Disciplina dei licenziamenti collettivi

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Disciplina dei licenziamenti collettivi
SENATO DELLA REPUBBLICA
———– XVII LEGISLATURA ———–
DISEGNO DI LEGGE
D’iniziativa dei senatori:
D’Adda Erica ,Chiti Vannino, Corsini Paolo, Dirindin Nerina, Filippi
Marco, Fornaro Federico, Gatti Maria Grazia, Gotor Miguel, Lo Giudice
Sergio, Doris Lo Moro, Manassero Patrizia, Mineo Corradino, Pegorer
Carlo, Ricchiuti Lucrezia, Tocci Walter.
Abrogazione dell'articolo 10 del decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23, in materia di licenziamento collettivo
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Onorevoli colleghi!Il presente disegno di legge nasce dalla volontà di rivedere la normativa dei
licenziamenti collettivi, come si sono configurati nel decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23, in attuazione della lettera c), comma 7, dell'articolo 1 della legge
delega n. 183 del 2014 (Jobs Act).
Va ricordato che fra i criteri di delega della legge 183 del 2014 all'articolo 1,
comma 7, lettera c) si dice
esplicitamente : "c) previsione, per le nuove
assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione
all'anzianità' di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità
della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo
economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla
reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di
licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per
l'impugnazione del licenziamento".
Come si vede, nei criteri direttivi non si fa nessun riferimento scritto ai
licenziamenti collettivi, mentre il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che dà
attuazione a questa parte della delega, contiene l'articolo 10 che si intende
abrogare.
La materia dei licenziamenti collettivi per riduzion e di personale è disciplinata
dalla Legge 23 luglio 1991, n. 223, a cui lo stato italiano è pervenuto a seguito di
due condanne della Corte di Giustizia Europea, per la mancata attuazione nel
nostro ordinamento della direttiva CEE n. 129 del 1975, (direttiva poi abrogata e
trasfusa, unitamente alla direttiva n.56 del 1992, nella direttiva n. 98/59).
Prima della Legge n. 223 del 1991, la materia dei licenziamenti collettivi era
sostanzialmente priva di disciplina legislativa. Infatti, essi erano stati
esplicitamente esclusi dall’ambito di applicazione delle disposizioni in materia
di licenziamento individuale, ovvero dalla Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto
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dei lavoratori). Solo nel settore industriale vigevano, per effetto di accordi
interconfederali, apposite regole procedurali per i licenziamenti c.d. di massa.
Anche la riforma Fornero (Legge n. 92 del 2012) interviene in materia di
licenziamenti collettivi, apportando modifiche alla procedura, all’impugnazione
e al regime sanzionatorio nel caso di illegittimità.
Questo ci dice che la fattispecie di cui trattiamo non è mai stata equiparata ai
licenziamenti individuali o ai licenziamenti plurimi per giustificato motivo
soggettivo.
L’analogia con il parallelo, nuovo assetto regolativo dei licenziamenti individuali,
che inevitabilmente ha costituito il “modello” della riforma, è rinvenibile
nell’articolo sul quale si intende intervenire, non preceduto da discussioni di
merito sulle ricadute generali.
In quest’ottica, crediamo convenga sottolineare alcuni aspetti particolarmente
rilevanti. La prima ragione della differenza tra le fattispecie dei licenziamenti
individuali e collettivi, risiede nella diversa articolazione e connotazione degli
interessi coinvolti e tutelati; come noto, infatti, sottese a quest’ultima vi sono
vicende, eccedenze di personale talora anche quantitativamente assai
ragguardevoli, che producono l’intrecciarsi di interessi complessi, sia all’esterno
–territoriali - che all’interno dell’impresa, che a livello più ampio e generale
sono riconducibili, più direttamente che nei licenziamenti individuali, al conflitto
tra i principi costituzionali sottesi (solo per citare le principali norme) agli artt. 4
e 41 Cost. (diritto al lavoro versus diritto alla liberta di iniziativa economica
privata). Quel conflitto, poi, assume a volte rilievo tale da trasformarsi anche in
un contrasto tra le ragioni della macroeconomia (macrointeressi) e quelli della
microeconomia (microinteressi).
Il licenziamento collettivo è il fenomeno per il quale un’impresa opera una
riduzione significativa del personale in un contesto di crisi, a seguito di una
ristrutturazione produttiva oppure in vista della chiusura definitiva dell’azienda.
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Esso si realizza attraverso una procedura che può essere attivata soltanto in
presenza di condizioni stabilite dalla legge. La disciplina prevede che l’impresa
possa attivarsi in questo senso quando si ritrovava nelle situazioni in cui:
• sta beneficiando di strumenti di integrazione salariale come la Cassa
Integrazione e ritiene di non essere in grado di garantire il reimpiego di
tutti i lavoratori sospesi e di non potere utilizzare misure alternative
• l’impresa (che ha più di 15 dipendenti, compresi i dirigenti) decide di
licenziare almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni in vista della
cessazione dell’attività o di una ristrutturazione della produzione.
In questi casi l’impresa è tenuta ad attivare un procedimento (che coinvolge
anche i sindacati), pena l’illegittimità dei licenziamenti e l’obbligo di reintegrare
i lavoratori interessati dai provvedimenti .
L’impresa che intende procedere ad un licenziamento collettivo nelle ipotesi
previste è obbligata ad informare in primo luogo le rappresentanze sindacali
presenti in azienda ed i Sindacati maggiormente rappresentativi.
Il datore di lavoro, in particolare, deve specificare quali sono i motivi che
conducono alla decisione di dare corso ai licenziamenti e soprattutto per quali
ragioni ritenga impossibile utilizzare strumenti diversi da quelli del
licenziamento.
Nella comunicazione l’impresa deve chiarire anche quali misure intenda mettere
in atto per eliminare o ridurre l’impatto sociale che deriva dai licenziamenti.
Questo aspetto è particolarmente rilevante nelle ipotesi in cui il licenziamento
collettivo riguarda grandi società che occupano molti lavoratori in un determinato
ambito territoriale e il numero dei dipendenti interessati dal licenziamento è
elevato.
I sindacati hanno la facoltà di richiedere un esame congiunto della pratica entro
sette giorni dal ricevimento della comunicazione. A questo punto si apre una
fase nella quale le parti esaminano la situazione concreta dell’impresa per
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trovare un accordo con il quale è possibile stabilire dei criteri per la scelta dei
lavoratori da licenziare. Nella scelta dei lavoratori da licenziare l’impresa, infatti,
deve attenersi ai criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva.
Se i contratti collettivi nello specifico non prevedono nulla la legge n. 223/1991
stabilisce dei criteri generali in base ai quali l’individuazione dei lavoratori da
licenziare deve avvenire considerando:
• i carichi di famiglia (ovverosia l’impatto che un eventuale licenziamento può
avere in relazione alla presenza di un coniuge a carico e del numero dei
figli)
• l’anzianità del lavoratore (tenendo conto del principio per il quale un
lavoratore molto anziano trova maggiori difficoltà a reinserirsi nel mondo
del lavoro)
• le esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’impresa.
Tuttavia all’interno degli accordi tra impresa e sindacati raggiunti al termine del
procedimento di cui abbiamo parlato, è possibile che le parti stabiliscano dei
criteri diversi da quelli previsti dalla legge.
Nel derogare ai principi di legge, tuttavia, le parti devono comunque rispettare i
principi: di non discriminazione (sindacale, religiosa, politica, sessuale,
linguistica ecc); di nazionalità.
Per tutte le violazioni della legge n. 223 del 1991 i lavoratori coinvolti finora
avrebbero avuto la tutela prevista dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La disposizione che intendiamo abrogare prevede che in caso di violazione delle
procedure richiamate (comunicazione preventiva, accordo sindacale, ...) o dei
criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 (criteri
previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati ovvero in mancanza di
questi contratti nel rispetto dei criteri già detti in concorso tra loro) si applichi
il regime previsto dall'articolo 3 , comma 1, del decreto legislativo 23 marzo
2015, n. 23, ovvero: " il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non
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assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e
non superiore a ventiquattro mensilità.".
E’ altresì importante e interessante rilevare che, nell’allegato III- Azioni REFIT,
al Programma di lavoro della Commissione Europea per il 2015 “Un nuovo
inizio”, al punto 21: Occupazione, affari sociali, competenze e mobilità dei
lavoratori, si intende consolidare le direttive nel settore dell’informazione e
della consultazione del lavoratore, tra cui la Direttiva 98/59/CE del Consiglio ,
del 20 Luglio 1998 , concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli stati
membri in materia di licenziamenti collettivi.
L’art. 2 della direttiva 98/59 individua lo scopo e il contenuto minimo della
consultazione che il datore di lavoro deve avviare, «in tempo utile», ove preveda
di effettuare licenziamenti collettivi. Lo scopo della consultazione è quello
di «giungere ad un accordo» (art. 2.1) e il suo oggetto deve essere quello di
esaminare «le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di
attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento
intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei
lavoratori licenziati» (art. 2.2). La direttiva introduce un vero e proprio «obbligo
a trattare del datore di lavoro che, partendo dai motivi addotti per “giustificare”
i licenziamenti programmati, coinvolge sia la ricerca di soluzioni, in tutto o in
parte, alternative alla espulsione dei lavoratori eccedenti, sia la predisposizione
di misure atte a contenerne gli effetti sul piano sociale così come su quello
individuale dei singoli lavoratori coinvolti (programmi di riqualificazione e
riconversione)» . Sul datore di lavoro, più in particolare, grava l’obbligo di
fornire ai rappresentanti dei lavoratori:
“tutte
le
informazioni utili» affinché questi
possano
formulare
«proposte
costruttive» (art. 2.3). La tutela del lavoratore, in questo modo, si gioca sul p iano
del controllo e della partecipazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori,
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atteso che la garanzia, per i lavoratori, consiste nella possibilità (reale ed effettiva)
attribuita ai loro rappresentanti di conoscere, discutere e negoziare le
motivazioni, le modalità ed i contenuti della decisione aziendale di espellere, per
ragioni tecnico-organizzative e produttive, parte dei dipendenti.”.
La normativa, pur non facendo riferimento diretto al reintegro, non consente
che vengano eliminate le casistiche e le procedure in merito alla fattispecie che
stiamo considerando. Ciò non rende infondata l’ipotesi di probabili contenziosi,
oltre quelli di cui si è discusso nelle commissioni undicesime rispetto al doppio
binario che per alcuni decenni si stabilirà fra lavoratori assunti prima o dopo
l’entrata in vigore del decreto.
La considerazione che, di fatto, i licenziamenti collettivi si possano ricondurre
alla fine ad una somma di licenziamenti individuali cancellando l’articolo 10,
come oralmente espresso nella discussione, è banalmente esclusa dalle regole
che li determinano. Se così fosse, infatti, ponendosi i licenziamenti collettivi
come licenziamenti economici per eccellenza, occorrerebbero decenni per
grandi ristrutturazioni o chiusure di
impresa la cui dimensione non fosse
irrilevante.
Con la legge vigente, ci troviamo di fronte alla possibilità tutt’alto che remota di
necessità di ristrutturazioni non calibrate dagli effettivi bisogni, lasciando
assorbire a enti locali e Stato i contraccolpi delle decisioni assunte senza
bilanciamento degli interessi, senza accertare l’imprescindibile nesso eziologico
tra un progettato processo di ridimensionamento ed i provvedimenti di recesso.
Tutto ciò considerato, si associa la preoccupazione che la nuova normativa possa
condurre con sé altri elementi di pericolo, perché la violazione dei criteri di
scelta
dei lavoratori da licenziare per motivi economici potrebbe
tranquillamente coprire, in taluni casi, motivi di discriminazione a cui farebbe
seguito una mera riparazione economica senza la reintegra sul posto di lavoro.
C'è da rilevare, inoltre, che i pareri delle Commissioni competenti per materia di
Camera e Senato, non vincolanti, hanno tuttavia impegnato per circa un mese le
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Commissioni undicesime producendo una condizione contenuta nel parere della
Commissione Lavoro della Camera e una osservazione della Commissione
Lavoro del Senato, che chiedevano di escludere i licenziamenti collettivi
dall'ambito di applicazione delle nuove norme sui licenziamenti.
Consideriamo perciò doveroso presentare una modifica di merito al decreto,
nella forma di un disegno di legge parlamentare.
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Disegno di legge
Art. 1
1. L'articolo 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, è abrogato.
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