storie - Comune di Empoli

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storie - Comune di Empoli
Storie
VIAGGIO NELLÕISLAM, di Daniela Moscardini
Ciao, sono sempre Daniela e questa volta voglio raccontare del mio
viaggio in Tunisia. La mia permanenza in quel paese è durata tre
mesi, vi domanderete se era un
viaggio di lavoro o da turista,
ebbene non è stato per nessuna
delle due cose. Il motivo per cui mi
sono recata là è stato perché ero
sposata con un tunisino e quindi
lui aveva piacere di farmi conoscere ai suoi genitori e di far conoscere loro a me, ma soprattutto presentare in famiglia nostro figlio che
aveva sei mesi.
Arrivata a Tunisi ho ricevuto una
grande accoglienza, piena di calore, sembrava che mi conoscessero
già da tanto tempo, ed ero sbalordita per questa premura nei miei
confronti. Io ero informata sulla
loro cultura e sulla loro religione
musulmana, quindi ho accettato le
loro abitudini, nel senso che se sei
ospite lì, specie se vivi in casa loro
e alla maniera locale, devi rispettare le loro usanze tradizionali.
Dovete sapere che gli uomini
hanno una prevalenza assoluta
sulle donne perché predomina il
maschilismo, questo fa parte sempre della loro cultura. Un esempio
di questo maschilismo che si ripeteva tutti i giorni, era che mio marito usciva tutte le mattine per recarsi dai suoi amici nelle caffetterie,
da solo, perché non stava bene
che sua moglie uscisse con lui
insieme ad altri maschi. Pensate a
me che essendo europea, altra
cultura e altre modalità di vita, mi
sono trovata in forte difficoltà nel
muovermi in maniera indipendente. Ho provato ad uscire da sola,
ma non me lo hanno mai permesso perché mi dicevano che mi
sarebbe capitato qualche cosa di
spiacevole. Nonostante questi
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miei tentativi di ribellione alla loro
mentalità non sono riuscita nel
mio intento.
Quando vivevo in famiglia mi comportavo come loro, era l’unica
cosa che riuscivo a fare.
Quotidianamnte mio marito rientrava a casa per pranzare dopo essere stato con gli amici e io lo convincevo ad uscire immediatamente
di casa con me.
Io avevo passato tutta la mattina
con sua madre e sua sorella con
cui facevo un gran fatica a comunicare, perché parlavo poco l’arabo
e non capivo quasi per niente un
arabo parlato in maniera veloce;
mi ero ridotta a comunicarci con
disegni e gesti.
Questo per un po’ lo puoi reggere,
poi però ti arrendi e quindi mi rifugiavo da mio figlio che mi proteggeva dall’ingerenza di quell’arabo
incomprensibile aspettando con
nervosismo il rientro di mio marito
che mi avrebbe salvato. Con lui
avrei finalmente potuto parlare la
mia lingua e visitare i posti turistici che avevo desiderio di visitare.
Effettivamente questi brevi momenti di “aria”, anche se rari, ci
sono stati e sono stati quelli che
mi hanno dato la possibilità di reggere tutti i tre mesi. Tre mesi in cui
volevano, e io li ho assecondati,
che vivessi come una araba, come
una locale.
Ero controllata su come mi vestivo,
sua madre mi faceva delle osservazioni se i vestiti erano scollati e
mi spingeva a coprirmi tutta, sembravo a tutti gli effetti un’araba e
per farle piacere spesso indossavo
le tuniche, anche se solo per stare
in casa.
Ascoltavo solo musica araba o
vedevo in tv film sempre arabi (sia
musica che film sono di un drammatico e di un romantico vertiginoso), voi vi domanderete, come fai a
saperlo? Beh… c’era il mio simpatico e premuroso marito che mi
faceva la traduzione simultanea,
pur che io mi convertissi alla religione islamica, così diventavo
completa in tutto. Io ero innamorata e lo assecondavo, ma appena
potevo cercavo di respirare, mi
nascondevo in camera e guardavo
Rai Uno, con cui loro erano collegati tramite satellite, e in più avevo
delle musicassette di cantautori
italiani che ho letteralmente consumato. Riuscivo a costruirmi una
piccola Italia su misura per me
nella mia stanza.
Mio marito cercava di convertirmi
all’Islamismo, ma sarei bugiarda a
dire che pretendeva che la diventassi in maniera obbligatoria. Ci ha
provato con
le sue maniere dolci, invitandomi
ai
loro matrimoni per stuzzicarmi e invitarmi a esserne par te in
causa:
la
sposa.
Per me i loro matrimoni erano
“straordinari” solo per le bellissime decorazioni che fanno alla
sposa. Hanno degli enormi vestiti
bianchi rimpinzati di paillettes e
lustrini di color oro cuciti su tutto il
vestito, che poi pesano tantissimo
da come sono carichi di queste
bellurie di bigiotteria e che impediscono alla sposa, sotto tanto
peso, di muoversi. La sposa si
muove pochissimo, è quasi sempre seduta su una stupenda poltrona matrimoniale e la definizione
giusta che gli attribuisco io è
“spettacolare”, dà l’impressione
che sia uscita da un dipinto di un
harem faraonico. Anche le acconciature sono splendide, i capelli
sono la maggior parte delle volte
raccolti dalla pettinatura, spesso
viene messa sulla stupenda chioma una coroncina con pietre di
vari colori.
Ma la
c o s a
più sorprendente
sono le
decora-
zioni dipinte con l’hennè sul dorso
delle mani che vanno ad estendersi sino alle dita, mentre l’interno
della mano, nel palmo, è tutto
rosso sempre della stessa sostanza (hennè) qui però distribuito in
maniera uniforme, come sotto la
pianta dei piedi.
Quindi il
mio ”lui”
f a c e n d omeli vedere pensava che
avrei ceduto
ai
piaceri di questa cerimonia, ma io
invece ero ancora titubante. Per
convincermi mi mandò sua sorella, che lui aveva già convinto, a
farmi le stesse decorazioni con
l’hennè che avevo visto al matrimonio.
Arrivammo ad un compromesso,
anche perché quelle decorazioni
con l’henne mi piacevano, e accettai di rispettare le regole che deve
seguire una donna sposata nell’anno successivo al matrimonio.
Dovete sapere che lì una donna
sposata, almeno nell’anno in cui
ci sono andata io cioè nel 1991,
era ancora abitudine che dovesse
avere le mani dipinte di hennè per
far capire agli altri uomini che era
già impegnata.
Oggi non so se le cose sono cambiate. Questo mio accondiscendere alle sue richieste avvenne solo
dopo due mesi che vivevo con la
sua famiglia, ma io ribelle come
sempre, mi rifiutai di farmi dipingere tutte le mani e accettai, spalleggiata da suo cugino che mi
capiva, di farmi fare solo delle piccolissime decorazioni sul dorso
delle mani per stanchezza di lottare contro tutta la famiglia e per
riconoscenza dell’ospitalità. Dopo
qualche anno ho visto alla tv la
pop star americana Madonna, che
aveva quelle decorazioni arabe
sulle mani ehi.. ed è stata moda
per un periodo! Se lo sapevo
prima l’avrei lanciata io… si, ma
mi avrebbero rinchiuso in psichiatria.
LA SOFFERENZA DELLA DONNA, di Samira Sabir
La donna nella maggior parte del mondo vive male. Anch’io sono donna e
ho sofferto tanto, ma ci sono donne che soffrono più di me. Le donne che
sono state violentate, picchiate, uccise, la maggior parte delle volte senza
motivo, se la sono passata peggio di me.
La donna non è nata per soffrire, ma per creare altre vite, per dare gioia e
nuova linfa vitale al mondo. La donna è l’albero da frutto della vita.
Nella mia vita, però, ho visto raramente accettata e rispettata questa funzione della donna, ho visto violenze e massacri compiuti sulla donna.
Odio chi schiaccia la donna e la tratta contro natura.
Un tempo nella famiglia vi era una divisione del lavoro: l’uomo si procurava
i mezzi per vivere, la donna pensava alla casa e ai figli. Oggi la cosa è completamente cambiata. Il lavoro del solo uomo non è sufficiente per procurare i mezzi per vivere della famiglia, c’è bisogno che anche la donna lavori per
poter integrare ciò che l’uomo procura. La donna, così, lavora fuori e lavora
dentro, e contemporaneamente la famiglia non è più solo di sua competenza, ma anche l’uomo deve prendere funzioni da sempre svolte dalle donne.
Questo porta a una grande confusione di ruoli che tutti paghiamo con la perdita della nostra identità. Cosa deve fare la donna? Nessuno sa rispondere.
Una cosa io so, che la donna avanti così non può andare. Lavora in casa,
lavora fuori, non ha tempo nemmeno per capire che cosa fa. Muore di lavoro. Ciò che le dà forza di andare avanti è la speranza, il pensiero che l’anno
prossimo le cose cambieranno, ma le cose restano sempre uguali, anzi peggiorano. Quando cambierà?
Speriamo in Dio.
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Storie
di Roberta Hasani
Mi chiamo Roberta Hasani e sono una rom albanese di
28 anni che è in carcere da 9 mesi. Ho due figli, di 10 e
11 anni, che da quando sono in carcere ho visto una sola
volta.
Mio figlio maschio vive un po’ con i nonni al Campo
dell’Olmatello e un po’ con una famiglia di italiani che
ogni tanto lo vanno a prendere e lo tengono con loro per
qualche tempo. Mia figlia, invece, è affidata all’istituto
Antoniano di Firenze.
I miei rapporti con loro sono stati praticamente interrotti
con la mia carcerazione e la responsabilità della loro crescita è affidata ad un’assistente sociale. Appena fui carcerata i bambini furono tutti e due affidati all’istituto
Antoniano e io li sentivo per telefono una, due volte alla
settimana. Poi mio figlio è scappato per tornare dai nonni
all’Olmatello e la cosa è stata accettata sia dall’assistente sociale che dai giudici. Il fatto è che posso ancora sentire mia figlia che è all’istituto, ma non mio figlio,
di cui non ho più notizie da sei lunghi mesi.
Ho sbagliato e sto pagando, me ne rendo conto, ma non
è giusto che io non possa vedere i miei figli, stargli ogni
tanto vicino, telefonargli, parlargli, sentire i loro problemi
e sentire come stanno.
Una volta, quattro mesi fa, l’assistente sociale ha capito
che sia per me che per la crescita dei ragazzi era giusto
che io mi vedessi con i miei figli e organizzò un colloquio
tra me e loro al carcere di Livorno. Per me è stato importantissimo e credo anche per loro. Da quella volta però
non sono più riuscita a vederli, anche se mi sono fatta
trasferire apposta in un carcere più vicino a loro e, dato
che è attenuato, dove fosse più facile ottenere il permesso di vederli. E’ da due mesi che sono nel carcere
attenuato femminile di Empoli ma l’assistente sociale
non sembra intenzionata a portarmeli e mi ha fatto sapere che la cosa dipende dal Gip di Prato. Io ho fatto subito istanza a lui per incontrare i miei figli ma, a distanza
di più di un mese, non ho ancora avuto risposta.
Sto male, soffro tantissimo, devo vedere i miei figli e
sapere come stanno, parlargli. Non è giusto che siano
spezzati così dei rapporti di affetto tra madre e figli. Non
è giusto. Voglio vederli.
29 maggio 2002: Finalmente, dopo cinque mesi,
Roberta ha incontrato i suoi figli nell’area verde della
Casa Attenuata, ha giocato a pallavolo con loro, e questi, dice Roberta, l’hanno “distrutta di fatica”: hanno giocato insieme per più di due ore.
, di Elizabeth John
Mi chiamo Elizabeth John, sono
nigeriana e sono in carcere da due
anni. Un giorno, mentre guardavo la
televisione, ho sentito la notizia di
Safiya Husseini. Il telegiornale riportava che era stata condannata, in
seguito all’accusa di infedeltà comprovata dalla nascita di un figlio,
alla lapidazione. Peccato che questa sua infedeltà non fosse proprio
una libera scelta, ma piuttosto una
violenza carnale!
Come nigeriana, vorrei dire che nel
mio paese l’adulterio non è considerato un reato, cioè non è una
cosa che riguarda la giustizia.
Infatti, in caso di adulterio, il marito
tradito si limita a mandare via la
moglie insieme ai figli. Questo
avviene perché, nell’uso comune
nigeriano, il marito tradito perde la
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fiducia nella moglie e pensa che sia
probabile che i figli non siano suoi,
ma frutto del tradimento precedente.
Le televisioni ed i giornali di tutto il
mondo hanno quindi, parlando della
lapidazione come di una legge antica della Nigeria, riportato e diffuso
notizie errate sulle leggi nigeriane.
Io vengo dalla Nigeria e, in vent’anni che ci ho vissuto, non ho mai
sentito parlare di una legge come
questa.
L’unico pensiero che mi è venuto è
che, dato che nel mio paese le leggi
non seguono un iter burocratico,
ma vengono proposte ed approvate
dalla stessa persona nell’arco di un
giorno, chiaramente a patto che
questa persona sia un politico o
abbia amici importanti in politica,
dato tutto questo ho pensato che
l’unica spiegazione alle notizie
fosse che il marito di Safiya o è un
uomo politico o ha amici in politica.
Per le leggi della Nigeria la condanna a morte è applicata solo per chi
compie rapine a mano armata, e
che fa quindi del male alle persone
che rapina o le uccide. I condannati, al momento dell’esecuzione,
vengono prelevati dal carcere e portati dalle guardie nel bosco. Qui
vengono legati ognuno ad un albero
e quindi giustiziati con un colpo di
pistola.
Ho voluto raccontarvi tutte queste
cose per dirvi la mia verità su un
paese che io conosco molto bene
perché è il mio.
Storie
ELENCO TELEFONICO CERCASI. DISPERATAMENTE, di Rosangela Apoliveira
Sono Rosangela e da quando sono in carcere, dal 10 marzo
2000, ho potuto telefonare alla mia famiglia solo una volta.
Sono Brasiliana e le leggi dello Stato Italiano prevedono che
un carcerato possa fare una telefonata alla settimana, ma
che gli agenti devono controllare la corrispondenza tra il numero chiamato e la persona con cui si vuole parlare.
Qui non vi sono elenchi telefonici del Brasile e di conseguenza non possono verificare questa corrispondenza. Il risultato
è che non posso telefonare. Sono due anni che non parlo con
mia mamma e mia nonna.
Durante la mia carcerazione a Livorno mi avevano dato la possibilità di telefonare, non so come, ma io non avevo soldi per
pagare, adesso che ho i soldi e sono venuta al Pozzale non
posso telefonare. Una volta sola, dopo un pianto disperato di
fronte a tutte, la direzione, presa da compassione, mi ha fatto
telefonare a casa.
Quell’unica telefonata, anche se sono riuscita a parlare solo
con mia zia, perché mia nonna era in ospedale, continua a
riempirmi ancora oggi il cuore.
Non so quanto tempo ci vorrà perché io
possa finalmente telefonare senza problemi, ma spero di uscire presto in permesso cosi potrò sbizzarrirmi a telefonare a: mamma, nonna, ai miei 10 zii e
ai miei 50 nipoti… se i soldi mi bastano! Non sono la sola in queste condizioni. Anche Samira, una ragazza del
Marocco, da quando è qui è riuscita a
telefonare a casa solo una volta; e pensare che sa leggere e scrivere in italiano
ma non in marocchino e che quindi l’unico modo per restare in contatto con i suoi due figli è il telefono. Vorrei pregare chi si fosse già imbattuto in questo tipo di
problemi e li avesse risolti di mettersi in contatto con me per
spiegarmi come ha fatto; mi sarebbe molto utile.
Se amare è vivere, io vivo perché amo la mia famiglia.
Rosangela Aparecida Oliveira
LA GIORNATA DEL CICLONE ROSANGELA, di Rosangela Apoliveira
Sono Rosangela Aparecida Oliveira, ho 37 anni, sono brasiliana e vi ho già parlato di me nell’altro numero, anche se hanno
sbagliato il mio nome. NON mi chiamo Apoliveiva!
Vi voglio raccontare una mia giornata al Pozzale.
Mi alzo alle 8, mi lavo, mi preparo e prendo il caffè, faccio il mio letto e la camera. Quindi mi incontro con le altre e scen do a lavorare. Ci salutiamo appena, perché io sono sveglia, ma le altre dormono ancora anche se sono in piedi.
Io lavoro come un treno dalle 8,30 alle 9,45. Pulisco tutta la prima sezione e pulisco tanto a fondo che la capo posto, che
ormai lo sa, non viene neanche più a controllare. Alle 9,45 c’è finalmente una pausa di 15 minuti durante la quale ci tro viamo tutte insieme a prendere un caffè. Ora più nessuno dorme in piedi e tutte hanno una gran voglia di giocare e scher zare. Sono 15 minuti di fuoco. Finito questo divertimento mi rimetto a lavorare con più calma per pulire la seconda sezio ne. Sono sola, nessuno mi fa fretta e io posso pensare alle mie cose. Penso al Brasile, alla mia famiglia, al fatto che sono
qui e mi prende un po’ di tristezza. Per fortuna che sono riuscita a parlare con la mia famiglia in Brasile! Questo mi dà la
forza per andare avanti e non essere vinta dalla malinconia.
Alle 12 il lavoro è finito e con le altre andiamo a prendere le cose da mangiare che ha preparato Samira. Mangiamo nella
cucina della seconda sezione, che è come una cucina di casa. C’è il frigorifero, i fornelli, il lavandino, un grande tavolo, i
pensili da cucina pieni di piatti e bicchieri; insomma sembra di essere nella cucina di una qualsiasi casa del mondo, basta
non guardare le sbar re. Ognuna si serve da sola quanto vuole. Nessuna fa la dieta e ci facciamo delle piattate di primo e
di secondo da carrettiere. Finito di mangiare ognuna si prepara il caffè che beviamo fumandoci una sigaretta. Questo è un
momento in cui siano tutte insieme e può succedere di tutto. A volte nascono dei litigi per delle stupidate come: “Hai man giato la mia arancia! Non hai rispetto di nessuno, sei proprio una stronza!”, oppure può succedere che siano tutte allegre,
cosa che avviene molto più raramente, e si scherza e si ride come bambine deficienti. Finito il pranzo andiamo ognuna a
seguire i corsi a cui siamo iscritte. Io vado a scuola per imparare l’italiano. So già scrivere abbastanza bene, ma il mio
parlare in italiano lascia molto a desiderare. Questo è il mio impegno principale e lo faccio con piacere ma seguo anche
altri corsi. Sto imparando a fare lampade di vetro, ballo samba brasiliano nel corso di teatro e vedo qualche film in italia no al cineforum. Alla sera, stanche morte, ci ritroviamo a mangiare tutte insieme e dopo ci divertiamo a giocare a carte a
“Filippo”, un gioco che ho imparato nel carcere di Livorno. Giochiamo tutte a coppie ma io sono decisamente la più brava,
battermi è impossibile. Alle 21,30 vado a fare la doccia per levarmi di dosso l’odore e il sudore della giornata; veniamo
tutte chiuse in cella alle ore 22.
Io ho una cella singola con la televisione e passo il resto della serata a guardare la televisione aspettando che il sonno
mi prenda. Cerco di non pensare per non farmi prendere dalla tristezza e la televisione, anche se in italiano, mi aiuta a
non pensare. Domani sarà un altro giorno.
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