentarono quindi di sottolineare l’egizianità degli ebrei in un momento in cui essa iniziava ad essere messa in discussione, anche in seguito al degenerare del conflitto arabo‐ebraico nella Palestina Britannica e al diffondersi del sionismo in Egitto. 16 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Per fare ciò, si cercò di ricostruire e re‐inventare in modo più o meno scientifico una tradizione e un passato nazionale per gli ebrei, ricorrendo da una parte a richiami biblici e faraonici – come peraltro era avvenuto attraverso il cosiddetto Faraonismo anche per gli egiziani musulmani a partire dalla fine del diciannovesimo secolo – e dall’altra definendo l’egizianità non tanto come una nozione giuridica di nazionalità, quanto piuttosto come un profondo e condiviso sentimento di amore per la terra dove si era scelto di vivere e che molti ebrei avevano contribuito a far crescere dal punto di vista sociale ed economico. Panel 3 (AULA 13) Luoghi della memoria in Medio Oriente/Places of memory in the Middle East Domenico Copertino (Coordina) – Paola Abenante (University of Bergen, discute) Questo panel si propone come un momento di riflessione e scambio sulle questioni legate all’edificazione, ricostruzione, invenzione di luoghi della memoria in Medio Oriente. In molte città mediorientali, alcuni luoghi, ritenuti significativi perché espressioni di una storia o di una identità nazionale, etnica, religiosa – concetti declinati in modo differente a seconda dei contesti e delle strategie messe in atto dai diversi attori in campo –, sono sottoposti a processi di trasformazione che vanno indagati come importanti fenomeni storico‐culturali. È utile, di conseguenza, approfondire le relazioni tra cultura e uso dello spazio nelle città mediorientali. Le trasformazioni dello spazio urbano che molte città mediorientali hanno sperimentato a partire dall’epoca coloniale sono strettamente collegate a importanti cambiamenti negli stili di vita, nelle forme dell’immaginazione delle persone e nelle relazioni di potere tra i gruppi sociali. Nell’utilizzo dello spazio urbano prendono una forma visibile le relazioni di potere esistenti nelle società: dagli scontri, resistenze e adattamenti tra i reciproci interessi dei gruppi spesso emergono forme spaziali nuove, o quelle esistenti si riadattano. Nel periodo dei mandati delle nazioni europee in Medio Oriente, le città di questa regione furono utilizzate come cantieri delle sperimentazioni moderniste degli urbanisti coloniali, interessati a tradurre in realtà le teorie apprese in patria. Individuate delle esigenze umane che si presumevano universali, i disegnatori urbani moderni ritenevano possibile soddisfarle attraverso una pianificazione urbana imposta dall’alto e valida per qualsiasi contesto geografico e culturale, a prescindere dalle caratteristiche specifiche delle società e delle località. L’obiettivo di questa pianificazione urbana era di stimolare la mobilità tutelando contemporaneamente la “Natura” e la “Storia”, oggettivate in alcuni tratti del territorio, come le mitiche oasi mediorientali e i “centri storici”. L’imposizione di impianti urbani nei quali le città moderne, cioè europee, erano separate da quelle preesistenti rafforzò la sensazione che anche le società fossero divise tra arabi ed europei, colonizzati e colonizzatori. Trasferirsi nei quartieri moderni diventò un simbolo di elevazione sociale, che spinse gruppi, famiglie, individui dall’elevato livello socio‐economico – molto spesso referenti delle autorità coloniali nel controllo della società locale – ad abbandonare quelle che erano considerate “città antiche”, luoghi arretrati e poco adatti alla vita moderna. Nel corso del ventesimo secolo, di conseguenza, si diffuse la sensazione che le città antiche fossero luoghi di miseria e arretratezza; tale sensazione si rafforzò a causa della conseguente perdita di valore degli immobili e dell’affluenza in queste aree di gruppi dal basso livello socio‐ economico. Ai gruppi che si erano trasferiti nei quartieri moderni, il degrado delle città antiche sembrò peggiorare a causa dei grandi spostamenti demografici di cui il Medio Oriente è stato teatro nel corso del Novecento (l’esodo dei Palestinesi, la diaspora degli Armeni, le migrazioni dei Kurdi, lo sfollamento del Golan, ed altri eventi di simile portata), che spinsero molti gruppi dalle scarse possibilità economiche e ridotte esigenze di manutenzione degli immobili ad occupare gli edifici svuotati di molte città antiche. Il discorso sul degrado, l’arretratezza e lo stato di abbandono è uno strumento di potere che viene utilizzato sia da istituzioni nazionali e internazionali interessate al recupero dei monumenti antichi, intesi come simboli delle identità nazionali, sia da attori privati che investono capitali monetari nel restauro degli edifici “degradati”. Infatti, le più recenti trasformazioni nelle città mediorientali sono state introdotte dall’accresciuto interesse, negli ultimi decenni, per i cosiddetti 17 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno “centri storici”, supportato in molti casi dall’intervento di organizzazioni internazionali come la United Nations Educational Scientific and Cultural Organization (UNESCO) e la Agha Khan Fund for Economic Development (AKFED). Finita da tempo l’epoca dei grandi interventi pubblici nella modernizzazione delle città, attualmente le azioni di riqualificazione o gentrification delle città antiche (anche se spesso promosse da istituzioni statali) sono condotte soprattutto da investitori del settore alberghiero, turistico e culturale, tranne nel caso dei principali monumenti religiosi e civili. I contributi di questo panel potranno indagare sia casi di recupero di particolari monumenti, sia casi di riqualificazione di interi quartieri. Gli attori sociali, economici, istituzionali impegnati nella trasformazione dello spazio urbano mettono in campo molteplici capitali: il capitale monetario degli investitori; il capitale legale‐ istituzionale degli enti governativi preposti alla tutela dei beni storico‐architettonici; il capitale di influenza politica degli enti sovranazionali della salvaguardia del patrimonio architettonico (UNESCO, AKFED) e dei loro impiegati; il capitale di conoscenze tecniche e di relazioni umane dei capomastri (mo’allem) e dei muratori; il capitale scientifico e formativo degli architetti che dirigono i restauri; il capitale simbolico legato allo spazio, all’abitazione e al movimento, detenuto dai residenti. Il capitale immaginativo che i gruppi hanno a disposizione, ovvero la loro immaginazione, va studiato come una risorsa molto importante nell’interazione sociale. Arjun Appadurai (2001) ha dimostrato che nelle società contemporanee l’immaginazione è un fenomeno collettivo, sociale, i cui prodotti non sono soltanto dei costrutti mentali che si applicano alla realtà esterna, come se questa esistesse prima, dopo e nonostante essi (Hannerz 1998 e 2007, Anderson 1996): i capitali immaginativi sono tra i materiali costitutivi dell’ambiente urbano; questi capitali alimentano una serie di valori (tradizione, storicità, identità, autenticità) che vengono utilizzati, al pari dei materiali edilizi “tradizionali” (pietra, legno, terra, sabbia) nella costruzione, nel restauro e nella circolazione degli oggetti spaziali che costituiscono le località chiamate “città antiche”. Nei cantieri dei restauri delle antichità si costruisce un’immagine del passato locale che da una parte costituisce la rappresentazione che la nazione offre del proprio passato e della propria memoria, dall’altra diventa lo scenario dentro il quale i gruppi di investitori e di nuovi residenti scelgono di vivere e di agire; i cantieri dell’immaginazione producono spazi tanto concreti quanto simbolici, tanto reali quanto immaginari; le relazioni di potere che agiscono nel campo della riqualificazione urbana consentono agli immaginari di alcuni gruppi di sopravvivere ed escludono gli immaginari di altri gruppi. La “casa araba”, il “quartiere”, il “vicinato”, la “città antica”, il “caffè” sono spazi nei quali l’investimento di capitali monetari, immaginativi, relazionali, scientifici, ha portato alcuni gruppi a imporre la propria presenza ai danni di altri gruppi, resi marginali ed esclusi dalla riqualificazione e patrimonializzazione delle antichità. Gli immaginari sociali che hanno prodotto e continuano a produrre le città antiche mediorientali come località specifiche si sono formati, sin dai primi decenni del Novecento, a partire dalla convergenza di fenomeni globali, quali le relazioni coloniali tra il Medio Oriente e le nazioni europee, la nascita degli stati nazionali mediorientali, le “eredità” dei mandati – soprattutto il mandato francese ‐, l’esodo di popolazioni attraverso i confini dei moderni stati nazionali mediorientali e la conseguente formazione di gruppi marginali nelle principali città, l’intervento di organismi sovranazionali nella riqualificazione urbana, l’assunzione di finalità disciplinari da parte delle amministrazioni pubbliche che si occupano di catasti e censimenti, lo sviluppo del capitale dell’imprenditoria immobiliare. È evidente, di conseguenza, che l’immaginario legato ai luoghi antichi si è formato in prevalenza con l’ingresso della modernità in Medio Oriente; eppure l’immaginario legato a questi luoghi è costruito attraverso il richiamo a un passato più remoto, precedente al periodo dei mandati europei. Nei cantieri di restauro e riqualificazione delle città antiche si costruiscono i luoghi che daranno una forma spaziale agli immaginari sociali (ma anche agli immaginari individuali) legati alla memoria e al passato; la dimensione temporale del ricordo e della nostalgia per qualcosa che si è perso è recuperata nella dimensione spaziale di una città che, sebbene sia chiamata “antica”, in realtà è una città in costruzione (come ricorda il titolo del lavoro di Christa Salamandra A New Old Damascus). Le istituzioni della salvaguardia del patrimonio, i nuovi residenti e gli attori sociali della riqualificazione costruiscono questo spazio‐tempo utilizzando una grammatica i cui elementi sono forme architettoniche, poesie, dipinti, sculture, musiche, stili di abbigliamento, oggetti, tipi di arredamento, storie raccontate e mostrate in televisione, atteggiamenti, narrazioni, resoconti storici. Ciò che viene costruito è una città, intesa come spazio sociale, che assegna una forma concreta a qualcosa che sta al di là delle possibilità espressive di cui gli attori sociali dispongono, perchè si trova nel territorio dell’immaginazione e della rappresentazione (Crapanzano 2007). La città antica dà forma a quel retroterra che i promotori 18 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno della salvaguardia e della riqualificazione condividono, fatto di immagini provenienti da un passato dal quale essi avvertono un distacco e nei confronti del quale provano un senso di nostalgia. Il loro retroterra comune, o immaginario collettivo, è la memoria di un mondo sociale scomparso, immaginato come un contesto di valori e relazioni migliore del presente. In nome di questa memoria, essi si fanno promotori della riqualificazione dei luoghi antichi, che a loro parere hanno subito un degrado a causa delle dinamiche che sin dall’Ottocento hanno posto le città mediorientali al centro di interessi internazionali e di movimenti demografici difficilmente controllabili. Nei cantieri dei restauri questi attori sociali costruiscono il contesto spaziale adatto per trasformare la loro immaginazione in realtà. Il retroterra dei mustathmarin prende forma nei cantieri dell’immaginazione: qui essi rendono reali le forme urbane che dovrebbero ospitare valori come il vicinato, l’amore, il calore familiare, la protezione delle donne, la sacralità dello spazio, il carattere maschile, le gerarchie familiari. Queste forme, sognate, evocate nei modi di dire, emergenti a tratti dall’immaginazione degli sceneggiatori e registi televisivi, diventano concrete nelle città antiche restaurate e valorizzate. This panel is thought as an occasion of reflection and debate about the issues of production, building, reconstruction, invention of places of memory in the Middle East. Different actors claim certain urban places in the Middle East to be expressions of a national, ethnic, religious, cultural or historical identity ‐ concepts understood differently according to different contexts and actors ‐ and transform such places through practices and strategies that is worth to analyze as major cultural phenomena. Thus, it is useful to deepen the relations between culture and uses of the space in Middle Eastern cities. The current and former transformations of urban space are strictly related to changes in people’s lifestyles and forms of imagination and in power relations among social groups: new spatial forms often emerge from ‐ and existing forms accommodate to ‐ encounters, clashes, resistances and compromises among social groups' mutual interests. The latest changes in Middle Eastern cities derive from the growing interest for the ancient districts and so‐called "old towns", often supported by international organizations such as Unesco and Akfed (Agha Khan Fund for Economic Development); such interest resulted on the one side in the gentrification of ancient districts and neighbourhoods, fostered by state institutions and private investors in tourism and cultural amenities, on the other side in the restoration of main religious and civil monuments. Contributors of this panel will focus both on cases of restoration of specific monuments and on cases of rehabilitation or gentrification of entire neighbourhoods. • Domenico Copertino (University of Milano Bicocca), Life in a place of memory: being part of the World Heritage in Damascus In this paper I discuss the practices of Damascus architectural heritage development as culturally meaningful acts, through which actors involved constitute an arena of confrontation and argument about the production of a “place of memory” (Nora 2006, Halbwachs 1996, Boyer 1994, Paolucci 2007) called "the old city"; as I try to show, such process is not an even and uncontested one: what emerge from the arena of heritage development are different and multi‐ faceted forms of memory, in contrast to each other. Once the site of orientalist imaginary linked to Islamic immobility and Oriental backwardness, reified in the spatial object called the Islamic city (Eickelman 1974, Abu‐Lughod 1987), during the French mandate the old city became the site of colonial urban designers' experiments, aimed at imprinting modernity in the space (Rabinow 1989); stigmatized by local elites as the place of marginality and overpopulation, it was left to uncontrolled immigration from rural areas and from regions in turmoil beyond Syrian borders; for this very reason recognized as a site worthy of protection, the old city was listed as part of Unesco WHL and became the site of different groups' converging interests, either rationalized as original and legitimate inhabitants' nostalgia for the place they were forced to flee from, or resulting in safeguard institutions' and private investors' projects of restoration of buildings and gentrification of neighbourhoods. The ethnographic analysis of heritage politics arouses several questions about the status of the subjects who act in this complex arena, in which global and local ideas, representations, and practices merge and produce different forms of memory. On the one side of this arena we find gentrifiers ‐ a vast category in which I include both newcomers and descendants of affluent families that formerly “left” the old city, both new residents and new “traditional” venues owners, 19 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno whose representations of cultural heritage are evidently influenced by Unesco discourses; along with Unesco intellectuals, free‐lance architects and Syrian heritage institutions' directors, gentrifiers are part of an international class, in Pierre Bourdieu's terms (1979), which share similar habitus, concepts and practices; on the other side we find former residents of the old city, blamed for the dilapidation of the architectural heritage, who nevertheless produce their specific representations and forms of memory embedded in the space. Among these poles we find other actors ‐ master builders, old residents influenced by heritage discourses, small entrepreneurs of tourist sector ‐ whose practices and ideas make social and cultural borders among categories fuzzy and help emerge the complexity of the production of this place of memory. Whereas Unesco and local institutions' intellectuals propose an imagine of Damascus old city as a place that carries the weight of a multi‐millenary past, a place of memory linked firstly to the political powers that through history dominated Syria (Arameans, Persians, Seleucids, Romans, Byzantines, Umayyads, Seljuqs, Ayyubs, Mameluks, Ottomans), I'm interested in the practices and strategies people actually living in the old city, and therefore being part of the heritage, carry out to develop their own forms of memory and to embed and recognize such memory in specific forms and representations of the space. • Béatrice Hendrich (Justus–Liebig–Universität Giessen), Negotiating and rebuilding religious sites in Cyprus Cyprus is culturally determined by all kind of “multi‐“: Multi‐ethnic, multi‐lingual, multi‐ religious. This diversity has sometimes resulted in new hybrid forms, sometimes in atrocities about the right creed/language/nationality. The history of “contested sites” in Cyprus is long. Soldiers and rulers of differing Christian confessions fought for the possession of the island including its many churches and monasteries. With the Ottoman conquest in the 16th century, some major Gothic churches were turned into mosques, but at the level of popular creed, graves and chapels turned into sites of “double use” by Muslims and Christians. This more or less relaxed coexistence and interblending continued until the warlike situation after Cypriot independence in the 20th century. With the division of the island into a northern and a southern part after the landing of Turkish troops in 1974 and the following migration of citizens of the Turkish Republic, ethnic and religious difference got a new essentialist quality. Furthermore, some main religious sites happened to be located at the “wrong side” of the island, like the Apostolos Andreas Monastery at the Karpass Peninsula in the north, and the Hala Sultan Tekke in the south. Needless to say that many small religious sites, but also those of a certain historical and identical importance had been destroyed during the fightings. Restoration work is going on since the 80s. Big players like the AKDN (Aga Khan Development Network) and the UN (UNOPS) are included. Due to a certain improving of the north‐south relations, protection and restoration of all kind of architectural sites have grown by numbers and accelerated. The intense international financial support of any (inter‐communal or inter‐ religious) cultural activity led to a restoration activity that is sometimes realized disjoined from the general development of the quarter and carried out almost “in secret”, e.g. because the (now orthodox) neighbourhood has no interest in the protection of a (Muslim/Sufi) monastery. Major sites like Apostolos Andreas and Hala Sultan remain as hostages in the hands of governments and religious pressure groups. The paper will hint to the history of contested sites in Cyprus and dwell on current problems related to the fate of religious sites at the “wrong site” or in buffer zones; it will ask for actors, failures and symbolic discourses. • Anita De Donato (Università di Milano‐Bicocca), The Timeless Village. Political relations in the construction of the refugee camp of Dheisha (West Bank) as a place of memory This ethnographic research focuses on the production of the refugee camp of Dheisha, placed in the West Bank, as a place of social construction of the memory of the period before the diaspora and of the identity of its dwellers, through the analysis of the organization and the use of the space acted by refugees and the management strategies of the institutional authorities. Through the spatial and symbolic reproduction of the cultural and political models that grounded the tribal “imaged communities” of their villages of origin, refugees rebuild their social 20 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno world giving a sense to the reality of dispersion and claim their cultural and political specificity towards Israeli occupation forces, the UNRWA and the PNA. The construction of the refugee camp as a place of memory emerges as a political arena in which different groups of interest compete through the practices for the definition of the status of the refugee camp and of its inhabitants. The social space of Dheisha and its meaning are shaped by the movements and the power relations among its inhabitants, connected with the growing economic segmentation, the institution of the PNA and the colonial strategies acted by Israeli military forces. The management and control strategies acted by the PNA and the UNRWA inside the refugee camp aim to change the local interpretation of the historical and cultural memory of the villages of origin, to stabilize the refugee camp and to integrate its dwellers as citizens. The construction of differences between citizens and refugees, and their respective imaginaries of the refugee camp as a “backward” place or as an expression of “cultural authenticity”, are political strategies acted in the context of the growing competition for the material and symbolic resources of the area. Concerning infrastructures development, resources distribution and services administration acted by the UNRWA and the PNA, refugees claim the marginality conditions implied by the temporariness of the camp, compared to the surrounding urban area, as a form of political opposition to keep the refugee camp as a place of memory of the refugee status and of the related right of return to the lost lands. • Luca Nevola (Università Milano Bicocca), Hijrah e hawtah: spazi inviolabili e costruzione dell’identità sayyid in Yemen Hijrah e hawtah sono istituzioni caratteristiche, rispettivamente, del nord dello Yemen e dello Hadramawt. Entrambe distinguono uno spazio inviolabile, un'enclave neutrale all'interno del sistema tribale. Tali spazi sono spesso associati alla presenza dei sādah (s. sayyid), una classe digiurisperiti che vanta la propria appartenenza al ramo Hasanī della discendenza del Profeta. La reputazione dei sādah, e dunque la loro autorità, si fonda su di una memoria culturale (Assmann, 1997) che enfatizza il genos, l'ephos e ‐ soprattutto nel caso delle hawtah ‐ il topos (Tullio‐Altan, 1995), il «territorio trasfigurato dai miti d'origine e dall'identificazione del gruppo con esso» (Fabietti, 1998). Questi "spazi inviolabili" sono stati presi in considerazione dall'analisi antropologica in seguito agli stimolanti paralleli stabiliti da Serjeant (1962) tra le hawtah e lo haram meccano. Lo "sguardo trasversale" dell'antropologia sì è infatti soffermato sulla relazione tra "santi" e "santuari", costruendo "somiglianze di famiglia" che attraversano il tempo (dalla Jāhiliyyah ai nostri giorni) e lo spazio (dall'Atlante marocchino fino all'Arabia del Sud), accomunando "sistemi sociali" caratterizzati da un principio di strutturazione politica di tipo "segmentario". L'analisi comparativa ha evidenziato come, in tali contesti, la relazione "santi / santuari" svolga una fondamentale funzione di mediazione (Gellner, 1969; Fabietti, 1989; Bédoucha e Albergoni, 1991). Questo articolo si propone di istituire un parallelo tra hijrah ed hawtah, indagando il complesso pratico‐simbolico che concorre alla delimitazione di uno "spazio inviolabile". La costruzione dell'inviolabilità ‐ caratteristica comune a tutti i luoghi indagati ‐ è infatti implementata a mezzo di molteplici linguaggi, tra i quali spicca il linguaggio dell'onore (sharaf) tribale. In quest'ottica, la "sacralità" dei luoghi e la loro associazione con un "santo" figurano come caso particolare all'interno di un modello più generale. Per dimostrare quanto fin qui sostenuto, prenderemo in considerazione le dinamiche che hanno portato all'affermazione della classe dei sādah all'interno di (alcune) hijrah ed hawtah. Descrivendo queste enclaves alla stregua di "campi sociali" (Bourdieu, 1979), zone di lotta definite dalla relazione tra capitali simbolici, enfatizzeremo la stretta associazione esistente tra sādah e "spazi inviolabili", poggiante sulla costruzione di un'identità sapientemente differenziata rispetto a: a) quella dei loro diretti concorrenti nel campo sociale (ad esempio i fuqahā di origine qahtanita); b) quella dei qabāyl (s. qabīly), gli uomini della tribù; c) quella degli individui "deboli". Cercheremo infine di dimostrare quanto la costruzione selettiva della memoria giochi un ruolo fondamentale nella strutturazione del capitale simbolico dei sādah. A tal fine approfondiremo il caso del santuario del profeta pre‐ islamico Hūd, nello Hadramawt, e della città di San’ā’. • Kobi Peled (Ben‐Gurion University of the Negev), Rural Memories in an Urban Setting: Grassroots Conservation and Identity Construction in an Israeli Arab town 21 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno This paper will explore the contemporary history of an ancient well that had been a vivid milieu de mémoire, in Pierre Nora’s term, for hundreds of years. In the 1950s water pipelines were connected to many houses in the Palestinian Israeli town of Baqa al‐Gharbiyya, where the well was situated, and within a few years it was deserted. Throughout the second half of the twentieth century the well had been forgotten as waste piled up where once an ancient source of life had flourished. This paper will focus on the circumstances of a recent conservation project intended to rescue the well from a careless municipal “development” plan, and to preserve the site for the benefit of the local population. The new lieu de mémoire of the well deserves scholarly attention because it was built “from the grass roots,” by ordinary men and women who conceive of their cultural heritage as an important part of their identity and oppose the “acceleration of history,” as Nora put it. The interpretation of this memorial site will be carried out in a contextual symbolic analysis of its spatial and artistic characteristics, alongside oral and written evidence concerning the initiative. This multilayered interpretation will revolve around the gap between memories and relics of an essentially rural culture, and complex urban, social, and political realities. This paper will study the commemoration initiative as an act of anchoring local and national sentiments of belonging within a swiftly changing urban landscape. It will examine the historical dimensions of the commemorative practices, emphasizing the marginalization and the Israelization of the Palestinians who remained in the State of Israel after the 1948 war. Various motifs of the commemoration agents will be discussed, as well as sources of inspiration, such as: the Jewish culture of commemoration in Israel; the Palestinian national struggle; and the memorialization trend – a global phenomenon that strongly influences local societies, whose localness had once been taken for granted. SESSIONE 2: 11.30‐13.00 Panel 1 (AULA 12) Memoria e identità: il passato coloniale come eredità (controversa?) nel Sahara e nel Mediterraneo occidentale / Mémoire et identité : le passé colonial comme héritage (disputé ?) au Sahara et dans la Méditerranée occidentale II Francesco Correale (Coordina) ‐ Laura Davì (ISMU, Discute) • Francesco Correale (UMR 6173 CNRS CITERES/EMAM, Tours), I Sahrawi dei campi profughi di Tindouf e il racconto coloniale: dalla resistenza alla sindrome di Stoccolma? Il 27 febbraio 2011 la Repubblica Araba Democratica Sahrawi ha celebrato, un po’ in sordina, i suoi primi 35 anni. Annunciata nel 1976, al momento della partenza dell’ultimo soldato spagnolo dal Sahara, la proclamazione aveva due obiettivi principali: coprire il vuoto giuridico lasciato dal ritiro dell’amministrazione coloniale spagnola in funzione anti‐marocchina e anti‐mauritana; perfezionare la rivoluzione iniziata dai giovani combattenti del Fronte Polisario. Tale rivoluzione era destinata a sovvertire i riferimenti politici e istituzionali della popolazione essenzialmente nomade, vincolata all’organizzazione tribale, soggetta, per la sua sopravvivenza, alle politiche coloniali varate dal Governo metropolitano dopo il 1958, anno in cui il territorio sahariano fu dichiarato “Provincia spagnola”. La guerra contro la Mauritania fino al 1978, e contro il Marocco fino al 1991, e il conseguente stallo delle trattative per lo svolgimento di un referendum di autodeterminazione ha determinato, negli anni, una situazione di permanente dipendenza della popolazione (stimata in approssimativamente 250.000 individui) dagli aiuti esterni. Le testimonianze raccolte nei campi profughi evidenziano inoltre una condizione di subalternità culturale nei confronti della vecchia metropoli il cui dominio di quelle regioni viene continuamente rivendicato dai Sahrawi come segno distintivo di alterità rispetto all’oceano francese (e francofono) dei paesi limitrofi. Oggetto della presente comunicazione sarà dunque l’analisi della relazione fra i Sahrawi e l’eredità storica lasciata dalla Spagna, nel tentativo di comprendere le linee dominanti della costruzione identitaria Sahrawi e del suo consolidamento in un contesto politico‐sociale nel quale 22 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno non solo i canoni dello Stato post‐coloniale sono ignorati, ma anche la decolonizzazione culturale sembra ben lontana dall’essere compiuta. • Selena Nobile (Università della Calabria), Memoria e identità nella letteratura “ispano‐ marocchina” e nella letteratura saharaui in lingua spagnola. La presente comunicazione propone di analizzare il tema della memoria e della costruzione dell’identità nella letteratura ispano‐marocchina e nella letteratura saharaui in lingua spagnola. In particolare, mi concentrerò sulla questione della lingua, per mettere in evidenza come lo Spagnolo, lingua coloniale in Marocco e nel Sahara Occidentale, entri oggi nella costruzione identitaria dei Sahraoui come strumento di lotta e di resistenza al fine di rivendicare un preciso spazio identitario e riscattare la memoria dall’oblio; e in Marocco, come lingua che esprime il polimorfismo identitario attraverso un’apertura verso una “transculturazione” mediterranea. • Daniela Melfa (Università di Catania), Fuori dalla torre d’avorio. Nation‐building e storiografia in Tunisia. Nelle recenti proteste in Tunisia i manifestanti hanno sventolato assiduamente la bandiera nazionale, simbolo di attaccamento al paese e coesione interna. L’identità nazionale tunisina ha assunto, dall’epoca della modernizzazione ottocentesca, una fisionomia peculiare basata sul mito del riformismo di Stato (Béatrice Hibou). Le iniziative progressiste, che si sono susseguite in Tunisia, hanno poi alimentato nei cittadini l’orgoglio per svariati primati (compreso il sentirsi pionieri della ‘primavera’ dei popoli arabi) . L’esperienza del colonialismo, dal canto suo, ha generato, in contrasto con uno spirito antimperialista, la memoria di una società plurale e tollerante. Al processo di costruzione dell’identità nazionale non è rimasta estranea la storiografia tunisina, che attraverso la ri‐costruzione del passato ha veicolato idee e punti di riferimento. Attraverso una disamina della letteratura storiografica il paper intende analizzare proprio il contributo degli storici tunisini. L’uso di categorie interpretative, quali ‘cosmopolitismo’ o ‘mosaico’, così come le scelte tematiche, incentrate sulle comunità religiose ed etniche, ma raramente aperte a una prospettiva transnazionale, rivestono infatti un significato che trascende l’ambito della disciplina. I paradigmi della ricerca storica saranno esaminati in relazione alle sfide poste alla società tunisina dai regimi autoritari, e interrogativi saranno quindi sollevati in merito alle ripercussioni della svolta politica in atto. Panel 2 (AULA 16) Memoria e potere Jolanda Guardi (Coordina) ‐ Anna Vanzan (Università di Milano, Discute) Interrogarsi sulla relazione tra memoria e identità (Fabietti‐Matera 1999) porta inevitabilmente a considerare la relazione fra la prima – intesa come selezione sociale del ricordo ‐ e il potere inteso come i discorsi che il potere produce in relazione alla costruzione dell’identità collettiva. Il panel indaga in particolare il ruolo di questi discorsi nell’ambito delle identità percepite, le quali, secondo Halbwachs, per sussistere, hanno bisogno di tre elementi fondamentali: il riferimento a coordinate spazio‐temporali determinate, la relazione simbolica del gruppo con se stesso, la ricostruzione continua della memoria medesima. Nell’epoca odierna questa ricostruzione si manifesta in una concezione diversa delle coordinate spazio‐temporali, in seguito all’abbattimento delle barriere fisiche introdotto dalla rete, che incide anche sulla relazione simbolica del gruppo e sulle infinite possibilità di ricostruzione della memoria. Il panel, quindi, si propone di indagare le strategie attuali di utilizzo di strumenti di conservazione della memoria tradizionali, come a esempio gli archivi nel rapporto con le nuove tecnologie, ma anche di analizzare quali siano le strategie di selezione che sottostanno al rapporto tra memoria e potere (Jedlowski 1997). Non da ultimo sarà interessante 23 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno soffermarsi sulla possibilità di avviare un confronto critico con le fasi negative del nostro passato in relazione all’assunzione di responsabilità della nostra storia e del modo in cui la memoria ha contribuito alla costituzione di un’immagine del mondo arabo partendo dall’affermazione di Benjamin (1947): “Solo a un’umanità redenta il passato è diventato criticabile in ognuno dei suoi momenti”. • Lorenzo Declich (Università di Roma La Sapienza), Haram/halal: la riscrittura dell’identità musulmana nel nuovo mercato islamico Negli ultimi dieci anni la retorica del "conflitto di civiltà" ha condizionato la percezione e lo studio dell'Islam contemporaneo. Quella teoria della storia peccava, paradossalmente, di astoricità, mancando di valutare in prospettiva diacronica uno dei più importanti fenomeni del nostro tempo: l'integrazione economica mondiale. L'intera ecumene islamica sembrava cristallizzata nelle categorie e nei parametri fissati una volta per tutte nella storia post‐coloniale. Invece il mondo dell'islam rielaborava la propria identità in relazione al presente, dando vita a fenomeni nuovi e a nuove dinamiche, anche all'interno di quella che con una certa dose di imprecisione possiamo chiamare "diaspora musulmana". Alcuni studiosi, primo fra tutti Oliver Roy, hanno messo in risalto le caratteristiche di questo nuovo "islam globalizzato", in bilico fra integrazione nelle dinamiche del mercato mondiale e reazione ‐ quietistica o violenta ‐ a tale processo. A una "privatizzazione" dell'esperienza religiosa in contesti dove l'islam non è religione maggioritaria e/o in risposta alla disfatta dell'Islam politico nella sua forma più radicale di alternativa al modello proposto dall'Occidente, ha corrisposto un'avanzata di nuovi soggetti economici e finanziari che basano il proprio businness sull'"islamità" dei propri prodotti nella prospettiva della creazione di una nicchia di mercato (un miliardo e 200 milioni di persone) che trovi la propria identità "islamica" nel consumo di merci "islamicamente corrette". Il fenomeno è ben visibile e osservabile dai più diversi punti di vista e l'esempio più eclatante è certamente quello della finanza islamica, che prende corpo a partire dal divieto di usura (rib_a'). Ciò su cui si concentra questo intervento è l'uso, all'interno del processo di formazione di questa nuova identità islamica "di mercato", della una coppia concettuale: haram/halal. Una dicotomia che nel contesto del mercato globale non è tesa a indicare quali debbano essere gli orientamenti generali dei musulmani in un quadro di "libera scelta" degli individui, ma a determinare la "correttezza" in senso "islamico" delle merci, a partire dai cibi passando per i vestiti e i cosmetici e arrivando addirittura ai vaccini. Il fenomeno è ben visibile sulla internet dove, ogni giorno di più, emerge una rete "islamicamente corretta" la cui funzione non è soltanto quella di "proteggere" i musulmani ma anche, e soprattutto, orientare gli operatori del nuovo mercato "islamico" verso prodotti che incontrino la sensibilità dei nuovi consumatori musulmani. • Paolo D’Urbano (School of Oriental and African Studies, London), Iam#Jan25: memoria digitale e potere nell’Egitto post‐rivoluzionario Iam#Jan25 è un sito web lanciato una settimana dopo la caduta di Hosni Mubarak con lo scopo di raccogliere "opere d'arte prodotte durante o ispirate dalla rivoluzione del 25 gennaio". L'iniziativa è parte di un progetto composto da altri siti, volti a preservare la memoria di questo cruciale evento per la storia del paese e del Medio Oriente. IamTahrir serve come portale, o punto d'accesso, Iam#Jan25 colleziona video, immagini e testimonianze dirette della rivoluzione, mentre Egypt Remembers è dedicato alla commemorazione dei martiri della rivoluzione. Tali iniziative declinano, seppur in maniera differente, il tema del ricordo e della memoria. Memoria che, in questo caso, assume il duplice connotato di facoltà cognitiva ed estensione tecnologica. Come concettualizzare il rapporto tra queste due accezioni di memoria? E, ancora, tra memoria e potere nei media digitali? Il discorso accademico sui nuovi media in Medio Oriente tende ad adottare le teorie utilizzate per lo studio dei mezzi di comunicazione di massa (radio e tv), prediligendo in particolar modo il concetto di sfera pubblica. In realtà, il presente elaborato suggerisce che una delle funzioni principali dei media non sia la semplice diffusione di messaggi, bensì quella di immagazzinare informazioni. Una funzione che diventa fondamentale con l'avvento dei media digitali, poiché questi consentono ad un numero sempre maggiore di utenze, siano esse individuali o collettive, la facoltà di organizzare e produrre conoscenza. In tal senso, quello che i nuovi media offrono non è solo uno spazio di espressione e comunicazione, ma anche la facoltà di assemblare “la legge di ciò che può essere detto” (Foucault, Archeologia del Sapere): l'archivio. Anche nel caso di Iam#Jan25, l'utilizzo del concetto di 24 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno archivio permette infatti di articolare il rapporto tra memoria vissuta e quella digitale, nonché di esplicitare il potere che sottende tale relazione. • Jolanda Guardi (Università di Milano), Memoria e potere: per una ricerca azione in letteratura Anche in seguito a quanto sta avvenendo nel mondo arabo, ritengo necessaria una riflessione di carattere epistemologico che cerchi di proporre per la discussione una serie di domande alle quali cercare di rispondere per riposizionare la disciplina. Nel mio intervento, pertanto, dopo una breve descrizione del rapporto tra memoria e potere nell’ambito dell’analisi del discorso, dove considererò la memoria come un processo volto a selezionare, attraverso uno strumento di potere, la relazione accademica, quale sia la cornice entro la quale si debba comprendere il mondo arabo, farò particolare riferimento al discorso inerente lo studio della letteratura araba. In tal senso il vocabolo ‘memoria’ diviene connesso al potere, in quanto il processo di attribuzione di senso della memoria comporta una selezione e la capacità di fornire di senso un argomento attraverso la costruzione, appunto, di una memoria è segno di potere. Presenterò, inoltre, alcune proposte per un modo di condurre la ricerca in letteratura che tenga conto di un approccio interdisciplinare, di una teoria della conoscenza situata nonché di un approccio di genere. • Maura Parisi (Università di Trieste), La costruzione dello Stato e dell’identità nazionale: iconografia e discorso geopolitico nella Siria degli Assad L’identità nazionale e il sistema di potere che hanno dato forma al paese per più di quarant’anni ‐ e che sono ora messe in discussione‐ sono costruzioni recenti, frutto dell’interazione fra l’ideologia del Ba’ath, il partito al potere dal 1963, e gli interessi della famiglia che da più quarant’anni è al vertice del paese, gli Asad. Il primo elemento del paesaggio che colpisce il viaggiatore che approda in Siria non è la bellezza austera del deserto né la varietà del patrimonio archeologico ma l’ubiquità dell’iconografia di regime: essa accompagna il cittadino in ogni istante e in ogni luogo della sua quotidianità, creando, attraverso la retorica associata alle immagini, quello che Foucault chiamava “il regime della verità”. L’iconografia è tuttora il prodotto più visibile degli sforzi pluridecennali del regime per l’imposizione dell’ordine e la creazione di consenso e coesione sociale in un paese caratterizzato da una geografia umana frammentata e da una tormentata storia recente. La visione del paese che ne emerge è fortemente paternalistica: le masse popolari hanno bisogno di un padre, di una guida; essa si sostanzia nel sistema coercitivo e nella propaganda, che si serve dell’ideologia socialista ‐e quindi inclusiva ‐ del Ba’ath da un lato e della figura del leader dall’altro. Le proiezioni in politica estera, con il ruolo autoassegnato di qalb al‐‘urūbah (cuore dell’arabismo), di baluardo nei confronti d’Israele e della penetrazione straniera nella regione assieme all’Iran, ad Hamas e a Hizbollāh sono state, soprattutto negli anni Duemila, una delle basi del consenso e del controllo interno. Panel 3 (AULA 13) Memorie condivise e fratturate tra gli ebrei originari dei paesi arabo‐musulmani in diversi contesti II Emanuela Trevisan Semi (Coordina) ‐ Elisa Bianchi (Università di Milano, Discute) • Claudia De Martino (Università Ca’ Foscari, Venezia), Come Israele ricorda sé stesso: memoria dei mizrahim e memoria degli askenazim della Guerra dei Sei Giorni e della Guerra dello Yom Kippur a confronto Il paper vuole esplorare la memoria duale di mizrahim e askenazim di due eventi‐cardine della storia nazionale israeliana. 25 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Se la Guerra di Indipendenza è avvenuta senza che i mizrahim vi partecipassero in grandi numeri data la loro immigrazione successiva, la Guerra dei Sei Giorni e del Kippur rappresentano le prime due esperienze collettive nazionali che vedono coinvolti entrambi i gruppi. Si tratta di due eventi che hanno profondamente impattato sulla formazione della coscienza nazionale israeliana, anche se in modo opposto. Essi avvengono a circa vent’anni dalla fondazione dello Stato, mentre i sabra e i veterani europei e i mizrahim, che in larga parte coincidono con i nuovi immigrati, stanno ancora cercando di amalgamarsi in una nazione. Per quest’ultimi, i cui genitori sono spesso stati oggetto di discriminazione, il servizio militare e la guerra sono i riti di iniziazione alla cittadinanza piena, su base paritaria con i “veterani”. È importante, dunque, analizzare i due conflitti anche dal punto di vista della storia sociale, con lo sguardo rivolto a come la società israeliana si è modificata attraverso il rimescolamento sociale e culturale che inevitabilmente qualsiasi guerra produce. Il 1967 rappresenta una data spartiacque verso la creazione di una nuova coscienza nazionale maggiormente inclusiva del dato religioso e dell’appartenenza etnica. La transizione dall’Yichouv alla formazione di uno Stato dotato di istituzioni e modelli sociali diversi da quelli del periodo pioneristico, si va consolidando proprio in quegli anni, con l’ingresso dei mizrahim sulla scena politica. Il paper cercherà di ripercorre le tappe attraverso cui la memoria dei due eventi si struttura e se e in quale misura avvenga su linee comunitarie. Proverà inoltre a comprendere come i mizrahim acquistino consapevolezza politica nel 1971‐73 per poi contribuire sostanzialmente alla vittoria epocale del Likud, erede di una tradizione politica bandita per 30 anni. È probabile che dalla partecipazione alle due guerre, e dall’acquisizione “sul campo” di pari titoli militari, sia scaturita l’emancipazione dei mizrahim da quel complesso di inferiorità sociale che aveva contraddistinto i rapporti tra le due comunità nel primo ventennio. • Piera Rossetto (Università Ca’ Foscari, Venezia), In transito: storia, memoria e luoghi narrativi di ebrei arabi (1948‐1956) La Sifrut ha‐ma’abarah (letteratura del campo di transito) rappresenta uno spazio narrativo in cui autori israeliani contemporanei originari dei paesi arabi hanno espresso le storie spesso dimenticate, represse o marginalizzate degli ebrei cosiddetti “orientali” (mizrahim) emigrati in Israele tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento da paesi del Nord Africa e del Vicino e Medio Oriente. Dopo aver introdotto le caratteristiche principali di questo genere letterario e la sua collocazione rispetto al canone della letteratura israeliana, l’intervento si propone di riflettere sul concetto di “luogo”, così come teorizzato entro la prospettiva geografico‐umanistica, per leggere l’esperienza della ma’abarah quale “luogo di memoria” e soprattutto come “luogo narrativo”. Verranno dunque analizzate le diverse declinazioni letterarie secondo cui la ma’abarah potrebbe essere interpretata: luogo narrativo di sfida e di resistenza, di (dis)continuità e (dis)contiguità culturale e territoriale, di santificazione dello spazio e di esilio. A partire dai ricordi personali dello scrittore Shimon Ballas, nato a Baghdad e giunto in Israele nel giugno 1951, e di altri autori mizrahim di prima e seconda generazione, questo lavoro intende presentare la sifrut ha‐ma’abarah come la storia “vista dall’altro”, ovvero come la storia della costruzione dello Stato e della nazione vista dalla prospettiva del gruppo non egemonico. Questa prospettiva pone di fatto la sifrut ha‐ma’abarah nel solco dei subaltern studies come “conoscenza integrativa”, accanto al contributo dato dai “nuovi storici” alla profonda opera di revisione della storiografia israeliana. L’appello a far emergere, anche nella letteratura israeliana, quelle che si potrebbero definire delle coordinate geografico‐letterarie mizrahi è senza dubbio un appello a porre al centro della letteratura quelle opere che sono state spesso tenute ai margini e soprattutto a riconoscere, senza timore, ciò che le lega al mondo da cui provengono, ovvero il mondo arabo. • Aide Esu (Università di Cagliari), Media ed intrecci spazio‐temporali della memoria collettiva di Israele e Palestina Israele e Palestina hanno sviluppato nel corso del conflitto un complesso intreccio di narrazioni della memoria collettiva; terra/spazio, memoria e identità si affermano come la triade che intesse queste narrazioni. Dalle loro differenti visioni emerge un laboratorio della mente in cui lo spazio immaginato/sognato nelle due diaspore si nutre di narrazioni edificate su costruzioni solide, capaci 26 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno di suscitare pathos identificativo e di rafforzare il senso di appartenenza. È soprattutto la creazione di miti fondati su eventi storici cruciali a rispondere a questa esigenza. La comunicazione prenderà in esame due miti fondativi, il ritorno a Kfar Etzion e l’espulsione dei palestinesi, Al‐Nakba. Questi rappresentano i processi fondativi delle identità moderne grazie ad un repertorio narrativo pre‐ moderno che fa ricorso ad «una storia che viene raccontata per chiarire il presente alla luce del passato» (J.Assmann, 1997, tr.it, p. 26). Sono narrazioni centrate sugli eventi costitutivi del “noi”, esplicitato attraverso medium diversi, poesie, letteratura, fotografie, documenti filmati, siti web etc. L’altro, il palestinese o l’israeliano, è sempre esplicitamente assente ma pervasivamente presente nella narrazione muta, proiettata, percepita, immaginata. Una “macchia bianca” che accompagna ogni narrazione. Per la memoria collettiva israeliana Kfar Etzion rappresenta la voce narrante per eccellenza, un esempio costitutivo, summa del pionierismo sionista religioso e più recentemente delle politiche strategiche del Grande Israele. Un esempio paradigmatico sia per i contenuti che per l’eccezionale durata che accompagna le trasformazioni della narrazione della memoria collettiva nel tempo. Nella recente elaborazione della Nakba le scienze sociali palestinesi hanno stimolato un’importante produzione multimediale. La raccolta di documenti fotografici, planimetrici e di registrazioni audio‐video di storia orale si è tradotta in una interessante sitologia dedicata a tematiche specifiche: 1. i rifugiati‐ Shaml Archive on Refugee Issues, 2. la memoria collettiva, il sito Palestine remembered è dedicato alla memoria dei luoghi distrutti. Questi due esempi sono significativi per l’uso dei materiali multimediali concepiti nella duplice veste di strumenti statici e interattivi, data base sui rifugiati, mnemoteca della storia orale (The audio Library of Oral History) e dei discorsi pubblici (PBC Program Archive contenente il “Palestinian Pubblic Discorse after Oslo”). Una sitologia con doppia funzione, conservatorio della memoria ma anche azione politica per la diffusione delle informazioni sui diritti dei rifugiati e del diritto al ritorno. Questi esempi rappresentano un caso di studio interessante per mettere in rilievo come oggi i media costituiscano strumenti attivi per il processo di elaborazione della memoria e di uso politico del ricordo. Per una nazione dispersa la virtualità dei contenuti multimediali può rappresentare surrogati di identità, in cui home page costruite per un friendly use esibiscono prodotti della memoria – storia orale, immagini, fotografie, film, documentari‐ con gradi differenziati di complessità di lettura. È una memoria privata presentata dentro un frame pubblico in cui la “neutralità” dei documenti segue un costrutto narrativo meno evidente. Entrambi, Kfar Etzion e Al‐ Nakba, con modalità differenti, mettono in luce come il richiamo più evidente sia l’uso del contenitore multimediale finalizzato alla ri‐unione del popolo disperso che si nutre della memorialistica in funzione di costruzione del corposo mito nazionale. SESSIONE 3: 15.00‐17.00 Panel 1 (AULA 11) Tra molte identità: donne in Israele e Palestina e la loro risposta all’occupazione militare e alla violenza Chiara Cassinari, Laura Aletti, Rossana Tamiello (Coordinano) – Aide Esu (Università di Cagliari, Discute); Commenti di Franca Balsamo (Università di Torino). Le donne sono sempre state parte integrante del conflitto israelo‐palestinese, in modi, settori e fronti diversi: sono coinvolte in prima persona nella battaglia demografica da un lato, ma anche nella resistenza e nelle dimostrazioni di massa, nel pacifismo così come nel dialogo con l’altra parte. Nondimeno, il continuo protrarsi delle violenze legate al conflitto ha avuto un impatto importante sulle vite delle donne israeliane e palestinesi, strette tra le aspirazioni nazionaliste dei due popoli, una soffocante divisione dei ruoli di genere in entrambe le società e le drammatiche conseguenze all’interno del contesto privato. Il panel intende quindi indagare alcune risposte al femminile dagli anni ’80 ai nostri giorni, mettendo in evidenza alcuni tentativi fatti volti alla costruzione di un’identità femminile palestinese 27 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno e israeliana, che pur rimanendo implicata nella realtà quotidiana del conflitto, cerca di rompere i tradizionali canoni di divisione di genere. L’attivismo politico e sociale delle donne palestinesi del Women’s Work Committee durante gli anni ’80, teso a cambiare la tradizionale divisione di genere che regolava la sfera privata così come quella pubblica; l’impegno delle pacifiste di Machsom Watch, calatesi in un contesto militare e maschile con l’obiettivo di raccontare e mettere fine alla politica dei checkpoint, per l’autodeterminazione del popolo palestinese ma anche per l’impatto negativo sulla società israeliana; infine, una riflessione sui centri anti‐violenza nati in Israele che tentano di portare alla luce e all’attenzione di tutti la problematicità della violenza domestica subita dalle donne, troppo spesso dimenticata e strettamente legata alla militarizzazione della società. • Cristiana Baldazzi (Università di Trieste), Il patrimonio popolare palestinese tra folklore e folklorismo Perdere la memoria significa perdere se stessi, la propria identità; analogamente una comunità che perde la memoria rischia di smarrire la propria identità. Se per ogni società la trasmissione delle proprie tradizioni è essenziale e necessaria, per una società minacciata nella sua identità, come in Palestina, essa assume significati del tutto propri di enorme rilevanza, dai quali vorrei partire per un’analisi del folklore e dell’uso che ne viene oggi fatto in Palestina. La nota intende prendere in esame alcuni degli studi demologici palestinesi a partire da quelli degli anni venti (Tawfiq Canaan e altri studiosi a lui contemporanei) fino ai più recenti, considerando il loro differente approccio al folklore, utilizzando come griglia di riferimento l’accezione gramsciana in merito. Tornato in auge soprattutto con i cultural e subaltern studies, Gramsci guarda al folklore come “concezione del mondo e della vita del popolo, inteso come complesso delle classi subalterne e strumentali che si contrappongono alle classi ufficiali ed egemoniche”. La analisi di Gramsci, pur critica e rigorosa, fornisce ancora oggi pertinenti chiavi di lettura che, a mio avviso, contribuiscono a meglio interpretare le diverse tendenze emerse nella demologia palestinese, spinta, per ragioni storiche note, a guardare al folklore secondo una prospettiva soprattutto nazionalistica, con conseguenze non sempre prive di forzature ideologiche. • Chiara Cassinari (Università Ca’ Foscari, Venezia), Donne su due fronti. I comitati femminili degli anni Ottanta nella West Bank L’8 marzo del 1978 un piccolo gruppo di donne appartenenti alla borghesia urbana palestinese fondò il Women’s Work Committee (WWC), una nuova forma di partecipazione sociale e politica femminile che nacque in reazione al contesto violento dell’occupazione israeliana e del potere maschile/patriarcale che dominava tutti gli ambiti della vita quotidiana. Le attiviste del WWC ritenevano che l’emancipazione sociale e il riconoscimento di essere parti attive nella vita politica del loro popolo fossero elementi necessari per arrivare alla partecipazione attiva delle donne nella lotta nazionale. L’azione del WWC, che negli anni Ottanta si divise in quattro diversi comitati, ebbe come scopo il miglioramento delle condizioni di lavoro delle donne operaie, la diffusione dell’alfabetizzazione e di un’educazione alla salute di base. I comitati intrapresero inoltre un’opera di sensibilizzazione che tendeva a sovvertire l’oppressivo potere patriarcale che con le sue strutture dominava le vite delle donne. In questo ambito si pone la spinta verso l’indipendenza economica, la contestazione dei matrimoni combinati o imposti in giovane età, la critica dell’usanza del mahr (dote) e la denuncia della violenza domestica e dei crimini d’onore. Le lotte in campo sociale dei comitati femminili erano quindi animate da ideali che possiamo definire femministi, in quanto puntavano ad un riequilibrio tra la posizione della donna e quella dell’uomo e mettevano in discussione il potere maschile derivato dalla concezione patriarcale. L’intervento cercherà di analizzare il modo in cui il discorso dei comitati entrò in contrasto con i rigidi schemi patriarcali che sostenevano la società palestinese, e con le fazioni dell’OLP che avevano inizialmente appoggiato la formazione dei comitati femminili stessi. Allo stesso tempo si cercherà di evidenziare come l’introduzione degli ideali femministi nella lotta per la liberazione delle donne e della nazione permise la creazione di una nuova identità femminile, in grado di opporsi non solo all’oppressione esterna, ma anche a quella interna. 28 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno • Giulia Daniele (Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa, Institute of Arab and Islamic Studies – Exeter University), Donne palestinesi e israeliane: narrative a confronto A partire dall’inizio degli anni Novanta, sia nel mondo accademico sia all’interno dei movimenti delle donne è diventato centrale il tema riguardante il rapporto tra “femminismo” e “nazionalismo” in realtà di conflitto e post‐conflitto. Tenendo in considerazione la profonda inestricabilità tra narrative storiche e vite quotidiane dei due popoli, palestinese ed israeliano, il paper si propone di ridefinire tale discorso, e, in particolare, il ruolo giocato da donne attiviste nel decostruire le proprie identità etno‐nazionali (in primis il fondamento sionista alla base dello Stato di Israele). Dopo aver delineato tale problematica nel contesto dei principali movimenti di donne nei Territori Occupati Palestinesi e in Israele, l’analisi volge verso una delle esperienze congiunte tra donne palestinesi ed israeliane più conosciute a livello internazionale, quella del Jerusalem Link. In netto contrasto con una politica fondata sulla paura, sull’ostilità, sulla violenza nei confronti dell’“Altro”, le attiviste coinvolte hanno cercato di mettere in pratica la così definita “transversal politics” attraverso un percorso comune di riconoscimento e cooperazione. L’attuale status quo ha tuttavia rilevato numerosi ostacoli nell’attuazione di simili iniziative in vista di future politiche alternative. Sebbene il Jerusalem Link abbia tentato di costruire relazioni egualitarie e di proporre prospettive comuni, negli ultimi anni il progetto è stato dichiarato in parte fallito (se non totalmente), a causa del perdurare di una condizione di potere asimmetrico e discriminatorio tra le due parti. Utilizzando sia la letteratura esistente sia le interviste condotte durante la recente ricerca sul campo, il mio contributo è diretto ad interpretare parallelamente le proposte innovative e le strategie fallite che sono emerse da analoghe esperienze congiunte. Infatti, nonostante la presente realtà israelo‐palestinese appaia ancora lontana da prospettive di riconoscimento e riconciliazione, diventa sempre più inevitabile indicare politiche, tra cui per esempio quella post‐nazionale, che possono essere in grado di riportare le due narrative verso un cammino condiviso. • Laura Aletti (School of Oriental and African Studies, London), Le donne di Machsom Watch tra attivismo, narrazione e nuove identità di genere in Israele. Machsom Watch, movimento femminile pacifista israeliano, compie quest’anno 10 anni di attivismo passati ai checkpoint israeliani all’interno dei territori palestinesi. Ultimo esempio, in ordine di tempo, della ricca storia di mobilitazioni pacifiste al femminile di cui Israele è testimone, Machsom Watch vede coinvolte oggi circa 300 donne in monitoraggi quotidiani presso i principali posti di controllo israeliani al fine di, da un lato, difendere i diritti umani dei palestinesi, e, dall’altro, di “svelare”, attraverso la pubblicazione di dettagliati e quotidiani reports, quello a cui assistono. Proprio questo enorme archivio, negli ultimi anni incrementato dalla produzione di video e documentari, acquista particolare rilevanza nella narrazione delle dinamiche dell’occupazione attraverso una sguardo del tutto singolare. La particolarità dello scenario scelto dalle attiviste come teatro della protesta rappresenta di per sé un’innovazione non solo all’interno delle tradizionali tipologie di manifestazione adottate dal campo pacifista israeliano femminile e non, ma anche per quanto riguarda il pensiero comunemente condiviso sulla sicurezza nazionale israeliana. L’intervento tenterà dunque di indagare, grazie anche all’analisi dell’archivio del movimento, la costruzione dell’identità femminile delle donne di MW. Un’identità divisa fra, da un lato, la preoccupazione per i soldati (“i nostri figli e le nostre figlie che sono costretti ad agire in situazioni disumane e che pagheranno un prezzo altissimo sul piano psicologico”) e per la società israeliana in generale “che diventa sempre più violenta”; e, dall’altro, il compito intrapreso dalle attiviste di essere testimoni della realtà quotidiana dell’occupazione proponendosi in quanto gruppo di opposizione e con una proposta alternativa alle politiche di sicurezza israeliane. • Rossana Tamiello (Università Ca’ Foscari, Venezia), I centri anti‐violenza in Israele Durante i suoi 60 anni di esistenza, la società israeliana ha compiuto molti passi per far progredire la condizione delle donne. Le donne hanno fatto progressi in diverse sfere della vita israeliana, come quella politica, quella economica, quella educativa, quella familiare e quella militare. 29 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno In Israele come nel resto del mondo, la violenza contro le donne è rimasta un problema nascosto, invisibile. Questa invisibilità era indubbiamente dettata da molteplici fattori: la mancanza di un potere femminile, in primo luogo, ma anche il fatto di essere talmente intrinseca alla quotidianità della vita delle donne da non venire avvertita come una problematica, ma piuttosto come elemento legato alla normalità quotidiana delle relazioni tra i generi, degna di richiamare l’allarme sociale e la necessità di sanzioni solo in caso di offesa dei codici di onore familiare. In Israele, inoltre, le problematiche legate a tematiche femminili e alla violenza sono strettamente collegate alla militarizzazione della società. La presenza imponente delle forze armate non genera un maggior senso di sicurezza, come si tenderebbe a pensare, ma induce un aumento del fenomeno della violenza di genere in famiglia. L’esposizione di giovani alla violenza durante il servizio militare li predispone all’uso della violenza che poi viene riprodotta anche nelle relazioni di genere e in famiglia. Il servizio militare da, infatti, agli uomini, e in particolare ai giovani, un senso di grande potere, che questi tendono ad esercitare verso i soggetti più deboli della società: non solo i palestinesi, ma anche le donne in quanto tali. L’intervento tenterà quindi di spiegare come la crescente militarizzazione del conflitto in Israele sottolinei l’esistenza di uno stretto rapporto tra militarismo e maschilismo in quanto i processi di militarizzazione dei territori e l’uso della forza tenderebbero a riprodurre la violenza a carico delle donne, legittimando sul versante privatistico il ricorso da parte dell’uomo a mezzi cruenti ogniqualvolta si ravvisi la necessità di riaffermare il proprio potere sulla donna. Panel 2 (AULA 12) Donne nel Medioevo arabo tra mito e realtà Paolo La Spisa (Coordina) – Lucia Sorbera (The University of Sydney, Discute) Il panel Donne nel medioevo arabo tra mito e realtà sarà incentrato sulla disamina delle immagini con le quali sono state rappresentate, nella letteratura araba medievale di adab e non, alcune figure femminili del mondo arabo pre‐islamico e islamico e del mondo arabo‐cristiano. Attraverso il ricorso alle categorie della moderna critica storico‐letteraria e storico‐filologica, e avvalendosi, in taluni casi, anche della prospettiva di genere, sarà proposta una ricostruzione del linguaggio storiografico e letterario generalmente utilizzato per la rappresentazione delle donne, ora vittime di una società androcratica, ora dotate di poteri soprannaturali, ora in diretto contatto col divino. Il panel sarà costituito da tre comunicazioni, intitolate Figure di donne nel Kitàb al‐aghani (Mirella Cassarino), Shaghab la regina cattiva (Letizia Osti) e Il corpo della donna da icona di resistenza a simbolo di moralità nella letteratura araba medievale (Paolo La Spisa), volte a descrivere e, soprattutto, a spiegare quel complesso di idee, leggi, pregiudizi, questioni religiose, meccanismi di carattere ideologico e di potere che hanno prodotto, nell’immaginario collettivo e in letteratura, narrazioni nelle quali è possibile intravedere, in filigrana, l’occhio di una scrittura quasi sempre “al maschile”. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla figura della profetessa Sajàh descritta nel Libro dei Canti (X secolo), o alla storia di Febronia, eroina‐martire protagonista dello Stratagemma della vergine nella versione di Abu al‐Makàrim (XII‐XIII sec.) o, ancora, a Shaghab, madre del califfo abbaside al‐Muqtadir (r. 295/908‐320/932), ritratta ora positivamente, ora negativamente, nelle fonti storiche e letterarie. In quest’ultimo caso, un’analisi delle fonti arabe, non solo di carattere storiografico, in un’ottica comparativa intratestuale e intertestuale, consentirà di analizzare la figura alla luce di altre biografie di donne influenti della stessa corte, ma appartenenti all’età dell’oro dell’impero. Le rappresentazioni storiche e mitologiche delle donne nella letteratura araba medievale ‐ sante o maledette, vittime o dominanti ‐ meritano di essere studiate proprio perché riflettono immagini e proiezioni culturali fortemente cariche di valori simbolici e ideologici. • Mirella Cassarino (Università di Catania), Figure di donne nel Kitàb al‐aghani (X sec.) La mia comunicazione è volta a presentare qualche riflessione aperta sulla rappresentazione di alcune figure di donne nel Kitàb al‐aghani (Il libro dei canti) del celebre antologista arabo Abu al‐ Faraj al‐Isfahani, vissuto nel X secolo. Lo scopo è quello di esaminare le strategie attraverso le quali, 30 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno nell’immaginario letterario arabo medievale, sono stati costruiti, tra realtà storica e mito, personaggi femminili dalle caratteristiche ora positive, ora negative. Si tratta, da un canto, di figure alle quali viene assegnato un ruolo decisamente passivo o di vittime e, dall’altro canto, di figure dotate di poteri particolari o di potere. Si pensi, per il primo caso, a Layla e Buthayna, obbligate a non sposare l’uomo amato in virtù del rispetto del codice tribale, o a Hind, ripudiata dal marito perché incapace di procreare e, per il secondo caso, a Zarqa’ al‐Yamama, lesbica dotata di una vista straordinaria che le consentiva di scorgere il nemico a miglia di distanza, o a Sajàh, che si autoproclamò profetessa in quanto convinta d’essere depositaria della rivelazione divina o, ancora, a Zabbà che fu capace di imprigionare il re dell’Iràq e di berne il sangue. Prendendo le mosse, da un punto di vista metodologico, dai numerosi studi generali di carattere teorico che affrontano la storia delle donne e di genere (bibliografia ampia in Wiesner, 2000), anche in prospettiva letteraria (per l’ambito arabo si veda, in particolare, Myrne, 2010), saranno messi in evidenza: a) alcuni processi di costruzione del linguaggio storiografico e letterario e di istituzionalizzazione androcentrica eventualmente connessi all’Islàm; b) i paradigmi culturali che giustificano queste rappresentazioni di donne in epoca preislamica e islamica. I detti aspetti saranno trattati nel loro intreccio con tematiche quali il rapporto fra soprannaturale e potere, femminile e divino, e con gli stereotipi legati tanto alla sessualità quanto al gender. • Paolo La Spisa (Università Giovanni Comenio‐Bratislava/Université catholique de Louvaine, Louvain‐la‐Neuve), Il corpo della donna da icona di resistenza a simbolo di moralità nella letteratura araba medievale Nella letteratura arabo‐cristiana, la donna appare come esempio di santità, sia essa madre o monaca. Lo stratagemma della vergine è un topos della letteratura religiosa di edificazione, dove viene narrata la storia di una monaca che preferisce darsi al martirio piuttosto che perdere la propria purezza per mano dell’infedele che la insidia. Per realizzare il proprio progetto, l’eroina convince il suo persecutore dell’esistenza di un farmaco di invulnerabilità. La leggenda riceverà successo anche nella letteratura europea del Rinascimento dove l’Ariosto ne sarà l’illustre trasmettitore, inserendo lo Stratagemma nel canto XXIX dell’Orlando Furioso. Senza voler ricostruire quei complessi passaggi di trasmissione, ricezione e rielaborazione del testo tra Oriente e Occidente, d’altronde già sceverati da Levi Della Vida (1940‐41, 1956) e Cerulli (1946), il presente contributo vuole riprendere un tema recentemente messo in luce da Stephen J. Davis (2010). Ovvero quello del corpo della donna come simbolo di resistenza non violenta di fronte all’invasione straniera da una parte e di valori morali condivisi dall’altra. Per far ciò verranno analizzate le seguenti recensioni egiziane della leggenda: 1) Storia dei Patriarchi di Alessandria (XI sec.) 2) Abū l‐Makārim, Storia delle chiese e dei monasteri in Egitto (XII‐XIII sec.) 3) Ğirğis al‐Makīn, Mağmū‘ al‐mubārak (XIII sec.) 4) Miracoli di San Giulio di Aqfahs ‐ versione etiopica fatta su testo arabo inedito ‐ (XIV sec.) 5) al‐Maqrīzī, Mawā'iz wa‐al‐i'tibār fī dhikr al‐khitat wa‐al‐āthār (XIV‐XV sec.) 6) Ibn al‐Subkī, Ibn al‐Subkī, Tabaqāt al‐Šāfīyya (XIV sec.). L’appropriazione e adattamento del testo durante il compleso percorso della sua trasmissione, ha un grande ruolo nel processo di formulazione di un’identità in costante relazione col passato e il presente. In al‐Maqrīzī è possibile osservare come il simbolo di resistenza di una minoranza religiosa diviene modello di consenso sociale e accordo morale della maggioranza. Il corpo della donna è usato quindi ora per riscrivere e rielaborare la storia della Chiesa copta nel suo complesso rapporto col dominatore musulmano, ora per costruire una comune identità culturale araba nel contesto della società islamica medievale. • Letizia Osti (Università di Milano), Shaghab, la regina cattiva Le due figure femminili che sovrastano il panorama storico‐letterario dell’epoca ‘abbaside sono entrambi connesse alla figura maschile a sua volta più prominente, il califfo Hārūn al‐Rashīd (r. 170‐ 786‐193/809). Khayzurān, la madre, e Zubayda, la moglie prediletta, occupano un posto privilegiato sia nella letteratura di adab che in quella popolare delle Mille e una notte, come paradigmi delle 31 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno qualità proprie di una regina: generosità, opere pie, eleganza, e potere. Negli anni ’40 del Novecento, la monografia di Nabia Abbott, Two Queens of Baghdad. Mother and Wife of Hārūn Al‐Rashīd (Chicago: University of Chicago Press, 1946), organizza il materiale storico‐letterario su questi due personaggi in una doppia biografia che ne sottolinea l’importanza. In questa relazione ci si propone di prendere in esame il materiale storico‐letterario su una terza regina, Shaghab, madre al‐Muqtadir (r. 295/908‐320/932), con il cui califfato si identifica convenzionalmente l’inizio del declino ‘abbaside. Le fonti attribuiscono a Shaghab diverse delle qualità positive proprie alla sua posizione, ma allo stesso tempo le addossano anche molta della responsabilità per la rovina militare ed economica che contraddistingue il califfato del figlio che, salito al trono a soli tredici anni, ne è completamente succube. Attraverso l’analisi puntuale di alcuni khabar, si cercherà di ricostruire un ritratto di Shaghab che tenga conto degli atteggiamenti e fini diversi delle fonti che la descrivono, contrastandolo con quello delle più illustri colleghe Khayzurān e Zubayda. Panel 3 (AULA 13) Nazionalismo, religione e colonialismo. L'evoluzione del Medio Oriente e dei modelli politici regionali: fattori esogeni ed endogeni di cambiamento (aula 14) Marco Di Donato (Coordina) – Elisa Giunchi (Università di Milano, Discute) In un momento storico così attento alla pressante attualità medio orientale, rispetto agli eventi che drammaticamente sconvolgono una regione che negli ultimi anni, escludendo il conflitto israelo‐ palestinese, ben poco aveva da consegnare alle cronache degli storici contemporanei, in una regione dove i sentimenti popolari sono spesse volte legati alla religione, e nello specifico all’Islam, appare opportuno provare a chiarificare alcuni punti fondamentali per l’attuale e passata comprensione delle dinamiche interne e con l’esterno di una realtà sociale, politica e geografica estremamente ricca e complessa. Il Panel di discussione che s’intende presentare verterà proprio su quei punti maggiormente dibattuti all’interno delle cronache più attuali e contemporanee, ma che allo stesso tempo hanno una validità storica di lunga scadenza e possono dunque risultare propedeutici alla comprensione di quanto oggi avviene, ma soprattutto potrebbe accadere, nel Vicino e Medio Oriente. Nell’idea di partenza il Panel si suddividerà in cinque interventi divisi fra di loro, ma legati tanto dalla strettissima attualità quanto dalla rilevanza di ogni singolo argomento nei confronti sia della regione geografica che della confessione islamica. • Marco Di Donato (Università degli Studi di Genova), Islam e Nazionalismo analisi di un rapporto fra passato, presente e futuro Questo intervento, come può facilmente evincersi dal titolo stesso, si occuperà di analizzare il controverso rapporto fra religione islamica e nazionalismo, con una particolare attenzione agli attuali drammatici eventi che attraversano il mondo arabo. Due termini Islam e Nazionalismo che, apparentemente agli antipodi, oggi si coniugano attraverso una perfetta e precisa commistione. Specialmente se osserviamo alcune realtà islamiche legate ai Fratelli Musulmani o al Partito di Dio libanese di Hezbollah, non si può non notare come Islam e Nazionalismo siano divenuti due concetti sovrapposti, simili, in alcuni casi del tutto coincidenti. Abbandonato il pan‐islamismo di fine '800 ed inizio '900, tali movimenti hanno utilizzato l'Islam come religione rivoluzionaria che fungesse da elemento di liberazione nazionale e che allo stesso tempo risultasse la base di partenza per la costruzione di una nuova nazione. Nazione è la parola chiave. Il termine che ci permette di rivalutare il rapporto fra religione islamica ed un concetto tutto occidentale. Un concetto ideologico per lungo tempo avulso dall'orizzonte di riferimento islamico, ma che nella storia contemporanea post coloniale ha assunto un ruolo di estremo rilievo. I Fratelli Musulmani in Egitto, Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, sono tutti validi esempi di come e quanto la religione islamica sia divenuta strumento privilegiato per creare un programma a livello nazionale, un jihad politico, ed il alcuni casi anche armato, che ponesse la nazione come primo ed unico obiettivo. Se Michael Freeden osservava come il nazionalismo sia un'ideologia sottile che può accompagnarsi a differenti altre ideologie, allora possiamo affermare che l'onnicomprensiva struttura islamica ha assimilato tale 32 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno concetto facendolo a tutti gli effetti proprio. Un'assimilazione resa ancor più evidente dall'analisi di un elemento apparentemente estraneo come quello del martirio, dove il sacrificio di sé diviene massima espressione per la lotta di liberazione nazionale. Il corpo dell'uomo, seguendo l'esempio proposto da Farhad Khrosovahar, diviene tutt'uno con il corpo della nazione il cui smembramento ideologico diviene drammaticamente pratico e reale nell'atto del suicidio violento. Non è allora un caso che l'ondata di rivolte del mondo arabo sia nata proprio dal sacrificio di un giovane tunisino. La partecipazione elettorale, le logiche di confronto parlamentare, la redazione di un programma politico attento alla realtà locale e nazionale, vanno ancora a confortare l'ipotesi esposta dimostrando come questi movimenti, queste organizzazioni, questi partiti abbiano assunto una dimensione primariamente nazionale divenendo realtà post‐islamiche, dove l'elemento religioso si accompagna ad un respiro nazionalista apparentemente inconciliabile per la natura stessa dell'Islam. Resta tuttavia da sciogliere quell'ambiguità di fondo relativa alla gestione del potere, ambiguità che si è resa palese ad esempio in Egitto dove l'attuale posizione dei Fratelli Musulmani resta ancora tutta da interpretare alla luce della rivolta di Piazza Tahrir. Resta ancora da comprendere, come suggeriscono le rivolte in Egitto e Tunisia, se oltre alle forze islamiche ci siano altri attori politici in grado di catalizzare i malcontenti popolari e dare voce alle istanze di quanti sono stati finora esclusi dalla gestione del potere. Resta infine tutta da confutare l'ipotesi di Oliver Roy il quale definendo i moti di rivolta egiziani e tunisini con il termine post‐islamic revolution, sembra già aver relegato in secondo piano l'elemento islamico nel Medio Oriente che verrà. • Ludovico Carlino (Universidad Rey Juan Carlos, Madrid), Al Qaeda ed il fallimento dell’idea di Califfato Islamico universale Il ragionamento proposto nel primo intervento differisce in maniera sostanziale dal nostro secondo spunto di riflessione proposto da Ludovico Carlino, di una realtà prettamente transnazionale come al‐Qaeda. Le prospettive aperte dalle sollevazioni popolari che da settimane stanno scuotendo il mondo arabo appaiono ancora estremamente incerte. In un momento storico di rilevanza fondamentale è tuttavia evidente come i gruppi jihadisti e salafiti che ruotano attorno l’orbita di al‐Qaeda siano rimasti del tutto estranei all’ondata rivoluzionaria che sta alterando gli equilibri della regione. In questo contesto la stessa ideologia jihadista potrebbe ora perdere uno dei tasselli chiave del suo armamentario ideologico: solo il Jihad armato e la lotta per il Califfato universale possono portare ad una caduta dei regimi arabi autocratici. A ben vedere l’inconciliabile contrapposizione tra le istanze democratiche alla base delle recenti sollevazioni e una ideologia, quella qaedista, che qualifica la democrazia un’invenzione occidentale e pertanto non conciliabile con l’Islam, ripresenta tensioni che già in passato avevano minato alla base la portata del massaggio jihadista‐salafita. Dalla sua nascita, datata all’incirca 1988, al‐Qaeda ha subito una naturale evoluzione nella sua ideologia e nei suoi obiettivi, una circostanza che ha risposto sostanzialmente alla necessità di adattarsi alle differenti circostanze createsi nel corso degli anni. Ciò che d’immutato è rimasto è stata tuttavia l'idea di portare avanti una lotta transnazionale, in grado di superare le specificità nazionali del Mondo Arabo con il fine ultimo di istituire un Califfato universale pan‐ islamico. Con questo obiettivo in mente al‐Qaeda ha tentato di avvicinarsi a movimenti islamisti locali considerati eretici rispetto alle proprie pratiche, ma in grado di garantire infrastrutture, appoggio e rifugi sicuri. Un contatto che tuttavia ha reso particolarmente evidente l’impossibilità di coniugare a priori la battaglia che al‐Qeada pretende di portare avanti, un Jihad globale in difesa del mondo musulmano offeso dagli infedeli “Crociati e Sionisti”, con i differenti obiettivi dei movimenti di resistenza islamisti mossi tuttavia da fini sostanzialmente nazionalisti. Questi movimenti, pur utilizzando un linguaggio religioso, si sono impegnati nella lotta armata sulla base di obiettivi politici ben delimitati e delineati, chiaramente differenti rispetto a quelli di un'organizzazione priva a ben vedere di qualsiasi orizzonte politico realizzabile. In questo contesto possono quindi leggersi le tensioni tra al‐Qaeda ed organizzazioni come Hamas o i sunniti Consigli del Risveglio iracheni, dove l'utopistico obiettivo di riunire la Ummah intera sotto la bandiera di un nuovo Califfato Islamico improntato ai dettami di un neo‐salafismo scritturale si è scontrato apertamente con realtà differenti e movimenti disposti ad inserirsi nel gioco democratico secondo regole prettamente occidentali. Allo stesso tempo diventa ancora più evidente come nelle circostanze attuali non sia stata l’avanguardia rivoluzionaria jihadista tanto decantata da Al‐Zawahyri e Bin Laden a guidare il risveglio delle masse musulmane, piuttosto lo è stato il desiderio di libertà, di cambiamento e di democrazia. Nonostante la propaganda di al‐Qaeda abbia tentato di presentare l’attuale sollevazione come una rivoluzione ispirata e alimentate dalle idee jihadiste, le bandiere del Jihad sono state 33 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno soppiantate da quelle nazionali preannunciando in tal modo il fallimento dell’idea di Califfato Universale. • Pietro Longo (Università di Napoli l'Orientale), Le rivolte Arabe ed il Dirotto Pubblico: verso un nuovo Costituzionalismo ideologico? Le rivolte che oggi attraversano e scuotono le coscienze del mondo arabo sembrano allora scaturire, se non da al‐Qaeda e dai Fratelli Musulmani, da quelle precise e puntuali istanze di libertà, giustizia ed uguaglianza che i popoli arabi hanno chiesto a gran voce dal centro delle loro piazze. Una riforma di un intero sistema che passa necessariamente da un riadattamento, vero o presunto sarà interessante osservarlo, dei testi costituzionali attualmente alla base dei sistemi di potere. Questo terzo articolo, a firma di Pietro Longo, prende allora spunto dagli episodi di scottante attualità, relativi alla propagazione di una “ondata rivoluzionaria attraverso tutto il mondo arabo‐ islamico, ed alle conseguenze prodotte fino ad ora nel campo del diritto pubblico “islamico” con una particolare attenzione ad un paese chiave: l’Egitto. Il punto di partenza è la chiave di lettura fornita da uno dei massimi studiosi del fenomeno del Costituzionalismo Islamico, S. A. Arjomand nell’articolo intitolato Islamic Constitutionalism. Qui lo studioso postula l’avvicendarsi di tre ondate di costituzionalizzazione che hanno interessato tutta l’area islamica a partire dalla seconda metà del XIX secolo. La prima fase, detta in modo emblematico di costituzionalismo liberale, ha avuto inizio nella Dawla ottomana attraverso l’adozione delle prime Costituzioni come quella Tunisina del 1861 e quella ottomana del 1867. Questa prima fase ha visto l’assorbimento dall’occidente degli strumenti tecnici atti a rendere responsabili dinnanzi alla comunità i rispettivi governi. La seconda ondata ha interessato la umma successivamente al secondo dopoguerra ed è definito in termini di Costituzionalismo ideologico dal momento che i suoi fautori, come al‐Mawdudi, Muhammad Asad ed altri, dichiaratamente postulavano la superiorità dei principi islamici di governo rispetto a quelli occidentali del Costituzionalismo democratico. Ne consegue che costoro affermavano a gran voce la necessità di applicare de jure il principio della sovranità di Dio. Infine la terza corrente, sviluppatasi sul finire del secolo passato, si ritiene abbia abiurato la centralità del carattere ideologico ed abbia ribadito il necessario ritorno all’idea di rule of law. Per questi motivi, detta corrente viene definita come post‐ ideologica nonostante si sia nutrita soprattutto della speculazione di intellettuali musulmani viventi come Yusuf al‐Qaradawi, Tariq al‐Bishri e Muhammad Salim al‐‘Awwa. Costoro, fautori di un pensiero cosiddetto “islamico moderato” hanno tentato una mediazione tra i due approcci precedenti, proponendo la sostanziale uniformità dei principi di governo occidentali e quelli islamici e dunque soluzioni pratiche legate all’applicazione del principio della sovranità di Dio, sottoforma della cosiddetta “confessional clause” e del ruolo delle corti nella veste di giudici delle leggi, strappando questa funzione agli ‘ulama’. Ma se questo è il punto di partenza, l’ondata rivoluzionaria tutt’ora in corso sembra promettere l’apertura di una nuova fase della quale ancora sono oscuri gli esiti. Nel caso egiziano sembrerebbe palesarsi la possibilità, nell’immediato futuro, per l’adozione di emendamenti costituzionali, se non addirittura per l’inaugurazione di un nuovo processo costituente, che rileverà soprattutto, almeno nelle promesse propagandistiche del governo transitorio, sotto il profilo della liberalizzazione del sistema politico. Se quindi appare bene spianata la strada che conduce al rafforzamento degli istituti di “accountability” degli organi esecutivi e di quelli di “checks and balances” tra i poteri, tuttavia si pone l’interrogativo di come precise forze politiche e sociali islamiche possano inserirsi in questo contesto, palesando quindi anche un ritorno del discorso ideologico. Ciò potrebbe produrre importanti novità nella nuova Costituzione del paese in esame, non solo sotto il profilo delle fonti generali del diritto dei rispettivi ordinamenti ma anche, e forse soprattutto, nella creazione o nel rafforzamento, laddove esistenti, di dispositivi di controllo della “islamicità” degli atti normativi. Lo studio si concentrerà pertanto sull’analisi della Carta fondamentale interinale adottata dalla giunta militare egiziana, tradotta per l’occasione in lingua italiana. • Stefano Torelli (Università di Roma, La Sapienza), Il modello della Turchia in prospettiva storica: le differenze con il mondo arabo. Ma allora sorge spontaneo chiedersi: esiste una risposta endogena agli attuali eventi in grado di catalizzare la forza propulsiva degli stessi non lasciando che il vento delle rivolte arabe si disperda senza aver raggiunto i risultati prefissati? Alcuni indicano nella Turchia una possibile risposta e 34 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Stefano Torelli si occuperà di analizzare le dinamiche che sono alla base del cosiddetto modello turco. Negli ultimi mesi, a seguito della campagna di rivolte che potrebbe cambiare la fisionomia di alcuni assetti politici e istituzionali nel mondo arabo, più volte è stato chiamato in causa il cosiddetto “modello turco”, quale esempio da seguire per realtà come la Tunisia, l’Egitto e altri Paesi mediorientali. Se da un lato il richiamo alla Turchia può essere indubbiamente letto come un implicito riconoscimento agli sforzi compiuti da questo Paese nel corso degli ultimi decenni verso un sistema pluralistico e democratico che includa anche l’anima dell’Islam politico, è tuttavia necessario ripercorrere la nascita di tale modello e delinearne alcune caratteristiche, anche dal punto di vista storico, che in parte differiscono con quelle strutturali dei Paesi arabi. Dagli anni Ottanta in poi, in concomitanza con l’apertura della politica turca alla società civile e al processo di democratizzazione intrapreso in Turchia, che ha preso piede un altro tipo di nazionalismo, non soltanto basato sull’eredità kemalista, ma sui valori della cultura musulmana, cui appartiene la quasi totalità della popolazione turca. La nascita di movimenti ispirati all’Islam politico ha, da un lato, fornito un’alternativa al rigido secolarismo e al “nazionalismo etnico” della Turchia post‐imperiale e, dall’altro ha contribuito a creare lo spazio necessario per l’instaurazione di un nuovo tipo di rapporto tra la Turchia e il mondo arabo. Il modello del cosiddetto “Islam turco” ha saputo coniugare i valori dell’Islam, quelli della cultura turca e le condizioni ambientali della globalizzazione e del libero mercato. In questo modo, tale modello è riuscito a dialogare anche con il mondo arabo, superando le divergenze nazionaliste che hanno separato questi due mondi per più di 60 anni. Si tratta di un primo passo verso un maggiore dialogo reciproco, ma lo stesso mondo arabo è attualmente in una fase di transizione che è soltanto allo stato embrionale e l’esempio della Turchia potrebbe essere replicato soltanto a condizione che si inneschino i meccanismi che, negli anni Ottanta, hanno portato tutte le realtà della società civile e politica a partecipare alla vita pubblica. Tale discorso è valido non solo per ciò che concerne l’Islam politico, ma più in generale tutte le anime della vita sociale dei Paesi coinvolti. Ne risulterà come non si possa parlare in maniera semplicistica di modello turco riferendosi esclusivamente all’aspetto dell’Islam politico e alla sua convivenza con un sistema democratico, in quanto il cammino intrapreso dalla Turchia è più complesso e articolato rispetto a quello, appena intrapreso, da alcune realtà arabe in Medio Oriente. • Simone Comi (Università di Milano), Gli Stati Uniti in Medio Oriente: presenza ingombrante o elemento di stabilizzazione? Quando si parla di Medio Oriente, una riflessione tutt'altro che marginale si dovrebbe anche avere sul ruolo degli Stati Uniti ed i loro interessi nella regione. Fin dagli albori della Guerra Fredda, la Casa Bianca ha infatti cercato di preservare o creare e, comunque, gestire, i precari equilibri politici e strategici di un' area spesso dilaniata da profonde crisi. Le relazioni tra la maggior parte dei paesi della fascia mediorientale e gli Stati Uniti hanno attraversato fasi alterne, mantenendo per molti anni un andamento curvilineo, la cui parabola è stata spesse volte condizionata dall’avvicendarsi alla Casa Bianca di governi e uomini politici provenienti da schieramenti opposti. Il tentativo di contenere il nazionalismo arabo e il pan‐islamismo, fenomeni potenzialmente in grado di mettere in discussione l’influenza e gli interessi statunitensi nell’area, può essere considerato uno dei pochi punti di convergenza tra le iniziative di leadership spesso agli antipodi per il differente approccio alle questioni mediorientali e per i rapporti con alleati e avversari. Fatta questa fondamentale premessa, in quest’ultimo intervento, a cura di Simone Comi, verrà quindi tratteggiata, seppur brevemente, la politica estera statunitense per il Medio Oriente dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Si cercherà, inoltre, di analizzare la possibile ridefinizione dei rapporti tra gli Stati Uniti e i paesi dell'area mediorientale dopo le rivolte che hanno investito il Maghreb negli ultimi mesi, tentando al contempo di delineare quello che potrebbe essere il futuro approccio dell'esecutivo di Washington alle questioni che riguardano una regione che pare essere destinata a dover vivere un futuro tanto simile al suo tragico passato. Gli Stati Uniti e il Medio Oriente: una presenza ingombrante o un elemento in grado di favorire la stabilizzazione di un'area storicamente dilaniata da dispute e conflitti? 35 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Panel 4 (AULA 16) Note e riflessioni sull’orientalismo italiano Stefano Minetti e Marco Demichelis (Coordinano) – Gabriele Proglio (Università di Torino, Discute) Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia è essenziale sottolineare come, anche grazie al processo risorgimentale, si sia giunti a poter delineare e trattare di una scuola orientalistica italiana, in quanto espressione di uno studio accademico approfondito su un’area geografica che non ha visto l’Italia, tranne che per la Tripolitania‐Cirenaica e il Dodecaneso, giocare un ruolo da potenza coloniale. È quindi oltremodo importante riscoprire il ruolo e l’impatto che l’Orientalismo italiano ha conseguito nel nostro paese, ma anche all’estero, rimarcando alcuni aspetti fondamentali di questa corrente: un’analisi tematica e metodologica, la relazione con il nazionalismo e colonialismo italiano tra anti‐fascismo e filo‐fascismo, il ruolo dell’Orientalismo italiano d’ispirazione cristiana nel pensiero di alcuni suoi stimati esponenti. Questi approfondimenti non hanno l’intenzione di promuovere un’analisi apologetica di una realtà accademica italiana d’eccellenza che ha saputo mostrare alcuni dei più importanti studiosi e testi della storia dell’Orientalismo mondiale o che acquisì enorme rilevanza per le famose lezioni tenute da Nallino, Santillana, Guidi presso centri accademici stranieri, soprattutto in Egitto. Questo panel vuole sottolineare l’Orientalismo italiano in quanto sintomatico di una importante capacità di studio umanistico della nostra accademia che in alcuni casi ha compiuto errori grossolani sposando il Fascismo. • Marco Demichelis (Università di Torino), L’Orientalismo Italiano tra colonialismo e cultura. Anti‐fascismo, propensione verso il regime o semplicemente, Orientalismo? Questo paper si propone di analizzare sinteticamente l’Orientalismo Italiano all’interno di un percorso storico‐critico che interpreti l’atteggiamento ed il comportamento di alcuni illustri accademici, in relazione al colonialismo del nostro paese in Tripolitania e Cirenaica, in Corno d’Africa e all’insegnamento della storia e della cultura islamica in Egitto, all’inizio del XX secolo. Lo studio in questione intende approfondire prima di tutto alcune tra le diverse personalità dell’Orientalismo Italiano, distinguendole proprio in base alla loro propensione nazionalistica prima e fascista in seguito, in maniera concisa, da un Caetani e Levi della Vida ad un Cerulli. Successivamente è rilevante esaminare l’impatto economico‐politico che il colonialismo italiano ebbe nel favorire l’emergere di una vera e propria scuola orientalistica in seguito al processo di unità nazionale e al tardo tentativo del nostro paese di occupare domini extra‐europei. È infine interessante indagare, attraverso un’analisi di fonti primarie, l’approccio e l’impegno di alcuni autori, come Carlo Alfonso Nallino, Ignazio Guidi e il Santillana, che su richiesta del principe Fu’ad, vennero invitati ad insegnare nella capitale egiziana presso la Cairo University e al‐Azhar. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto è essenziale annoverare come, all’epoca, questa opportunità venne a concretizzarsi e in che modo impattò all’interno della Nahÿa di quel decennio. Come conclusione sarebbe stimolante riproporre la controversia degli anni ’60, apparsa sulla rivista Diogenes, tra il Gabrieli e Anouar Abdel‐ Malek e che, in anticipo su Orientalismo di Edward Said, riproponeva un dibattito metodologico e di contenuto nell’ambito dell’Orientalismo contemporaneo. • Stefano Minetti (Università Cattolica di Milano), Gli orientalisti italiani: interessi e aspetti metodologici. L’Italia ha vantato, nel corso del ‘900, una grande tradizione di studi orientali e mediorientali, annoverando tra i propri studiosi alcuni dei più celebri arabisti ed orientalisti dell’epoca: Gabrieli, Nallino, Levi della Vida, eccetera. L’epoca di questi gloriosi studi sembra essersi, per diversi motivi, conclusa: ridotto il numero di pubblicazioni di grande rilievo accademico; scarse le traduzioni in italiano di classici della cultura arabo islamica; scarso – più in generale – l’interesse del grande pubblico per il Medio Oriente e per la cultura arabo islamica. 36 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Pur essendoci ancora studiosi di grande levatura in Italia, sembra essere venuto meno l’interesse generale per la materia o, forse, è cambiato il contesto culturale in cui radicano questo tipo di studi. A partire da E. Said e dalla critica dei cultural studies, che significato ha oggi studiare l’arabo e l’islam? È possibile rintracciare nei maestri dell’orientalistica italiana del ‘900 una matrice culturale comune ed un metodo condiviso? Qualora esistesse un filo conduttore, rintracciabile nel metodo di costoro, si potrebbe ipotizzare una ragione o una serie di ragioni per il relativo disinteresse su questo settore di studi avvertibile nell’Italia contemporanea. Scopo di questo intervento non è di fornire una valutazione esaustiva degli aspetti metodologici dell’orientalistica italiana, quanto cercare di evidenziare delle linee di tendenza che agevolino la comprensione della situazione italiana attuale, rispetto ad altri paesi in cui l’interesse per il mondo arabo e l’islam sembra essere più forte. • Samir Khalil Samir SJ. (Pontificio Istituto Orientale, Roma), Gli studi arabi cristiani in Italia, ieri e oggi Gli studi arabi cristiani non sono una disciplina a sé: sono, piuttosto, un ramo degli studi arabi che risale al Medioevo. È pero notevole che i primi libri al mondo stampati con caratteri arabi siano stati dei libri arabi cristiani, stampati in Italia. Il primo fu un Orologio melchita (kitâb al‐sawâ’î), stampato a Fano nel 1514 per l’uso dei cristiani d’Oriente. Altri libri, in particolare la Bibbia, furono stampati per i cristiani, mentre libri di medicina e di filosofia araba furono stampati per gli orientalisti. Il ruolo dei missionari cattolici fu importante a questa tappa. La fondazione del Collegio Maronita di Roma, nel 1584, rilancia gli studi arabi cristiani e siriaci, accanto agli studi arabo islamici. Il grande monumento di letteratura siriaca ed araba cristiana è certamente la Bibliotheca Orientalis Clementino‐Vaticana di Yūsuf Sim’ān al‐Sim‘āni, pubblicata a Roma nella tipografia di Propaganda Fide in 4 volumi, grande in‐4°, tra il 1719 e il 1728. Molti orientalisti d’Europa si sono formati con i dotti maroniti. La terza tappa fu quella degli orientalisti italiani che nell’Ottocento e nel Novecento si interessarono alla produzione araba dei cristiani, in vari settori: storia, diritto, bibbia, teologia, filosofia, scienza, apologetica, letteratura, etc. Ci fermeremo più a lungo su questa fase, includendo i contemporanei, quali Ignazio Guidi, Enrico Gismondi, Carlo Alfonso Nallino, Giorgio Levi della Vida, Francesco Gabrieli, Cristina d’Ancona, Fabrizio Pennacchietti, Bartolomeo Pirone, etc. * * * * * 37 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Edificio U9 – Viale dell’Innovazione 10 Sabato 11 giugno SESSIONE 1: 9.00‐10.45 Panel 1 (AULA 2) A room of one own in contemporary Palestinian literature Rosella Dorigo (Università Ca’ Foscari, Venezia, Coordina), Mariaelena Paniconi, (Università di Macerata, Discute) • Dorit Gottesfeld (The Van Leer Institute, Jerusalem), 'Mirrors of strangeness': Contemporary Palestinian Women's Fiction in the West Bank and the Gaza Strip In the years following the first intifada (1987) and the Oslo Accords, a sense of despair and helplessness prevailed among the Palestinians led Palestinian women writers to begin focusing on the female experience. The changes that occurred in general Arab writing trends with the rise of literary modernism also sidelined political and social issues. Young Palestinian women writers from the West Bank and the Gaza Strip were those who continued to relatively emphasize the connection that between the woman’s problem and the national one, while adopting modern and postmodern writing techniques by which they depict their unique situation. My lecture will focus on the period which follows the Oslo Accords, through a thematic and stylistic analysis of the short stories which were written by three prominent young Palestinian women writers living in the West Bank and the Gaza Strip: Halah al‐Bakri, Amani al‐Junaydi and 'Aishah Udah. It will show how these young Palestinian women writers gaze as women (“others”) upon the reality of the dual oppression – colonial and patriarchal – within which they live, and portray their attempt to create an alternative version of reality and also of the past. It will show the various postmodern elements, which they introduce into their writing, with the woman and the reality of occupation serving as the source and inspiration for these uses. • Maria Holt (University of Westminster), Identity and Resistance. Narratives of Palestinian Women in Lebanon and the West Bank In the face of escalating hopelessness, in terms of living conditions and future prospects for peace and security, as well as the continuing Zionist project to delegitimize and obliterate their national identity, Palestinian women, as victims and active participants, adopt various modes of resistance to protect themselves and their children. They confront efforts to negate their identity through the construction and articulation of a national narrative. The Palestinian narrative, which is both personal and communal, takes many forms and is used to preserve the memory of 1948, as well as reminding the world that the Palestinian‐Israeli conflict remains unresolved. But it is also deployed to justify actions defined by others as unethical or illegitimate, such as the killing of Israeli civilians. The national narrative is invested with the power not only to subvert dominant meanings and religious discourses but, as well, to empower women to perform otherwise ‘unspeakable’ actions. Some scholars argue that women’s voices ‘differ significantly in form as well as content from dominant discourse’ (Gal 2002: 215) and I will test this hypothesis in the Palestinian case where violence has been a persistent theme and narrative tends to be a male construct. In 2006‐2007, I conducted research with Palestinian refugee women in Lebanon and with women, refugees and non‐ refugees, in the West Bank and, in this paper, I will discuss, firstly, how ways of enacting and narrating ‘resistance’ have changed over time; secondly, the role of women in constructing a national narrative to protect and celebrate their identity; and, thirdly, modes of resistance adopted by women, some of which challenge notions of ‘appropriate behaviour’. I will argue that, through their actions and their stories, women are expanding the boundaries of acceptable, but also unacceptable, behaviour; they are broadening understandings and methods of articulating ‘resistance’ but at what cost? 38 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno • Mahmoud Kayyal (Tel Aviv University), Language and Identity in Arabic Writings in Israel This paper examines the interaction between Arab Palestinian identity and the linguistic styles and characteristics of Arabic writings in Israel. The phenomenon of Hebrew linguistic interference in written Arabic is one of the prominent features in these writings. Such linguistic interference refers to Palestinian writers applying knowledge from Hebrew language to their written Arabic language. It can be assumed that the widespread interference of Hebrew in the spoken Arabic language in Israel, as a result of Israeli‐Palestinians’ integration in the Israeli society, can encourage Hebrew interference in written Arabic. In the same time the national identity of these Palestinians strengthens pure literary Arabic, especially on the background of the Arab‐Israeli conflict. Consequently, linguistic interference of Hebrew in Arabic writings in Israel has moved through three distinct stages: 1. Hesitancy stage (1948‐1967): there was limited interference resulted from the lack of knowledge of Hebrew language and from the desire to maintain the purity of the Arabic language. 2. Challenge stage (1967‐1982): there was increased interference, but this was most likely to challenge the dominance of the Hebrew language and its political discourse. 3. Bilingualism stage (after 1982): the interference has become more complex and sophisticated as a result of increased skillfulness of the Hebrew language. Finally, it should be noted that this phenomenon of Hebrew interference in written Arabic is no longer limited to the Israeli‐Palestinian writings, but also emerging in the writings of Palestinian intellectuals from the diaspora and the West Bank and Gaza Strip, who mainly reflect the lingual situation under the Israeli occupation. So, maybe it is not exaggerating if we say that Hebrew interference has become one of the hallmarks of the Palestinian literature in general. Panel 2 (AULA 12) Mondi di vita e appartenenza religiosa: prospettive etnografiche su soggettività ed Islam Paola Abenante, Daniele Cantini (Coordinano) ‐ Mauro Van Aken (Università Milano Bicocca), Domenico Copertino (Università di Milano Bicocca, Discutono). Il rapporto tra popolo e nazione, così come il rapporto tra memoria e identità, in Medio Oriente e nelle società a maggioranza musulmana è senza dubbio grandemente mediato dal ruolo della religione nella sfera pubblica e in quella privata. Se l’aspetto più pubblico e politico in senso ampio dell’identità islamica è stato molto studiato, i signficati etici, individuali e quotidiani di questa identità politica e religiosa, lo sono stati molto meno, almeno fino a pochi anni fa. Coniugando il concetto di tradizione discorsiva di T. Asad con l’analisi delle tecnologie del sé di M. Foucault, le ricerche di S. Mahmood e C. Hirschkind hanno segnato una svolta nel dibattito negli studi sull’islam, riportando l’attenzione proprio su questa dimensione etica, esplorando cosa significa per i singoli individui essere e agire come musulmani virtuosi. Questi studi, apparsi per lo più negli ultimi dieci anni, hanno concentrato l’attenzione della ricerca al livello delle pratiche, cercando di rendere conto delle esperienze e delle voci delle persone che vivono la sahwa al‐islamiya (il revival islamico, o risveglio islamico) nel quotidiano. Concentrandosi in particolare sui processi di disciplina corporei, Mahmood e Hirschkind hanno descritto i modi in cui gli individui si impegnano quotidianamente nell’azione di riforma delle proprie sensibilità, dei propri sensi e dei codici di comportamento, per agire in qualità di musulmani virtuosi, e hanno descritto come questa dimensione etica ed individuale sia alla base di orientamenti politici in senso più ampio. Allo stesso tempo all’interno di questo spazio di dibattito sulla soggettività e l’Islam, alcuni ricercatori (tra i quali G. Gregg, S. Pandolfo, K. Nieuwkerk, S. Schielke) hanno recentemente discusso i limiti di tale approccio incentrato sulla formazione dei “soggetti musulmani” nei termini della loro tradizione discorsiva – ovvero nei termini delle loro proprie credenze e pratiche circa il modo corretto di essere musulmani. Benché essenziale per evidenziare la dimensione individuale ed etica dell’identità religiosa, quest’analisi, proprio perché attenta a ricostruire la coerenza e la ragion d’essere delle discipline e delle pratiche religiose, non rende giustizia alla complessità della 39 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno soggettività e alla singolarità dei mondi‐della‐vita (Lebenswelten). Per non cadere nel rischio di “essenzializzare” la ‘cultura della virtù’ come nuovo paradigma culturale e di analisi delle società a maggioranza musulmana, gli studi più recenti invitano a rendere conto di quali siano le difficoltà materiali, morali e contingenti che gli individui incontrano nel perseguire il loro ideale di virtù, e allo stesso tempo invitano a esplorare i modi in cui le persone affiancano, sovrappongono e intrecciano questo ideale con diverse appartenenze, molteplici affiliazioni ed aspirazioni non necessariamente legati all’esperienza religiosa – personali, familiari, economiche, sociali etc. Il tentativo è quello di mettere in luce i modi in cui i singoli individui vivono la propria vita coniugando diverse appartenenze, e come questo processo contribuisca alla comprensione della politica quotidiana delle identità religiose. In questa prospettiva ritorna ad essere centrale un’analisi dettagliata del contesto all’interno del quale le persone vivono e mettono in pratica i loro ideali, nella sua storicità e nella sua contingenza. L’intento di questo panel è di approfondire questi diversi sguardi sulla formazione della soggettività e Islam, attraverso contributi incentrati su contesti etnografici diversi sia per dimensioni che per tipologia. Invitiamo quindi etnografie locali oppure multi‐locali incentrate sulle dinamiche generate dai contesti di emigrazione, con particolare riferimento a contesti migratori nel nostro paese o in altri paesi europei; o ancora contesti transnazionali, nei quali i riferimenti costitutivi delle diverse soggettività riguardino ambiti e provenienze diversi; etnografie che si concentrino su associazioni religiose o culturali, gruppi di individui legati dalla comune appartenenza a qualche istituzione, o anche su singoli individui. I contesti presi in esame dalle ricercatrici e dai ricercatori che presentano alcuni dei loro lavori nel panel sono molteplici, dall’Egitto alla Turchia, dalla Malesia alla Giordania e all’Italia, dalle confraternite sufi a gruppi religiosi, dagli abitanti di villaggi agli studenti universitari, con una forte attenzione alle dinamiche transnazionali che contribuiscono a rendere maggiormente complessa la costruzione dell’identità e dell’appartenenza religiosa e politica all’interno di mondi‐della‐vita sempre più complessi e frammentari. Particolarmente importante, a nostro avviso, è mettere in evidenza la costituzione del materiale etnografico, rendendo espliciti i contesti e le metodologie di ricerca, al fine di rendere comparabili i contributi e le diverse prospettive che verranno indicate. Per rendere conto della molteplicità di piani su cui si articola la soggettività, siamo infatti interessati ad accogliere una pluralità di approcci metodologici. Invitiamo ad esempio le etnografie a rendere conto dei diversi registri discorsivi messi in gioco dagli individui per identificarsi in maniere contestuali, strategiche e talvolta apparentemente contraddittorie, ma anche ad esplorare la dimensione esistenziale dell’esperienza religiosa, analizzando i mondi‐della‐vita che si articolano all’interno e attraverso le pratiche e i concetti religiosi. Spesso il vocabolario religioso e le pratiche religiose infatti forniscono agli individui un orizzonte etico all’interno del quale trovare un senso a esperienze altrimenti alienanti; in altri casi, attraverso differenti esperienze quotidiane gli individui riconfigurano in maniera soggettiva e contestuale questi stessi concetti religiosi. • Paola Abenante (University of Bergen), Vivere l’Islam in migrazione: corpi e pratiche rituali in movimento Nell’intento di descrivere le dimensioni soggettive ed esistenziali dell’Islam, in questo contributo esploro gli usi e i significati che Nasser, un maestro sufi egiziano, attribuisce alle sue credenze e pratiche religiose nella vita quotidiana. In particolare descrivo come, attraverso le nozioni mistiche di zahir/esteriore‐contingente e batin/interiore‐spirituale, Nasser dia senso ai suoi continui movimenti migratori dal Cairo a Bagdad, fino ad arrivare in Europa e come, attraverso le pratiche rituali, riconfiguri la sua soggettività provata dalle esperienze di marginalizzazione ed esclusione. Questa prospettiva esistenziale sulla religione mi permette, allo stesso tempo, di mettere evidenza la creatività del mio interlocutore nei confronti della sua tradizione religiosa e di mostrare, più in generale, le piccole e spesso inconsapevoli, sebbene continue, variazioni quotidiane che gli individui apportano alle cosmologie e alle pratiche religiose da cui le loro soggettività sono informate. 40 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno • Daniele Cantini (Martin‐Luther‐Universitaet Halle‐Wittenberg/ Università di Modena e Reggio Emilia), L’università e la formazione della soggettività e dell’appartenenza religiosa: un caso studio da Amman, Giordania In questo intervento mi propongo di presentare le condizioni di vita degli studenti universitari all’università della Giordania (al‐jami´a al‐urduniyya) ad Amman, allo scopo di mostrare come la costruzione della loro soggettività e delle loro molteplici appartenenze – anche se in questa sede mi occuperò principalmente della loro appartenenza religiosa – siano influenzate e spesso determinate dal contesto nel quale si trovano a vivere gli anni decisivi per la loro formazione. Mi occupo qui in particolare di studenti che non appartengono a gruppi religiosi organizzati, e che non possono essere caratterizzati né come secolaristi né come islamisti, ma che al contrario presentano un´interessante combinazione di influenze differenti, dagli influssi commerciali e non del sistema‐mondo ai richiami della religione musulmana, ma anche degli stili di vita propri degli studenti universitari in molte aree del mondo, oltre che alle limitazioni – politiche, economiche, sociali – proprie del contesto. Scopo di questa analisi è mostrare cosa significhi essere giovane e musulmano nella Giordania odierna, in particolare per la gioventù urbana ed educata, anche se non necessariamente di classe sociale elevata, avendo un´attenzione particolare per categorie raramente studiate, quali quella dei giovani studenti non inquadrati politicamente o religiosamente. Basandomi sui dati raccolti nel corso della mia ricerca di campo cercherò dunque di mostrare come il contesto dell´educazione superiore in Giordania e ad Amman in particolare influenzi in maniera decisiva le autorappresentazioni degli studenti universitari e in particolare le loro soggettività, prima di addentrarmi nella descrizione di alcune storie di vita attraverso le quali penso divengano più comprensibili i processi di formazione della soggettività e dell´appartenenza religiosa, la loro complessità e la relazione con il contesto e le dinamiche di potere locali ed internazionali. • Laura Menin (Università di Milano Bicocca), Corpi, confini e desideri. Micro‐politiche delle modernità e soggettività di genere fra le giovani donne musulmane a Milano Nell’ultimo decennio, le donne musulmane sono state al centro dell’attenzione dei media ‘Occidentali’ e dei sui discorsi pubblici che le hanno spesso costruite come vittime passive o soggetti da emancipare. Intorno a questa immagine spesso si dibatte dei corpi delle donne, delle libertà femminili e delle forme di religiosità. Il mio intervento esplora la nozione di modernità come esperienza vissuta e incorporata analizzando le differenti pratiche religiose e le posizione soggettive che alcune giovani donne nate e cresciute a Milano dall’infanzia articolano nella loro vita quotidiana. Le mie riflessioni si basano su una ricerca etnografica svolta a Milano (2005‐2006) fra alcune giovani donne musulmane di diversa provenienza geografica, classe sociale e appartenenza culturale. Nell’esplorare gli immaginari di genere e i vissuti religiosi delle giovani donne che ho incontrato, seguo la prospettiva tracciata da studiose impegnate ad ampliare l’analisi delle nozioni di soggettività e agentività oltre le categorie di subordinazione versus resistenza. L’agentività, infatti, non è solo “a synonym for resistance to social norms”, ma può essere pensata come “a modality of action” (Mahmood 2005:157) all’interno di specifici regimi di potere, autorità e significato. Al tempo stesso, ritengo che dar voce anche alle espressioni di ambivalenza e alle aspirazioni contraddittorie (Schielke 2009) di cui sono permeate le traiettorie personali delle donne che ho incontrato possa dare accesso a una conoscenza più profonda della complessità della loro vita quotidiana (Abu‐ Lughod 1993; Ortner, 2003:34; Kondo, 1990:45). Infine, pur dando visibilità alle forme di agentività e alle posizioni soggettive, suggerisco che le giovani donne sono implicate in molteplici discorsi egemonici e micro‐strutture di potere che partecipano a definire aspetti intimi delle loro vita quotiadina, quali i desideri, gli immaginari di genere e alcune pratiche corporee. • Silvia Vignato (Università Milano Bicocca), Matrimoni segreti e matrimoni a tempo fra le donne sole in Malesia e Aceh Questa relazione prenderà in esame le storie matrimoniali di alcune donne marginali, mai sposate o divorziate, della Malesia Nord‐occidentale (Penang) e di Aceh (Banda Aceh, Bireuen). Le scelte matrimoniali delle donne qui presentate si svolgono in un contesto matrifocale comune a tutto il mondo malese, cioè in un'organizzazione di parentela cognatica e variamente orientata alla matrilinearità, una generale tendenza alla matrilocalità e un contesto rituale che ribadisce la centralità della casata materna. Come altri ricercatori hanno mostrato (Peletz 1995, 1996; Siegel 41 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno 2004[1969]), nel mondo malese il desiderio sessuale (nafsu, hawa nafsu) e la capacità di controllarlo, costrutti centrali per la percezione di sé, sono oggetto di un discorso esplicito e fortemente informato dall'Islam. Nella relazione mostrerò come, per le donne mai sposate, separate o vedove, il contesto matrifocale permetta alle donne di appropriarsi, in modi diversi, di norme islamiche per restare in controllo della propria sessualità. In particolare, descriverò l'uso o il rifiuto di forme di matrimonio non ratificate dallo Stato ma nondimeno valide agli occhi del diritto islamico (nikah siri e perkahwinan misyar) in un contesto generale di matrimoni impermanenti. Sottolineerò il diverso peso di fattori strutturali come l'industrializzazione, in Malesia, o l' isolamento e la distruzione dovuti alla guerra civile, ad Aceh, nella trasformazione delle ideologie di genere in un contesto generale di internazionalizzazione e standardizzazione dell'islam. SESSIONE 2: 11.15‐13‐30 Panel 1 (AULA 2) Tra iconografia letteraria e azione politica. (Ri)scritture della memoria nel contesto arabo contemporaneo Maria Elena Paniconi (Coordina) – Marta Petricioli, Università di Firenze e Leila El Houssi Università di Firenze, Discutono) Negli ultimi anni molti contributi scientifici pertinenti agli ambiti dell’antropologia, della critica letteraria, della filosofia e dei cultural studies hanno messo in luce l’aspetto dinamico e relazionale della memoria collettiva, che non può essere intesa come patrimonio immobile e “discreto”, separato dal presente e dall’oggi, ma può e deve essere intesa piuttosto come un processo in via di definizione continua. Jan Assman (2002) ha trattato dei processi di sedimentazione e trasmissione del patrimonio culturale dimostrando che “la memoria opera in entrambe le direzioni, in avanti e all’indietro”. Sulle modalità di costruzione delle rappresentazioni di una comunità, sulla natura oscillante dei movimenti della memoria e sull’incidenza di questi fenomeni sull’oggi ha lavorato anche Alessandro Portelli che in Storie Orali (2007) conia la definizione di “memoria‐scandalo” per indicare quella memoria che “resiste all’atomizzazione individualista della modernità”, restituendo alla comunità una “grande narrazione”. Una narrazione che nei racconti orali raggiunge, non a caso, i toni dell’epos. Paul Ricoeur a sua volta ne La memoria, la storia, l’oblio (2003) propone una lettura della “condizione storica” della vita umana, condizione intessuta di memoria e di oblio e legge l’attività storiografica come una sorta di risposta al necessario avvento dell’oblio. Obiettivo del panel è presentare, attraverso una selezione di casi studio, alcune delle interrelazioni tra la codificazione/trasmissione della memoria che si ha per il tramite della letteratura da un lato e la formazione di identità collettiva dall’altro. Anche ponendosi in relazione alle rivolte popolari in corso in Nord Africa e Medio Oriente, i partecipanti sono invitati a cogliere ed analizzare, nelle loro relazioni, la natura politica che lo stesso atto del “farsi veicolo di memoria” attraverso la scrittura assume. Com’è noto, molti scrittori e intellettuali arabi hanno incarnato il sentimento dell’appartenenza nazionale e la consapevolezza storica popolare forgiando, talvolta a loro insaputa, una vera e propria grammatica per l’azione politica. Si pensi solo al duo Negm – Jahin, assurto a simbolo delle manifestazioni di dissenso popolare negli anni Settanta, o a figure come quella di Shuhdi ‘Atiyya, che hanno ispirato vari autori egiziani (Sonallah Ibrahim e Mahmud al‐ Wardani) in una germinazione di rappresentazioni e mediazioni della memoria collettiva di sicuro impatto per la coscienza civile nazionale. A supporto di ciò, saranno senz’altro utili gli studi che hanno raccolto le suggestioni dell’analisi socio letteraria (Richard Jacquemond 2002) per analizzare il campo letterario arabo, mettendo in luce le intersezioni tra sfera letteraria e sfera politica che hanno scandito la vita culturale del mondo arabo dalla fase postcoloniale fino ai giorni nostri. 42 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno • Lorenzo Casini (Università di Messina), La rivoluzione come ri‐apertura di percorsi ideali tra presente, passato, e nuovi orizzonti d’attesa. Una riflessione sul ruolo della poesia dialettale in Egitto Il contributo muove dall’analisi dell’attualità, di un 2011 apertosi all’insegna di imponenti moti di rivolta che hanno attraversato molti paesi arabi e che in alcuni casi hanno assunto il carattere di vere e proprie rivoluzioni con l’obbiettivo di cambiare regime/sistema (taghīr al‐nizām). Le domande a cui si cerca di rispondere riguardano il rapporto tra rivoluzione e campo letterario, con particolare riferimento al contesto egiziano: in quale misura e in quale forma questi rivoluzioni possono alterare il campo letterario esistente? Quali prospettive aprono per una reinterpretazione delle trasformazioni letterarie successive agli anni ’60? La tesi discussa nella relazione è che le rivoluzioni in corso abbiano avuto già un effetto dirompente sul campo letterario esistente, riaprendo la possibilità per gli autori di interpretare la propria realtà alla luce di un rapporto nuovamente fecondo con il proprio passato e alla luce di nuovi orizzonti d’attesa. In questo quadro teorico una particolare attenzione verrà dedicata al ruolo della poesia dialettale egiziana, genere che sta conoscendo una nuova fioritura. • Alba Rosa Suriano (Università di Catania), La costruzione della memoria collettiva attraverso il ricordo individuale: il ciclo di rappresentazioni al‐Sahraiyya nel teatro egiziano contemporaneo La scelta di rappresentare la dialettica tra ricordo individuale e memoria collettiva si inserisce nel discorso più vasto del rapporto tra memoria e storia ed in quello che vede a confronto l’espressione della cultura di un popolo e la sua memoria. Secondo alcuni semiologi la cultura è «una memoria non ereditaria del collettivo» (Lotman e Uspenskij, 1971). In questa prospettiva l’identità culturale si costruirebbe grazie alla trasmissione della memoria attraverso alcuni mediatori che, rielaborandola e continuamente reiterandola per mezzo della parola, dell’immagine e della ripetizione rituale, fanno da tramite tra le generazioni. Si analizzeranno in questo contributo alcuni casi paradigmatici tratti dalla letteratura teatrale egiziana contemporanea. I testi presi in esame sono il frutto di un lavoro collettivo dei membri della compagnia indipendente “al‐Misahharati”, diretta dalla regista Abir Ali, e costituiscono il ciclo di spettacoli “al‐Sahraiyya”: “Halawat al‐ruh”, “Hakawi al‐haramlik”, “Helw Masr” e “Enta deys ala elby”. In questi testi si racconta la storia dell’Egitto degli ultimi cinquant’anni attraverso le tappe fondamentali delle guerre in cui il Paese è stato coinvolto (1956, 1967, 1973), in un mosaico di racconti personali e ricordi di famiglia. Usando la tecnica teatrale del samir, un genere di rappresentazione peculiare della tradizione araba, la regista mette in scena la tessitura di quella memoria collettiva, che è sia sedimentazione del ricordo nella coscienza del singolo, sia trasmissione sociale del patrimonio culturale. • Lucia Sorbera (The University of Sydney), Tracce di storia nelle “graphie” della memoria femminile. Storia e memoria in Atyaf di Radwa ‘Ašūr La traduzione del protagonismo femminile in memoria letteraria è un dato storico e transculturale, che la critica di genere non ha mancato di cogliere. In quello che le autrici stesse definiscono “un dialogo ai confini tra storia e letteratura”, Alessandra Contini ed Ernestina Pellegrini (2001) ripercorrono le tappe che, nel corso del XX secolo, hanno portato “dalla inconsapevolezza del valore della propria memoria\scrittura alla piena coscienza del valore fondativo di essa per la scoperta e reivenzione di un sé di genere. Dai recinti e perimetri stretti del passato ai fertili sconfinamenti e spaesamenti dell’io contemporaneo, in una utopia di trasformazione che sovverte gerarchie e parodizza logiche di potere”. A proposito della letteratura araba, Marilyn Booth (2001) ha evidenziato il nesso tra scrittura biografica e agency femminile, aprendo la strada a chi, successivamente, ha spostato l’attenzione sull’autobiografia (Nawar al‐Hassan Golley, 2003 e 2007). Parallelamente, la critica letteraria si è interrogata sugli esiti della féminisation del campo letterario (R. Jacquemond, 2003), alludendo non solo al prestigio di molte autrici, ma anche al modo in cui la loro attività ha influito sul modo di fare letteratura nel mondo arabo. Questo processo non ha impedito che, in situazioni e momenti storici ben precisi, la nozione di scrittura femminile assumesse connotazioni negative, o quantomeno 43 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno svalutanti, e che la stessa critica femminista giungesse a metterla in discussione (Al‐Zayyat L., 1996), o a soffermarsi sulla traducibilità delle categorie di genere in arabo (Mehrez S., 2007). La mia analisi del romanzo Atyaf. Fantasmi dall’Egitto e dalla Palestina (1998) di Radwa Ashur procede all’interno di questa cornice critica, cercando di evidenziare continuità e fratture tra questo e i suoi antecedenti narrativi. L’analisi prende in considerazione le caratteristiche stilistiche innovative rispetto al genere, ma anche la forte dialettica tra storia e memoria nel romanzo. Nelle conclusioni, si evidenzia come il modo di narrare la storia in queste e in altre memorie femminili sconfessi un pregiudizio che a lungo ha pesato su tali produzioni, dimostrando che esse non sono solo testimonianza dei tormenti della vita privata, intima, domestica, ma esprimono una crescente volontà e capacità di protagonismo nella storia e nello spazio pubblico. • Mariangiola Li Vigni (Università di Catania), «Secret Son» di Laila Lalami: memoria, riscrittura del passato, invenzione dell’identità Laila Lalami (n. 1968 a Rabat) appartiene a quel gruppo di scrittori di origine marocchina «who negotiate the space of Morocco from outside the nation» (Mimoune, 2009), in particolare dal luogo della ‘diaspora’ negli Stati Uniti. Nel mio intervento, mi propongo di esaminare il secondo romanzo di Lalami, Secret Son (Algonquin Books, 2009), in cui l’autrice indaga, in chiave postmoderna, le questioni dell’identità e della memoria in relazione alla società e alla cultura del suo paese d’origine. Adottando l’approccio postmoderno che fa dell’identità il risultato di ‘costruzioni narrative’ (Holstein‐Gubrium, 1999), Lalami connota la memoria in quanto narrazione e persino ‘invenzione’, e mostra come la consapevolezza del passato personale e familiare sia fondamentale nel veicolare le percezioni identitarie di Youssef, il giovane protagonista del romanzo, nonché la stessa capacità di identificarsi, ad esempio, con gli eroi della letteratura (marocchina, inglese e anglo‐americana). Una volta discusso il rapporto tra identità e memoria, si tenterà di evidenziare come la scoperta della vera identità del padre di Youssef, il capitalista Nabil Amrani, determini la crisi identitaria del protagonista e la rottura con le aspirazioni e i valori e sui quali si è retta, sino a quel momento, la sua esistenza insieme alla madre, la berbera Rachida. Si metteranno, quindi, in luce le motivazioni che hanno condotto il personaggio materno a ‘inventare’, attraverso bugie e reticenze, le circostanze del concepimento di Youssef, e si chiarirà come la rivelazione finale sul passato familiare di Rachida serva a riscattare la posizione in‐between («half‐Berber and half‐Arab») di Youssef. Proprio la duplice origine – araba e berbera – del protagonista gli permette di assurgere a metafora di un’identità nazionale marocchina ‘autenticamente’ ibrida, facendo sì che Secret Son si configuri, al pari di altri testi della letteratura moderna (Rooke, 1997), come esempio di allegoria nazionale. • Aldo Nicosia (Università di Bari), ‘Izz al‐Din al‐Madani e gli anni Quaranta in Tunisia. Poesia del ricordo versus prosa del presente? Recentemente la scena culturale tunisina, alla ricerca di punti fermi per leggere un presente contraddittorio e spesso definito come “indistinto”, ha recuperato la memoria collettiva di un’epoca, quella della pre‐indipendenza. Esempio di questa tendenza è l’affresco storico del film “Thalathun” (2008), di Fadhel Jaziri, sui mitizzati anni Trenta, anni che, se da un lato venivano criticati aspramente da Abu l‐Qasim al‐Shabbi, vedevano dall’altro il fiorire di intellettuali fecondi e rivoluzionari come ‘Ali al‐Du’āji e al‐Tahir al‐Haddād, fino alla rilettura della Seconda Guerra Mondiale attraverso l’esplorazione della ricca e complessa realtà interconfessionale della Tunisia (“Le chant des mariées”, Karin Albou, 2008). Il drammaturgo e romanziere ‘Izz al‐Din al‐Madani (1938), nella sua autobiografia romanzata “Ayyam sa‘ida”, (2008 prima parte, 2010 seconda parte), si immerge, attraverso l’occhio vigile di un adolescente, nella vivacità dell’atmosfera sociale, culturale e politica che caratterizzava la Tunisia degli anni ‘40. Facendo riferimento a studi critici che hanno indagato circa la scrittura del sé nella prosa araba moderna e contemporanea (Reynolds and Dwight 2001; Rooke 1997; Ostle 1998), si prenderanno in analisi gli strumenti narrativi che l’autore utilizza per restituire tale atmosfera. Si porrà l’accento anche su una lingua in cui le varietà linguistiche della darija e della fus‐ha si compenetrano fondendosi, nel solco di una pratica già sperimentata e consolidata grazie ad autori come ‘Ali al‐Du’āji, Bashir al‐Khurayyif ed altri. 44 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno Panel 2 (AULA 12) “It’s a Celebration…”. Celebrazioni dell’indipendenza e dinamiche di inclusione e di esclusione nel Medio Oriente contemporaneo Paolo Maggiolini, Francesco Mazzucotelli (Coordinano), Discussant (da annunciare) • Paolo Maggiolini (LUSPIO, Roma) Speeches of spaces in Amman. Tempi e luoghi della celebrazione del campo politico hashemita (1921‐1988) Superando e sciogliendo le tradizionali dicotomie attraverso cui l’esperienza statuale hashemita di Giordania è stata abitualmente descritta, il contributo si propone di indagare il percorso di fondazione e di strutturazione del Regno Hashemita di Giordania durante il XX secolo, immergendosi nei tempi e nei luoghi del suo campo politico (Zubaida 1993). Considerato una realtà integralmente artificiale, condannato alla continua ricerca di una sua identità, lo stato hashemita testimonia, ciononostante, il successo di una radicale operazione di continua riconfigurazione e celebrazione degli spazi e dei tempi della storia e della memoria locale. Amman ne è la più autentica testimone. Tra le sue vie il campo politico hashemita si è rappresentato plasticamente fin dalla sua nascita, ancorandosi nel territorio e legando a sé la sua popolazione. La capitale è così divenuta un luogo all’interno del quale rigenerarsi e celebrarsi secondo le diverse necessità politiche del momento. Il contributo analizzerà inizialmente la fondazione della capitale hashemita durante gli anni Trenta, primo palcoscenico dell’Emiro ‘Abdallah e del suo campo politico. In un secondo momento, verranno riconsiderati gli anni della mobilitazione nazionalista durante i quali il popolo giordano prenderà possesso delle sue strade al fine di proporre una personale interpretazione dello stato hashemita e del suo campo politico. Gli anni della successione di Re Hussein e della sua maturazione politica verranno analizzati per sottolineare i diversi linguaggi impiegati nel celebrare e mettere in scena rappresentazioni differenti circa i temi dell’identità, della cittadinanza e della partecipazione. Infine, attraversando gli anni del Settembre Nero, il contributo analizzerà il discorso di Re Hussein in occasione delle celebrazioni per il trentaseiesimo anniversario dalla sua ascesa al trono giordano (1988). La riconfigurazione della storia dello stato giordano, della sua popolazione e della casa regnate rappresenta un momento necessario alla programmazione del futuro dello stato hashemita e del suo campo politico, sia nella prospettiva degli ultimi dieci anni del regno di Re Hussein che della successione del figlio Re ‘Abdallah II. • Enrica Camporesi (Università Ca’ Foscari, Venezia), Guerra civile latente: storiografia e appartenenza nazionale nel Libano del dopoguerra Si propone un’analisi della nozione storiografica di “guerra civile latente” elaborata negli anni ’90 da alcuni intellettuali e artisti libanesi (tra gli altri: Samir Qassir, Elyas Khury, Bilal Khbeiz, Rabi’ Mroue) per descrivere la situazione di emergenza e di instabilità politica consolidatasi in Libano nel dopo‐guerra civile. Le polemiche scaturite nei primi anni ’90 attorno ai piani di ricostruzione del centro storico di Beirut previsti dal primo governo Hariri (1992‐98), il dibattito promosso dalla società civile all’inizio degli anni 2000 sulla celebrazione del 13 aprile come “Giornata nazionale della memoria” e la questione della redazione di un libro di storia condiviso da tutte le comunità libanesi costituiscono a questo proposito alcuni casi utili ad esemplificare il concetto di “guerra civile latente”, mettendo in luce le strette connessioni esistenti tra problematica storiografica e costruzione identitaria nazionale nel peculiare contesto libanese (Beydoun, 1984). La riflessione su storiografia e appartenenza identitaria prende forma anche alla luce del vivace dibattito sollecitato dalla società civile sin dagli anni ’80 sull’elaborazione delle memorie di guerra, considerando il conflitto come un momento fondamentale nel processo di nation building del Libano contemporaneo (Hanf, 1993). Infatti, attraverso gli studi di Haugbolle (2010), si presentano le tappe principali del dibattito sviluppatosi dopo gli accordi di pace di Ta’ef (1989) attorno alla costruzione delle memorie private e collettive del conflitto. Dopo un primo decennio di retoriche governative orientate al principio di “dimenticare per ricominciare” (vedi ad es. la Legge di Amnistia Generale del 1991 e i piani di ricostruzione del centro storico di Beirut del 1992‐ 45 SeSaMO X ‐ Abstracts – 9‐11 giugno 1994), il processo innescato dai movimenti intellettuali, dagli artisti e dagli attivisti civili ha portato solo recentemente (in particolare dopo l’assassinio del primo ministro Rafiq Hariri, 14/2/2005) ad una parziale svolta nelle politiche ufficiali della memoria (vedi ad es. riapertura della questione degli sfollati, celebrazione della “Giornata della memoria”). • Enrico Bartolomei (Università di Macerata), “Liberare gli ebrei dal sionismo”: il Movimento di resistenza palestinese e la questione degli ebrei in Palestina La disfatta araba del giugno 1967 apre un vuoto politico e militare nel quale si inseriscono le organizzazioni di resistenza palestinesi. Il dibattito politico‐ideologico che le attraversa rivela una pluralità di posizioni vivacemente discusse. Per la prima volta dalla Nakba, nei testi politici e nelle dichiarazioni dei leader, si chiarisce la differenza tra sionismo e giudaismo, si accetta la presenza di milioni di ebrei sul suolo della Palestina, si propone l’idea di uno stato democratico non settario dove gli ebrei avrebbero goduto degli stessi diritti dei palestinesi. In che misura l’accettazione della presenza ebraica in una Palestina liberata dal sionismo, che segna una svolta storica nel pensiero politico palestinese, ha implicato una ridefinizione dei rapporti identitari tra palestinesi e israeliani? Nel quadro dei processi di costruzione identitaria e nazionale nell’area mediorientale, la relazione, attraverso l’analisi delle dichiarazioni dei leader, dei testi politici delle principali organizzazioni di resistenza e delle risoluzioni ufficiali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si propone di analizzare il ruolo svolto ‐ negli anni immediatamente successivi alla Guerra del 1967 ‐ dal Movimento di resistenza palestinese nella formazione di una società progressista e non razziale aperta alla coesistenza con gli ebrei. • Maurizio Scaini (Università di Trieste), Il neo‐kemalismo di fronte alla modernità. Democrazia, laicità e identità nazionale in Turchia Sulla scia degli ultimi moti che hanno interessato il Medio Oriente, la Turchia è stata indicata come un possibile modello democratico da seguire da parte dei Paesi interessati alle proteste e che si accingono a vivere un nuovo corso. Questa proposta, inizialmente delineata da Erdogan, oltre a indicare le ambizioni regionali turche, ha un significato interno e rimanda alle tensioni istituzionali in atto negli ultimi anni in Turchia tra neo‐kemalisti e filo‐islamici. Quando questa fase sarà finita, la Turchia sarà, molto probabilmente, diversa da quella odierna. Il kemalismo è stato a lungo considerato dall’Occidente come sinonimo di modernità: in origine, una sorta di garanzia contro possibili derive filo‐sovietiche, più recentemente una diga contro l’islam politico. Alla luce dei cambiamenti verificatesi nella società turca contemporanea, caratterizzata da conflitti etnici e rivendicazioni identitarie ma anche da una crescita economica che ha favorito l’emergere di un nuovo ceto medio, diventa, tuttavia, naturale chiedersi se il kemalismo sia ancora la categoria politica più adatta per interpretare la Turchia odierna e, soprattutto, se si tratta di una prospettiva in grado di far transitare finalmente il Paese da una politica di perenne emergenza, che ha caratterizzato la storia turca dell’ultimo secolo, ad una di normalità. * * * * * * * * * 46