Antologia - La Brianza del Cavallo Rosso

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Antologia - La Brianza del Cavallo Rosso
ANTOLOGIA DEI TESTI TRATTI
DA IL CAVALLO ROSSO
D I
E U G E N I O
C O R T I
ANTOLOGIA DI TESTI TRATTI DA IL CAVALLO ROSSO DI EUGENIO CORTI
I testi antologizzati sono desunti dalla 27a edizione del Cavallo rosso, Edizioni Ares, 2009.
Si ringrazia Edizioni Ares.
Vol 1 parte I Cap. 1 pp. 7-8
Incipit del romanzo
Vol. 1 parte I CAP. 3 pp. 17-20
Ambrogio
Fine di maggio 1940; avanzando lenti uno a fianco
dell’altro Ferrante e suo figlio Stefano falciavano il prato. Alle loro spalle il cavallino sauro attendeva attaccato
al carro; aveva consumata per intero la bracciata d’erba
messagli davanti da Stefano all’inizio del lavoro: con
avidità l’aveva mangiata, sollevando e squassando di
continuo la testa per respingere il collare voluminoso
che gli scivolava lungo il collo. Adesso, senza muoversi
d’un passo, protendeva la bocca per carpire le foglie del
gelso nella cui ombra era stato lasciato: insieme con le
foglie strappava anche la scorza dei rami più teneri che
apparivano – dove le sue labbra erano giunte – spezzati
e bianchi come ossicine.
Di tempo in tempo Ferrante si drizzava sulla schiena
e, fatto eseguire al lungo manico della falce un mezzo
giro, ne poggiava la punta a terra; la lama veniva così
a trovarsi orizzontale davanti al suo petto: era bordata
al filo da una poltiglia verde un po’ schiumosa, l’umore
dell’erba. Con la cote, che traeva da un corno di bue
appeso alla cintola, il contadino liberava prima la lama
dalla poltiglia, quindi si dava ad affilarla, alternando con
ritmo il massaggio della cote sui due lati del filo. Allora
per rispetto anche il figlio cessava di falciare, e girata la
propria falce si metteva ad affilarla allo stesso modo.
“E’ un buon lavoratore” pensò, osservandolo mentre
eseguiva questa operazione, Ferrante: “Non stacca se
non ne ha motivo, e mai per primo”.
“Oramai resisto più io di lui” pensò invece il figlio Stefano, e avvertì una sensazione d’orgoglio mescolato a
dispiacere. “Soltanto l’anno non era così” rifletté; sbirciò
il padre: robusto, con il collo piantato come un tronco tra
le spalle, e quei baffi color pepe che gli coprivano quasi
la bocca, non era certo uomo da ispirare compatimento.
“Però ha quasi cinquant’anni” si disse Stefano. Accortosi che il padre aveva notato il suo sguardo, sempre
seguitando a massaggiare con la cote il filo della falce
il ragazzo girò lentamente gli occhi, fino a fermarli sulla
carrareccia che dalla Nomanella, la loro cascina, saliva
al paese, a Nomana.
Pedalò lentamente sulla carrareccia verso casa. L’accompagnò da principio, da un riquadro di grano, il canto
intermittente d’una quaglia; nelle pause di quel canto
solitario il silenzio della sera era punteggiato da altre
voci agresti, in genere minime, cui il ragazzo tendeva
l’orecchio: il mio paese, pensava, ecco il mio paese.
Quante volte tra le mura opprimenti del collegio era
tornato cl pensiero a questi luoghi, all’ambiente in cui
era nato!
Dalla carrareccia gli venne a un tratto incontro uno
scalpiccio, il rumore inequivocabile di due zoccoli di legno; guardò incuriosito davanti a sé, ma la viuzza – che
in questo tratto era fiancheggiata da siepi piuttosto alte
di gelso e di biancospino – faceva una curva che gl’impediva la vista.
“Chi sarà?” si chiese incuriosito: “Chi può venire alla
Nomanella a quest’ora? Forse qualcuno in cerca di latte
fresco. Se no chi altro? Beh, adesso vediamo.”
Era Giustina, la sorella ventenne di Stefano, la maggiore dei quattro figli di ferrante e Lucia. Ambrogio se
la trovò davanti a metà curva; frenò e mise un piede a
terra: “Oh, Giustina” esclamò “salve!”.
“Buona sera” gli rispose Giustina guardandolo lieta,
anche se incerta se fermarsi oppure no. Indossava il
grembiule nero da operaia, aveva i capelli castani trattenuti a crocchia da un pettine sulla nuca, e gli occhi
grandi di Stefano e della mamm Lusìa. Calzava zoccoli
alti di legno che rendevano ancora più snella la sua
figura già sottile (forse, chissà, a giudicare adesso, col
senno di poi, troppo sottile).
“Come va, Giustina?”
“Si lavora” rispose lei in dialetto, accentuando un bel
sorriso.
“Vedo. Ritorni adesso”
“Abbiamo fatto un’ora di straordinario.” la ragazza
fece per riavviarsi.
“Te ne vai già?” disse con rincrescimento Ambrogio.
“Cos’hai, paura che ti mangi?”
Giustina s’imporporò fino alla radice dei capelli. “No”
gli rispose, “ti conosco. So che sei un ragazzo pulito
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non solo di fuori ma anche di dentro.”
“Questa è farina del sacco si don Mario” rilevò subito Ambrogio: “è una frase sua. Però detta da Giustina
devo ammettere che non suona fuori posto”.
La giovane gli sorrise di nuovo: “Buona sera” e s’avviò.
***
La carrareccia – lunga circa un chilometro – prima
d’entrare in Nomana costeggiava come s’è detto il giardino d’Ambrogio, o meglio del padre di Ambrogio, l’industriale tessile. Siccome il piano del giardino era di
qualche metro più alto del piano della carrareccia, lo
conteneva un vecchio muro sormontato nel solo tratto
centrale a una balconata in arenaria, per tutto il resto da
una lunga siepe di mortella, dalla quale sporgevano qua
e là, protendendosi sulla carrareccia, grossi rami d’albero. Mentre pedalava rasente il muro Ambrogio l’esaminò riflessivo, com’era sua abitudine: individuò alcune
nuove infiltrazioni d’acqua, forse là dove all’interno più
premevano le radici degli alberi. “A saper vedere, tutto
si consuma, ogni cosa finisce” gli avvenne di pensare “i
vecchi muri come i periodi che si succedono nella vita
della gente…” La sua vita però – si disse subito – era
solo all’inizio, anzi finora non era stata che preparazione: la vera vita per lui sarebbe cominciata adesso, nel
prossimo autunno per esempio, con l’università, dove
oltretutto c’erano le ragazze… Altro che pensare alla
fine! La fine era pensabile per… per i… i vecchi, insomma per gli altri, non per lui. la prospettiva della fine
lo fece addirittura sorridere tanto era incommensurabilmente lontana. Non indugiò comunque in tali pensieri,
perché non era portato alle fantasticherie.
Alzò invece lo sguardo a controllare se per caso qualcuno dei suoi famigliari fosse alla balconata; non c’era
nessuno. “Naturale. Mica è l’ora di venire a godersi la
vista delle montagne.”
I suoi fratelli (sei, tutti minori di lui) dovevano in questo momento essere in casa intorno alla madre: quelli
tornati dal collegio stavano probabilmente raccontando
episodi della loro vita di studenti, e i due più piccoli dovevano starli ad ascoltare con grande attenzione. Stasera, a cena, dei famigliari sarebbe mancato soltanto
Manno, il cugino orfano che da sempre viveva con loro;
di due anni più anziano d’Ambrogio e studente d’architettura, Manno si trovava adesso a Pesaro, alla scuola
ufficiali d’artiglieria: se fosse scoppiata la guerra, Manno
ci si sarebbe trovato subito dentro fino al collo.
Dopo avere costeggiato il giardino, la carrareccia s’innestava nella strada maestra che da nord sale a Nomana: all’incontro delle due strade il muro del giardino
formava un angolo smussato nel quale era ricavata una
nicchia con un affresco della Madonna del rosario seduta col Bambino in braccio su uno sfondo di montagne
(vi si riconoscevano bene le due Grigne e il Resegone); sormontava l’affresco una scritta ad arco: ‘Regina
sacratissimi rosarii ora pro nobis’. Ambrogio accennò
un inchino in segno di saluto e prese verso sinistra la
strada maestra che proprio a questa altezza si faceva,
entrando in paese, da bianca acciottolata. Premette con
più forza sui pedali, costeggiò la recinzione ovest del
giardino, quindi una parete priva di porte della sua casa,
infine, dopo un altro tratto di recinzione, giunse a uno
slargo circoscritto da una breve cancellata a mezzaluna
con l’ingresso nel giardino.
Da questo slargo egli poteva vedere interamente la
sua pacifica casa, color giallo ocra, a tre piani, vecchia
di almeno cent’anni: aveva un aspetto agiato, anzi signorile, eppure fino a cinquant’anni prima era stata una
fabbrica tessile, poi in parte fabbrica e in parte abitazione; solo da una ventina d’anni (da quando cioè s’era
sposato suo padre) era stata trasformata interamente in
abitazione. Da bambino Ambrogio aveva fatto in tempo
a vedere gli ultimi telai a mano in solaio: uno solo funzionava ancora, e avrebbe continuato a funzionare finché non si fosse ritirato l’operaio che lo manovrava, un
pensionato coi baffi a manubrio, scherzoso coi bambini
e straordinariamente semplice (così – s’immaginava allora Ambrogio – doveva essere tutta la gente una volta)
il quale asseriva di ricordare il tempo in cui a Nomana le
donne portavano ancora in testa la raggiera d’argento.
“E gli uomini? Cosa portavano in testa gli uomini?” gli
chiedevano i bambini, conoscendo già la risposta.
“Gli uomini, magari, qualche pidocchio” rispondeva
lui; e non si capiva se dicesse la verità, o lo dicesse
per far ridere.
Vol. 1 parte I CAP. 11 pp. 44-48
La dichiarazione di guerra dell’Italia
In piazza c’era già un po’ di gente in attesa. Guardavano tutti l’elettricista e insieme idraulico del paese
che si dava un gran da fare intorno a due altoparlanti
applicati in modo alquanto fortunoso alla facciata del
municipio.
La corrente degli operai (sensibilmente diminuita perché durante il percorso non poche madri di famiglia se
n’erano staccate per andarsene a casa) si arrestò dietro
alla gente in attesa. A una finestra del municipio si affacciava ogni tanto il segretario politico signor Cereda,
il quale a un tratto chiamò, agitando una mano, uno dei
tre o quattro uomini in camicia nera ch’erano pure in
attesa in un crocchio a parte. Questi s’affrettò ad accorrere sotto alla finestra. Il segretario gli disse qualcosa e
l’uomo – si trattava di Alfeo, capo dell’istruzione premilitare – si portò a passi energici di fronte alla folla: “Quelli
davanti devono formare una riga diritta” prescrisse. E
siccome la gente, pur guardandolo, non si decideva a
ordinarsi: “Ecco: così, così, e così...” provvide egli stesso ad allinearne alcuni, al modo che faceva coi suoi
allievi; gli altri allora si allinearono da sé.
Il segretario controllava alla finestra, approvando: dietro la riga allineata di Alfeo la gente seguitava a far
macchia, ma il segretario non se ne diede pensiero.
“Sono contrari alla guerra” pensava, “lo credo bene. Chi
potrebbe essere così bestia da volere la guerra? Però
una cosa è certa: che al fronte questi briantei (brianzö)
non faranno forse l’eroe, ma il loro dovere lo faranno
anche nelle situazioni più bestiali. A differenza magari
di quegli scalzacani di studenti che oggi gridano ‘viva
la guerra’”. Avendo partecipato al conflitto precedente
sapeva quel che diceva. “Cos’altro dunque” concluse
“potrebbe volere da me il partito?” Si ritirò dalla finestra;
Alfeo tornò al suo piccolo crocchio.
Gerardo, Ambrogio e Luca erano capitati accanto a
un gruppo in cui pontificava in dialetto un tizio dall’aspetto sgradevole, che essi conoscevano solo di vista:
il signor Pollastri, impiegato della Previdenza Sociale
a Incastigo. Costui, al fine di farsi sentire da un ascoltatore autorevole come Gerardo, aveva rafforzata un
po’ la voce: “I tedeschi ormai la vittoria ce l’hanno in
tasca” sosteneva: “Vi rendete conto? Appena un mese
fa – anzi giusto un mese fa, come dice il giornale, cioè
il dieci maggio – hanno attaccato il Belgio e l’Olanda
e sono passati come nel burro, e anche tutta la prima
linea francese ha dovuto cedere. E il corpo inglese?
Quel poco che s’è salvato, s’è salvato scappando come
le lepri.”
Alludeva a Dunkerque: Ambrogio sapeva che colui diceva il vero, perciò la cosa gli riusciva ancor più insopportabile. Al pari degli altri giovani educati nelle scuole
cattoliche d’elite di Milano, egli conosceva il giudizio
ripetuto dal papa Pio XI – milanese, anzi brianteo – ai
visitatori più preparati della sua ex diocesi di Milano: essere i nazisti dei veri e propri anticristi nel senso evangelico del termine. Che il nazismo potesse ora impadronirsi davvero, tutt’a un tratto, dell’Europa – come le sue
attuali strepitose vittorie militari facevano temere – era
per Ambrogio e per i suoi compagni di scuola, se pur in
confuso, una prospettiva così intollerabile che essi non
accettavano nemmeno di prenderla in considerazione.
“E quest’altro attacco dei tedeschi, che è cominciato
pochi giorni fa?” continuava il Pollastri: “Non avete letto
il giornale? Hanno già fatto a tocchi tutta la nuova linea
francese, e ormai stanno marciando su Parigi: nessuno
li può più fermare. E’ così o non è così?”
Sembrava che le cose stessero precisamente così,
purtroppo. “E’ per questo dunque che anche noi saltiamo addosso alla Francia?” gli oppose mentalmente
Ambrogio: “Come hanno fatto i russi con la Polonia l’anno scorso, quand’era già in ginocchio? Che schifo!” Era
una prospettiva talmente ignobile che... il giovane finì
col voltare le spalle al Pollastri. Da quest’altra parte un
gruppo d’operai della sua ditta osservava con crescente
interesse i tentativi dell’elettricista-idraulico per mettere
in funzione i suoi apparecchi: “Guarda il Pirovano Oreste, guardalo.”
“Non se la cava mica.”
“Macché.”
“Oreste, sta attento di non cadere dalla scala.”
“Guardalo, batte con la mano sull’altoparlante perché
si decida a parlare.”
“Allora Oreste? Si decide o no?”
“Forza, pestalo più forte.”
Questi frizzi dispiacevano all’elettricista della ditta,
Tarcisio (quell’operaio alto di statura e ricciuto – ardito
nella precedente guerra – che Ambrogio e Stefano dieci
giorni prima avevano visto attraversare la piazza diretto
alla benedizione) il quale era buon amico del Pirovano
Oreste. “Sono apparecchi che vengono usati di raro”
cercava perciò di spiegare Tarcisio a chi gli stava vici-
no: “Per questo Oreste ha difficoltà a farli funzionare.
Quand’è che li avranno usati l’ultima volta? Forse al
tempo delle sanzioni.”
“Oreste” gridò allora uno dei motteggiatori: “sta attento che se non riesci a farlo funzionare, Alfeo ti mette le
sanzioni.”
A questa uscita anche Luca, ch’era un ragazzo solitamente serio, scoppiò a ridere di gusto. Dovette ridere per forza anche Tarcisio, disapprovava però con la
testa.
Intanto altra gente arrivava nella piazza e si disponeva a tergo dei presenti. Uscirono di chiesa anche il prevosto e il coadiutore don Mario, che rimasero in attesa
nel pronao, passeggiando tra le colonne di serizzo con
aria preoccupata.
Improvvisamente nell’aria esplose un tremendo boato, che si prolungò con alti e bassi fino a quando il
Pirovano Oreste non ebbe regolato il volume dei suoi
apparecchi: allora si tramutò nelle acclamazioni della
folla romana in attesa della parola del duce. Il segretario
politico, accorso alla finestra del municipio per vedere cosa stesse succedendo, si affrettò a questo punto
a scendere in piazza e a mettersi davanti alla gente.
L’annunciatore da Roma descriveva esaltato i labari, i
manipoli, la folla ‘oceanica’ (termine questo che – come
l’altro, ideologicamente opposto ma non meno disumanizzante, ‘le masse’ – qui dava sui nervi a più d’uno);
alle descrizioni si alternavano pezzi di musiche marziali.
Finalmente, acclamato da rinnovate altissime grida, si
apprese che s’era affacciato al balcone di palazzo Venezia Mussolini.
Questi, ottenuto il silenzio (certo con uno dei suoi
gesti risoluti) cominciò a parlare: “Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e
delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’impero e del
regno d’Albania, ascoltate. Un’ora segnata dal destino
batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni
irrevocabili.” Di nuovo dagli altoparlanti si riversarono
scrosciantissime grida ed acclamazioni, poi si rifece silenzio: “La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori...” un boato di esultanza interruppe
il discorso: “agli ambasciatori” Mussolini riprese “di Gran
Bretagna e di Francia...” Interruppero di nuovo il discorso altre urla giubilanti, e acclamazioni,e fischi all’indirizzo di quelle nazioni.
Qui a Nomana nessuno vi si univa. Alfeo e tre o quattro dei suoi ci s’erano bensì provati, ma come a mezza
voce, e avevano smesso subito.
Il punto era un altro, ed era che ormai non esistevano dubbi, cominciava la guerra, la più terribile delle
calamità collettive nel tempo moderno. Tutti quei popolani ricordavano le invocazioni dei loro preti che s’erano
particolarmente raffittite nelle ultime settimane: ‘A fame,
a peste,a bello, libera nos Domine. Libera nos...Libera
nos’. Il Signore non aveva accolta la preghiera, ecco.
Segno che i peccati degli uomini erano cresciuti fino al
punto di impedirglielo. Da tempo don Mario lo spiegava
così bene: “State attenti: è vero che Dio è amore, ma
non può continuare a trattare gli uomini come bambini
irresponsabili...” Chi li aveva commessi quei peccati?
Dove li avevano commessi? Anche a Nomana, sì, era
inutile negare: “Guardate in voi stessi, non cercate lontano” diceva don Mario, e diceva bene, appena che uno
riflettesse. Così adesso non rimaneva che rimboccarsi
le maniche e far fronte al guaio tremendo in cui ci si
stava ficcando, un guaio nel corso del quale non pochi
sarebbero stati uccisi. A quanti del paese sarebbe toccato, e a chi precisamente?
Il discorso continuava: “quarantacinque milioni di anime...” ma ormai la gente di qui lo seguiva solo per inerzia; ciò che davvero interessava lo si sapeva: il guaio
aveva con certezza inizio. Mussolini concluse: “Popolo
italiano corri alle armi” (“Sì, sì” gridava la folla: “Sentili
i romani” mormorò a mezza voce qualcuno con irritazione) “e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore.”
Finito il discorso, il segretario politico si girò verso
la gente: “Mi raccomando di osservare bene le norme
dell’oscuramento” disse con molto giudizio. Poi levò
all’improvviso il braccio nel saluto romano: “camerati di
Nomana, saluto al duce.”
“A noi” gridarono Alfeo e alcuni altri.
“L’adunata è finita” disse il segretario, e rientrò in municipio; la folla cominciò a disperdersi.
Vol. 1 parte I CAP. 13 pp. 49-52
La cartolina
Nei giorni seguenti non poche cartoline-precetto fioccarono qua e là in Nomana, e anche Stefano ricevette la sua. Non lui direttamente: a riceverla dalle mani
del portalettere fu sua madre. Il portalettere Chin, ben
noto per l’insipiente emotività che lo faceva di continuo
esorbitare dal suo compito e interferire negli affari non
suoi coi quali veniva per ragioni d’ufficio a contatto, in
quei giorni stava superando se stesso: siccome sapeva
che la consegna d’una cartolina-precetto in tempo di
guerra può essere il principio di una tragedia, quasi
ad ogni cartolina che consegnava si sentiva in dovere
di fare qualche stranezza. A volte, se a riceverla era
l’interessato, gli palpava ad esempio il bicipite esternando ammirazione vera o simulata, per infondergli fiducia;
altre volte al contrario – specie quando, sul finire del
suo giro, si ritrovava stanco e tediato – agitava con insistenza la mano destra davanti al viso dell’interlocutore
perplesso, a significargli chissà quali guai. Se a ricevere
la cartolina erano i parenti, proclamava magari che lui
col richiamo non ci aveva che fare, che la colpa non
era mica sua, o altre cose stravaganti. Co, risultato che
riceveva dalla gente infastidita non pochi rimbrotti.
Alla mamm Lusìa, fattasi sulla porta al suo giungere in
bicicletta nell’aia della Nomanella, Chin – il quale poco
prima era stato abbondantemente insolentito da un richiamato – tese la cartolina rosa senza parlare, con un
gesto che riuscì quasi lapidario, tanto da intimidire un
poco la povera donna. La quale non allungò subito la
mano a ritirare il foglietto, ma prima se l’asciugò nervosamente nel grembiule: l’arrivo del portalettere l’aveva
sorpresa mentre sciacquava la verdura, e qualche minuzzo verde aderiva ancora alle sue dita.
Firmò in silenzio la ricevuta, poi ringraziò con voce
che si sforzava di mantenere come sempre pacata:
“grazie Chin.” Il portalettere le rispose allontanando
prontamente da sé, col palmo della destra, il ringraziamento, a significare che si rendeva conto nella presente
circostanza di non meritarlo; quindi infilò la ricevuta nella massiccia borsa di cuoio, zeppa di corrispondenza,
che portava a tracolla, salutò alzando alla visiera le dita
unite della mano destra in modo quasi militare (era il
suo abituale modo di salutare) e voltata la bicicletta
proseguì austero il proprio giro. Austero, ma non oltre
il limite che gli consentiva la sua scriteriata emotività,
tanto che appena fuori dall’aia si voltò ripetutamente,
torcendo anche il collo, per esplorare l’effetto della sua
visita.
***
ma Lucia, che era rientrata in casa, non se ne accorse; del resto non gliene sarebbe importato niente.
Sedette su una sedia accanto ai fornelli spenti, col foglietto rosa nelle mani: vi lesse attenta, con lentezza,
qualche parola qua e là: non c’era dubbio, si trattava
dell’atteso precetto militare per Stefano. La disturbò ad
un tratto la circostanza d’essere in quel momento sola
in casa: ci fosse stata qui Giustina, oppure Ferrante, o
almeno la nonna… erano talmente abituati a dividere
tutto tra loro! Comunque anche questo, d’essere sola,
era in fondo un fatto marginale, insignificante, di fronte
all’altro ben maggiore, ben più grave fatto che suo figlio, il suo Stefano, doveva partire per la guerra. Le si
sollevarono dentro – mescolandosi tra loro – innumerevoli ricordi: di Stefano quand’era piccolo, con l’abitino a
gonna (la vestinèta) che, con la mano tesa verso di lei,
provava le prime parole; e più piccolo ancora, appena
di pochi mesi, quando fradicio di sudore per quella tremenda febbre, era stato sul punto di morire; e poi di
forse otto anni, che fattosi vigoroso correva come un
torello nell’erba alta, ridendo per il vento in faccia; e
ancora Stefano pochi giorni prima, giovane serio, che
le toglieva di mano la fascina della legna: l’aveva voluta
spezzare lui la legna per la polenta: “Perché non m’avete data una voce, mamma? sapete che non voglio che
facciate lavori pesanti.” Il suo Stefano! Mescolandosi a
questi ricordi le s’aggirava per la testa anche ciò che
aveva udito raccontare da Ferrante e da altri intorno alla
guerra. Il particolare di un morto austriaco e di uno italiano che erano stati sepolti insieme nella stessa fossa,
di modo che mai e poi mai i parenti avrebbero potuto
distinguere i loro resti. E… e… tanti altri episodi confusi,
grandiosi, terribili, che chissà come si erano svolti nella
realtà. E, insieme, quei nomi di macchine della morte,
la mitraglia soprattutto, che chissà com’era fatta, e non
era il solo, ce n’erano altri nomi come quello, odiosissimi per una madre. E presto suo figlio, il suo Stefano, si
sarebbe trovato mescolato a tali nefande cose.
Sarebbe diventato bersagliere, che sono soldati esposti. Certo lui non avrebbe fatto di proposito lo spavaldo,
né cercato i pericoli, neppure però – e questo la madre
lo sentiva con certezza – si sarebbe tirato indietro. “Purtroppo è di quelli che fanno, non di quelli che parlano”
pensò con inconscia polemica popolana. E dunque in
mezzo a tutte quelle occasioni di morte… A una simile
prospettiva l’angoscia la invase; la sua intima emozione
divenne tale che si sentì mancare il respiro. Cercò allora con gli occhi l’effigie della Madonna alla parete: una
stampa popolare in cui prevaleva l’azzurro, il colore del
cielo sereno. Il volto amato della Madre di Dio e anche
quel colore ebbero il potere di calmarla un poco. Cominciò allora a muovere le labbra, a pregare, rimproverandosi di non averlo fatto prima: da chi avere conforto se
non da Colui che potendoci chiedere qualunque cosa,
ci chiede soprattutto amore, pietà e benevolenza per i
nostri simili? Che Costui esistesse gliel’insegnava non
meno della chiesa l’esperienza di tutta la sua vita: non
siamo soli, c’è realmente Qualcuno che si interessa a
noi, e a volte, nei momenti più decisivi per noi e per
i nostri cari, lo sentiamo intervenire; è una realtà che
ci capita di percepire con molta chiarezza, anche se
poi ci è difficile ridirla agli altri mediante parole. Non
sempre però interviene, soltanto a volte… Attirò i suoi
occhi una cartolina infilata in un angolo del quadro sacro: raffigurava un gruppo marmoreo della Madonna col
Cristo morto sulle ginocchia, la didascalia diceva che la
statua si trovava in san Pietro a Roma, e da Roma appunto Giustina aveva ricevuta quella cartolina, inviatale
da suor Candida durante un memorabile pellegrinaggio di qualche anno prima. Quell’immagine ricordò con
spavento alla madre che il mescolarsi alle cose umane
del soprannaturale non esime affatto dal dolore, che la
stessa Madonna aveva avuto ucciso il proprio adorabile
figlio.
Vol. 1 parte I CAP. 17 pp. 61-62
Il giardino e la casa di Ambrogio
Se al mattino faceva pratica in fabbrica, nel pomeriggio Ambrogio si godeva liberamente le vacanze.
Dedicandosi innanzitutto a lunghe ore di lettura in
giardino. Sedeva di solito su una sdraio sotto un albero
di fico, cresciuto spontaneo al margine del prato: intorno
aveva l’erba coi suoi fiori incoltivati: ranuncoli gialli, margherite, tarassachi e altri di cui ignorava il nome. Spesso nelle ore di gran sole in giardino non c’era nessuno
all’infuori di lui, se non talvolta i due fratelli più piccoli,
Rodolfo e Giudittina (gli altri erano partiti per la montagna), che indugiavano chini sul terreno a giocare con gli
stampi e la terra. portavano – i due bambini – berretti
bianchi calati fino alla nuca, anzi sul collo, e i loro gesti
erano lenti, assonnati: così chini pareva che il gran sole
dall’alto li premesse con la sua vampa contro il suolo.
In quelle ore non giungevano ad Ambrogio altri rumori
che ronzii di insetti, il pigolio dei passeri dal tetto della
casa, crescente a volte fino a sfociare in improvvise
baruffe subito risolte (i passeri, che tra gli uccelli sono
i più vicini agli uomini, sembrano anche fra tutti i più
rissosi), e ogni tanto dagli alberi la strofe ben modulata
del capinero: un gorgheggio di poche note delicatamente variate, che per lui finiva col costituire la voce stessa
dell’estate in Brianza. Se la strofe si ripeteva con più
insistenza il giovane interrompeva magari la lettura e
si metteva in ascolto: gli capitava allora di svagare altrove col pensiero, gli occhi fissi sul fogliame del fico
sopra la sua testa, oppure nelle nuvole che navigavano
altissime nel cielo. Pensava a tante cose: per esempio
alla sconosciuta ragazza che sarebbe stata un giorno
sua moglie, la quale doveva ben esistere da qualche
parte, e cercava a volte di raffigurarsela; oppure a quale sarebbe stata la sorte della patria, trascinata senza
criterio in questa guerra, che ora sembrava, in realtà,
impegnarla ben poco; e anche alla sua sorte personale
pensava, una volta che l’avessero chiamato alle armi.
Tornava infine al presente, e riprendeva la lettura.
Ogni po’ di tempo si alzava in piedi, buttava il libro
(“Ivanhoe” o “Ilia e Alberto” o “I fratelli Caramazov”) sulla sedia a sdraio, e si sgranchiva con quattro passi per i
viali del giardino e dell’orto. tra gli alberi c’era anche nei
giorni più caldi una sensibile frescura; erano, gli alberi,
di altezze diverse, alcuni – qualche abete in particolare
– sorpassavano i venti metri; inframezzati ad essi cre-
scevano cespugli e arbusti di molte specie, non però nel
più folto, dove attecchiva soltanto l’edera che copriva il
terreno in modo uniforme. Là dove tra i rami sovrastanti
si apriva qualche finestra di luce, nell’edera crescevano
ciuffi di felci, e un’erba strana, misteriosa, dai fiori deformi di colore cupo; sui pendii esposti a nord, all’edera si
sostituiva il muschio, vegetazione, tutta questa minore,
spontanea, e non diversa da quella che cresceva nei
boschi della campagna.
Tenendo le mani dietro la schiena Ambrogio vagava
per i vialetti bordati dalle criniere dell’erba convallaria:
non fosse stato in montagna, qui tra gli alberi avrebbe
certamente incontrato suo fratello Pino, quindicenne, il
quale trascorreva si può dire le proprie vacanze, dal
primo all’ultimo giorno, a insidiare gli uccelli col Flobert.
ma ora Pino era via, e gli uccelli sugli alberi avevano
tregua.
Vol. 1 parte I CAP. 25 pp. 81-83
Michele Tintori di Nova
A fine agosto i due giovani fecero insieme ritorno a
Nomana, dove Ambrogio riprese la vita di prima: impiegava la mattina a far pratica in ditta, e il pomeriggio
nella lettura e nelle gite in bicicletta.
Un giorno decise di visitare un compagno di collegio
domiciliato in Brianza, che come lui si sarebbe iscritto all’università cattolica di Milano. Si trattava d’un tipo
interessante, intenzionato fin dalle elementari a fare,
nientemeno, lo scrittore: il Michele Tintori di Nova, figlio
unico d’un grande invalido della guerra precedente.
Mentre di primo pomeriggio pedalava alla volta di
Nova, Ambrogio riandava tra sé l’originale personalità
del suo compagno. Senza dubbio l’inclinazione dell’arte
gli veniva dal padre il quale, sebbene di cultura modestissima (scalpellino di mestiere, doveva aver sì e no
frequentata la quinta elementare), aveva a suo tempo
scolpito dei drammatici bassorilievi, ora sparsi in varie
chiese della zona. Anche altri compagni di collegio –
Ambrogio ricordava – erano intenzionati a fare lo scrittore oppure il poeta, e in effetti qualche loro poesia (“ma
perché tutte quante ermetiche? Mah”) compariva ogni
tanto sul bollettino del collegio! Solo obtorto collo, e per
assoluta mancanza di meno disdicevole palestra, i futuri
poeti si risolvevano a pubblicarvi le loro opere accanto
ai fervorini del rettore e alle cronache dell’accademia
scolastica. “Comunque su nessuno degli altri io punterei una lira, sul Michele Tintori invece...” Quello era
come fatto d’una pasta speciale. “Vero che anche lui
ha pubblicato più d’una poesia sul bollettino, quand’era
nelle elementari però, non in ginnasio o in liceo come
gli altri.” Ambrogio ricordava bene questo particolare:
il Tintori aveva iniziato a scrivere poesie in terza o in
quarta elementare; ovviamente allora gli mancava ogni
nozione di metrica, e non d’autentici versi s’era trattato,
ma d’infantili composizioni rimate, così almeno gli aveva
poi detto lo stesso Tintori. Il quale a un tratto aveva intuito (“A guardar bene sta qui la sua forza: nell’intuizione”) di non essere sulla strada giusta, e infante com’era
aveva risolutamente smesso di scrivere le poesie che
pure il bollettino (a quell’età non disprezzato) gli stampava. Ambrogio lo ricordava poi più avanti, quando al
principio del ginnasio era stato distribuito il testo d’Omero. Fino ad allora probabilmente il Tintori, al pari degli
altri allievi, di Omero aveva ignorata l’esistenza: appena
però s’era trovato tra le mani le sue pagine, n’era stato
preso al punto che non se ne sarebbe mai staccato. Era
incredibile quanto lo attirasse quella poesia... Ambrogio
continuava a riandare tali vecchie cose mentre pedalava con energia in mezzo ai campi di stoppie azzurrati
dagli ultimi fiordalisi, tra Seregno e Desio. “Quante volte
l’ho visto, nelle ore di ‘studio’, liberarsi in fretta dalle
altre materie per prendere in mano il libro d’Omero!”
ragazzino com’era il Tintori percorreva quel nuovo esaltante dominio addirittura con la gioia dipinta in faccia
e – cosa inedita nel loro ambiente – si seccava quando la campana elettrica della ricreazione l’obbligava a
staccarsi dal libro. “Poi, a metà ginnasio, ha cominciato a scrivere romanzi...” Ambrogio sorrise: i ‘romanzi’
come li chiamavano loro suoi compagni, erano in realtà
racconti fantastici, in genere ambientati nelle epoche
oggetto delle lezioni di storia. Durante tali lezioni, mentre il professore parlava, la fantasia del Michele Tintori
non riusciva a contenersi: ogni episodio o notizia, le
figure del testo, perfino i nomi obsoleti contenuti nelle
carte dell’atlantino, costituivano per lui spunti a vicende
immaginarie, a storie che si susseguivano con fervore
nella sua mente. Aveva cominciato a mettere per iscritto quelle fantasticherie, riempiendo poco alla volta dei
quaderni. Il tempo di studio non gli bastava più, s’era
perciò messo a scrivere anche durante le ore di lezione:
col risultato che l’uno o l’altro professore finiva col prenderlo sul fatto, e col sequestrargli il ‘romanzo’.
Come il professore Zaròli quella volta: “Perché non
segui la lezione, Tintori? Cosa stai scrivendo? Fa vedere.” Aveva sfogliato il quaderno: “I fenici? Che c’entrano i fenici?” Se adesso stiamo studiando l’età romana?
Cosa? Una nave fenicia nell’Atlantico assalita da...da
piroghe indigene? Che scempiaggine è questa?”
Il Tintori, mortificato ma non molto, aveva cercato di
sottrarsi alle spiegazioni: “Chiedo scusa. Mi voglia scusare.”
“Ma cos’è che stai scrivendo, si può sapere?”
“Mi sono lasciato prendere la mano da...”
“Da cosa?”
“Non lo so.”
L’intera scolaresca, che fino allora s’era contenuta,
era a un tratto esplosa: “Signor professore, è un romanzo.” “Un romanzo storico.” “Anche il professore di
matematica gliene ha sequestrato uno.” “Questo è il
terzo che gli trovano.” “Il primo era una storia di antichi
greci che esploravano il Caucaso.” “Sì, con le armi di
bronzo e una colonna di muli, come le upozughìa di
Senofonte, e...”
“Dunque ti piacciono i muli, eh?” aveva detto, a buon
conto sarcastico, il professore Zaròli: “rispondi.”
Il Tintori aveva finito col non sottrarsi più: “Sì, i muli, e
le navi, e... tutto quello che esiste mi piace” aveva risposto, o press’a poco: ciò che Ambrogio adesso ricordava
era che, in quell’occasione, la parola muli, la parola
navi, in bocca al suo compagno avevano assunto una
sorta di strano incanto.
Dopo averlo disapprovato con un’occhiata il più possibile severa, il professore aveva ripresa la lezione. Al
romanziere il manoscritto darebbe stato reso solo alla
fine dell’anno scolastico, allorché venivano restituiti i
temperini, i fischietti, le palline da ping pong, e gli altri
corpi estranei sequestrati nel corso delle lezioni.
Però! Quanti ricordi pareva ad Ambrogio di avere già
adesso, a diciannove anni.
Vol. 1 parte I CAP. 28 pp. 89-90
Le lezioni di arte di Manno
Nel corso delle due settimane che trascorse a Nomana prima di tornare alle armi, Manno dedicò – come
aveva promesso a don Mario – alcune serate ai ragazzi
dell’oratorio.
Riprese nel punto in cui le aveva interrotte, certe sue
lezioni sull’arte. “l’arte, se è autentica, indirizza a Dio”
(non si sorprenda il lettore d’incontrare subito dopo il
Michele Tintori, un altro giovane appassionato di Dio:
dopo tutto ci troviamo in Brianza, nella Brianza d’allora.) “Questo prima di partire io ve l’ho detto un sacco
di volte: è la convinzione che sta alla base dei nostri
incontri, lo sapete.”
I ragazzi, seduti davanti a lui sulle sedie impagliate
dell’oratorio, lo seguivano attenti: sapevano che, a differenza dei suoi cugini Ambrogio e Fortunato, Manno non
intendeva fare l’industriale (del resto non ne aveva il
tipo: dell’industriale brianteo almeno che, come s’è detto, era quasi sempre d’estrazione popolare: Manno aveva modi diversi, più raffinati e disinvolti); doveva comunque avere ragioni ben importanti, pensavano i ragazzi,
per rifiutare quell’opportunità che la vita gli offriva.
“Sentiamo te Carlino” provò a interrogarli il giovane:
“Perché io dico e ripeto che l’arte indirizza a Dio? Te
lo ricordi o non lo ricordi più, e ti pare che io lo dica
soltanto perché ci troviamo all’oratorio?”
L’interpellato, levatosi in piedi, si trovò in difficoltà a
rispondere: “Perché nell’arte c’è il particolare, cioè no,
l’universale. Eh, non mi ricordo più bene.”
Gli altri ragazzi ridacchiarono, ma in modo contenuto:
avevano tutti una certa difficoltà a ricordare quei concetti astratti sminuzzati per loro con tanta pazienza da
Manno, studente del secondo anno di architettura.
“L’arte” disse il giovane “è ‘l’universale nel particolare’, è questo che tu volevi dire, che abbiamo detto tante
volte.” (Nel ripetere l’antica definizione che ha orientato
gli artisti dei secoli in cui l’Italia è stata veramente grande in arte, Manno non provava la minima soggezione
verso le estetiche nuove, tutte più o meno in contrasto
tra loro, di cui sono oggi pieni i testi e le riviste specializzate.) “Ma cosa significa, a metterla in spiccioli, questa
frase? Prova a spiegarla con parole tue.”
“Vuol dire che l’arte è... è una specie di...” si sforzava
di ricordare il Carlino Valli, diciassette anni, apprendista
giardiniere.
“Beh, vedo che è necessario fare un ripasso generale. Cercate di stare attenti perché, queste cose potranno servire a tutti: sia a quelli di voi che faranno l’operaio, per arricchimento della loro mente, sia soprattutto
a quelli che intaglieranno il legno o batteranno il ferro,
o faranno il disegnatore industriale, che sono lavori ai
quali noi briantei siamo molto portati. Tant’è vero che
la nostra scuoletta professionale di Nomana, con tutto ch’è solo serale, arriva quasi ogni anno a piazzare
qualche concorrente nei concorsi provinciali e anche
nazionali. Come tuo fratello Umberto, eh Giacinto? Che
tre anni fa è uscito campione nazionale di disegno.”
“Adesso Umberto è soldato a Udine” dichiarò compiaciuto Giacinto.
“Lo so” disse Manno.
“Giacinto, non disturbare” intervenne don Mario: “il
fatto che tuo fratello adesso si trovi a Udine piuttosto
che in un altro posto, non c’entra con questo discorso.”
Il giovane prete – capelli a spazzola, faccia da bambino con occhiali cerchiati di ferro sottile – presenziava
sempre insieme coi ragazzi: “Voglio imparare anch’io”
asseriva.
Vol. 1 parte IV CAP. 10 e 11 pp. 289-294
Un macello bestiale
Oltre il varco il terreno scendeva verso un angusto
pianoro, attraversato da un filare di alberi spogli. Al piede dei quali c’era... qualcosa.
“Voi fermi qui” disse Acciati in un soffio. A Bellazzi
invece fece segno di portarsi avanti con lui; con molta
cautela i due raggiunsero un punto da cui potevano
osservare meglio.
Al piede degli alberi sembrava ci fosse una lunga cresta artificiale di neve; dietro ad essa si scorgevano dei
corpi oscuri.
Di che porca roba si tratta?” mormorò l’ufficiale. Aggiunse, dopo un po’: “Pare una trincea di neve... Se
è così direi che è nostra,dato che, vedi il terreno? Le
scende davanti verso nord, verso il Don.”
“Sì” convenne sottovoce Bellazzi, e dopo qualche
istante: “E’ nostra, sì. Guardate: è messa a tagliare la
strada che stiamo cercando. La vedete la strada? Là
davanti, che sale verso la trincea?”
“E’ una strada quella?” mormorò Acciati. “Non si capisce bene. Così al buio non si può dire.”
Bellazzi lo guardò in faccia, rimaneva della propria
opinione e anzi la voce, pur molto bassa, gli si fece
speranzosa: “Forse le cose non vanno poi tanto male;
forse stiamo per prendere contatto con qualche reparto del Sesto” disse. “Potremmo anche portare a casa
buone notizie.”
Acciati seguitava a scrutare fissamente. “‘Sta storia
non mi convince” sussurrò. “Perché sono così fermi?
Tutti quanti immobili?”
“Se stanno dormendo?”
“Disposti a quel modo? E poi, qualche vedetta almeno... Beh, non ci resta che andare a controllare.” Si
volse al sottufficiale: “Ci vai tu Bellazzi, con un altro.
State bene attenti, perché se incappate nei russi poco
potremo fare per voi. Hai sentito l’ordine del capitano?
State ben attenti.”
“Signorsì” disse Bellazzi.
I due tornarono dai bersaglieri che seguitavano ad
aspettare inginocchiati. “Giovenzana” chiamò, sempre a
bassa voce, il sottufficiale: “Vuoi venire anche tu?”
Stefano, che non aveva la minima idea di dove si trattasse d’andare, si fece avanti senza una parola. Ascoltò
attento il piano d’avvicinamento che tenente e sergente
abbozzarono insieme, poi si avviò col sergente, mentre
tutti gli altri, senza far rumore, avanzavano alquanto,
fino a prendere posizione nella neve coi moschetti spianati.
***
Con un giro abbastanza complicato, straordinariamente guardinghi, i due esploratori raggiunsero la trincea di neve senza farsi scorgere. Vogliamo dire che se
in quella trincea ci fosse stato qualcuno di guardia non li
avrebbe visti arrivare, tanto la loro manovra fu accorta;
di guardia però non c’era nessuno.
La trincea conteneva soltanto morti. La maggior parte ancora in posa di combattimento, sdraiati o in ginocchio, con le braccia in atto di puntare il moschetto;
alcuni, guarda, non avevano più l’arma, e altri giacevano addirittura su un fianco nella neve, ancora però in
quell’atteggiamento di puntare un’arma, rigide statue di
ghiaccio che il nemico, entrando dopo il combattimento
nella trincea, doveva aver rovesciato con uno spintone
o con un’ultima fucilata. Tutte le statue portavano l’elmetto piumato ed erano ricoperte di brina.
“Sono bersaglieri, tutti bersaglieri...” ripeteva sgomento Bellazzi.
Si chinò su un elmetto per leggerne il numero; a tal
fine dovette liberare dalla brina lo stemma dipinto, sfregiandolo col guantone; aiutato da Stefano, dovette anche accendere un cerino. “Sesto” lesse infine: “Sono
del Sesto... Per la malora, guarda com’è sforacchiato
questo elmetto.”
Non solo quello, ma tutti gli elmetti erano sforacchiati,
e – come i due si resero conto – anche i corpi degli
uomini, le loro armi, nonché gli alberi al cui piede era
stato imbastito lo schermo di neve; più d’un albero –
spaccato dalle raffiche – pencolava obliquo o si era
schiantato a terra.
“Puttana la miseria. Hanno ridotto ogni cosa un colabrodo, tutto un colabrodo hanno ridotto!” ripeteva Bellazzi. “Che dannato macello. In quanti saranno stati a
sparare addosso a questi poveri cristi?”
Stefano, costernato, non diceva niente. Sia davanti
che dietro alla trincea la neve appariva fittamente calpestata, come per il passaggio di una grande folla. Ma
adesso non c’era più nessuno, soltanto i morti.
“Vieni” disse Bellazzi con voce angustiata “cerchiamo di farci un’idea di quanti sono, poi torniamo là dai
nostri.”
Percorsero lentamente tutta la trincea, lunga un centinaio di metri: v’individuarono ytra l’altro un mortaio da
81, e all’incrocio con la pista in salita un cannoncino
anticarro con accanto i serventi morti; in questo punto,
al centro della trincea, i cadaveri, l’arma e ogni altro
oggetto erano, se possibile, ancora più fittamente foracchiati dai colpi e dalle schegge.
Davanti a un simile massacro Bellazzi finì col caricarsi progressivamente di furore; procedeva irsuto, ogni
tanto tirando su col naso, sempre più determinato –
quando se ne fosse presentata l’occasione – a ripagare
della stessa moneta il nemico; adesso ogni pochi passi
bestemmiava, oppure sputava qualche parola rabbiosa.
Stefano invece seguitava a non parlare, era come instupidito dall’orrore.
Arrivati alla fine della trincea tornarono indietro al
cannoncino, presso il quale giaceva il capitano comandante del reparto sterminato. Aveva a tracolla la borsa
topografica di celluloide: gliela sfilarono con una certa
difficoltà, perché il suo lungo cinturino di cuoio era rigido come se fosse di ferro, e rigide come quelle di una
statua le membra del morto. “Questa potrà forse servirci
per riconoscere il reparto” disse Bellazzi, consegnando
la borsa a Stefano, che senza commenti se la mise a
tracolla.
Tra i cadaveri – complessivamente più d’un’ottantina
– avevano individuato anche quelli di due ufficiali subalterni, privi però di borsa di ricognizione.
Il sergente adesso esplorava ogni tanto con gli occhi
oltre lo spalto. “E i morti russi dove sono? Possibile che
li abbiano già portati via?” finì col dire.
Si chinò incerto sul cannone e ne esaminò il settore di
tiro: “Quelle due cataste di tronchi lì davanti dovevano
dare fastidio” mormorò. “Come mai non li hanno usati
per rinforzare la difesa?”
“Aspetta un momento” fece allora Stefano. Valicato
lo spalto di neve si accostò, con le suole che nell’agghiacciante silenzio stridevano, alla più vicina delle due
cataste: non era fatta di tronchi ma – com’egli aveva
sospettato – di cadaveri nemici. Al pari dei bersaglieri i
russi morti apparivano tutti incrostati di brina. “Non sono
tronchi, sono loro” comunicò con voce atona al sergente. “Non li hanno portati via”.
“Ah” esclamò allora Bellazzi: “Dunque ce n’è rimasti
anche di loro, eh?” Stefano tornò lentamente alla trincea. “Che macello bestiale!” ripeteva tra sé e sé. Si
sentiva ed era presente ai compiti immediati, ma quanto
a cavare un significato, un senso da ciò che vedeva, la
sua mente era come bloccata. Vagamente gli tornava-
no all’orecchio le accorate deprecazioni di don Mario
là a Nomana, e anche quelle parole di suo padre sulla
guerra: ‘Voi ragazzi non potete immaginare che razza
di porcheria è la guerra...’ Ma adesso non doveva pensarci, non adesso.
Quand’ebbe raggiunto Bellazzi, questi gli fece notare che a lato della pista ce n’erano diverse di cataste.
“Anche là in basso, le vedi? L’hanno pagata cara quegli
stramaledetti figli di cagna.”
“Già” disse Stefano
il sergente rimase muto per un lungo momento. “Dai”
risolse infine “torniamo”, e s’avviò.
***
Con una certa difficoltà nell’esporre, tant’erano impressionati, i due fecero la loro relazione ad Acciati, che
sforzandosi a sua volta d’accantonare l’orrore volle gli
spiegassero meglio alcuni particolari, e domandò ripetutamente se la strada a sbarramento della quale era stata costruita la trincea fosse importante o no, e insomma
se potesse essere quella che stavano cercando.
Il sergente adesso non era più del parere che lo fosse. “No, m’è sembrata troppo secondaria. Anche se una
cosa è certa: che di là è venuto su un mare di gente.”
Stefano si limitò a stringere le labbra.
Infine l’ufficiale consultò l’orologio: “sono passate le
cinque” disse 2e l’ordine è di essere a casa per le sette.
Non ci resta che fare dietro front e sgambare, anche
perché per attraversare quella strada là indietro...” fece
con la mano un gesto a significare: chissà il tempo che
ci occorrerà.
Guardarono tutti un’ultima volta, con angustia, verso la trincea presidiata dai morti, quindi si rimisero in
marcia.
Il ritorno, grazie alla pista da loro stessi aperta, fu da
principio meno faticoso dell’andata. I pensieri di ciascuno andavano e venivano dall’orrenda trincea dei morti
alla strada percorsa dalle colonne nemiche, che bisognava nuovamente attraversare. Come ne giunsero in
vista Acciati fece alt. Si scorgevano di nuovo dei fari
schermati procedere nel buio, lucciole gelide e lontane,
appena mobili.
“Avvicinarci così allo scoperto è chiaro che non possiamo, sarebbe troppo da fessi” considerò a mezza
voce l’ufficiale, il quale cercava di tenere la pattuglia su
di giri, che non gliela inceppasse l’orrore.
“Eh” convenne Bellazzi.
“ragion per cui” riprese il sottotenente “gambe in spalla e avanti da questa parte, verso sud: scarpineremo in
parallelo alla strada finché non troveremo un bosco, o
una balca, o un’altra porcheria, che ci dia modo di farci
sotto stando al coperto. Forza.”
Macinarono neve intatta abbastanza a lungo, con tremenda fatica. Avevano ripreso a fare testa-coda ogni
decina di minuti; tutti erano affranti dalla stanchezza.
“C’è di buono” disse uno, durante una breve sosta
“che non appena arrivati dovremo ricominciare a sgambare di nuovo, insieme col reggimento.”
“Sì, bella prospettiva” mugugnò un altro.
“Pensa alla ghirba tu, non alla prospettiva” fece Bellazzi.
Qualcuno ridacchiò. Stefano non diceva nulla; portava
a tracolla la borsa di celluloide del capitano morto, con
le carte topografiche e, chissà, forse tra esse qualche
documento utile: ogni tanto s’assicurava col guantone
di non averla perduta. Chissà di che compagnia del
Sesto si trattava, di quale battaglione... da queste carte
sarebbe forse venuta fuori qualche illuminazione sulle
ultime vicende di quei morti? Chissà prima della strage,
mentre aspettavano il nemico, cos’avevano detto e pensato quei ragazzi... “Probabilmente” rifletté “ragionavano e scherzavano come noi adesso...” Sentì un brivido
lungo il filo della schiena. “Però è impossibile che a noi
succeda come a loro...” Ma una voce gl’insinuava dentro: “Perché è impossibile? Rispondi: perché?”.
Vol. 1 parte VI CAP. 7 p.449
Il prigioniero russo
Da un’isba lì accanto uscì inaspettatamente un soldato russo: era armato soltanto di un pugnale,non sembrava avere intenzioni offensive, sedette nella neve
contro il muro dell’isba e si cacciò le mani in tasca;
forse si considerava prigioniero, pareva sfinito. […]
Il cappellano scorse a un tratto il soldato russo e lo
fissò sorpreso. Allora il russo tolse le mani di tasca, con
la destra sfilò il pugnale dal fodero, e con la sinistra
armeggiò al bavero del pastrano per scoprirsi la gola.
“No” urlò il cappellano: “Cosa fai? No, no!” Levò in
alto il suo Crocefisso e corse verso di lui: “No, non farlo,
non farlo!”
Il russo lo guardò interdetto, con occhi sfiniti: il cappellano gli afferrò il polso che stringeva il pugnale e
agitando con l’altra mano il Crocefisso davanti al suo
viso: “Perché ti ammazzi, perché ti ammazzi” gridava.
Finalmente il russo fermò lo sguardo sul Crocefisso,
circondò con la propria mano del frate che lo impugnava, e si tirò il Cristo contro la bocca. Gli alpini guardavano la scena in silenzio; il russo consegnò al frate il
pugnale, che venne scagliato il più lontano possibile.
“La Madre di Dio ti vuole bene” ansimò padre Crosara:
“ti vuol bene, hai capito? Dio non è come noi uomini.”
Il russo, pur senza comprendere le parole, fece con
spossatezza segno di sì.
Vol. 2 parte I CAP. 22 pp.534-535
Manno e Colomba
Vol. 2 parte III CAP. 9 pp.624-625
Milano dopo i bombardamenti
Una volta nella strada si ritrovò sotto i medaglioni
con i profili dei milanesi illustri. Quand’era bambino
aveva creduto che i dragoni da cui la villa prendeva il
nome, fossero appunto quegli otto signori lì; senza dubbio adesso altri bambini del paese dovevano crederlo.
Alzò, mentre camminava, gli occhi a osservare qualche
profilo lesse alcuni nomi: Pietro Verri, Gian Domenico
Romagnosi, (“a voi due vi pare d’essere poi tanto illustri?”), Alessandro Manzoni. Il Manzoni un dragone! A
quest’idea gli venne da ridere: “Beh, ciao dragoni” li
salutò infine tutti insieme.
Percorrendo le vie del paese guardavo ogni
cosa, le note e ben conosciute cose del suo mondo,
e adesso che l’incontro con Colomba lo stava come
rinnovando, ogni cosa, anche la più frusta, gli pareva
una scoperta, gli procurava un’acuta gioia. Sostò brevemente in chiesa “per ringraziare Dio di avermi tirato
fuori dai guai” si proponeva; ma la preghiera che gli
venne spontanea alle labbra il gloria, lo disse, e ridisse,
e ridisse ancora in un crescendo solenne e quasi dirompente, come di organo, nella penombra della chiesa
vuota. Non stava ringraziando Dio per averlo salvato
dalla guerra e dal mare, ma per avere creata Colomba,
per averla fatta com’era, per avere introdotto nel mondo
una tale creatura. Pregò con trasporto anche la madre
di Dio, la benedetta tra le donne, che si prendesse a
cuore questa, e l’aiutasse a conservarsi anche in futuro
pulita e incantevole come era adesso.
Gli aerei - tutti inglesi - tornarono molto più numerosi nel corso della notte, e guidati dagli incendi accesi
nel pomeriggio eseguirono una terribile distruzione. Il
giorno dopo - 14 agosto - la città ebbe tregua; ma nelle due notti successive le divisioni aeree tornarono in
formazioni ancora più massicce, ed operarono distruzioni quali per estensione non s’erano fino allora viste
in nessuna città italiana. Più tardi, al censimento, risultò
che dei novecentotrentamila vani che formavano Milano, ben cinquecentosessantamila erano stati distrutti o
danneggiati.
Innumerevoli case erano crollate, ingombrando anche
le strade già per loro conto interrotte da voragini e crateri; in moltissime strade non si poteva quindi più circolare, e questo rendeva difficile portare aiuto alla gente
rimasta intrappolata nei rifugi e nelle cantine; sopra la
città stagnava una tetra nube di fumo, perché gli incendi
durarono giorni.
I treni che portavano via da Milano gli sfollati (più
esatto ormai sarebbe dire profughi) non potendo partire
dalle stazioni cittadine – tutte inagibili – facevano capo,
sulle diverse linee, alle prime interruzioni. Per fortuna la
popolazione a quel tempo era già in notevole parte sfollata, e quella che lavorava ancora in città, ogni sera se
ne allontanava sistematicamente con tutti i mezzi (bisogna dire che almeno in questo lo spirito d’iniziativa dei
milanesi si esplicava ancora in pieno): così i morti furono in tutto poco più d’un migliaio, cioè incredibilmente
pochi confronto all’enormità delle distruzioni. Un morto
ogni cinquecento e più vani distrutti o danneggiati: la
gente si sarebbe rifiutata a lungo di crederci, molti si
rifiutano ancora oggi. Anche perché tanti avevano udito
i racconti degli scampati, fuggiti coi soli abiti che avevano indosso (donne specialmente, scese a caso dai treni
nell’una o nell’altra stazione della provincia – n’erano
arrivate anche a Nomana): racconti che facevano pensare a chissà quali stragi.
Vol. 2 parte III CAP. 10 pp. 626-629
Milano bombardata
Manno effettuò la tanto attesa visita a Nomana circa
una settimana più tardi, il 23 agosto.
Il suo treno – sulla grande linea ferrata proveniente
da Roma – non poté giungere alla stazione Centrale di
Milano e dovette fermarsi all’inizio della città, alla stazione di smistamento di Lambrate.
“Soltanto da ieri i treni arrivano qui” gli comunicò un
ferroviere: “Fino all’altro ieri dovevano fermarsi qualche
chilometro più indietro, dove ci sono quei crateri con
tutti quegli operai al lavoro.”
“Operai e crateri, per la verità, ne ho visti diversi.”
“Dove gli operai sono più numerosi; dove c’è quel
cratere strano, con le rotaie puntate verso il cielo.”
“Ah sì, lo ricordo.”
Il giovane era dunque sceso alla stazione di Lambrate, piuttosto malconcia, con la tettoia qua e là sforacchiata, angoli di muro asportati e grezze slabbrature
nel cemento della scalea che scendeva dal piano della
ferrovia a quello della città. Non gli era mai capitato di
fermarsi in questa stazione allora di periferia, che pure
aveva attraversato tante volte, e si guardava perciò attorno con curiosità: come succede in simili casi la trovava più complessa di quanto s’attendesse.
Giunto sul piazzale antistante notò che le strade che
ne partivano erano tutte senza eccezione invase da frane di macerie, tanto da sembrare a prima vista impercorribili.
“Son capitato bene!” pensò, e cominciò a preoccuparsi; a Nomana oltre ai parenti sperava di rivedere
Colomba, e non aveva molte ore a disposizione.
C’erano, in sosta davanti alla stazione, due camion a
cassone ribaltabile, molto scalcinati, e un motocarro del’
‘Unpa’, il servizio di protezione antiaerea; il conducente
del motocarro, un giovanotto in sommaria divisa color
caffè, forse da pompiere, notò la sua perplessità. “Signor tenente” lo chiamò, senza allontanarsi dal veicolo.
Manno lo raggiunse. “Non so dove siate diretto” disse
il conducente; “io sto aspettando il ‘capo’ per tornare in
centro, abbiamo caricato adesso dei picchi e badili: se
volete approfittare... Questione solo di minuti.”
“Va bene” gli rispose Manno “grazie.”
Di lì a non molto uscì dal sotterraneo della stazione il
‘capo’, un geometra anziano con cartella sotto braccio;
strinse la mano dell’ufficiale e lo fece accomodare sul
sedile a panca del veicolo alla destra del conducente,
mentr’egli prendeva posto alla sinistra: “Stiamo un po’
stretti, eh?” commentò ridacchiando, ma aveva la mente altrove, al suo non facile lavoro.
I pochi viaggiatori scesi con Manno che ancora indugiavano nel piazzale – due o tre – alla vista del veicolo
in partenza accorsero. Dopo averli avvertiti: “Noi andiamo in centro” il geometra consentì loro di montare sul
cassone.
Il motocarro s’avviò imboccando la più larga delle
strade: arrivato alla prima frana di macerie, che dal
piazzale sembrava ostruire completamente il passaggio, si avventurò a passo d’uomo sobbalzando e inclinandosi fortemente, sul suo margine più basso, ch’era
stato spianato in modo sommario.
La medesima manovra si ripeté alle frane successive,
in un’altalena continua.
Milano - l’ufficiale si rese conto - era stata ben più
duramente colpita di quanto le notizie diffuse dalla radio
facessero supporre. Egli aveva addirittura l’impressione che neppure una casa fosse rimasta indenne. Molte, anzi moltissime, risultavano rase al suolo in cumuli
informi di macerie; ancor più numerose erano quelle
demolite solo in parte: sull’interno dei muri diroccati di
queste si disegnavano a riquadri di diversi colori le pareti dei locali scomparsi, su qualcuna c’era ancora un
quadretto o un mazzo di fiori artificiali appeso di sghembo; si vedevano anche lembi di pavimento che sostenevano a mo’ di mensola qualche mobile, per esempio
una sedia, un attaccapanni, oppure un letto di ferro a
metà pencolante nel vuoto.
Le strade - anche le poche ch’erano già state in qualche modo ripulite - risultavano tutte senza eccezione
cosparse di minuti frammenti di vetro, perché non un
vetro pareva fosse rimasto integro; in qualche telaio di
finestra se ne scorgevano degli avanzi con incollate sopra strisce di carta, secondo il suggerimento dato dalle
autorità competenti. “ Il nostro modo di fare la guerra
“ pensò amaramente il giovane, “la nostra risposta ai
quadrimotori!” Rifletté tuttavia con equanimità, che anche lassù nelle città inglesi da cui gli arerei erano partiti,
dovevano esserci dei vetri rotti con le loro brave strisce
di carta incollate sopra… Non provava per il nemico
alcuna animosità: “E’ il modo di fare la guerra degli
anglosassoni, inglesi e americani.” Lui li aveva conosciuti in Africa: “Non potrebbero mai battere i tedeschi
sul campo, però hanno senza confronto più macchine,
specialmente aerei con cui possono distruggere le città
e le retrovie avversarie, e le distruggono. Diversamente vincere non potrebbero, e alla lunga finirebbero con
l’essere vinti.”
Ma radere al suolo le città italiane proprio mentre il
nuovo governo stava sforzandosi in tutti i modi d’uscire
dalla guerra…
“Si vede che non si fidano del nuovo governo, che
non ci credono. Così di noi italiani non si fidano loro,
e non si fidano - a ragione - i tedeschi. In conclusione,
povera Italia!”
Strada dopo strada, sempre attraverso quell’uguale
spettacolo di desolazione, in cui tuttavia si scorgevano
parecchie squadre d’operai al lavoro, il motocarro arrivò in centro. Fece alt nell’impolveratissima piazza della
Scala, dov’erano parcheggiati altri mezzi similari e un
certo numero d’autocarri a cassone ribaltabile.
Vedete che situazione anche qui?” disse, dopo essere sceso a terra, il geometra al tenente, indicando
tutt’intorno.
La copertura a cupola del grande teatro, orgoglio della città, non esisteva più, era sprofondata, scomparsa.
Della cinquecentesca mole di palazzo Marino, sede del
comune, che fronteggia il teatro, rimanevano soltanto
le mura annerite: tutto l’interno era franato, divorato dal
fuoco. Quanto alla Galleria (‘il salotto di Milano’) come
ricordò Manno) che collega Piazza della Scala alla vicina piazza del duomo, era totalmente ostruita dalle sue
grandi volte in ferro e vetro, cadute o pencolanti fino al
pavimento.
“Che bel servizio!” mormorò il giovane, nel linguaggio
con cui i soldati, non potendo sfuggirla, ricevevano ogni
tempesta, fosse d’acqua o di fuoco.
“Eh” sospirò l’uomo anziano, “eh!” Poi sembrò riscuotersi: “Se volete arrivare a un treno per Monza, vi
consiglio di rivolgervi ai conducenti di quei mezzi là in
fondo. Chissà che l’uno o l’altro non debba partire con
destinazione Sesto, o press’a poco…” Tese la destra al
giovane, che gliela strinse e lo ringraziò.
In effetti un mezzo sarebbe ‘molto probabilmente’ partito per Sesto entro un’ora; si trattava di un altro triciclo,
anche più sgangherato del precedente e appena requisito: l’insegna del suo ex proprietario, un lattoniere, era
ancora visibile sotto una frettolosa mano di vernice.
“La Provvidenza” pensò subito il giovane: “guarda, la
Provvidenza mi viene incontro.” Non mancò tuttavia di
chiedersi se, in così enorme sfacelo, fosse pensabile
che la Provvidenza stesse davvero prendendosi cura
d’un essere minuscolo come lui, e anzi del suo problema in fondo neppure vitale, di andare in licenza per
un giorno… Ricordò quella frase del Vangelo: anche i
capelli che ciascuno di voi ha sul capo sono contati, e
si rispose con convinzione che la Provvidenza stava, né
più né meno, prendendosi cura del problema d’un essere minuscolo come lui. Ma dei problemi di tutti gli altri
allora, di quelli che erano morti schiacciati, o soffocati
nelle cantine, o avevano perso la casa e i beni?
Nell’attesa che quest’altro veicolo si risolvesse a partire, il giovane cominciò a passeggiare su e giù lungo
uno dei marciapiedi di piazza della Scala, quello davanti
all’imponente sede della Banca Commerciale. Già, e
tutti gli altri? Gli tornò in mente una seconda frase del
Vangelo: cosa conta un passero? eppure neanche un
passero può cadere senza il permesso di Dio.
Doveva dunque rispondersi che, quanto agli altri, la
Provvidenza - la quale stava adesso prendendosi cura
della sua licenza - aveva invece con indifferenza consentito che fossero uccisi? “ Vediamo, cerchiamo di capire.”
Bisognava prendere la rincorsa un po’ da lontano per
dare la scalata a un ostacolo come questo. C’era - lui
n’era convinto - una Provvidenza (un’azione conservatrice e promotrice di Dio) che presiede alle vicende degli
astri e delle galassie (cos’era questo pulviscolo del nostro pianeta terra, se confrontato coi miliardi di miliardi
di astri dell’universo?) e presiede anche, sulla terra, alla
crescita del singolo filo d’erba e alla sua evoluzione nel
corso dei millenni. Soltanto un essere privo d’intelletto
potrebbe infatti credere che un organismo così straordinariamente complicato come un filo d’erba (“pensa anche solo alle ‘memorie’ che dentro un minuscolo seme
d’erba determinano il suo ordinato sviluppo individuale,
e nei millenni l’evoluzione della specie in accordo con
l’evoluzione di tutto il creato…”) solo un essere privo
d’intelletto potrebbe credere che tutto ciò sia frutto del
caos, e non opera di una Intelligenza. E che Intelligenza! Venendo poi agli uomini…
Prima d’andare oltre l’ufficiale si chiese se fosse davvero il caso di fare tante riflessioni esistenziali nel mezzo d’una catastrofe come questa, e si rispose che sì: “
Forse quando la vicenda che stiamo vivendo è la più
grande del consueto, o è particolarmente tragica, proprio allora dovremo rinunciare a riflettere? “
Era dunque arrivato agli uomini. I quali sono gli unici,
fra tutti gli esseri creati, che hanno la possibilità d’andare contro l’ordine posto da Dio nel creato: gli uomini sono cioè gli unici esseri veramente liberi, appunto
perché sono liberi nei confronti di Dio. Questo stesso
disordine, questo enorme disastro che gli stava sotto
gli occhi, ne era una dimostrazione. Perché certamente
Dio non aveva voluto questo male: bastava pensare alle
parole di Cristo e anche solo del papa, contro la violenza e la guerra. Dio aveva dovuto tollerare, ecco, aveva
dovuto permettere questo male, e tutte le altre cattiverie
e carognate che gli uomini fanno: e ciò per non andare contro la loro libertà. Il gran problema del male nel
mondo… Appunto per non impedire la libertà dell’uomo
(il che equivarrebbe in conclusione a snaturare l’uomo)
Dio è costretto a tollerare il male.
Ricominciamo: c’era la Provvidenza, cioè un’azione
conservatrice e promotrice di Dio, nell’esercizio della
quale egli si compiace di partecipare con amore anche
ai casi delle sue creature più piccole (ai problemi del
filo d’erba e al problema della licenza di Manno per
esempio - come il giovane avvertiva così bene). E c’era
la libertà umana che - unica - può andare contro l’ordine di Dio. Così stando le cose è grazia che al male
si connetta la sofferenza, la quale trattiene in qualche
modo gli uomini nello scempio ch’essi possono fare del
creato e di sé stessi.
Rimaneva il fatto che a Milano e altrove non pochi,
del tutto innocenti, erano periti. A un tratto Dio non li
aveva più protetti né aiutati, non aveva più potuto… Per
non opporsi alla libertà dell’uomo, tutto ciò che Dio aveva potuto fare era stato di morire - in Cristo - con loro,
innocente con gli innocenti, in modo da accomunare al
proprio il loro sacrificio, sublimando quest’ultimo: Cristo
e tutti gli innocenti con lui, compensavano il male compiuto dagli altri esseri liberi, in particolare da quelli che
non accetterebbero mai di emendarsi…
“Può venire per ciascuno l’ora del sacrificio: gli innocenti però non muoiono inutilmente, ecco il punto”; ciò
ridava senso alle cose.
Il giovane ufficiale decise - se mai un giorno fosse
stato a sua volta chiamato al sacrificio - di rispondere
fin d’ora “presente!”
Non immaginava che quel giorno si stava avvicinando
con tragica rapidità.
Vol. 2 parte VI CAP. 11 p. 832
Il secolo dei tedeschi
[…] (Noi non troviamo gratuita la sua perplessità. Se
è vero che non esistono popoli superiori, né inferiori,
agli altri, è anche vero che ogni popolo ha un proprio
momento di particolare efficacia, in cui è chiamato a
costruire con grandezza non solo per sé, ma per tutti, e
secondo ogni verosimiglianza il nostro avrebbe dovuto
essere il secolo dei tedeschi. Li abbiamo visti al culmine delle possibilità realizzatrici, come devono essere
stati gli elleni nel loro tempo più felice, quando diedero
alla civiltà quell’incommensurabile apporto, come i romani alcuni secoli più tardi, e gli italiani nel medio evo,
e gli spagnoli nel cinquecento, quando furono tali da
arrestare nel vecchio mondo la minaccia dell’Islam e
in pari tempo da colonizzare il nuovo. Come i francesi nel settecento, come infine nell’ottocento gli inglesi,
quando con la macchina e l’industria moderna hanno
creato nuove, impensate possibilità di vita per l’umanità intera. Disgraziatamente il loro grande momento i
tedeschi l’hanno sciupato al seguito di falsi maestri, in
un’impresa del tutto contro Dio, escludendosi con ciò
dalla possibilità di costruire alcunché. E non basta: lo
sperpero delle loro immense energie – di cui gli ultimi brandelli avrebbero portato l’uomo sulla luna – e la
perdita di un numero così spaventoso di loro, uomini
dotati di fermezza oggi introvabile altrove, avrebbero
negli anni a venire rappresentato per l’umanità intera un
impoverimento forse irreparabile.)
Vol. 3 parte I CAP. 7 pp. 906-908
Il ritorno di Pierello
Finché - superato l’Adda sul ponte di Brivio - erano
entrati in Brianza. Verso nord l’anfiteatro dei monti andava gradualmente assumendo la fisionomia che Pierello conosceva così bene; nell’ultimo tratto prima di
Nomana gli erano infine venuti incontro paesi e luoghi
noti. Ecco laggiù, dopo il bivio di Visate, la cascina Nomanella, con la forma di rettangolo aperto: aveva sempre davanti, allineate, le tre piante di ciliegio e il fico più
piccolo. Chissà se in questo momento ci stava quella
bella ragazza quieta, Giustina? E di Stefano avevano
o no avuto finalmente notizie? Quei poveri Ferrante e
Lucia… Al margine nord di Nomana si scorgevano gli
alberi del giardino dei Riva: Manno… chissà se Manno
era tornato?
A Verona l’autista aveva promesso a Pierello che
l’avrebbe portato fino alla sua frazione, la Lodosa; attraversarono perciò Nomana senza fermarsi. Sempre
seduto nel cassone con la schiena contro la cabina e
il cappellaccio tirolese in testa, emozionato, il reduce si
guardava intorno con avidità: riconobbe uno dopo l’altro
tutti quelli che camminavano per strada, e ne salutò
diversi con la mano e con la voce, tra gli altri Giuliaccio
che, con gli occhi mesti e le braccia pendenti, seguitava guerra o no a portare immutabilmente in giro il suo
gran corpo dalla colonna vertebrale offesa. Al pari degli
altri Giuliaccio impiegò un certo tempo per riconoscere Pierello, e rispose al suo saluto ch’era ormai fuori
portata di voce. Solo Chin, il portalettere strampalato,
che pedalava sulla sua bicicletta con la grossa borsa
di cuoio legata al manubrio, lo riconobbe istantaneamente e : “Piero, Piero!” gli gridò animandosi: “Bravo
il Piero…” per rimanere però subito indietro anche lui.
Il ponte che scavalcava la ferrovia sembrò a Piero inverosimilmente piccolo; dopo di che, superato il modesto campo sportivo del paese e certi boschi di robinie,
gli venne incontro la campagna che scendeva alla sua
Lodosa. Era coltivata parte a grano, già con la spiga,
d’un bel verde che rubava gli occhi, parte a prato, qua
e là percorsa da filari gelsi; in basso lungo la bevera i
salici e i pioppi s’erano molto infoltiti, al punto d’impedirgli di vedere l’esigua corrente pulita nella quale tante
volte, da bambino, lui aveva pescato col fazzoletto i
ghiozzi, quei pesciolini che sembrano insetti. Li pescava
insieme con ‘Castagna’ e gli altri bambini della sua età;
per valorizzare la loro pesca infantile Castagna usava
affermare: “A me basta mangiare otto dieci di questi
ghiozzi per sentirmi satollo (sagòll)” Chissà se adesso
Castagna era a casa?
Ecco la Lodosa: non più d’una dozzina tra case e
casette, su tre strade ad angoli retti davanti a una secolare cascina a corte che dava il nome alla località; di
ciascuno di quegli edifici egli conosceva ogni più minuto
particolare. Il cuore gli batteva forte mentre, levatosi in
piedi e tenendosi con le mani alla ringhiera che sovrastava la cabina, esplorava ogni cosa, se ci fossero cambiamenti; no, non c’erano cambiamenti, soltanto ogni
cosa gli risultava molto più piccola di come la ricordava.
Era ormai la seretta, l’ora gentile che in campagna
precede le ultime fatiche della giornata; il camion avanzava a piccola velocità, l’aiuto autista sporse a un tratto
ridente la testa dal finestrino, e volgendola indietro: “
Dove sta la tua casa? “
“E’ là in fondo, una delle ultime. Ma fermatevi qui:
avete fatto fin troppo, fermate, dai, fermate.”
“Quali ultime?”
“Non si vede, è là dietro quell’edificio.”
“Okay” fece l’aiuto autista, e ritirò la testa in cabina.
Superato l’edificio la casetta entrò in vista; l’autocarro
si fermò alquanto prima sulla strada - anzi stradetta
ormai - che fendeva i campi compatti di grano, all’incrocio con una carrareccia: nella quale entrò in parte a
retro marcia per poi, manovrando, disporsi sulla strada
in senso inverso, col muso rivolto a Nomana; non venne
spento il motore, autista e aiuto non scesero di cabina.
“Piero, sei arrivato” disse il sergente.
“Sì” fece Pierello “sì.” Adesso era quasi spaventato.
Prese il sacchetto che gli faceva da valigia, si premette
sulla testa rotonda il cappello tirolese, e scavalcata la
sponda dell’autocarro saltò a terra; vi giunse un po’ pesantemente, perché aveva le gambe intorpidite.
La sua casa era a qualche decina di metri, lungo la
strada: piccola e piuttosto misera (ora se ne rendeva
conto), col balconcino bordato da una smilza ringhiera
di ferro tubolare e, a pianterreno, un esiguo vano a mo’
di portico. All’esterno non c’era nessuno.
Pierello si fece sotto la cabina, col suo sacchetto in
mano: “Perché non scendete a berne un bicchiere?”
invitò i due autisti.
Dall’interno della cabina i due gli fecero segno di no,
sorridendo, e che avevano fretta; poi lo salutarono,
sempre più a gesti che con la voce, e l’autocarro ripartì.
“Ehi… allora vi ringrazio, grazie tante” gridò il giovane.
“Ciao Piero” gli gridò il sergente dal cassone.
“Ciao” rispose Pierello. Così la naia per lui era proprio
finita, finita per sempre. S’avviò verso casa sulle gambe
intorpidite.
Vol.3 parte II CAP. 10 pp 1010-1012
Il miracolo di Sant’Antonio
Giuditta e Rodolfo li avevano seguiti in sala; il reduce
sorrise loro, ma faceva fatica ad interessarsi ad altro
che ad Alma. La quale lo guardava con i suoi occhi
castani, onesti, un po’ sorpresa dal suo comportamento. Finì con l’esprimere il pensiero che aveva formulato poco prima:”Gli scrittori sono sempre un po’ strani”
disse.
Michele annuì. Poi si schermì alzando alquanto le
spalle, come a dire:”Che ci possiamo fare?”
“Senti”propose la ragazza”perché non mi racconti
un… miracolo? Voglio dire, uno di quei casi attraverso
cui sei passato?”Ma subito ci ripensò:”No, non adesso;
cosa dico? Questo non è il momento.”
“Perché? Se ti…” incluse con uno sforzo anche gli
altri: “se vi fa piacere. Vediamo un po’, un miracolo…
”fece Michele, e intanto pensava: “Ma perché cercarne
un altro? Non basti tu come miracolo? Se n’è mai visto
uno più bello?” “Dunque, vediamo… Beh, una specie
di miracolo - guardate che non scherzo - l’ha fatto una
volta sant’Antonio a un cappellano bergamasco, un certo padre Turla, che stasera è arrivato con me a Milano.
Anche Ambrogio e Francesca l’hanno visto.”
“Sì, è vero” confermò Francesca che in quel momento
era entrata in sala a prendere delle stoviglie: “Forse
adesso è ancora là in stazione Centrale, povero padre,
a cercare di confortare quei due poveretti.”
“Due poveretti?” chiese Alma.
Rodolfo e Giudittina i quali, in attesa del racconto di
Michele, si erano pure seduti al tavolo, guardarono le
sorelle maggiori infastiditi, mostrando di non gradire interferenze.
“I genitori di uno che non è tornato” spiegò il giovane
ad Alma, ma senza aggiungere altro: non voleva appenarla: esistono anche le ragioni della vita, non solo
quelle della morte. I due ragazzi, con gli avambracci
poggiati sul tavolo e il mento sui pugni sovrapposti, lo
guardavano in attesa.
“Io, intendiamoci, a questo miracolo non ho assistito”
precisò Michele “perché non facevo parte di quella colonna, ch’era quasi tutta di alpini. Padre Turla però me
lo ha raccontato e confermato più d’una volta, anzi in
certi momenti di fame maledetta m’è capitato di sentirgli
dire: ‘ Ah, se sant’Antonio facesse ancora il miracolo
del pane! ‘
Insomma ragazzi, per farla breve è successo questo:
che quella colonna d’alpini prigionieri marciava ormai
da quindici giorni senza - si può dire - mangiare mai,
diretta a un posto orribile che si chiama - o meglio si
chiamava - Crinovaia. Era febbraio, ancora inverno,
moltissimi erano già morti di freddo e di stanchezza,
ma soprattutto di fame, perché al gelo e alle fatiche gli
alpini di per sé resisterebbero. Beh, padre Turla stava
in coda alla colonna, con i più sfiniti, che camminavano
trascinandosi; se uno cadeva, nessuno era più in grado
di sollevarlo, e le guardie allora…”
“Allora?” chiese spaventata Giudittina, coprendosi la
bocca con le mani.
“Insomma una situazione molto brutta, proprio brutta.
‘ Avessimo anche soltanto un pezzo di pane ‘ pensava il
cappellano, e gli veniva in mente sant’Antonio da Padova che ha moltiplicato il pane per i poveri. ‘ Ma chi è più
povero di noi? ‘ ragionava lui, ‘ che per rimanere in vita
abbiamo solo questo poco fiato che c’è rimasto? ‘ Ha
finito col dirlo anche a sant’Antonio, col pensiero, si capisce: ‘ Sant’Antonio, rispondimi: chi è più povero di noi,
eh, chi? ‘ Quasi s’arrabbiava: ‘ Sai cosa ti dico? Che se
non ripeti anche per noi il tuo miracolo, qui e adesso, tu
sei ingiusto.’ Capite? E insisteva, perché era in uno di
quei momenti in cui un unico pensiero ti si ferma nella
testa e diventa una specie di fissazione.”
“Attenti che Michele non dice per dire” avvertì con
discrezione Ambrogio, ch’era appena rientrato: “Questa
è una cosa che ho provato anch’io.”
“Anch’io” affermò Giudittina.
“Oh, tu” fece con spregio Rodolfo.
“Beh, la colonna era arrivata a un paese di isbe, che
son casette col tetto di paglia - quasi tutti i piccoli paesi
in Russia sono così - e il cappellano ha cominciato a
dire: ‘ Vedi sant’Antonio, il pane tu potresti per esempio
farmelo trovare sulla neve là in quel punto, dove c’è
quella macchia che somiglia giusto a una pagnotta ‘.
“Povero me” pensava intanto” che vedo pane dappertutto! “Eppure quella cosa sulla neve sembrava proprio
una pagnotta: che lo fosse davvero? Padre Turla s’è
stropicciato gli occhi:
‘Adesso mi vengono anche le traveggole ‘ fa, continuando, mentre camminava, a guardare in quel punto.
La forma si trovava appena un passo o due fuori della
pista, tutta la colonna c’era sfilata vicino; quand’è arrivato lui s’è abbassato, ha allungata una mano e l’ha
raccolta: era davvero un pane, un grosso pane russo,
appena un po’ impolverato di neve.”
Giudittina batté col palmo delle mani sul tavolo.
“Per assicurarsi meglio, il cappellano l’ha spezzato in
due: non c’erano dubbi, era proprio pane, ed era anche
fresco, non congelato. Dice: ‘ Hei, guardate: sant’Antonio ha fatto il miracolo ‘ e mostra il pane agli altri soldati
sfiniti, che non credevano ai loro occhi; poi lo ha diviso
in pezzi e mangiato con loro.”
Michele parlando s’era rivolto più ai ragazzi che ad
Alma; terminato che ebbe fermò lo sguardo in viso alla
ragazza, annuì, e disse serio:”Lo so che può sembrare
una favola, uno di quei fioretti di san Francesco; però
com’è vero Dio, questo fatto è accaduto. Non solo padre Turla, ma anche altri me l’hanno riferito, tra cui un
alpino della Cuneense che ha mangiato un po’ di quel
pane. Secondo abbiamo cercato di ricostruire poi, quasi
certamente il pane doveva averlo depositato lungo il
percorso delle colonne qualche donna russa: perché
le contadine in Russia sono ancora d’animo cristiano e
buono, solo che in quei momenti dovevano stare molto
attente, perché era proibito aiutare i prigionieri. Sant’Antonio l’avrà ispirata, e ad ogni modo quel pane l’ha fatto
trovare a padre Turla che lo invocava.”
“Perché una donna russa?” intervenne Giudittina:
“Non occorre. Sant’Antonio il pane può crearlo anche
dal niente.”
“Allora non sarebbe stato pane russo” le spiegò, una
volta tanto con garbo Rodolfo: “Non capisci? Sarebbe
stato pane italiano allora, perché sant’Antonio è di Padova.”
“Ah già, questo è vero.”
Michele guardava il bel viso attento di Alma: come gli
riusciva naturale parlare di simili cose davanti a lei! “In
sua presenza torna a rivivere il mio bel medio evo…”
Vol. 3 parte II CAP. 19 pp. 1036-1037
Michele e Almina a passeggio in Milano
Vol. 3 parte III CAP. 7 pp. 1071-1072
L’affissione dei manifesti elettorali
Sulla città, umida per la nebbia dei giorni precedenti,
batteva un sole ancora quasi invernale; e tuttavia anche
nelle sue strade si avvertiva l’approssimarsi della primavera per certe folate d’aria fresca ma non cruda, un’aria
nuova, che a Michele faceva tornare in mente le viole
della sua infanzia. Camminarono l’intero pomeriggio, incuranti di dove andassero, perché la loro gioia li accompagnava dovunque. Del resto non si sentivano attratti
da alcun luogo in particolare perché - al contrario di
Fanny - sia l’uno che l’altra non conoscevano locali più
o meno alla moda (ed erano implicitamente contenti di
non conoscerli: da quei campagnoli che in fondo erano,
ma anche da persone ricche dentro, cui ciò che stava
all’esterno avrebbe in ogni caso più tolto che aggiunto.)
Sul tardi, mentre il buio scendeva e la stanchezza cominciava a tagliare le gambe di Almina (ma per nessuna ragione lei ne avrebbe parlato, col rischio d’interrompere una passeggiata come quella, e un tale incanto),
il loro dialogo si trasformò, poco alla volta, in un monologo di Michele. Il quale confessò tante cose: come ad
Arbusov, nell’inferno della “valle della morte”, mentre
scendeva attraverso la botola nello stambugio sotterraneo in cui Ambrogio giaceva ferito, avesse pensato, più
che alle tragiche condizioni dell’amico, alla possibilità di
fare - salvandolo - bella figura davanti a lei: “Che vergogna a ripensarci dopo, durante la prigionia, quando non
sapevo se Ambrogio se la fosse cavata. Comunque è
andata così. “Le riferì con uguale semplicità altri terribili
episodi: rievocava la vita e la morte, i giorni e le notti
dell’interminabile prigionia, la cieca prostrazione al principio, e poi l’estenuante attesa del ritorno; e in mezzo a
tutto ciò - le diceva - simile a un piccolo lume che brilla
incessantemente nel buio, c’era stata l’immagine di lei
nel suo cuore: di questa bambina con le trecce, della
quale si era un po’ alla volta sempre più innamorato. Le
sue parole rendevano le cose vissute con straordinaria
forza suggestiva: Alma provava una voglia sconvolgente di stringersi a lui, di diventare una cosa sola con lui.
Si erano accese le luci, le vetrine di Milano proiettavano riquadri gialli, come d’oro, sui marciapiedi bagnati.
La cena era al caffè (caffè vero, importato dal Brasile
come una volta) e i discorsi al tavolo s’erano frazionati,
quando giunse dalla strada un confuso vocio. I nervi
di tutti erano tesi: sebbene non mancasse una componente gioconda in quel rumore, Ambrogio, alzatosi,
anziché aprire una delle finestre che dalla sala davano
sulla strada, si trasferì nel locale attiguo: qui aprì l’unica
finestra e s’affacciò. Era in arrivo una delle squadre
di ragazzi addetti all’affissione dei manifesti; il giovane
rientrò in sala e chiamò Michele: “Vieni a vedere. “Tornarono ad affacciarsi insieme.
I ragazzi venivano avanti motteggiando e ridendo,
con alla testa come capo squadra Saulo, il maggiore
dei sette figli dell’autista Celeste (futuro industriale e futuro sindaco di Nomana, come s’è detto.) Dietro costui
avanzava il portatore della scala, con la sua scaletta di
appena sei o sette pioli collocata orizzontalmente su
una bicicletta, nonché un ragazzino più piccolo, pure
con bicicletta a mano, che portava appeso al manubrio
il secchio della colla. Dietro, coi rotoli dei manifesti e
con pennelli vari e qualche pennellessa ad asta, venivano gli altri, e in coda alcuni pressoché bambini, i quali
seguivano non per lavorare ma per gioco, e vociavano
allegramente con le loro voci bianche. Il capo squadra
Saulo, piuttosto seccato per quel chiasso, contribuiva a
incrementarlo gratificando ogni tanto la propria truppa
di frasi come: “Avanti ragazzaglia (bagaiéra), - Avanti
squadra della buona morte. - Avanti branco di paolotti
col secchio della colla…” Alle quali frasi i più vicini tra
i suoi seguaci, in particolare il piccolo che portava la
colla, gli rispondevano puntualmente: “E tu anche. - E
tu sei il capo. - E tu sei il più paolotto di tutti… “senza
perdere una battuta, finché scorsero i due alla finestra
e allora azzittirono. “Buona sera dottore” salutò il capo
squadra, e ai suoi: “Alt, ferma qui” ordinò.
Indicò uno spazio sul muro della casa di fronte: “Qui
ne mettiamo quattro, uno di fianco all’altro: due con lo
scudo e due con la faccia della Democrazia.”
“Ne abbiamo di più col filo spinato “lo avvertì uno dei
portatori dei manifesti, mentre la squadra si disponeva
all’azione.
“Lo so” rispose con voce marcatamente seccata Saulo: “Lo so. Però quelli v’ho detto che li mettiamo nella
strada del circolino comunista. Dai, non perdiamo tempo.”
Di lì a poco era costretto ad alzare di nuovo la voce:
“No, Adeodato, no. Quante volte devo dirtelo che, per
mettere la colla, il manifesto non bisogna mica stenderlo per terra? Non capisci che così sporchi la faccia della
Democrazia?”
“La faccia della Democrazia” sussurrò Michele: “Questo mi piace.”
“Vuoi che scendiamo in strada?” gli propose sotto
voce Ambrogio: “Che facciamo magari una puntata
all’oratorio? E’ là che le squadre fanno capo.”
“E’ la centrale operativa, vuoi dire?” fece Michele; risero tutt’e due.
“La centrale magari è nella sede del partito. Beh,
possiamo, se credi, passare anche da quella, si trova
giusto sulla strada per l’oratorio. Per te sarebbe un’esperienza, no?”
“Ma…e qui? Vorresti piantare in asso la compagnia?”
Era evidente che pensava soprattutto ad Almina, che
gli dispiaceva separarsi da lei; nel contempo però l’occasione di vedere coi propri occhi come si svolgeva in
paese la battaglia elettorale l’attirava.
“Forza” disse Ambrogio: “ormai la cena è finita e non
staremo mica via molto. In mezz’ora siamo di ritorno.”
Riaccostò le persiane.
“Massa di deficienti” si sentì fuori la voce di Saulo:
“Avete rovesciato il secchio della colla. Disgraziati. Adeodato, sei stato tu, eh?”
“No” si sentì la voce d’ Adeodato rispondere: “è stato
quell’impappinato di Beniamino.”
Vol.3 parte V CAP. 3 p. 1169
Michele sotto il duomo di Milano
Partito il docente lo scrittore bighellonò alquanto con
le mani in tasca nei dintorni della cattedrale. Come una
volta, quando vagava con John Burns… Poiché non poteva più disputare con lui, gli venne spontaneo recitare
per lo scrittore scomparso le preghiere dei morti, per
aiutarlo almeno da morto, visto che non era riuscito con
le sue argomentazioni ad aiutarlo da vivo. Ogni tanto
alzava gli occhi ai fastigi del duomo, che gli apparivano
da prospettive diverse: dovunque sulle guglie gotiche
c’erano statue, fatte dello stesso marmo delle pareti,
erano centinaia e centinaia. Pensò ai maestri scalpellini che le avevano scolpite: uomini sconosciuti i quali,
qui e altrove, avevano spesa la vita intera, soprattutto
nel medio evo, a scolpire con pazienza, e spesso con
arte mirabile, le statue delle cattedrali, anche quando
sapevano che una volta issate al loro posto, nessuno
avrebbe potuto ammirarle: nessuno, tranne Dio.
Lui dopo tutto non si era sempre considerato uno
scalpellino? Sebbene scolpisse pagine anziché pietra.
Cos’era dunque questa pena che l’attanagliava perché
la gente non avrebbe forse mai conosciuta la sua opera? Certo, come dice il Vangelo, non si accende un
lume per metterlo sotto il moggio: tuttavia il suo dovere
era di continuare a scrivere senza lasciarsi turbare, seguisse o no il successo. Delle sue opere avrebbe certamente goduto Iddio; e anche suo padre, lo scalpellinoscultore, che si trovava con Dio là in alto.
Vol. 3 parte VII cap. 6 p.1254
Pierello e gli scioperi
Pietro scantonò per una viuzza poco illuminata. Cosa
diavolo stava succedendo in fin dei conti, si può sapere? Dopo la guerra il benessere di tutti era cresciuto,
il popolo, gli operai, erano arrivati - lavorando sodo, si
capisce, e sacrificandosi - ad avere l’appartamento e la
macchina, e potevano mandare i loro figli all’università:
tutte cose un tempo impensabili. Certo non tutti c’erano
ancora arrivati, ma la gran maggioranza sì, e andando
avanti sulla strada buona, in un ragionevole numero di
anni ci sarebbero arrivati tutti. La gente avrebbe dovuto
essere contenta, avere finalmente il cuore in pace, e
invece… Non solo succedeva che i figli si ribellavano
genitori e alle istituzioni, come il suo Taddeo, ma la più
parte della gente anziché contenta sembrava diventata
rabbiosa. Volevano sempre di più, e sempre più presto,
e lavorando di meno… Ci s’erano messi senza misericordia anche i sindacati: da quando quelli cristiani e
quelli rossi si erano collegati insieme, prendevano le
imprese per il collo in una maniera tale che le cose dovevano finire male per forza… E infatti molte fabbriche,
pur seguitando ad alzare i loro prezzi per pagare quelle
paghe incessantemente crescenti, non ce la facevano
più, e chiedevano soldi al governo per tirare avanti, e
più d’una chiudeva: aveva chiuso la vecchia filatura sul
Lambro dove un tempo lavorava sua moglie Luisina,
e anche il nuovo salumificio di Nomana, mentre altre
fabbriche - come la Motta a Milano - erano occupate in
permanenza dagli operai che seguitavano a fare cortei.
“Dovevate aver criterio quand’era il momento, invece di
fare i cortei adesso” pensò Pierello. Ma cos’è che stava
succedendo infine? Possibile che gli uomini non dovessero mai, proprio mai, avere pace?