L`audace furto al sacro monte - depliant

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L`audace furto al sacro monte - depliant
Festa Internazionale della Storia
VII edizione, 16-24 ottobre 2010
Archivio di Stato di Bologna
16, 17, 18 ottobre
L’audace furto al Sacro
Monte, ovvero l’amaro caso
del conte Lucchini
Archivio di Stato di Bologna - Sala Cencetti
Piazza de’ Celestini, 4
orario della mostra: 9.30-12.30, 15-18
ingresso gratuito
info: 051/223891-051/239590, www.archiviodistatobologna.it
Bologna
nel
XVIII
secolo
Dall’epoca dei famosi “capitoli di Niccolò V” del 1447, che oltre a
regolare i complicati rapporti fra il governo signorile bolognese e la
Santa Sede avevano definito l’ambito e i limiti dell’autonomia cittadina, la città di Bologna era stata retta da un governo che si suole
definire “misto”, basato su una collaborazione fra il Senato e il Legato, rappresentante il primo dell’autonomia locale, il secondo della
sovranità pontificia, collaborazione spesso sintetizzata nella frase:
“nulla può il Legato senza il Senato, nulla il Senato senza il Legato”.
Il Senato era composto di membri nominati a vita, appartenenti alla
nobiltà; il legato era nominato dal papa per tre anni con possibilità
di riconferma ed era sempre accompagnato da un vicelegato. Oltre a questi due principali organi di governo, erano rimaste in vita
antiche magistrature medievali di origine popolare a cui di fatto
però il Senato aveva tolto ogni potere. Attraverso il Senato, unica
salvaguardia delle residue autonomie cittadine, l’oligarchia nobiliare
bolognese continuò per secoli ad esercitare il predominio su tutte
le altre classi sociali, senza però intaccare l’orgoglio municipale che
aveva sempre contraddistinto la città. L’assetto istituzionale cittadino rimase invariato per più di due secoli, creando spesso conflitti e
tensioni, che si manifestarono più spesso e più vivacemente nell’amministrazione della giustizia a causa della concorrenza di vari organi
giudiziari e di una complessa legislazione.
Tuttavia nel corso del Settecento, pur in questo immobilismo politico-istituzionale, iniziarono cambiamenti profondi, talora contraddittori, che lentamente mutarono il significato di strutture politiche,
sociali, economiche e religiose.
Accanto ad un deterioramento del costume tradizionale, sensibile specialmente all’interno del
ceto nobiliare, nuove idee
provenienti dall’estero produssero importanti cambiamenti nel campo culturale e
politico. Il Settecento bolognese è celebrato soprattutto per gli aspetti esteriori
della vita pubblica: suntuosità delle cerimonie, lusso
privato, divertimenti, raffinatezza e frivolezza della
società nobiliare; ma in città nel frattempo serpeggiava un fermento nuovo, un
cambiamento reale anche
se non evidente: nuovi ceti
entravano a far parte della
vita economica e politica,
lasciando apparentemente
intatto il vecchio ordinamento aristocratico.
I Monti
di
Pietà
I Monti di Pietà o banchi dei pegni sono un’istituzione finanziaria
senza scopo di lucro nata verso la fine del XV secolo, inizialmente in
città medie e piccole dell’Umbria e delle Marche, su iniziativa dei
frati francescani osservanti, con l’intento di creare una riserva di denaro (“mons”) allo scopo di aiutare persone in difficoltà, concedendo
prestiti di limitata entità in cambio di un pegno, che veniva restituito
una volta saldato il debito.
L’istituzione dei Monti provocò un acceso dibattito sull’imposizione
del tasso d’interesse, da alcuni considerato inammissibile, perché
vietato dal Vangelo. Un piccolo tasso d’interesse, oscillante tra il 6 e
il 10%, fu infine considerato lecito, come forma di protezione contro
le insolvenze, garanzia per la sopravvivenza del monte e fonte di autofinanziamento per aumentare le possibilità di soccorso ai bisognosi
e coprire le spese dell’Istituto e del personale che vi lavorava.
Il funzionamento dei Monti era regolato da appositi Statuti, in
base ai quali venivano scelti presidenti e funzionari e precisati compiti e responsabilità.
A presiedere gli istituti dei Monti, che si sostenevano anche grazie a munifici benefattori, erano ecclesiastici e laici, spesso gli stessi
uomini che operavano in altre istituzioni cittadine; al loro interno un
massaro, assieme ad altri dipendenti, teneva le scritture contabili,
custodiva gli oggetti consegnati e garantiva la correttezza delle operazioni.
Con il tempo i Monti, acquisendo la possibilità di retribuire il denaro che ricevevano in deposito, diventarono una sorta di istituto di
credito e svolsero un ruolo importante nell’economia cittadina. Pur
vivendo nel corso dei secoli crisi e fallimenti, dovuti alla scorrettezza
dei dipendenti, e pur allontanandosi in parte dalle finalità originarie,
i Monti non cessarono mai di far prestiti su pegno a poveri, piccoli
artigiani e a quanti non avevano possibilità economiche.
A Bologna si fa risalire la fondazione del Monte a un atto del 1473,
con cui veniva istituita in città una “mensa quaedam…sive bancum…
qui vocabitur Mons pietatis”; in realtà ci vollero parecchi anni per
portare a termine la fondazione dell’istituto, conclusa
con la concessione di Giulio II
del 1506, che ne autorizzava
l’istituzione per assecondare
lo spirito dei tempi e per non
creare motivi di conflitto fra
Roma e Bologna.
Mentre nei primi anni di
vita, durante la signoria dei
Bentivoglio, al contrario di
quanto avveniva nelle città
dell’Italia centrale, il Monte
non godette di finanziamenti da parte delle magistrature cittadine, dopo la cacciata
dei Bentivoglio, fu sostenuto
dal nuovo ceto dirigente bolognese, che sentiva la necessità di dotarsi di un istituto “pubblico”, concorrenziale
rispetto ai banchi privati che
operavano nel settore dei
prestiti.
Il primo capitale del Monte fu costituito dalle spontanee offerte dei
cittadini e dall’autotassazione a cui si sottoposero gli appartenenti
alla Confraternita del Monte, che si impegnarono ad incrementare
il capitale con versamenti annui di 13 bolognini e con trasferimenti
monetari di risorse pubbliche a favore dell’Istituto. Dunque il Monte
di Pietà veniva riconosciuto come una vera e propria banca cittadina
e come tale doveva essere sostenuta dall’intera comunità. A Bologna lo statuto che regolava l’attività del Monte di Pietà fu pubblicato
nel 1514, riformato nel 1576 e rimase in vigore fino al XIX secolo:
oltre a delineare le caratteristiche dell’apparato amministrativo e le
modalità di erogazione dei crediti, specificava le mansioni assegnate
al personale. In particolare al massaro era fatto obbligo di permanenza presso il Monte: «detto massaro sia obligato a custodire, et
conservare tutti li pegni in una casa a questo deputata, nella quale
lui sia obbligato abitare, overo far saltem dormire la notte, acciò non
siano robbati li pegni, et facci buone porte, finestre, et serrature… ».
La
sede del
“Monte”
nel
XVIII
secolo
Le prime sedi del Monte erano sparse in vari luoghi della città,
soprattutto in prossimità del portico del Pavaglione e negli edifici
intorno alla basilica di San Petronio; nel corso del ‘700, al momento del massimo sviluppo dell’Istituto, queste diverse sedi creavano complicazioni dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi,
della sicurezza e della buona conservazione dei pegni, nonché per
la disciplina del personale, la manutenzione degli stabili e gli oneri
della locazione.
Fu ritenuto più conveniente quindi accentrare l’attività del Monte
in una sola, grande sede, dove conservare tutti i pegni in un unico
magazzino. A tale scopo fu scelto l’ edificio di origini quattrocentesche che sorge all’angolo tra le attuali vie Del Monte e Indipendenza.
L’edificio all’epoca aveva un solo piano ma fu radicalmente trasformato con l’intervento nel 1758 di Alfonso Torreggiani, che progettò la nuova sistemazione interna ed esterna e diede forma alla
facciata principale.
Nel 1755 intanto il Monte aveva acquistato anche l’edificio posto
in angolo fra le attuali via Indipendenza e Altabella, appartenuto alla
famiglia Malvezzi e poi denominato dei “Nuovi Monti”.
Il “furto
magno” del
1789
Nel corso del tempo il Monte era stato vittima di numerosi furti,
talora commessi anche da dipendenti stessi, in violazione dei loro
doveri d’ufficio; di alcuni di questi furti non si conserva documentazione negli archivi cittadini.
Non è così per il furto sicuramente più clamoroso, che avvenne
fra il 25 e il 26 gennaio 1789 e di cui conosciamo l’entità grazie ai
documenti conservati presso l’Archivio di Stato e presso l’Archivio
Storico della Banca del Monte.
Il clamore che tale evento suscitò all’epoca e che perdurò a lungo,
lasciando varie testimonianze nella tradizione popolare bolognese,
è dovuto a varie cause, in particolare la ricchezza documentaria del
processo giudiziario che ne seguì e l’indole del personaggio che aveva commesso il furto. Il conte Girolamo Ridolfi alias Lucchini, noto
anche con altri nomi, non rivelò infatti una intrinseca malvagità, ma
la necessità, dovuta alle vicende di vita, all’ambiente sociale e alle
condizioni economiche sempre precarie, di trovare i mezzi di sussistenza con espedienti vari, come falsificazioni monetarie e furti,
sempre dunque reati contro le cose, non atti di violenza contro le
persone. Una particolare attenzione suscitò poi la difesa messa in
atto in tribunale dall’avvocato Magnani e l’intricata questione giurisdizionale legata al sistema di governo dell’epoca e alla speciale
tutela penale da cui il Monte era protetto per la sua orginaria natura
di opera pia.
Il
tribunale criminale del
Torrone
A Bologna la giustizia penale era amministrata dall’uditore del foro
noto come “Torrone”, dalla torre del Palazzo pubblico in cui avevano
sede gli uffici e le carceri. Gli uditori erano nominati direttamente
dal papa ma la loro attività era sottoposta al controllo e al potere
decisionale dei legati, cardinali inviati al governo della Legazione
di Bologna - più o meno corrispondente all’estensione dell’attuale
provincia. L’attività del foro criminale era regolata da Costituzioni,
le prime delle quali erano state emanate alla metà del Cinquecento
e poi periodicamente riformate fino ad arrivare alle Costituzioni di
Benedetto XIV del 1744.
Sappiamo così che il processo si avviava quando veniva presentata una denuncia, tranne nel caso di reati particolarmente gravi come lesa maestà, assassinio, incendio doloso, avvelenamento, falsificazione di moneta, stupro violento, blasfemia, resistenza ai pubblici
ufficiali - per i quali l’uditore poteva procedere per dovere della sua
carica (ex officio), ma sempre avendo prima verificata la presenza di
elementi per comprovare la sussistenza del reato.
Nel Settecento si ricorreva ancora alla tortura, quando non c’erano prove inconfutabili per formulare un
giudizio di colpevolezza ma
gli indizi erano tali da rendere un indagato fortemente
sospetto, soprattutto in caso
di furti ripetuti; si procedeva alla sospensione dell’inquisito alle corde, sia pure
regolata (non più di un’ora
in un giorno, non più di due
volte, eccezionalmente tre,
nei giorni successivi). C’è da
dire che moltissimi riuscivano a sopportare il supplizio
senza confessare, al contrario di quanto avveniva cento
anni prima, quando le torture erano ripetute e durissime, tanto da far ammettere
ai malcapitati qualsiasi cosa
i giudici si aspettassero di
sentire da loro.
Alla fine del processo, chi si vedeva contestare l’accusa di colpevolezza aveva diritto a un patrocinio gratuito. I difensori d’ufficio
peroravano la causa degli imputati nella congregazione criminale (il
collegio giudicante che emetteva la sentenza) non solo per i poveri
ma per tutti coloro che dovevano essere sottoposti a giudizio.
Complessivamente, dalla metà del Settecento, la società bolognese sembra sotto lo stretto controllo del tribunale del Torrone: esso
svolgeva una funzione disciplinante a tutti i livelli: nei confronti dei
nobili e dei cittadini influenti, i quali mezzo secolo prima erano ancora ribelli all’autorità del sovrano pontefice, e che ora si rivolgevano
con ostentata deferenza al legato, rappresentante del papa. Quanto
ai poveretti, essi si vedevano punire con singolare durezza per ogni
colpa, anche se commessa sotto la spinta del bisogno. Fra i crimini
più perseguiti, i processi per reati di sangue erano nettamente diminuiti rispetto al secolo precedente mentre i reati contro la proprietà
difficilmente restavano impuniti. Inoltre, non si pronunciavano sentenze contro molti ferimenti e omicidi perché la parte lesa concedeva
il perdono al colpevole.
I membri del clero non erano soggetti al foro secolare del Torrone e venivano giudicati dal foro arcivescovile, ma loro malgrado
dovevano adattarsi a subire il trattamento riservato ai criminali laici
quando per gravi reati venivano fatte valere le ampie attribuzioni di
potere che erano concesse dal papa ai legati e quindi al tribunale del
Torrone che era alle loro dipendenze. Nel 1789 il processo per il furto
al Monte di Pietà al conte Lucchini, che chierico non era, fu iniziato
dal foro ecclesiastico perché il reato era stato commesso nel Sacro
Monte, ma fu poi proseguito e concluso in Torrone in considerazione
della gravità del crimine.
Girolamo Ridolfi, alias Giovanbattista Rossi, alias
Girolamo Lucchini
Girolamo Ridolfi nasce l’11 dicembre 1742 dal conte Antonio
Ridolfi e dalla moglie Maria, nella
parrocchia di Ca’ de Oppi, vicino
a Verona. Appartenente al ramo
cadetto della famiglia, entra a
16 anni nei corazzieri della Repubblica di Venezia. La disciplina
non fa per lui e esce dal corpo
militare per abbracciare uno stile
di vita spericolato, fatto di espedienti, che lo porterà a coltivare
l’abilità di falsario. Vive per un
certo periodo a Padova col nome
di Giovanbattista Rossi, in un
ambiente bohémien, dove incontra Francesca Perini da cui avrà il
figlio Antonio che lo raggiungerà
in seguito a Bologna. Condannato, per l’attività di falsario, dalla
Repubblica Serenissima, è rinchiuso nel carcere dei Camerotti, da cui evade con una chiave
di sua fabbricazione. Dopo esser
stato in alcune città dell’Italia centrale, Girolamo, arriva a Bologna,
dove nell’ottobre del 1772 incontra Berenice Seracci, vedova Nanetti, una donna di mezza età che mantiene sé e la figlia con lezioni
a domicilio a fanciulli e fanciulle e con l’affitto di una casa che possiede in via dell’Abbadia. L’incontro è fatale per entrambi; non si
separeranno più e convivranno senza sposarsi anche con i rispettivi
figli, cercando di salvare le convenzioni sociali. Berenice diventa ben
presto complice del Conte Lucchini, nome con cui Girolamo Ridolfi
era conosciuto a Bologna ed è coinvolta nella fabbricazione e nello smercio delle monete e nei furti di stoffe e denaro. Alla fine del
1788, Lucchini confida a Berenice il Colpo Grosso che ha in mente:
un furto al Monte di pietà, dove bolognesi poveri e ricchi depositano
i loro averi per ragioni diverse. Un furto impensabile ed impossibile!
Nonostante ciò, nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1789, Lucchini
compie la sua impresa, senza la complicità di nessuno e servendosi
di attrezzi che ha fabbricato in casa durante mesi di lavoro. Con una
scala pieghevole, sale fino alla finestra nel cortile del Monte, sega
un’inferriata, rompe il vetro e lo sostituisce subito affinché non si
noti nulla dall’esterno. Entra negli uffici e con un fornelletto fabbrica lo stampo e la chiave della stanza dei pegni preziosi: una chiave falsa per arrivare a monete e a gioielli veri! Senza né mangiare né
dormire né bere, lavora per un giorno e mezzo, finché riesce a calare
la merce dal vano della finestra; lascia in giro arnesi da scasso perché vengano ritenuti colpevoli del furto malfattori esterni e non gli
impiegati del Monte. Torna casa da Berenice con cui concorda come
comportarsi nei giorni a venire per non destare sospetti. All’indomani,
Bologna è sconvolta dal furto, scattano immediatamente le indagini:
prima all’interno dello stesso Monte e poi in città. Viene emanato dal
Legato un editto di impunità e un premio in denaro a chi aiuta nelle
ricerche. Le indagini sono a un punto morto, ma una soffiata porta
i birri nella casa di Lucchini, presso il Ponte della Carità, dove vengono arrestati lui e Berenice: il primo perchè in possesso di un’arma
da fuoco proibita, la seconda perchè con mossa furtiva cerca di far
sparire un orologio d’oro. Durante la prigionia dei due nelle carceri
del Torrone, si susseguono estenuanti interrogatori separati che non
portano a nessuna conclusione risolutiva, a parte la constatazione di
un loro stile di vita ai limiti della legalità e della morale del tempo.
Improvvisamente però, nel marzo del 1790, Berenice fa chiamare
l’uditore del Torrone e in cambio dell’impunità rivela il nascondiglio,
sotto il pavimento della casa del Lucchini, dove si trovano la refurtiva
e anche gli ordegni speciali. Per Lucchini è l’inizio della fine: tenterà di negare tutto, anche la fabbricazione di monete false; alla fine
confessa di essere il solo autore del “Furto Magno” e, per evitare la
tortura dei tasselletti su Berenice, ammette anche la falsificazione
delle monete. Nonostante le complicate procedure giudiziarie e l’appassionata difesa dell’avvocato Magnani, che riesce a far commutare
la pena dell’impiccagione, infamante per un nobile, in quella della
decapitazione, il processo si conclude con la condanna capitale, eseguita la mattina del
26 febbraio 1791 nella Piazza del Mercato, oggi Montagnola,
dove il Nostro verrà
decapitato, entrando
così nella leggenda e
recuperando lo status di nobile che aveva inseguito in vita.
Con
garbo e a tempo?
L’occasione fa il ladro è il titolo di una farsetta di Rossini, una delle più grottesche e graffianti del gran bolognese d’adozione vissuto
fra il 1792 e il 1868. Un anno prima che a Pesaro nascesse Gioachino, a Bologna era morto un tale che fin troppe occasioni avevano
reso ladro e confermato sommo ladro: Girolamo Lucchini detto Ridolfi, il celeberrimo, famigerato, a lungo inafferrabile “ladro del Sacro Monte”, abile a maneggiare e falsificare di tutto, a impadronirsi
di qualunque cosa lo incapricciasse, introdursi impunemente in ogni
dove. Nella stanza dell’oro del Monte di Pietà? bene, o meglio male:
per tanto fu decapitato in piazza VIII agosto nel 1791. Era nobile,
era intelligente, era versatile, era colto, e avrà avuto modo di sentir
musica, di ascoltar canzoni, di veder opere nella Bologna della seconda metà del Settecento?
Nel 1763, lui ventenne, s’apriva il Teatro della Comune o Comunale, con Il trionfo di Clelia di Gluck, operista tedesco del quale di lì
a poco sarebbero andati in scena anche Orfeo ed Euridice e Alceste,
rispettivamente nel 1771 e nel 1778 (il tenore marito di Alceste, Admeto, era l’eccellente bolognese Giuseppe Tibaldi). Nel 1770, intanto, a Bologna era giunto Mozart, e proprio quell’estate il
giovinetto intenzionatissimo
a diventare “accademico filarmonico” era impegnato
a comporre Mitridate re di
Ponto, opera da rappresentarsi qualche mese dopo a
Milano. All’epoca, dopo oltre
due secoli di fortune note
al mondo intero, la Bologna
musicale andava fiera della
presenza di Padre Martini,
l’umile frate del Convento di
S. Francesco noto a tutt’Europa come storico, erudito,
bibliofilo, collezionista, insegnante, e autore fra le altre
di musiche sacre a non finire. Né solo di musica vocale era fiorente la Bologna
dell’ultimo ancien régime:
assai prima di Lucchini vi
era vissuto Giuseppe Jacchi-
ni, capace maestro del violoncello, della tromba e d’altro ancora; e
un po’ dopo sarebbe vissuto Luigi Palmerini, allievo di Padre Mattei
a sua volta allievo di Padre Martini che per una quarantina d’anni fu
solerte organista in S. Petronio.
Dunque, una possibile colonna sonora della vita allegra, avventurosa, indaffarata, scapestrata, forse anche nevrotica e certo tragicamente finita del Ridolfi può risultare da una bozza d’antologia di tutto
ciò: introdotti, inframmezzati e chiusi da sette duetti di Martini, per
nulla religiosi e anzi talora fin troppo bolognesi, ecco una Sonata per
due trombe di Jacchini, una Pastorale per organo di Palmerini, due
passi dall’Orfeo ed Euridice di Gluck (“Chi mai dell’Erebo” e “Che farò
senza Euridice?”), due passi dall’Alceste di Gluck (“Divinità infernal”
e le danze finali), l’ouverture e la “cavata” protagonista del Midridate
di Mozart, il Dies irae del Requiem di Martini. Non c’è posto, qui, per
il Gianni Schicchi di Puccini, opera comica d’origine addirittura americana che verso la fine, però, fa mormorare, biascicare, esclamare,
gridare a una decina di personaggi “Ladro! ladro!” più e più volte alla
volta del dantesco falsificatore di persona e testamento. Se lo sarebbe meritato, quello astutissimo del Sacro Monte, e chissà quante
volte se lo sentì soffiare alle spalle o anche accusare in faccia. Però
la brutta, bruttissima fine non troncò troppo presto la redditizia e
per così dire brillante carriera. Forse anche il conte Lucchini, come il
Falstaff di Verdi, era convinto che bisognasse sempre stare attenti a
“rubar con garbo e a tempo”?
Progetto a cura di Cesarina Casanova, Silvia Napoli,
Alessandra Scagliarini, Diana Tura
Progetto grafico e comunicazione a cura di Valentina Gabusi
Commento musicale a cura di Piero Mioli