Foresta di cristallo - Netsaver Paul
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Foresta di cristallo - Netsaver Paul
J.G. BALLARD FORESTA DI CRISTALLO Traduzione di Jane Dolman Feltrinelli Titolo dell'opera originale THE CRYSTAL WORLD Copyright © J.G. Ballard 1966 Traduzione dall'inglese di JANE DOLMAN Su licenza Baldini Castoldi Dalai Editore © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nell'"Universale Economica" maggio 2005 ISBN 88-07-81854-X Parte prima EQUINOZIO 1. Il fiume buio Ciò che colpì più di ogni altra cosa l'immaginazione del dottor Sanders, quando guardò per la prima volta verso la grande distesa dell'estuario del Matarre, fu l'oscurità del fiume. Dopo molti ritardi, il piccolo battello passeggeri si stava finalmente avvicinando alla fila delle banchine, ma sebbene fossero le dieci la superficie dell'acqua era ancora grigia e indolente, e filtrava le tinte cupe della vegetazione che ricadeva folta e inerte lungo le sponde del fiume. A intervalli, quando il cielo era coperto, l'acqua era quasi nera, come una tintura putrescente. Per contrasto, la distesa disordinata di magazzini, depositi e alberghetti che costituivano Port Matarre riluceva tra quelle masse scure con una brillantezza spettrale, come se fosse illuminata più da qualche fonte interiore che dalla luce solare, simile al padiglione di una necropoli abbandonata, edificata su una teoria di moli scaturiti dalla giungla. Questa oscurità mattutina che pervadeva l'aria, rotta da improvvisi fasci di luce, il dottor Sanders l'aveva già notata, durante la lunga attesa alla balaustra del ponte passeggeri. Per due ore il battello era rimasto fermo in mezzo all'estuario, mandando di tanto in tanto verso la riva un fischio monotono. Se non fosse stato per quel vago senso di incertezza indotto dall'oscurità incombente sul fiume, i pochi passeggeri si sarebbero lasciati prendere dall'irritazione. A parte un'unità da sbarco militare francese, non c'erano all'apparenza altri natanti ormeggiati alle banchine del porto. Mentre osservava la riva, il dottor Sanders si sentiva quasi sicuro che il battello venisse tenuto volontariamente al largo, sebbene non riuscisse a intuirne la ragione. Il battello faceva servizio regolare da Libreville, con il suo carico settimanale di posta, brandy e pezzi di ricambio per automobili, e i suoi orari non sarebbero stati alterati se non per l'improvviso scoppio di un'epidemia. Dal punto di vista politico, in quel remoto angolo della Repubblica del Camerun la tensione non si era ancora del tutto allentata dopo un colpo di stato fallito dieci anni addietro, quando un pugno di ribelli aveva occupato le miniere di smeraldi e diamanti di Mont Royal, sul fiume Matarre a ottanta chilometri dall'estuario. Malgrado la presenza dell'unità da sbarco (una guarnigione militare francese sovrintendeva all'addestramento delle truppe locali), la vita nell'indescrivibile porto alla foce del fiume sembrava del tutto normale. Una jeep veniva scaricata in quel momento sotto gli occhi di un gruppo di bambini in contemplazione. C'era gente che passeggiava sui pontili e sotto i portici del corso principale, e alcune chiatte cariche di giare di olio di palma grezzo scivolavano sull'acqua scura verso il mercato indigeno, sul lato occidentale del porto. Nonostante tutta questa attività, il senso di disagio perdurava. Perplesso per quella luce fioca, il dottor Sanders rivolse la sua attenzione all'interno, seguendo la linea del fiume che piegava in senso orario verso sud-est. Qua e là, un'interruzione nella volta della foresta segnava il corso di una strada; ma altrimenti la giungla si estendeva in un piatto mantello color verde oliva verso le colline dell'interno. Di solito il tetto della foresta sarebbe apparso scolorito dal sole, con riflessi color giallo pallido, ma anche risalendo con lo sguardo per un tratto di sei o sette chilometri verso l'interno, il dottor Sanders vedeva soltanto fronde verde cupo che torreggiavano nell'aria smorta come cime di immensi cipressi, tenebrosi e immobili, appena sfiorati da deboli raggi di luce. Qualcuno batté sulla balaustra in un moto d'impazienza, trasmettendo una vibrazione lungo il tubo di ferro, e la mezza dozzina di passeggeri che si trovavano ai fianchi di Sanders incominciarono ad agitarsi e a borbottare l'un con l'altro, lanciando occhiate alla plancia dove il capitano se ne stava a contemplare con aria assente la banchina, apparentemente indifferente di fronte a quel ritardo. Il dottor Sanders si rivolse a padre Balthus, che si trovava a pochi passi da lui, alla sua sinistra. "La luce... l'avete notata? C'è forse un'eclisse imminente? Sembra che il sole non riesca a decidersi." Il prete fumava senza interruzione, allontanando dopo ogni boccata di un solo centimetro dalla bocca la sigaretta tenuta tra le lunghe dita. Come Sanders, stava osservando non il porto, ma le pendici dell'interno ammantate di foreste. Nella luce fioca, i suoi sottili lineamenti da studioso sembravano segnati dalla fatica e smunti. Durante il tragitto di tre giorni da Libreville era rimasto in disparte, evidentemente assorto in qualche questione personale, e aveva incominciato a discorrere con il suo compagno di tavolo solo quando aveva saputo che il dottor Sanders proveniva dal lebbrosario di Fort Isabelle. A Sanders era parso di capire che il sacerdote stava ritornando alla sua parrocchia di Mont Royal dopo un mese trascorso in certe ricerche altrove. Eppure gli era sembrato che ci fosse qualcosa di troppo plausibile in questa spiegazione che l'altro gli aveva ripetuto diverse volte, automaticamente, sempre con le medesime parole: qualcosa che non si accordava al suo modo di esprimersi più usuale, smozzicato e titubante. Comunque, Sanders era ben consapevole dei pericoli insiti nell'ascrivere le stesse ambigue ragioni della sua venuta a Port Matarre a coloro che gli stavano intorno. Ciononostante, il dottor Sanders aveva dapprima sospettato che padre Balthus non fosse affatto un prete. Quello sguardo assorto, quelle mani nervose, avevano le caratteristiche dell'impostore e facevano pensare forse a un novizio espulso che ancora sperava di trovare una qualche salvezza nascondendosi dentro una sottana presa a prestito. Comunque, padre Balthus era in tutto e per tutto autentico, qualunque fosse il significato del termine, e quali che fossero i suoi limiti. Il primo ufficiale di bordo, il cameriere e parecchi passeggeri l'avevano riconosciuto, si erano complimentati con lui per il suo ritorno e avevano accettato senza sorpresa il suo contegno riservato. "Un'eclisse?" Padre Balthus spedì il mozzicone della sua sigaretta nell'acqua scura. "Direi di no, dottore. Comunque la durata massima sarebbe di otto minuti, no?" Negli improvvisi lampi di luce sull'acqua, riflessi dai punti più aguzzi delle guance e del mento, il suo profilo assunse per un attimo un'espressione più dura. Conscio dello sguardo critico di Sanders, padre Balthus aggiunse, tanto per rassicurare il dottore: "La luce a Port Matarre è sempre così, molto fioca... una penombra... Conoscete quel quadro di Böcklin, L'isola dei morti, dove i cipressi si ergono a guardia su un faraglione di fianco a un ipogeo, mentre una tempesta si libra sul mare? Si trova nel Kunstmuseum di Basilea, la mia città natale...". Si interruppe nel momento in cui i motori del battello riprendevano a ronzare. "Ci muoviamo. Era ora." "Grazie al cielo. Avreste dovuto avvertirmi, Balthus." Il dottor Sanders cavò di tasca il portasigarette, ma il prete aveva già tirato fuori una delle sue e la teneva nella mano chiusa a coppa con la destrezza di un congiurato. Balthus si servì della sigaretta per indicare la banchina, dove una numerosa squadra di gendarmi e funzionari di dogana aspettava di ricevere i passeggeri del battello. "Ehi, che storia è questa?" Il dottor Sanders guardò verso la riva. Quali che fossero le difficoltà personali e private di Balthus, Sanders si sentiva irritato per la mancanza di umiltà del sacerdote. Quasi tra sé, disse in tono asciutto: "Forse è una questione di credenziali". "Non per me, dottore." Padre Balthus rivolse a Sanders un'occhiata brusca. "E sono sicuro che anche le vostre sono in regola." Gli altri passeggeri stavano abbandonando la balaustra e scendevano a prendere i bagagli. Rivolgendo un sorriso a Balthus, il dottor Sanders si scusò e si allontanò per tornare in cabina. Cancellatosi il sacerdote dalla mente (del resto di lì a mezz'ora sarebbero scomparsi ciascuno per la sua via nella foresta), Sariders si toccò una tasca per assicurarsi di avere con sé il passaporto, rammentando a se stesso di non scordarlo in cabina. Il desiderio di viaggiare in incognito, con tutti i suoi vantaggi, poteva sempre rivelarsi in qualche maniera inattesa. Quando arrivò al boccaporto che si trovava dietro alla base del fumaiolo, il dottor Sanders guardò verso il ponte di poppa, dove i passeggeri di terza classe stavano radunando i loro fardelli e le loro valigie di poco prezzo. Nel centro del ponte, per metà avvolto in un involucro di tela, c'era un grosso motoscafo con la carena rossa e gialla, che faceva parte del carico diretto a Port Matarre. Tranquillamente sistemato sul largo panchetto dietro al timone, con un braccio appoggiato sul parabrezza inclinato contornato da una cornice cromata, c'era un ometto, basso di statura e magro, sulla quarantina, con un vestito tropicale bianco che metteva in risalto il nero della barba che gli incorniciava il volto. La sua capigliatura nera era spazzolata in avanti sulla fronte ossuta, e insieme con gli occhietti a spillo lo faceva sembrare teso e all'erta. Costui, Ventress (il nome era tutto quello che il dottor Sanders era riuscito a sapere di lui), era stato il compagno di cabina del medico. Durante il viaggio da Libreville, era andato su e giù per il battello come una tigre impaziente, litigando con i passeggeri di terza classe e con l'equipaggio, cambiando bruscamente di umore, passando da toni ironici e faceti a momenti di scontroso disinteresse, quando non se ne stava seduto in cabina a guardare attraverso l'oblò il piccolo disco di cielo vuoto. Il dottor Sanders aveva compiuto uno o due tentativi di parlargli, ma il più delle volte Ventress l'aveva ignorato, tenendo per sé le ragioni che l'avevano spinto a venire a Port Matarre. Comunque il dottore si era ormai del tutto assuefatto a essere schivato da coloro che gli stavano intorno. Poco prima che si imbarcassero, un piccolo contrattempo, più imbarazzante per i suoi compagni di viaggio che per lui, era nato sulla scelta del compagno di cabina del dottor Sanders. Poiché la sua fama l'aveva preceduto (ciò che era fama per il mondo nel suo insieme rimaneva lo stesso brutta nomea a livello personale, pensava Sanders, e indubbiamente, era vero anche il contrario), non si riusciva a trovare nessuno che volesse dividere la cabina con il vicedirettore del lebbrosario di Fort Isabelle. A questo punto si era fatto avanti Ventress. Dopo aver bussato alla porta del dottor Sanders, con la valigia in mano, gli aveva rivolto un breve cenno del capo e gli aveva chiesto, con tutta semplicità: "È contagiosa?". Dopo una pausa durante la quale poté esaminare quell'ometto vestito di bianco con la faccia smunta incorniciata dalla barba (qualcosa in lui ricordava a Sanders che nel mondo c'erano anche quelli che, per propri motivi, desideravano contrarre la malattia), il dottor Sanders aveva risposto: "La malattia è contagiosa, sì. Ma sono necessari anni di esposizione e di contatto perché si trasmetta. Il periodo di incubazione può richiedere venti o trent'anni". "Come la morte. Bene." Con un lampo di sorriso, Ventress era entrato nella cabina, aveva teso la mano ossuta e, afferrata con decisione quella di Sanders, l'aveva scrollata in una forte stretta. "Quello di cui i nostri timorosi compagni di viaggio non sembrano rendersi conto, dottore, è che fuori della vostra colonia c'è semplicemente una colonia più grande." Più tardi, mentre guardava Ventress seduto a bordo del motoscafo sul ponte di poppa, il dottor Sanders ritornò su quell'ermetica presentazione. L'estuario era ancora immerso nella debole luminosità, ma l'abito bianco di Ventress sembrava emanare una sua intensa brillantezza intrinseca, esattamente come gli indumenti clericali di padre Balthus davano risalto ai toni più scuri. I passeggeri di terza classe si agitavano intorno al motoscafo, ma Ventress sembrava del tutto indifferente a quel viavai, e pareva non curarsi nemmeno del fatto che si stavano avvicinando alla banchina del porto, affollata com'era di poliziotti e funzionari della dogana. Ventress era invece intento a guardare attraverso la balaustra di tribordo ora sgombra verso la foce del fiume e verso la foresta che si estendeva nell'interno, scomparendo nella bruma. I suoi occhietti erano per metà chiusi, come per sovrapporre lo spettacolo che aveva di fronte a qualche panorama chiuso nella sua memoria. Durante il viaggio di risalita lungo la costa, Sanders aveva visto poco Ventress, ma una sera, in cabina, mentre frugava nell'oscurità nella valigia sbagliata, aveva toccato il calcio di un'automatica di grosso calibro, ficcata nella sua fondina da ascella. La presenza dell'arma aveva immediatamente risolto alcuni degli enigmi che circondavano la piccola e fragile figura di Ventress. "Dottore..." lo chiamò Ventress, agitando leggermente una mano, come per risvegliare Sanders dal suo sogno a occhi aperti. "Un bicchiere, Sanders, prima che il bar chiuda?" Il dottore fece per rifiutare, ma Ventress si era girato per metà, cambiando improvvisamente argomento. "Guardate il sole, dottore. Là. Non potete camminare per queste foreste con la testa per terra." "Non ho intenzione di provarci. State per scendere?" "Certamente. Non c'è fretta, qui, dottore. Questo posto è fuori del tempo." Il dottor Sanders lasciò Ventress e si diresse verso la cabina. Le tre valigie, quella più costosa di Ventress, di lucida pelle di coccodrillo, e le sue due più trasandate, erano già state rifatte e aspettavano a fianco della porta. Sanders si sfilò la giacca e poi immerse le mani nel lavandino, asciugandole solo per metà nella speranza che l'aroma pungente del sapone potesse farlo apparire un po' meno paria agli occhi dei funzionari che l'avrebbero esaminato. Comunque, Sanders si rendeva conto fin troppo bene che ormai, dopo quindici anni in Africa, dieci dei quali trascorsi all'ospedale di Fort Isabelle, ogni possibilità che avesse mai avuto di modificare l'aspetto esteriore di sé, la sua immagine davanti al mondo, era da tempo sfumata. L'abito di cotone, macchiato dal lavoro, un po' stretto intorno alle spalle larghe, la camicia azzurra a righe e la cravatta nera, la testa volitiva con i capelli grigi incolti e le tracce di barba sul viso, erano tutti segni involontari che lo identificavano medico agli occhi dei lebbrosi, inequivocabili come lo erano la sua bocca sfregiata ma dall'espressione decisa e il suo sguardo critico. Aperto il passaporto, Sanders confrontò la fotografia scattata otto anni prima con il volto che vedeva riflesso nello specchio. A una rapida occhiata, i due uomini sembravano appena somiglianti... il primo, con il suo viso aperto e sincero, evidentemente deciso nel suo compromesso morale con i lebbrosi, fin troppo chiaramente assorto nel suo lavoro all'ospedale, aveva l'aspetto del fratello minore nei confronti del secondo, un dottore di campagna, solitario e scontroso. Sanders si guardò la giacca scolorita e le mani callose, riconoscendo che quell'espressione era assai fuorviante. Capiva molto bene, se non i motivi che lo animavano al momento, almeno quelli del suo io più giovane, e le vere ragioni che lo avevano spinto a Fort Isabelle. La data di nascita sul passaporto gli aveva ricordato che ormai aveva raggiunto i quarant'anni. Sanders cercò di vedersi come sarebbe stato di lì a dieci anni, ma ormai gli elementi latenti che erano emersi sul suo viso durante gli ultimi anni sembravano aver perso il loro slancio. Ventress aveva parlato delle foreste di Matarre come di un posto senza tempo, e forse parte del fascino che esse esercitavano su Sanders era dovuto al fatto che almeno lì sarebbe magari riuscito a liberarsi degli interrogativi sui moventi e sull'identità che lo riguardavano, e che restavano per sempre legati al suo senso del tempo e del passato. Il battello era ormai a pochi metri dalla banchina, e attraverso l'oblò il dottor Sanders vedeva i pantaloni color cachi del drappello che era venuto a riceverli. Da una tasca estrasse una busta gualcita da cui cavò una lettera scritta in un pallido inchiostro celeste che era quasi penetrato nel velo di carta leggera. Sia la busta sia la lettera erano stampigliate dal timbro della censura, e in entrambe mancavano i due rettangoli di carta che probabilmente portavano l'indirizzo del mittente. Mentre il battello rasentava la banchina, il dottor Sanders lesse la lettera per l'ultima volta a bordo. Giovedì, 5 gennaio Caro Edward, finalmente siamo arrivati. Non esiste foresta splendida come quella africana, una cascata di gioielli. Non so trovare le parole per descrivere la nostra meraviglia di ogni mattina, quando guardiamo attraverso le pendici, ancora per metà nascoste dalla foschia, ma luccicanti come Santa Sofia, e ogni ramo è una cupola ingioiellata. Max dice che io sto diventando eccessivamente bizantina, porto i capelli sciolti fino alla vita anche in clinica e sul volto un'espressione malinconica, anche se in realtà per la prima volta da molti anni il mio cuore canta! Tutti e due vorremmo tanto che tu fossi qui. La clinica è piccola, con una ventina di pazienti. Fortunatamente la gente che vive su queste pendici nella giungla passa per la vita con una pazienza trasognata, e considera il nostro lavoro più una missione sociale che terapeutica. Questa gente cammina per la foresta buia con la testa cinta da corone di luce. Max ti manda i suoi migliori auguri insieme ai miei. Ti ricordiamo spesso. La luce tocca ogni cosa con diamanti e zaffiri. Con affetto Suzanne Mentre i tacchi metallici della squadra di funzionari risuonavano sul ponte che lo sovrastava, il dottor Sanders rilesse l'ultima riga della lettera. Se non fosse stato per le ufficiose ma convinte assicurazioni che aveva ricevuto alla prefettura di Libreville, non avrebbe potuto credere che Suzanne Clair e suo marito fossero sbarcati a Port Matarre, tanto l'oscurità del fiume e della giungla non si accordava con la descrizione della foresta vicino alla clinica. Nessuno era stato in grado di dirgli dove esattamente si trovassero i suoi amici, e nemmeno perché era stata imposta un'improvvisa censura sulla corrispondenza che lasciava la provincia. Quando Sanders si era fatto troppo insistente, gli era stato ricordato che la corrispondenza delle persone incriminate doveva sempre sottostare alla censura, ma quest'ipotesi suonava grottesca nel caso di Suzanne e Max Clair. Pensando a quel piccolo e intelligente microbiologo, e a sua moglie, slanciata, bruna, con la fronte alta e lo sguardo pacato, il dottor Sanders ricordò la loro improvvisa partenza da Fort Isabelle tre mesi prima. La relazione di Sanders con Suzanne era durata due anni, tenuta in vita soltanto dalla sua incapacità di risolverla in una maniera o nell'altra. Il non essere riuscito a compromettersi definitivamente con lei aveva palesemente mostrato che quella donna era diventata il centro di tutte le sue irrisolutezze a Fort Isabelle. Per un po' egli aveva sospettato che le ragioni che l'avevano spinto al lebbrosario non fossero del tutto umanitarie, e che forse era stato attirato dall'idea della lebbra e di ciò che inconsciamente rappresentava più di quanto avesse immaginato. La tenebrosa bellezza di Suzanne si era identificata nella sua mente con questo lato oscuro della psiche, e la loro relazione era stata un tentativo di venire a patti con se stesso e con i suoi ambigui moventi. Ripensandoci, Sanders riconobbe che c'era a portata di mano una spiegazione assai più sinistra per la loro partenza dall'ospedale. Quando era arrivata la lettera di Suzanne con la sua strana ed estatica descrizione della foresta (nella lebbra maculoanestetica erano coinvolti i tessuti nervosi), aveva deciso di seguirli. Rinunciando alle sue indagini sulla lettera censurata per non preavvisare Suzanne del suo arrivo, aveva preso un mese di ferie dall'ospedale ed era partito per Port Matarre. Dalla descrizione che Suzanne faceva della foresta sulle colline, pensava che la clinica si dovesse trovare da qualche parte nelle vicinanze di Mont Royal, forse aggregata a uno degli insediamenti minerari di proprietà francese, con i suoi superzelanti uomini del servizio di sicurezza. Comunque, l'attività sul molo, dove c'erano una mezza dozzina di soldati che si aggiravano nei pressi di una macchina dello Stato Maggiore, stava a indicare che c'era qualcosa di più importante nell'aria. Mentre incominciava a ripiegare la lettera di Suzanne, lisciando il foglio morbido come un petalo di fiore, lo sportello della cabina si aprì improvvisamente e gli andò a sbattere contro un gomito; Ventress entrò, scusandosi con un cenno del capo. "Scusatemi, dottore. La mia valigia." Poi aggiunse: "Ci sono quelli della dogana". Seccato per essere stato sorpreso anche questa volta da Ventress mentre leggeva la lettera, il dottor Sanders si ficcò busta e lettera in tasca. Una volta tanto parve che Ventress non se ne fosse accorto. Era rimasto fermo con la mano sulla maniglia della valigia, un orecchio teso ai rumori che provenivano dal ponte soprastante. Senza dubbio si stava chiedendo cosa fare della pistola. Nessuno di loro si era aspettato una perquisizione accurata dei bagagli. Sanders decise di lasciare Ventress da solo, per permettergli di buttare l'arma dall'oblò, e prese le sue valigie. "Be', addio dottore." Ventress sorrideva e la sua faccia sembrava ancora di più un teschio, dietro la barba. Tenne la porta aperta. "È stato molto interessante, un grande piacere, dividere la cabina con voi." Il dottor Sanders annuì. "E forse anche un po' una sfida, monsieur Ventress, vero? Vi auguro che tutte le vostre vittorie siano altrettanto facili." "Touché, dottore!" Ventress lo salutò con uno sbattere di tacchi seguito da un cenno della mano quando Sanders era già nel corridoio. "Ma sono egualmente contento che siate voi a ridere per ultimo... il vecchio con la falce, eh?" Senza voltarsi, il dottor Sanders uscì dal boccaporto nella sala di prima classe, consapevole dello sguardo di Ventress che lo seguiva dalla soglia della cabina. Gli altri passeggeri erano seduti nelle sedie vicine al bar, e tra loro Sanders riconobbe padre Balthus. Tra il primo ufficiale di bordo, due funzionari della dogana e un sergente di polizia era in corso un prolungato conciliabolo. I quattro stavano consultando l'elenco dei passeggeri e scrutavano ciascuno dei presenti, come se stessero cercando in particolare una persona che però non c'era. Sanders colse al volo una frase, mentre posava le sue due valigie. "Non sono permessi giornalisti..." Poi uno dei due funzionari della dogana gli fece segno di avvicinarsi. "Dottor Sanders?" domandò, mettendo una particolare enfasi nell'interrogativo, come se sperasse per metà che quel nome fosse posticcio. "Dell'Università di Libreville?" Abbassò la voce. "Facoltà di fisica? Posso vedere i vostri documenti?" Il dottor Sanders tirò fuori il passaporto. A pochi passi da lui, padre Balthus lo osservava con sguardo acuto. "Mi chiamo Sanders del lebbrosario di Fort Isabelle." Dopo essersi scusati dell'equivoco, gli uomini della dogana si scambiarono un'occhiata e poi lasciarono il dottor Sanders libero, segnando con il gesso le due valigie senza prendersi la briga di aprirle. Pochi istanti dopo, il medico si era già incamminato sulla passerella. Sulla banchina i soldati indigeni erano in attesa vicino alla macchina dello Stato Maggiore. Il sedile posteriore era libero, presumibilmente a disposizione del fisico dell'Università di Libreville che non si trovava. Sanders consegnò le valigie a un facchino con la scritta HOTEL EUROPE sul berretto a visiera, e notò che i bagagli di coloro che stavano lasciando Port Matarre erano oggetto di una perquisizione assai più accurata. Un gruppo di una quarantina di passeggeri di terza classe venne condotto verso il fondo della banchina e la polizia e i funzionari della dogana li perquisivano a uno a uno. La maggior parte degli indigeni aveva con sé una trapunta arrotolata che serviva da giaciglio, con pochi bagagli ficcati dentro. La polizia srotolava la coperta e tastava l'imbottitura. In contrasto con tutta questa attività, la città era quasi deserta. I portici che fiancheggiavano il corso erano vuoti, e le finestre dell'Hotel Europe si affacciavano indolenti nell'aria buia, le strette persiane simili a coperchi di bare. Lì, nel centro del paese, le bianche facciate delle case facevano sembrare ancora più opprimente la luce cupa della giungla. Tornando a guardare il fiume, là dove girava come la spira di un enorme serpente scomparendo nella foresta, il dottor Sanders ebbe come la sensazione che quel corso d'acqua avesse risucchiato quasi tutta la vita circostante. Mentre seguiva il facchino su per gli scalini dell'albergo, scorse la figura intonacata e nera di padre Balthus più giù sotto i portici. Il sacerdote camminava di buon passo, con la borsa da viaggio in mano. Svoltò tra due colonne, attraversò la strada e scomparve fra le ombre del portico di fronte all'albergo. Sanders vide ancora, a intervalli, la sua scura figura illuminata dalla luce del sole, incorniciata dal bianco delle colonne del porticato. Poi, senza una ragione apparente, il prete riattraversò la strada, sferzando la polvere con il fondo della tonaca nera. Con il capo eretto passò davanti a Sanders, senza voltarsi, come il diafano profilo di qualcuno che si scorge appena in un incubo. Sanders lo indicò. "Dove sta andando?" domandò al fattorino. "Il sacerdote... era con me sul battello." "Al seminario. I gesuiti sono ancora qui." "Ancora? Come sarebbe a dire 'ancora'?" Sanders avanzò verso i battenti a molla, ma in quel momento uscì una ragazza bruna, una francese. Vedendo il suo viso riflesso nei vetri in movimento, Sanders credette per un attimo di scorgere Suzanne Clair. Sebbene la ragazza fosse sui vent'anni, almeno di dieci anni più giovane di Suzanne, aveva gli stessi fianchi pronunciati, lo stesso passo disinvolto, gli stessi occhi grigi e osservatori. Passando di fianco a Sanders, gli mormorò: "Scusate...". Poi, restituendogli lo sguardo accompagnato da un vago sorriso, ripartì in direzione di un camion militare che scendeva in retromarcia per una strada laterale. Sanders restò a guardarla. Il suo attillato abito bianco e la sua eleganza cittadina sembravano fuori luogo nella luce squallida di Port Matarre. "Ma che cosa succede qui?" fece Sanders. "Hanno trovato un nuovo giacimento di diamanti?" La spiegazione poteva giustificare la censura e le perquisizioni doganali, ma c'era qualcosa nella studiata alzata di spalle del facchino che gli fece dubitare di avere imbroccato la risposta giusta. Inoltre, il riferimento ai diamanti e agli zaffiri che si trovava nella lettera di Suzanne sarebbe stato rilevato dal censore come un aperto invito a venire a raccogliere la messe. L'impiegato al banco della ricezione fu egualmente evasivo. Irritò Sanders insistendo nel volergli mostrare la tariffa settimanale, nonostante il medico l'avesse informato che sarebbe partito per Mont Royal il giorno seguente. "Dottore, dovete capire che non c'è il battello. Il servizio è stato sospeso. Vi costerà meno se vi faccio la tariffa settimanale. Comunque, come volete voi." "D'accordo." Il dottor Sanders firmò il registro. Per precauzione diede come indirizzo l'Università di Libreville. Spesso vi aveva tenuto lezioni, alla Facoltà di medicina, e la posta sarebbe stata inoltrata da lì a Fort Isabelle. Questo accorgimento sarebbe potuto tornare utile in futuro. "E la ferrovia?" domandò all'impiegato. "O il servizio di corriera? Ci deve essere un mezzo di trasporto per Mont Royal." "Non c'è ferrovia." L'impiegato fece schioccare due dita. "I diamanti, dottore, non sono difficili da trasportare. Forse può provare con la corriera." Il dottor Sanders studiò il volto magro e olivastro dell'uomo. I suoi occhi chiari sfiorarono le valigie del medico e poi si fissarono fuori, oltre il portico, verso il manto della foresta che sovrastava i tetti delle case dall'altra parte della strada. Era come se si aspettasse di veder comparire qualcosa. Il dottor Sanders ripose la penna. "Ditemi, perché è così buio a Port Matarre? Il cielo non è coperto, eppure non si riesce quasi a vedere il sole." L'impiegato scrollò la testa. Quando rispose parve che parlasse più a se stesso che a Sanders. "Non è buio, dottore. Sono le foglie. Assorbono minerali dal terreno. È questo che fa apparire tutto così scuro." La spiegazione sembrava contenere una parte di verità. Dalla finestra della sua stanza che guardava sopra i portici, il dottor Sanders contemplò la foresta. Gli alberi enormi circondavano il porto come se cercassero di risospingerlo nel fiume. Nella strada, le ombre avevano la solita intensità, dietro alle poche persone che si avventuravano sotto i portici; ma la foresta non aveva contrasti. Le foglie esposte alla luce del sole erano scure come quelle più basse, quasi la foresta risucchiasse tutta la luce del sole nella stessa maniera in cui il fiume aveva svuotato la città della sua vita e del suo movimento. Il nero manto di fronde, la tinta olivastra delle foglie piatte, davano alla foresta quella tenebrosa pesantezza sottolineata dai bruscoli di luce che ammiccavano sotto le sue grandi volte. Preoccupato, il dottor Sanders quasi non udì che qualcuno aveva bussato alla sua porta. Aprì l'uscio e trovò Ventress fermo nel corridoio. La sua bianca figura e la testa simile a un teschio sembravano personificare i colori scheletrici della cittadina. "Cosa c'è?" Ventress avanzò di un passo. Aveva in mano una busta. "Ho trovato questa nella cabina, dopo che ve ne siete andato, dottore. Ho pensato di restituirvela." Il dottor Sanders prese la busta, tastandosi la tasca alla ricerca della lettera di Suzanne. Nella fretta, l'aveva evidentemente lasciata scivolare per terra. Ficcò la lettera nella busta e fece cenno a Ventress di entrare. "Grazie, non mi ero accorto..." Ventress si guardò intorno. Dal momento dello sbarco dal battello, era notevolmente cambiato. Le sue maniere spicce e distaccate erano state sostituite da una marcata agitazione. La sua piccola figura sprigionava un'intensa energia nervosa che provocava in Sanders quasi un senso di disagio. I suoi occhi passarono in rassegna ogni recesso della lugubre stanza, come alla ricerca di qualche nascondiglio. "Posso prendere qualcosa in cambio, dottore?" Prima che Sanders potesse rispondere, Ventress si era chinato sulla più voluminosa delle due valigie posate su un panchetto di assicelle a fianco dell'armadio. Con un breve cenno del capo, l'ometto fece scattare le serrature e sollevò il coperchio. Da sotto la vestaglia ripiegata, estrasse la sua automatica nella fondina da ascella. Prima che il dottor Sanders potesse protestare, si era ficcato sotto la giacca arma e fondina. "Cosa diavolo...?" Il dottor Sanders attraversò la camera. Richiuse la valigia. "Avete una bella faccia tosta...!" Ventress gli rivolse un debole sorriso, poi fece per allontanarsi verso l'uscio. In collera, Sanders lo prese per un braccio e per poco non lo sollevò da terra. Il volto di Ventress si chiuse come una trappola. Con un'agile e rapida manovra, scartò di lato e si sottrasse alla presa di Sanders. Questi rinnovò il suo attacco, e Ventress parve per un momento in dubbio se usare la pistola. Ma poi alzò una mano in segno di conciliazione. "Sanders, naturalmente mi devo scusare. Ma non avevo altro sistema. Cercate di capirmi. È di quegli idioti a bordo che mi sono preso gioco..." "All'inferno! Vi siete preso gioco di me!" Ventress scrollò vigorosamente la testa. "No. Vi sbagliate, Sanders. Ve lo assicuro. Non ho nessun pregiudizio sui particolari motivi che vi hanno spinto a venire qui... assolutamente. Credetemi, dottore, io vi capisco benissimo, capisco..." "Va bene!" Sanders spalancò l'uscio. "Ora uscite!" Ventress però non si mosse. Pareva che stesse cercando di costringersi a dire qualcosa, come se fosse conscio di aver messo in luce un'intima debolezza di Sanders e volesse fare del suo meglio per porvi riparo. Fece una breve alzata di spalle e lasciò la camera, deluso dalla collera del dottore. Dopo che se ne fu andato, Sanders si sedette in poltrona, con le spalle alla finestra. Lo stratagemma di Ventress l'aveva molto seccato, non solo perché aveva dato per scontato che gli uomini della dogana avrebbero evitato di contaminarsi toccando i suoi bagagli. L'introduzione clandestina della pistola, senza che lui ne fosse cosciente, sembrava simbolizzare anche, in termini sessuali, tutti i motivi reconditi che lo avevano spinto a Port Matarre, alla ricerca di Suzanne. Che Ventress, con la sua faccia scheletrica e l'abito bianco, avesse mostrato di conoscere bene tutti questi celati moventi era la cosa che lo irritava più di ogni altra. Mangiò presto al ristorante dell'albergo. Non c'era nessuno, oltre alla francesina bruna seduta per suo conto e intenta a scrivere su un taccuino posato di fianco all'insalata. Ogni tanto, la ragazza lanciava un'occhiata a Sanders, il quale rimase di nuovo colpito dalla sua notevole somiglianza con Suzanne Clair. Forse a causa dei capelli corvini, o della insolita luce di Port Matarre, il suo viso levigato sembrava più pallido di quello di Suzanne, così come Sanders lo ricordava. Guardando la ragazza, Sanders aveva quasi l'impressione di vedere Suzanne seduta al suo fianco, riflessa in uno specchio semischermato nel suo cervello. Quando la ragazza lasciò il suo tavolo, rivolse a Sanders un cenno di saluto, prese il suo blocco e uscì in strada, fermandosi un attimo nel vestibolo. Dopo pranzo, Sanders incominciò la sua ricerca di un mezzo di trasporto che lo portasse a Mont Royal. Come aveva dichiarato l'impiegato della ricezione, non c'era una linea ferroviaria che arrivasse alla città mineraria. C'era però un servizio di corriere, due volte al giorno, ma chissà per quale ragione era stato sospeso. Alla stazione, vicino alla caserma nei sobborghi orientali della cittadina, il dottor Sanders trovò la biglietteria chiusa. Gli orari affissi al tabellone erano stati stracciati. Alcuni indigeni dormivano sulle panche nell'ombra. Dopo una decina di minuti entrò un bigliettaio con una scopa, succhiando un pezzo di canna da zucchero. Si strinse nelle spalle, quando Sanders gli chiese quando sarebbe stato ripreso il servizio. "Forse domani, forse dopodomani. Chi lo sa. Il ponte è crollato." "Dove?" "Dove? A Myanga, a dieci chilometri da Mont Royal. Un burrone a strapiombo. Il ponte se ne è andato giù, così. È molto rischioso lì, signore." Il dottor Sanders indicò la piazza d'armi della caserma, dove una mezza dozzina di camion veniva caricata di provviste. Per terra, lì vicino, erano accatastati rotoli di filo spinato, insieme ad alcune sezioni di recinzione metallica. "Sembra che si diano da fare. Come intendono passare?" "Vanno a riparare il ponte, signore." "Con il filo spinato?" Il dottor Sanders scrollò la testa, stanco di tante reticenze. "Si può sapere che cosa sta succedendo laggiù? A Mont Royal?" Il bigliettaio succhiava la sua canna da zucchero. "Cosa sta succedendo?" ripeté come distratto. "Non sta succedendo niente, signore." Sanders si allontanò, fermandosi al portone della caserma finché la sentinella non gli fece cenno di passare oltre. Dall'altra parte della strada le buie quinte della foresta si levavano alte nel cielo come un'immensa ondata in procinto di abbattersi sulla città deserta. Circa quaranta metri sopra la sua testa, i grandi rami si stendevano come ali semidischiuse, i tronchi si piegavano verso di lui. Sanders provò la tentazione di attraversare la strada e avvicinarsi alla foresta. Ma c'era qualcosa di minaccioso e opprimente in quel silenzio. Si girò e tornò all'albergo. Un'ora più tardi, dopo tutta una serie di tentativi infruttuosi, si presentò alla prefettura vicino al porto. Intorno al battello non c'era più la ressa di poco prima, e quasi tutti i passeggeri erano a bordo. Il motoscafo veniva calato sulla banchina da una gru. Venendo diritto al punto, il dottor Sanders mostrò al capitano in carica la lettera di Suzanne. "Forse potete spiegarmi perché è stato necessario cancellare l'indirizzo, capitano. Sono miei cari amici e desidero trascorrere un paio di settimane di vacanza con loro. Adesso scopro che non ci sono mezzi per arrivare a Mont Royal, e che inoltre un'atmosfera di mistero circonda la città." Il capitano annuì, osservando la lettera posata sul suo scrittoio. Ogni tanto toccava il foglio con un righello metallico, come se stesse esaminando i petali compressi di qualche fiore raro, e forse velenoso. "Capisco, dottore. È difficile, per voi." "Ma perché mai è in vigore la censura?" insisté Sanders. "C'è qualche guaio politico? Forse le miniere sono cadute nelle mani di un gruppo di ribelli? È naturale che io mi preoccupi della salute del dottor Clair e di sua moglie." Il capitano scrollò la testa. "Vi assicuro, dottore, che non ci sono disordini politici a Mont Royal. A dir la verità, là non c'è più nessuno. Quasi tutti quelli che ci lavoravano se ne sono andati." "Perché? L'ho notato anche qui. La città è deserta." Il capitano si alzò e si avvicinò alla finestra. Indicò il margine buio della giungla che si curvava sopra i tetti del quartiere indigeno oltre i depositi. "La foresta, dottore. Vedete? Li spaventa. È così nera e pesante... sempre." Tornò allo scrittoio e si mise ad armeggiare con il righello. Sanders aspettò che si decidesse a dire qualcosa. "In confidenza, posso dirvi che c'è una nuova malattia delle piante, che è incominciata nella foresta vicino a Mont Royal..." "Come sarebbe a dire...?" lo interruppe Sanders. "Un virus? Come il mosaico del tabacco?" "Sì, qualcosa del genere..." Il capitano annuì in segno di incoraggiamento, anche se pareva non avere un'idea molto chiara di ciò di cui stava parlando. Comunque, continuava a guardare con espressione pacata i margini della giungla fuori della finestra. "Non è velenosa, ma dobbiamo prendere le nostre precauzioni. Verranno esperti a esaminare la foresta, manderanno dei campioni a Libreville... capite, ci vuole tempo..." Restituì a Sanders la lettera di Suzanne. "Troverò il recapito dei vostri amici. Tornate domani... D'accordo?" "Potrò andare a Mont Royal?" domandò Sanders. "L'esercito non ha forse isolato la zona?" "No..." insisté il capitano. "Siete liberissimo di andarci." Fece un gesto con le mani, come a limitare nell'aria un piccolo tratto. "Solo piccole zone, capite? Non è pericoloso. I vostri amici non hanno da preoccuparsi. Solo che non vogliamo che la gente, accorrendo, crei disordini." Alla porta, Sanders domandò: "Da quanto tempo va avanti?". Indicò la finestra. "La foresta è molto scura, qui? Il capitano si grattò la fronte. Per un momento parve stanco e assorto. "Da un anno, circa. Forse più. All'inizio nessuno ci aveva fatto caso..." 2. L'orchidea ingioiellata Sui gradini esterni, il dottor Sanders vide la giovane francese che aveva pranzato all'albergo. Aveva con sé una borsetta simile a una borsa d'affari e portava un paio d'occhiali neri che non riuscivano a dissimulare l'espressione inquisitrice del suo sguardo intelligente. Si fermò a guardare Sanders che le stava passando vicino. "Novità?" Sanders si fermò. "Su cosa?" "Sull'emergenza." "È così che la chiamano? Allora voi siete più fortunata di me. Questa espressione non l'avevo ancora sentita." La ragazza sembrò voler lasciar cadere l'argomento. Osservò Sanders dalla testa ai piedi, come dubitando della sua identità. "Potete chiamarla come vi pare," disse con indifferenza. "Se non è ancora uno stato di emergenza, lo sarà tra poco." Poi si avvicinò a Sanders, abbassando il tono della voce. "Volete andare a Mont Royal, dottore?" Sanders fece per allontanarsi, ma la ragazza gli fu subito dietro. "Siete una spia della polizia?" domandò il medico. "O la direttrice di un servizio di corriere clandestino? O tutte e due le cose, forse?" "Niente di tutto questo. Statemi a sentire." La giovane lo fermò, quando erano già dall'altra parte della strada, davanti al primo dei negozi di souvenir che arrivavano giù fino ai pontili tra i depositi. Si tolse gli occhiali da sole e gli rivolse un franco sorriso. "Vi chiedo scusa se sono importuna. L'impiegato all'albergo mi ha dato il vostro nome... sono bloccata qui anch'io e speravo che voi sapeste qualcosa. Sono a Port Matarre dall'arrivo del battello precedente al vostro." "Ci credo." Il dottor Sanders si incamminò di nuovo, osservando distrattamente i banchi con i loro modesti ninnoli di avorio, statuette in una imitazione di stile oceanico che gli intagliatori indigeni avevano copiato dalle riviste europee. "Port Matarre ha più che una vaga somiglianza col purgatorio." "Ditemi, siete qui con un incarico ufficiale?" La ragazza gli sfiorò il braccio. Si era rimessa gli occhiali da sole, come se ciò le desse un certo vantaggio nell'interrogatorio. "Avete dato come indirizzo l'Università di Libreville, per il registro dell'albergo." "La Facoltà di medicina," disse il dottor Sanders. "Se mi è possibile soddisfare la vostra curiosità, vi dirò che sono qui solo in vacanza. E voi?" In un tono di voce ancora più basso, dopo aver scoccato a Sanders uno sguardo di conferma, la ragazza rispose: "Sono una giornalista. Lavoro da indipendente per un'agenzia che vende materiale ai settimanali illustrati francesi". "Una giornalista?" Sanders la squadrò con maggiore interesse. Durante la breve conversazione aveva evitato di guardarla, un po' a causa di quegli occhiali da sole, che sembravano sottolineare lo strano contrasto di luce e oscurità di Port Matarre, e un po' per la sua somiglianza con Suzanne Clair. "Non mi ero reso conto... Mi spiace di essermi comportato un po' bruscamente, ma è tutto il giorno che non riesco a combinare niente. Potreste parlarmi di questa... emergenza? Accetto la vostra definizione." La ragazza gli indicò un bar all'angolo della strada. "Andiamo là. È più tranquillo. È tutta la settimana che sbatto contro un muro, cercando di ottenere qualcosa dalla polizia." Mentre prendevano posto in uno scomparto vicino alla finestra, la ragazza si presentò col nome di Louise Peret. Anche se sembrava pronta ad accettare il dottor Sanders come suo complice nella cospirazione, continuò a portare i suoi occhiali da sole, come per schermare una parte interiore di sé. Quel volto di donna per metà celato e quelle maniere caute agli occhi di Sanders si adattavano all'atmosfera di Port Matarre quanto lo strano abbigliamento di Ventress. Tuttavia, dal fugace movimento delle sue mani sul tavolino, Sanders aveva già intuito che la ragazza stava cercando qualche punto di contatto. "Aspettano un fisico dall'università," disse Louise. "Un certo dottor Tatlin, se non sbaglio, anche se qui è molto difficile sapere qualcosa. Per incominciare, credevo che voi foste Tatlin." "Un fisico...? Ma non ha senso. Secondo il capitano della polizia, le zone affette della foresta soffrono di una nuova malattia da virus. È tutta la settimana che cercate di andare a Mont Royal?" "Non esattamente. Sono venuta qui con un altro giornalista dell'agenzia, un americano di nome Anderson. Una volta sbarcati, lui è partito per Mont Royal con una macchina presa a noleggio, per scattare delle fotografie. Io sono rimasta qui ad aspettare e per mettere insieme un articolo al più presto." "Anderson ha visto qualcosa?" "Quattro giorni fa gli ho parlato al telefono, ma la comunicazione era disturbata e non sono riuscita a capire quasi nulla. Ha detto qualcosa della foresta, una foresta piena di gioielli, ma era una battuta, capite..." Fece un gesto vago nell'aria. "Una metafora?" "Esattamente. Se avesse visto un nuovo giacimento di diamanti, lo avrebbe detto chiaro e tondo. Comunque, il giorno dopo la linea telefonica era interrotta, e stanno ancora cercando di ripristinarla. Non riesce a servirsene neanche la polizia." Sanders ordinò due brandy. Accettata una sigaretta da Louise, guardò dalla finestra verso i pontili sul fiume. Le ultime casse del carico di merce venivano issate a bordo del battello a vapore e i passeggeri erano alla balaustra o sedevano passivamente sui loro bagagli a guardare il ponte. "Non si sa quanto seriamente bisogna prenderla," osservò Sanders. "Evidentemente qualcosa sta succedendo, ma potrebbe essere qualunque cosa." "E allora che dire della polizia e dei convogli militari? E i funzionari della dogana, che questa mattina erano tutti fuori?" Il dottor Sanders si strinse nelle spalle. "Burocrazia... Se le linee telefoniche sono interrotte, probabilmente ne sanno poco quanto noi. Quello che io non riesco a capire è perché voi e l'americano siete venuti qui, tanto per incominciare. Da quel che se ne sa, Mont Royal è ancora più morta di Port Matarre." "Anderson aveva sentito dire che c'era qualcosa di strano alle miniere... Non mi ha precisato di che cosa si trattava. La notizia era sua, capite... Ma sapevamo che l'esercito aveva inviato le riserve. Ditemi, dottore, volete ancora andare a Mont Royal? A trovare i vostri amici?" "Se ci riuscirò. Ci deve essere un sistema. Dopotutto, sono soltanto settanta chilometri e, a un certo punto, ci si può anche arrivare a piedi." Louise rise. "Non certo io." Proprio in quel momento, davanti alla finestra passò una figura nera diretta verso il mercato. "Padre Balthus," disse Louise. "La sua missione si trova vicino a Mont Royal... Ho controllato anche lui. Ecco un compagno di marcia per voi, dottore." "Ne dubito." Sanders stette a osservare il prete che si allontanava di buon passo, con il magro viso sollevato mentre attraversava la strada. Teneva la testa e le spalle erette ma dietro la schiena le sue mani si muovevano e si torcevano come animate di vita propria. "Padre Balthus non è certo tipo da fare una marcia di penitenza... Credo che abbia altri problemi per la testa." Sanders si alzò e finì il brandy. "Comunque," aggiunse, "vale la pena tentare. Credo che andrò a scambiare due parole con il buon padre. Ci vediamo all'albergo... Forse potremmo cenare insieme, questa sera?" "Naturalmente." Louise lo salutò con un cenno della mano e tornò a sedersi alla finestra, il volto immobile e privo di espressione. Sanders uscì. A cento metri dal bar, Sanders scorse il prete. Balthus era arrivato ai margini del mercato indigeno e si stava inoltrando fra le prime bancarelle guardandosi intorno come se stesse cercando qualcuno o qualcosa. Sanders lo seguì a una certa distanza. Il mercato era quasi vuoto, e lui aveva deciso di tenere sotto controllo il sacerdote per qualche minuto, prima di avvicinarglisi. Ogni tanto, quando padre Balthus si guardava intorno, Sanders scorgeva il suo volto magro, il naso sottile sollevato con aria critica mentre sbirciava sopra le teste delle donne indigene. Sanders guardò la mercanzia disposta sulle bancarelle e si fermò a esaminare i vari oggetti e le statuette intagliate. La piccola attività artigianale del luogo aveva fatto l'uso migliore delle scorie delle miniere di Mont Royal, e molti oggetti intagliati di tek e di avorio erano ornati di frammenti di calcite e fluorite raccolti dai cumuli di detriti, ingegnosamente incastonati nelle statuette a formare corone e collane in miniatura. Molte statuette erano ricavate da pezzi di giada e ambra impuri, e gli scultori avevano abbandonato ogni pretesa di iconografia cristiana per produrre idoli seduti a gambe incrociate, con voluminosi addomi pendenti e facce sorridenti. Sempre tenendo d'occhio padre Balthus, il dottor Sanders esaminò una statuetta più grande che ritraeva una divinità indigena. Due cristalli di fluoruro di calcio servivano da occhi, e il minerale era fosforescente nella luce del sole. Con un cenno del capo, Sanders si complimentò con la venditrice per la fattura del pezzo. Decisa a non perdere la buona occasione, la donna gli esibì un gran sorriso e alzò un telo di calicò sbiadito che copriva la parte posteriore della bancarella. "Ah! Che meraviglia!" Sanders avanzò per prendere l'oggetto che la donna aveva scoperto, ma lei gli impedì di allungare le mani. Nella luce del sole brillava una enorme orchidea cristallizzata, ricavata da un minerale simile al quarzo. La struttura del fiore era stata riprodotta nei minimi particolari e poi come introdotta in un cristallo, come se un fiore vivo fosse stato infilato con un gioco di prestigio nell'interno di un enorme ciondolo di vetro. Le facce interne del quarzo erano state tagliate con notevole perizia, così che l'orchidea veniva riflessa in una dozzina di immagini, l'una sovrapposta all'altra, come in un labirinto prismatico. Dal gioiello scaturiva una luce permanente, come acqua che sgorgasse da una fonte. Sanders infilò una mano in tasca per prendere il portafoglio. La donna sorrise di nuovo e tirò più indietro il tessuto, esponendo un'altra serie di oggetti ornamentali. Vicino all'orchidea, c'era un ciuffo di foglie attaccate a un ramoscello, ricavate da una pietra trasparente simile alla giada. Ciascuna foglia era stata riprodotta con abilità squisita e meticolosa, e le venature formavano un pallido reticolo sotto il cristallo. La frasca di sette foglie, riprodotta fedelmente fin nei particolari dei germogli ascellari e dell'ordito dell'arbusto, sembrava più caratteristica dell'arte medioevale giapponese che della rozza e massiccia scultura africana. Vicino al ramoscello c'era un pezzo ancora più bizzarro, un fungo da corteccia che somigliava a un'enorme spugnola ingioiellata. Il fungo e il ciuffo di foglie brillavano in una dozzina di immagini riflesse dalle facce della montatura che li racchiudeva. Chinatosi, Sanders si mise tra gli oggetti e il sole, eppure la luce continuava a brillare come se scaturisse da una fonte interna. Prima che potesse aprire il portafoglio, si udì un urlo lontano. Vicino a una delle bancarelle c'era una certa agitazione. Le indigene si erano messe a correre in tutte le direzioni. Si udì un grido di donna. Al centro di questa scena, c'era padre Balthus, le braccia alzate sopra la testa come se impugnasse qualcosa, le sottane nere sollevate come le ali di un uccello vendicatore. "Non ve ne andate!" gridò Sanders da sopra alla spalla alla proprietaria della bancarella. Ma questa si era affrettata a ricoprire la sua merce, nascondendola tra le foglie di palma e i cestini di farina di cacao dietro il banco. Sanders si diresse di corsa, fendendo la folla, verso padre Balthus. Il sacerdote era ora solo, circondato a una certa distanza da alcuni spettatori, e reggeva nelle mani alzate un grosso crocefisso intagliato di fabbricazione indigena. Brandendolo come una spada, lo faceva roteare da destra a sinistra come se stesse facendo segnali a qualche vetta lontana. Ogni pochi secondi si interrompeva e abbassava la croce per esaminarla, il volto teso e sudato. L'intaglio, parente più rozzo dell'orchidea ingioiellata che aveva visto Sanders, era stato ricavato da una gemma color giallo pallido, simile alla crisolite, e riproduceva la figura del Cristo dentro un involucro di quarzo prismatico. Nei movimenti frenetici in cui il sacerdote agitava la statua nell'aria, scrollandola in un accesso d'ira, i cristalli sembravano liquefarsi e la luce ne scaturiva come da un lucignolo ardente. "Balthus...!" Il dottor Sanders si fece largo a spintoni attraverso la folla che stava osservando il sacerdote. Tutti gli astanti fissavano il prete, ma contemporaneamente tenevano gli occhi aperti, nel caso arrivasse la polizia, come se fossero consci della loro complicità in quale che fosse il misterioso atto di lesa maestà che padre Balthus sembrava voler punire. Il sacerdote li ignorava e continuava ad agitare il crocefisso. Finalmente lo abbassò e ne tastò la superficie cristallina. "Balthus, cosa diavolo...?" incominciò Sanders, ma il sacerdote lo spinse da parte con una spallata. Facendo roteare la croce come un'elica, padre Balthus osservava i lampi di luce che uscivano dal crocefisso, intento esclusivamente a esorcizzare gli sconosciuti poteri che lui sembrava attribuire all'oggetto. Una delle venditrici mandò un grido, e il dottor Sanders vide un sergente di polizia indigeno che si avvicinava con cautela al gruppo. La folla si disperse all'istante. Col fiato mozzo per lo sforzo, padre Balthus lasciò che il crocefisso toccasse terra con uno spigolo. Tenendolo sempre impugnato come una spada smussata, ne osservò la superficie ora opaca. L'involucro cristallino era svanito nell'aria. "Osceno, osceno...!" mormorò al dottor Sanders, mentre questi lo prendeva per un braccio e lo spingeva via tra le bancarelle. Sanders si fermò per buttare il crocefisso sul telo blu che copriva il banco del legittimo proprietario. La croce, ricavata da una specie di legno lucido, gli era sembrata fredda come un pezzo di ghiaccio. Tolse dal portafoglio una banconota da cinque franchi e la ficcò nelle mani del proprietario, poi ricominciò a sospingere padre Balthus. Il sacerdote guardava il cielo e la foresta, lontana oltre il mercato. Sorrette dai grossi rami, le fronde scintillavano con la stessa luce fredda che era scaturita dalla croce. "Balthus, ma non capite...?" Sanders afferrò con forza la mano del prete quando furono sul pontile. La mano di padre Balthus era fredda come il crocefisso. "Voleva essere un omaggio alla divinità. Non c'era niente di osceno... Avrete visto migliaia di croci ingioiellate!" Finalmente parve che il prete lo avesse riconosciuto. Il suo volto smagrito si voltò verso il dottore. Con uno scatto il sacerdote si liberò dalla stretta di Sanders. "Ovviamente voi non capite, dottore! Quella croce non era ingioiellata)." Il dottor Sanders restò a guardare padre Balthus che si allontanava, testa e spalle rigide, in un atteggiamento orgoglioso e autosufficiente, le mani magre dietro la schiena, che si torcevano e si intrecciavano come le spire di nervosi serpenti. Più tardi, il dottor Sanders e Louise Peret cenarono insieme nell'albergo deserto. "Non so che cos'ha per la testa il buon padre, ma sono sicuro che il suo vescovo non approverebbe," commentò a un certo punto Sanders. "Credete che possa essere... passato dall'altra parte?" domandò Louise. Sanders rise e rispose: "Forse detto così è un po' forte, ma io sospetto che, dal punto di vista professionale, stesse cercando di confermare i suoi dubbi piuttosto che di scioglierli. Quella croce al mercato l'aveva letteralmente reso frenetico: stava veramente cercando di distruggerla, agitandola in quella maniera!". "Ma perché? Io ho visto quei lavori indigeni. Sono belli, ma sono comuni pezzi di gioielleria." "No, Louise. Questo è il punto. Come Balthus sapeva bene, non sono affatto comuni. C'è qualcosa nella luce che emanano quegli oggetti... Non ho avuto l'occasione di esaminarne uno da vicino... ma è come se la luce uscisse dall'interno dell'oggetto stesso, invece di essere un riflesso della luce solare. Una luce fredda, intensa, la stessa che si vede dappertutto a Port Matarre." "Lo so." Le dita di Louise si mossero come involontariamente verso gli occhiali da sole posti accanto al piatto, a portata di mano come un potente talismano. A intervalli, la ragazza apriva e chiudeva le stanghette con un movimento automatico. "Quando si arriva qui, da principio sembra tutto buio, ma poi si guarda la foresta e si vedono stelle che brillano tra i rami." Batté l'indice sugli occhiali. "È per questo che li porto, dottore." "Davvero?" Sanders prese gli occhiali e li sollevò. Erano tra i più grandi che gli fosse mai capitato di vedere. La montatura era alta sette centimetri. "Dove li avete presi? Sono enormi, Louise. Vi dividono la faccia in due metà." Louise si strinse nelle spalle. Accese la sigaretta con una mossa nervosa. "È il 21 di marzo, dottore. Il giorno dell'equinozio." "L'equinozio? Già, è vero... quando il sole attraversa l'equatore, e il giorno e la notte sono lunghi uguali..." Sanders ci rifletté sopra. Quelle divisioni tra luce e tenebre sembravano regolare la vita di Port Matarre, nel contrasto fra il vestito bianco di Ventress e la sottana nera di padre Balthus, fra i portici bianchi e i recessi di ombra, e anche nei suoi pensieri, quando ricordava Suzanne Clair, la sosia più scura della giovane donna che lo stava osservando con il suo sguardo franco dall'altra parte del tavolo. "Almeno si può scegliere, dottore. È già qualcosa. Non c'è più niente di sfocato, niente di grigio." La ragazza si sporse in avanti. "Perché siete venuto a Port Matarre? State veramente cercando questi vostri amici?" Sanders evitò il suo sguardo diretto. "È troppo difficile da spiegare. Io..." Sanders era dibattuto. Non sapeva se confidarsi con lei, ma poi, con uno sforzo, si riprese. Si sedette più eretto e le toccò una mano. "Sentite, domani dobbiamo tentare di prendere a nolo una macchina o una barca. Se dividiamo le spese, potremo restare più a lungo a Mont Royal." "Sarò ben lieta di venire con voi. Ma non credete che possa essere pericoloso?" "Per il momento credo di no. Qualunque cosa pensi la polizia, sono sicuro che non si tratta di un virus." Tastò lo smeraldo dell'anello d'oro al dito di Louise e aggiunse: "In un certo senso, sono un esperto in materia". Senza sottrarre la mano alla stretta di lui, Louise disse, a bassa voce: "Ne sono certa, dottore. Questo pomeriggio ho scambiato due chiacchiere con il cameriere del vaporetto". Poi aggiunse: "La cuoca di mia zia è in questo momento una paziente del vostro lebbrosario". Sanders ebbe un momento di esitazione. "Louise, non è il mio lebbrosario. Non crediate che vi sia legato per l'eternità. Come avete detto, forse ora abbiamo una precisa alternativa." Finirono il caffè. Sanders si alzò e prese Louise per un braccio. Forse per la sua somiglianza con Suzanne, gli pareva di capire i suoi movimenti, il significato delle sue anche e delle sue spalle che lo sfioravano, come se familiari intimità incominciassero già a ripetersi. Louise evitava i suoi occhi, ma col corpo gli rimaneva vicina mentre si inoltravano fra i tavoli. Uscirono nel vestibolo deserto. L'impiegato al banco sedeva addormentato con la testa appoggiata al piccolo pannello del centralino. Alla loro sinistra il corrimano d'ottone della scala brillava nella luce fioca, e le foglie cascanti delle palme nei vasi sfioravano i lati dei logori gradini di marmo. Sempre tenendo Louise per il braccio e sentendo le dita di lei che gli prendevano la mano, Sanders guardò fuori. Nelle ombre sotto i portici, scorse le scarpe e i pantaloni di un uomo fermo, appoggiato a una colonna. "È troppo tardi per uscire," disse Louise. Sanders girò la testa per osservarla, d'un tratto consapevole che per una volta tutta l'inerzia delle convenzioni a sfondo sessuale, tutta la riluttanza che lui provava davanti all'eventualità di stringere rapporti personali col suo prossimo, l'avevano abbandonato. Inoltre, aveva l'impressione che il giorno trascorso a Port Matarre, con l'ambigua atmosfera di quella cittadina deserta, li avesse in qualche modo situati in un punto cruciale sotto le ombre nere e bianche dell'equinozio. In momenti di totale equilibrio come quelli, qualunque atto diventava possibile. Arrivati alla porta della camera di Sanders, Louise staccò la mano dalla sua e lo precedette nella stanza buia. Sanders la seguì e richiuse la porta. Louise si girò verso di lui. La pallida luce dell'insegna al neon le illuminava in parte il viso e la bocca. Mentre le loro mani si incontravano, Sanders urtò i suoi occhiali che caddero per terra. Poi il medico prese la giovane donna tra le braccia, liberandosi finalmente di Suzanne Clair e della scura immagine del volto di lei che oscillava come una debole lanterna davanti ai suoi occhi. Poco dopo mezzanotte, Sanders, che giaceva sul suo letto di traverso sul cuscino, fu svegliato dal tocco leggero di Louise su una spalla. "Louise...?" Allungò un braccio e glielo passò intorno alla vita, ma la giovane donna si sottrasse all'abbraccio. "Cosa c'è?" "La finestra. Vai alla finestra e guarda a sud-est." "Cosa...?" Sanders osservò il suo viso serio, l'espressione che lo richiamava dall'altra parte della camera, nella luce della luna. "Sì, Louise..." La ragazza aspettò, vicino al letto. Sanders camminò sul tappeto scolorito e sollevò il saliscendi che teneva chiuse le porte a zanzariera. Poi alzò gli occhi per contemplare il cielo pieno di stelle. Davanti a lui, a un angolo di quarantacinque gradi, riconobbe la costellazione del Toro e quella di Orione. Oltre a quelle, più in là, c'era una stella magnifica e immensa, un'enorme corona di luce intorno a un corpo scintillante, che cancellava le stelle più piccole al suo passaggio. Da principio Sanders non riuscì a capire cosa fosse, poi riconobbe il satellite Echo. La sua luminosità si era decuplicata, trasformando quel puntino di luce che era passato puntualmente nel cielo per tanti anni in un astro scintillante, secondo soltanto alla luna. Su tutta l'Africa, dalla costa liberiana alle sponde del Mar Rosso, ora sarebbe stato visibile: un'immensa lanterna aerea, scintillante degli stessi lampi che aveva visto scaturire dai fiori ingioiellati quel pomeriggio. Pensando con poca convinzione che forse il globo si stava frantumando, formando così una nuvola di alluminio simile a un gigantesco specchio, il dottor Sanders rimase a contemplare il satellite che veleggiava nel cielo in direzione sud-est. Mentre la sua luce si affievoliva in lontananza, il manto scuro della giungla incominciò a brulicare di un milione di punti luminosi. Di fianco a lui, il corpo bianco di Louise scintillava come inguainato di diamanti e la superficie nera del fiume sottostante luccicava come il dorso di un serpente addormentato. 3. Il mulatto sulla passerella Nell'oscurità le vecchie colonne dei portici scendevano in fila verso i margini orientali della cittadina, come pallidi fantasmi sotto la volta silenziosa e incombente della foresta. Sanders si fermò fuori dell'entrata dell'albergo. La brezza notturna gli faceva fremere l'abito spiegazzato. La vaga fragranza del profumo di Louise gli era rimasta sul volto e sulle mani. Uscì in strada e guardò verso la propria finestra. Turbato dall'immagine del satellite, che aveva attraversato il cielo della notte come un luminoso segnale d'allarme, Sanders aveva lasciato la stretta camera d'albergo col suo alto soffitto e aveva deciso di uscire a sgranchirsi le gambe. Incamminatosi per il portico verso il fiume, sorpassando di tanto in tanto la forma rannicchiata di un indigeno che dormiva, pensò a Louise, al suo rapido sorridere, alle sue mani nervose e ai suoi ossessivi occhiali da sole. Per la prima volta si sentiva convinto dell'assoluta realtà di Port Matarre. I suoi ricordi del lebbrosario e di Suzanne Clair si erano già appannati. Al suo viaggio a Mont Royal era in un certo senso venuto meno lo scopo principale. In effetti, sarebbe stato più sensato prendere con sé Louise e fare ritorno a Fort Isabelle, per cercare di ricominciare una vita in cui fosse Louise a occupare il posto lasciato da Suzanne. Eppure, il bisogno di trovare Suzanne Clair, la cui presenza lontana, come un malefico pianeta, era sospesa sulla giungla verso Mont Royal, era ancora pressante. Sanders intuiva che anche Louise aveva altre preoccupazioni. La ragazza gli aveva raccontato qualcosa della sua vita agitata, la sua infanzia in una delle comunità francesi del Congo, una non meglio precisata umiliazione subita più tardi, durante la rivolta contro il governo centrale, dopo l'indipendenza, quando Louise e diversi altri giornalisti erano stati catturati nella provincia ribelle del Katanga dai gendarmi ammutinati. Per Louise, come per lui, Port Matarre con la sua luce svuotata d'energia era un punto neutro, una zona morta sull'equatore africano, che aveva richiamato l'una e l'altro. Tuttavia, niente che fosse accaduto lì, tra loro o con l'inclusione di altri ancora, avrebbe necessariamente avuto valore duraturo. In fondo alla strada, di fronte alla prefettura di polizia semivuota, Sanders voltò a destra lungo il fiume e si incamminò verso il mercato indigeno. Il battello a vapore era partito per Libreville, e i pontili principali erano deserti. Si scorgevano gli scafi grigi di quattro unità da sbarco legate insieme a due a due. Sotto il mercato c'era il porticciolo indigeno, un labirinto di piccoli moli uniti da passerelle aeree. Questa città di tuguri edificata sull'acqua, costituita da qualcosa come duecento tra barche e zatteroni, era abitata di notte dai proprietari delle bancarelle del mercato. Pochi fuochi accesi nelle latte illuminavano i cubicoli sotto i tetti incurvati di malacca in cui erano disposti i giacigli per la notte. Uno o due uomini sedevano sulle passerelle al di sopra delle barche, e un piccolo gruppo era intento a una partita ai dadi in fondo a un pontile; per il resto, l'accampamento fluviale era immerso nel silenzio, e il suo carico di preziosi era celato dall'oscurità della notte. Il bar in cui erano stati Louise e Sanders nel pomeriggio era ancora aperto. In un vicolo di fronte all'entrata, due giovani africani in blue-jeans oziavano intorno a un'automobile abbandonata. Uno dei due si era seduto sul cofano vicino al parabrezza. I due osservarono con studiato distacco Sanders che entrava nel bar. Il locale era quasi del tutto vuoto. In fondo, un direttore di piantagione europeo e il suo capo del personale africano stavano discutendo con due commercianti locali di sangue misto. Sanders si portò il bicchiere di whisky in uno scomparto vicino alla finestra, e guardò verso il fiume, calcolando a mente quando il satellite sarebbe passato una seconda volta. Stava pensando di nuovo alle foglie fatte di preziosi che aveva visto al mercato quel pomeriggio, quando qualcuno lo toccò su una spalla e mormorò: "Dottor Sanders? Non è un po' tardi per essere ancora in piedi, dottore?". Sanders si voltò e si trovò davanti alla piccola figura vestita di bianco di Ventress che lo fissava con il suo solito sorriso ironico. Ricordando lo screzio del giorno prima, Sanders rispose: "No, Ventress, è presto. Sono in anticipo di un giorno su di voi". Ventress annuì energicamente, quasi soddisfatto di vedere che Sanders aveva segnato un punto di vantaggio su di lui, anche se un punto meramente verbale. Sebbene Ventress fosse in piedi, a Sanders sembrò rimpicciolito. L'ometto teneva la giacca abbottonata stretta sul magro torace. "Ottimo, Sanders, ottimo." Ventress spaziò con lo sguardo per gli scomparti deserti. "Posso farvi compagnia per qualche istante?" "Be'..." Sanders non fece alcun tentativo di mostrarsi cordiale. L'incidente della pistola automatica gli ricordava la maniera in cui Ventress calcolava tutto quel che faceva. Dopo le poche ore trascorse con Louise, l'ultima persona al mondo che desiderava avere vicino era proprio Ventress, con i suoi modi da maniaco. "Se proprio..." "Mio caro Sanders, non ho intenzione di mettervi in imbarazzo. Starò in piedi." Senza curarsi del fatto che Sanders gli voltava per metà le spalle, Ventress non desisté. "Siete un tipo molto saggio, dottore. Le notti, a Port Matarre, sono molto più interessanti delle giornate. Non vi pare?" Sanders voltò la testa, incapace di comprendere dove Ventress volesse andare a parare questa volta. L'uomo che li aveva osservati dal portico quando lui e Louise erano saliti in camera poteva benissimo essere stato Ventress. "In un certo senso..." "L'astronomia non è per caso uno dei vostri passatempi?" domandò Ventress. Si appoggiò al tavolo con il suo perenne sorriso ironico sulle labbra. "Ho visto il satellite, se è a questo che volete alludere," rispose Sanders. "Ditemi, come lo spiegate... l'improvviso aumento di lucentezza?" Ventress annuì con aria sapiente. "È una domanda molto impegnativa, dottore. Per potervi rispondere avrei bisogno, letteralmente, credetemi, di tutto il tempo del mondo..." Prima che Sanders potesse chiedergli delucidazioni su questa dichiarazione, la porta si aprì e uno dei due giovani africani, che poco prima sostavano vicino all'automobile, entrò. Il giovane e Ventress si scambiarono una rapida occhiata, poi l'africano scivolò nuovamente all'esterno. Con un breve inchino, Ventress si girò e tirò fuori la sua valigia di pelle di coccodrillo dallo scomparto di fianco a quello di Sanders. Quando già si stava allontanando, si fermò per un attimo e mormorò a Sanders: "Tutto il tempo del mondo... ricordatevelo, dottore!". Sanders finì il suo whisky, chiedendosi che cosa spingesse Ventress a celarsi dietro a quegli enigmi. La bianca figura dell'uomo, con la sua valigia in mano, scomparve nell'oscurità che avviluppava i moli, dietro ai due africani che camminavano di buon passo poco più oltre. Sanders gli concesse cinque minuti, dando per scontato che Ventress stesse per partire su una barca, presa a noleggio o rubata, alla volta di Mont Royal. Anche se di lì a non molto lo avrebbe seguito, diretto alla stessa meta, Sanders era contento di rimanere solo a Port Matarre. La presenza di Ventress introduceva in una certa maniera un elemento spiacevole di casualità nella situazione già di per sé confusa della città, come in una partita a scacchi dove entrambi i giocatori sospettassero la presenza di una pedina nascosta sulla scacchiera. Mentre passava vicino all'automobile abbandonata, Sanders notò che c'era trambusto al centro del porticciolo indigeno. Molti dei fuochi erano stati spenti da scrosci d'acqua. C'era chi cercava di ravvivare altri fuochi soffiandoci sopra, e le fiamme danzavano sull'acqua agitata dalle barche che rollavano e beccheggiavano. Le passerelle soprastanti, che si incrociavano nell'aria unendo un molo all'altro, dondolavano sotto il peso di uomini in corsa che si buttavano ogni tanto contro i corrimano per schivarsi a vicenda. Sanders si avvicinò ai margini dell'acqua. Allora scorse la piccola figura bianca di Ventress che sfrecciava al centro dell'inseguimento in corso, come un ragno intrappolato nel mezzo di una ragnatela che si stesse sfasciando. Ventress lanciò un grido al giovane che portava la sua valigia e che si trovava sulla passerella dieci metri davanti a lui. Un mulatto, alto di statura e con i capelli tagliati a spazzola, in una camicia color cachi, stava giungendo verso di loro con un pezzo di pesante tubo metallico stretto tra le mani sfregiate. Dietro a Ventress, il secondo giovane africano era stato abbattuto sul fondo della passerella da due uomini che indossavano magliette di colore scuro. Lame di coltello mandarono lampi nella notte. Il giovane si mise a scalciare, poi balzò lateralmente dalla passerella, come un pesce che si dibattesse in procinto di essere sventrato. Andò a finire su una delle barche sottostanti, e Sanders notò il lungo taglio che gli aveva strappato un calzone all'altezza della coscia. Cercando di tamponare l'emorragia alla gamba con una mano, l'africano riuscì a raggiungere il molo a fatica, attraversando la barca attigua. Poi si infilò di corsa tra le balle di farina di cacao. Sulla passerella soprastante Ventress urlò di nuovo, e il giovane con la valigia l'alzò per difendersi dal colpo che il mulatto cercava di vibrargli alla testa con la sezione di tubo. Buttando la valigia addosso all'avversario, il giovane scivolò sotto il corrimano e cadde volteggiando sulla seconda fila di barche ormeggiate a fianco del pontile, sfondando il tetto di malacca. Il tugurio crollò in un cumulo di coperte e bidoni di benzina capovolti. Un vivido scintillio scaturì nella notte quando i fuochi delle altre barche illuminarono un deposito nascosto di gioielli cristallini. Mentre osservava le gemme che brillavano riflettendosi nell'acqua del porticciolo rotta dalle barche che abbandonavano gli ormeggi, Sanders udì la secca detonazione di un colpo d'arma da fuoco. Con l'automatica in pugno, Ventress si era accovacciato su una passerella. Sparò di nuovo al mulatto armato di tubo. Questi indietreggiò e guadagnò una passerella laterale che finiva sul pontile. Ventress girò allora la testa per controllare i due uomini alle sue spalle, tutti e due immobili contro il corrimano, quasi invisibili nell'oscurità. Riposta la pistola, Ventress si calò dal bordo della passerella, balzando dal ponte sulla barca sottostante. Ignorando le proteste del proprietario dell'imbarcazione, un piccolo africano dai capelli grigi che cercava di rimettere insieme il cumulo di foglie ingioiellate che erano finite un po' dappertutto nello scafo, Ventress scoperchiò il tetto coperto da un telo. I suoi due compari erano scomparsi tra le barche che si trovavano fra i due moli successivi, ma Ventress sembrava preoccupato soltanto di ritrovare la sua valigia. Passò da una barca all'altra, allontanando a calci le tende di calicò e tenendo a bada i proprietari con la pistola spianata. Ogni volta che abbandonava una barca per passare a quella successiva, si lasciava alle spalle una scia luminosa di gioielli. I tre uomini fermi sulla passerella sospesa erano illuminati da quella luce violenta. Lasciando perdere la valigia che non si trovava, Ventress si fece largo tra i proprietari delle bancarelle. Si arrampicò su uno dei moli. In fondo al pontile era ormeggiato un piccolo motoscafo, fermato da un unico cavo legato a una palafitta segata. Ventress arrivò in fondo al molo, slegò il cavo e balzò sull'imbarcazione. Per un momento armeggiò con i comandi, e il motore che cercava di partire emise qualche gemito che si udì distintamente nel baccano del porto. Un secondo dopo si udì una tremenda esplosione dallo stipetto di prua e nell'aria buia si alzò un'enorme, vivida fiammata. Scaraventato all'indietro contro la barra, Ventress restò per un attimo stordito a contemplare le fiamme che si sprigionavano dal cruscotto e dalla prua davanti al parabrezza distrutto. Mentre lo scafo si spostava alla deriva, Ventress ritrovò la sua presenza di spirito e saltò sulla grossa boa che serviva da passerella. Facendosi largo tra i pochi africani che osservavano la scena dalla riva, Sanders si arrampicò su uno dei moli e si mise a correre per raggiungere Ventress. Ferito dall'esplosione, l'ometto vestito di bianco non si era accorto del quasi invisibile profilo di una grossa imbarcazione a motore, che era rimasta in attesa a circa venti metri dal pontile. In piedi, al timone, sul ponte da dove aveva osservato lo svolgersi dell'inseguimento sulle passerelle, c'era un uomo alto e prestante, vestito di scuro, con il lungo volto parzialmente nascosto dietro la base bianca dell'antenna radio. Sul ponte sotto di lui c'era un cannoncino da yacht club per l'inizio delle regate, la cui canna tozza e lucida brillava nella notte. Mentre il motoscafo incendiato passava alla deriva davanti al pontile, le fiamme si placarono e il motoscafo d'altura con il suo sconosciuto osservatore affondò nell'oscurità. Sanders si trovava a metà del molo quando vide il mulatto con i capelli a spazzola che balzava giù dalla passerella e gli si parava davanti. Aveva buttato via il pezzo di tubo e nella grossa mano scintillava la lama sottile e argentea di un coltello. Si avvicinò furtivamente a Ventress arrivandogli da dietro. L'altro era seduto, inerte, sul limite del molo, a guardare il motoscafo in fiamme che si allontanava. "Ventress!" Correndo all'impazzata, Sanders raggiunse il mulatto e con l'impeto dello slancio gli si catapultò addosso facendogli perdere l'equilibrio. Ripresosi con la velocità di un serpente, il mulatto piroettò su se stesso e diede una testata a Sanders, colpendolo al petto. Poi si chinò per raccogliere il coltello, mentre gli occhi bianchi andavano da Ventress al medico e di nuovo a Ventress. A cento metri da lì, sulla riva, un razzo di segnalazione attraversò l'aria sopra il porticciolo. La sua fievole luce brillò brevemente nel cielo. Una sirena si mise a ululare da dietro i magazzini. Un automezzo della polizia si fermò vicino al molo successivo e con i fari illuminò gli ultimi gioielli cristallini che ancora si scorgevano e che venivano rapidamente nascosti sotto i vari teloni. Il motoscafo in fiamme era andato a sbattere contro uno dei supporti per le passerelle e il legno incatramato aveva preso fuoco. Le fiamme si alzavano già dalle strutture di legno stagionato. Sanders tenne indietro il mulatto sferrando un calcio nell'aria nella sua direzione, poi strappò un pezzo di legno allentato che sporgeva dal molo. Il mulatto osservò per un attimo il veicolo della polizia. Con il coltello in pugno, superò di corsa Sanders, raggiunse l'estremità del molo e si tuffò tra le barche. "Ventress...?" Sanders gli si inginocchiò di fianco e con la mano spense le scintille che gli avevano bruciacchiato in più punti il tessuto dell'abito. "Ce la fate a camminare? C'è la polizia." Ventress si alzò in piedi a fatica, lo sguardo appannato. Sotto la barba, la sua faccia smunta era impenetrabile. Sembrava non avesse idea di quel che era accaduto, e si appoggiò come un vecchio al braccio che gli offriva Sanders. Dietro di loro, sul fiume, si udì un rombo soffocato e onde di schiuma bianca incominciarono a rotolare dietro la poppa del motoscafo d'altura in attesa. Mentre il motoscafo si allontanava, Ventress tornò in sé. Reggendosi sempre al braccio di Sanders, ma questa volta guidandolo, incominciò a correre per il molo. "Giù la testa, dottore! Non possiamo star qui ad aspettare!" Girava il capo da destra a sinistra in continuazione, osservando la passerella incendiata che ora si stava spezzando in due prima di cadere in acqua. Quando arrivarono sulla riva del fiume, ed ebbero superato la piccola folla di spettatori, Ventress si rivolse a Sanders: "Devo ringraziarvi, dottore. Per poco non sono finito anch'io fuori tempo". Prima che Sanders potesse rispondere, Ventress si lanciò tra le cataste di bidoni di benzina davanti all'entrata di uno dei depositi. Sanders lo seguì e lo vide scomparire dietro l'automobile abbandonata. Nel porticciolo le fiamme si erano spente. Le sezioni carbonizzate della passerella fumavano e crepitavano nell'aria buia. I poliziotti si erano sparpagliati per il porto e con i machete stavano tagliando tutte le altre passerelle a una a una, facendole finire in acqua. I proprietari delle bancarelle, dal canto loro, vogavano in fretta e furia per togliere di mezzo le loro barche, protestando ad alta voce. Sanders ritornò a piedi all'albergo, evitando di passare per i portici. Disturbati nel loro sonno, i mendicanti si erano seduti sulle loro coperte di cartone e gli chiesero l'elemosina, gli occhi scintillanti tra le colonne scure. Louise era tornata in camera sua. Spenta la luce, Sanders si accomodò sulla sedia vicino alla finestra. Le ultime tracce del profumo di Louise si dissolsero nell'aria mentre lui osservava l'alba che spuntava da dietro le colline di Mont Royal, illuminando il corso serpentino del fiume come se stessero rivelando un sentiero segreto. 4. L'annegato Il mattino seguente, dal fiume di Port Matarre fu ripescato un annegato. Poco dopo le dieci, il dottor Sanders e Louise Peret scesero al porticciolo indigeno nella speranza di ingaggiare uno dei barcaioli che li portasse su per il fiume fino a Mont Royal. Il porticciolo era quasi vuoto e pressoché tutte le barche si erano spostate dall'altra parte del fiume, lungo la sponda opposta. Le passerelle distrutte galleggiavano nell'acqua come scheletri di rettili semiannegati. C'erano un paio di pescatori che frugavano lì intorno. Il mercato era tranquillo, forse in conseguenza di quanto era successo la notte prima, o a causa della scenata di padre Balthus per la croce ingioiellata. Comunque, qualcosa aveva dissuaso i proprietari delle bancarelle di souvenir dal mostrarsi. Se durante la notte la foresta aveva mandato riflessi luminosi, ora, di giorno, la giungla era ridiventata buia e tenebrosa, come se le foglie si stessero ricaricando, prendendo energia dal sole. Un intimo senso di disagio convinse Sanders della necessità di partire con Louise per Mont Royal al più presto possibile. Mentre passavano per il mercato, Sanders cercò traccia del mulatto e dei suoi due compari. Tuttavia, riconsiderando come si era svolto l'attacco a Ventress (senza dubbio il motoscafo d'altura e il suo occulto timoniere avevano svolto una parte importante nel tentato omicidio), Sanders ritenne che gli aspiranti assassini dovessero ormai trovarsi a distanza di sicurezza dalla polizia. Durante la breve passeggiata dall'albergo, Sanders si era in un certo senso aspettato di sentire Ventress che lo chiamasse all'improvviso sussurrandogli qualcosa dai recessi dei portici. Ma non c'era traccia di lui in tutta la città. Per quanto improbabile, la luce pesante che incombeva su Port Matarre convinse Sanders che l'ometto vestito di bianco se n'era già andato. Sanders indicò a Louise il groviglio di passerelle distrutte e lo scheletro carbonizzato del piccolo motoscafo che era andato a finire sulle secche, e le descrisse l'attacco del mulatto e dei suoi uomini. "Forse stava cercando di rubare dei gioielli dalle barche," azzardò Louise. "Può darsi che quegli uomini stessero semplicemente difendendosi." "No, era qualcosa di più... Quel mulatto ce l'aveva proprio con Ventress. Se non fosse arrivata la polizia, saremmo finiti tutti e due in fondo al fiume." Louise lo afferrò per un braccio, come se per un attimo l'atmosfera di incertezza di Port Matarre le avesse fatto sorgere un dubbio sull'identità fisica di Sanders. "Ma perché qualcuno doveva desiderare la sua morte?" "Non ne ho idea... Non hai trovato niente su Ventress?" "No. Più che altro mi sono occupata di te. Non ho nemmeno visto questo ometto con la barba. Dalla tua descrizione mi sembra un tipo piuttosto sinistro." Sanders rise. Tenendole un braccio intorno alle spalle per qualche passo, disse: "Mia cara Louise, tu hai il complesso di Barbablù... come tutte le donne. In realtà, Ventress non è affatto sinistro. Al contrario, è un tipo abbastanza ingenuo e vulnerabile...". "Proprio come Barbablù, no?" "Be', non proprio. Dalla maniera in cui parla, tutto a enigmi, mi dà l'impressione che abbia paura di scoprirsi. Secondo me sa qualcosa di questo processo di cristallizzazione." "Ma perché non te lo dice chiaro e tondo? Come può, quello che sta succedendo qui, avere a che fare con lui?" Sanders fece una pausa, abbassando lo sguardo sugli occhiali che Louise stringeva in una mano. "Non è lo stesso per tutti noi, Louise?" disse. "Dietro di noi, a Port Matarre, ci sono ombre bianche oltre a quelle nere... ma il perché Dio solo lo sa. Eppure, di una cosa sono certo: non c'è un vero pericolo fisico a causa di questo processo. Altrimenti Ventress mi avrebbe avvertito. Invece, direi che mi stesse incoraggiando a recarmi a Mont Royal." Louise si strinse nelle spalle. "Forse gli farebbe comodo averti là." "Forse..." Erano passati oltre i pontili principali del porticciolo indigeno, e qui Sanders si fermò a parlare con i mezzosangue proprietari della piccola flotta di barche da pesca ormeggiate lungo la sponda. Questi scrollarono la testa non appena sentirono nominare Mont Royal, e comunque non sembravano degni di molta fiducia. Sanders tornò da Louise. "Niente da fare. E comunque, non sono le barche adatte." "Quello laggiù non è il traghetto?" Louise indicò un punto a un centinaio di metri da loro, lungo la riva, dove una mezza dozzina di persone era ferma vicino all'acqua davanti a una piattaforma da sbarco. Due uomini armati di lunghi pali stavano girando una grossa barca a remi per farlo approdare. Louise e il dottor Sanders si avvicinarono e videro che i due barcaioli si stavano trascinando dietro un cadavere che galleggiava nell'acqua. Il gruppo degli spettatori indietreggiò quando il cadavere, sospinto dalle aste di legno, finì arenato sulle secche. Dopo un momento di indecisione, qualcuno si fece avanti per issarlo sul fango. Per alcuni istanti tutti restarono a osservare il corpo del morto, mentre l'acqua fangosa defluiva dai suoi indumenti e rivelava il bianco delle guance e degli occhi. "Ooohhh...!" Con un brivido, Louise si girò e si allontanò, risalendo per qualche passo la sponda verso la piattaforma di attracco. Il dottor Sanders, invece, andò vicino al cadavere per esaminarlo. Si trattava di un europeo di pelle bianca, un tipo muscoloso sulla trentina, che apparentemente non aveva subito ferite visibili. Dal fatto che l'acqua aveva sciolto la tintura della cintura di cuoio e degli stivali, Sanders arguì che l'uomo doveva essere rimasto in acqua per quattro o cinque giorni, ma rimase stupito quando si rese conto che non si era verificato ancora il rigor mortis. Tessuti e articolazioni non erano irrigiditi, la pelle era solida e quasi calda. Ma ciò che attirò la sua attenzione, come quella di tutti i presenti, fu il braccio destro del morto. Dal gomito fino alla punta delle dita, era rinchiuso in un blocco di cristalli lucenti e trasparenti... o più precisamente sembrava che i cristalli fossero scaturiti dalla carne ricoprendola. Fatto sta che i contorni della mano e delle dita si scorgevano in una moltitudine di riflessi colorati. Questo grande guanto tempestato di gioielli, come il pezzo di un'armatura di conquistatore spagnolo, si stava asciugando nel sole e i cristalli incominciavano a emettere una luce fredda e violenta. Il dottor Sanders si guardò alle spalle. Qualcuno era venuto ad aggiungersi al gruppo degli spettatori. La figura di padre Balthus era ferma sulla sponda del fiume, la tonaca nera che gli scendeva dalle spalle come le ali di un enorme avvoltoio. Il sacerdote teneva lo sguardo fisso sul braccio ingioiellato del morto. Un tic a un angolo della bocca gliela faceva fremere, come se il prete stesse inconsciamente pronunciando un requiem blasfemo in onore del morto. Poi, con uno sforzo, padre Balthus girò sui tacchi e si incamminò verso le case della città. Il dottor Sanders si rialzò quando uno dei barcaioli si fece avanti. Passò oltre il circolo degli spettatori e tornò da Louise. "Era Anderson? L'americano? Ho visto che l'hai riconosciuto." Louise scrollò la testa. "Il fotografo. Matthieu. Erano partiti insieme in automobile." Alzò gli occhi su Sanders, col volto contratto. "Il braccio] Cosa gli è successo al braccio?" Il dottor Sanders allontanò la ragazza dalla piccola folla di persone che stavano ancora osservando il cadavere. Dai tessuti cristallizzati emanava la luce violenta dei gioielli. A cinquanta metri, padre Balthus stava oltrepassando il porticciolo indigeno. I pescatori si facevano indietro al suo passaggio. Sanders si guardò intorno, come cercando di orientarsi. "Direi che è giunto il momento di scoprirlo. Dobbiamo assolutamente trovare una barca." Louise raddrizzò la borsetta e si mise a cercare matita e taccuino. "Edward, credo... devo mettere giù questa storia. Mi piacerebbe venire a Mont Royal con te, ma, con un morto, non ci troviamo più di fronte a semplici congetture." "Louise!" Il dottor Sanders la teneva per un braccio. Già sentiva che il legame fisico tra loro si stava sciogliendo. Louise aveva gli occhi fissi sul cadavere vicino alla sponda del fiume. Sembrava pensare che non c'era ragione perché dovesse seguire Sanders a Mont Royal. I veri motivi che spingevano Sanders a risalire il fiume, la necessità di porre fine ai sentimenti che lo legavano a Suzanne Clair, appartenevano solo ed esclusivamente alla mente di lui. Eppure Sanders non voleva abbandonarla. Anche se la loro relazione era ancora superficiale, era pur sempre un'alternativa a Suzanne. "Louise, se non partiamo questa mattina stessa non andremo mai via di qui. Una volta che la polizia troverà quel cadavere, chiuderà un cordone di protezione intorno a Mont Royal, se non addirittura intorno a Port Matarre." Esitò un istante e poi aggiunse: "Quell'uomo è rimasto in acqua per almeno quattro giorni, probabilmente portato giù dalla corrente fin da Mont Royal. Eppure è morto soltanto mezz'ora fa". "Che cosa vuoi dire?" "Precisamente quel che ho detto. Era ancora caldo. Allora mi capisci, quando dico che dobbiamo assolutamente partire al più presto per Mont Royal? La storia che vuoi è là, e sarai la prima..." Sanders si interruppe, consapevole che la loro conversazione era ascoltata da orecchie indiscrete. Si erano incamminati per la banchina, e alla loro destra, a una ventina di passi, un'imbarcazione a motore fendeva lentamente l'acqua, mantenendosi alla velocità del loro passo. Sanders riconobbe lo scafo rosso e giallo che era arrivato a Port Matarre sul battello che aveva portato anche lui. In piedi ai comandi, con una mano posata pigramente sul timone, c'era un uomo alto con un volto dai lineamenti regolari e un'espressione divertita negli occhi. Questi lanciò al dottor Sanders un'occhiata con un'espressione di amabile curiosità, come a valutare i pro e i contro di un eventuale confronto con lui. Il dottor Sanders fece segno a Louise di fermarsi. Il timoniere spense il motore dell'imbarcazione, che compì un arco e si avvicinò alla sponda. Il dottor Sanders scese per andare verso l'imbarcazione, lasciando Louise sulla banchina. "Gran bella barca," disse Sanders al timoniere. L'uomo alto fece un gesto come per minimizzare le doti della sua proprietà, poi rivolse a Sanders un sorriso disinvolto. "Sono contento che vi piaccia, dottore." Poi indicò Louise Peret. "Vedo che avete buon gusto." "Mademoiselle Peret è una mia collega. Al momento sono più interessato alle imbarcazioni. Questo motoscafo ha viaggiato con me, sul battello da Libreville." "Allora sapete già, dottore, che come avete detto è una gran bella barca. Vi porterebbe a Mont Royal in quattro o cinque ore." "Eccellente, non c'è che dire." Il dottor Sanders controllò l'orologio da polso. "Quanto vorreste per il tragitto, capitano...?" "Aragon." L'uomo alto recuperò un sigaro fumato per metà da dietro l'orecchio e con esso indicò Louise. "Per una persona? O per tutti e due?" "Dottore...!" gridò Louise dalla sponda, ancora indecisa. "Non sono sicura..." "Per tutti e due," rispose il dottor Sanders, volgendo le spalle alla ragazza. "Ma vogliamo partire oggi stesso, entro mezz'ora, se possibile. E adesso, quanto?" Per alcuni minuti i due contrattarono, poi trovarono un compromesso. Aragon mise in moto la barca e gridò: "Ci vediamo al prossimo molo, dottore. Tra un'ora. Allora cambia la marea. Ci porterà su per metà della strada". A mezzogiorno, le valigie chiuse nello stipetto dietro al motore, partivano sul motoscafo per risalire il fiume. Il dottor Sanders era seduto di fianco ad Aragon sul sedile anteriore, mentre Louise Peret aveva preso posto su uno dei seggiolini posteriori, con i capelli che fluttuavano scuri nel vento. Sollevando spruzzi che ricadevano ad arco nell'acqua riproducendo i colori dell'arcobaleno, il motoscafo risalì il fiume marrone sfruttando la marea. A mano a mano che si inoltravano nell'interno, Sanders sentiva che finalmente quell'opprimente silenzio incombente su Port Matarre, per la prima volta da che era arrivato lì, non lo turbava più. I portici deserti, di cui ebbero un'ultima breve visione mentre imboccavano il canale principale, e la tenebrosa foresta sembravano allontanarsi tra le quinte di un palcoscenico, separati da lui dal rombo e dalla velocità dell'imbarcazione a motore. Passarono davanti al pontile della polizia. Un caporale, che si trovava lì con la sua pattuglia di guardia, stette a osservarli passare sulla loro scia di schiuma. Il potente motore sollevò la prua del motoscafo fuori dell'acqua, e Aragon si sporse in fuori per tenere d'occhio la superficie del fiume nell'eventualità che ci fossero pezzi di legno sulla loro rotta. C'erano ben poche altre imbarcazioni in giro. Una o due chiatte indigene si muovevano appena nei pressi delle sponde, per metà celate dal fogliame che ricadeva nell'acqua. A poco più di un chilometro da Port Matarre, passarono oltre i moli privati di una piantagione di cacao. Le chiatte vuote dondolavano abbandonate sull'acqua sotto le loro gru addormentate. Le erbacce erano spuntate tra le rotaie di una strada ferrata a scartamento ridotto e si erano inerpicate su per i cavalletti negli spiazzi per il carico e lo scarico. Dappertutto la foresta sovrastava la terra immobile nell'aria calda, e la velocità e la schiuma del motoscafo parvero al dottor Sanders un trucco da illusionista, il movimento a scatti dell'obiettivo di una cinepresa difettosa. Mezz'ora dopo, quand'ebbero raggiunto i limiti fino ai quali si spingeva la marea su per il fiume, a quindici chilometri circa dalla costa, Aragon rallentò per poter osservare l'acqua più attentamente. La corrente portava con sé alberi morti e grossi pezzi di corteccia. Ogni tanto incrociavano sezioni di banchine galleggianti che erano state strappate dai loro ormeggi dalla forza della corrente. Il fiume sembrava trascurato e pieno di rifiuti, adibito a raccogliere tutta la sporcizia di città e paesi deserti. "È davvero una bella barca, capitano," si complimentò Sanders mentre Aragon spostava i bidoni di benzina per mantenere l'equilibrio dell'imbarcazione. Aragon annuì, virando per far passare il motoscafo al fianco dei resti di una capanna galleggiante. "Più veloce delle lance della polizia, dottore." "Ne sono certo. A che cosa vi serve? Contrabbando di diamanti?" Aragon girò la testa per lanciare a Sanders un'occhiata tagliente. Nonostante l'atteggiamento riservato del medico, Aragon dava l'impressione di essersi già fatto la sua personale opinione su di lui. Si strinse tristemente nelle spalle. "È quel che speravo, dottore. Ma ormai è tardi." "Perché dite così?" Aragon alzò gli occhi verso la foresta buia che sembrava assorbire tutta la luce dell'aria. "Lo vedrete da voi, dottore. Tra poco saremo arrivati." "Quando siete stato a Mont Royal l'ultima volta, capitano?" domandò Sanders. Si voltò a guardare Louise. La ragazza si era protesa in avanti per cercare di sentire le risposte di Aragon, premendosi i capelli contro la guancia. "Cinque settimane fa. La polizia mi ha preso la vecchia barca che avevo." "Sapete che cosa sta succedendo a Mont Royal? Hanno trovato una nuova miniera?" Aragon rispose con una risata e poi virò per evitare un grosso uccello bianco che se ne stava appollaiato su un tronco sulla loro rotta. Lanciando un grido, l'uccello spiccò il volo passando proprio sopra le loro teste, le grosse ali che si agitavano come goffi remi. "In un certo senso è così, dottore. Ma non nel senso che intendete." Prima che Sanders potesse rivolgergli un'altra domanda, soggiunse: "Devo ammettere che in realtà io non ho visto niente. Me ne stavo sul fiume. È successo di notte". "Avete visto il cadavere nel porticciolo, questa mattina?" Aragon rimase in silenzio per mezzo minuto, prima di rispondere. Alla fine disse: "El Dorado, l'uomo d'oro e gioielli, chiuso in un'armatura di diamanti. È una fine che piacerebbe a molti, dottore". "Forse. Era un amico di mademoiselle Peret." "Di mademoiselle...?" Con una smorfia, Aragon si concentrò sulla guida. Poco dopo l'una, quand'erano circa a metà strada fra Port Matarre e Mont Royal, si fermarono a un pontile malandato che sporgeva nel fiume per servire una piantagione ora abbandonata. Seduti sulle travi fradicie fecero colazione con prosciutto e panini, seguiti da caffè nero. Niente si muoveva sul fiume, niente sulle sue sponde. Sanders aveva l'impressione che tutta la zona fosse stata abbandonata. Forse a causa dell'atmosfera del posto, ogni volontà di conversazione si era spenta. Aragon se ne stava seduto per conto proprio a fissare l'acqua trascinata dalla corrente. L'inclinazione marcata della sua fronte e la faccia magra con gli zigomi appuntiti gli avevano dato un aspetto di uomo sveglio e pratico, sul fiume a Port Matarre, ma lì, circondato com'era da ogni parte da quella giungla oppressiva, Aragon sembrava meno sicuro di sé, nervoso e preoccupato. Perché avesse scelto di portare Sanders e Louise a Mont Royal rimaneva inspiegato, ma Sanders riteneva che Aragon fosse mosso a tornare nella sua zona d'origine da motivi incerti quanto quelli che animavano lui stesso. Anche Louise si era rinchiusa in se stessa. Mentre fumava la sua sigaretta dopo il pasto, evitando accuratamente di incontrare lo sguardo di Sanders, questi decise che per il momento era meglio lasciarla in pace e si incamminò per il pontile, attento a scavalcare le assi rotte, per raggiungere la sponda del fiume. La foresta aveva respinto la piantagione e gli alberi giganteschi si alzavano in file silenziose, come scogli scuri, uno dietro l'altro. In lontananza, Sanders scorse la casa padronale della piantagione, ora in rovina. Le travi inclinate dei tetti delle costruzioni circostanti erano ormai imprigionate in un intrico di rampicanti; le felci avevano invaso il giardino della casa, risalendo fino alle porte e germogliando tra le assi della veranda. Stando alla larga da questi ruderi funerei, Sanders passò intorno al perimetro del giardino, seguendo le pietre sbiadite che segnavano un vecchio sentiero. Sorpassò la rete metallica di un campo da tennis coperta di rampicanti e muschio, e raggiunse la conca prosciugata di una fontana. Si sedette sul bordo della vasca e tirò fuori le sigarette. Stava guardando verso la casa padronale della piantagione da qualche minuto, quando si rizzò improvvisamente in piedi, in un moto inconsulto. Da una delle finestre del piano superiore della casa, una donna di pelle bianca lo stava osservando, con testa e spalle coperte da una mantiglia bianca, inquadrata nella cornice scura dei rampicanti aggrappati sugli infissi. Sanders buttò via la sigaretta e attraversò di corsa le felci. Raggiunse la veranda e spalancò con un calcio l'uscio impolverato della casa. Senza perdere tempo, si diresse verso la scalinata. Ogni tanto i suoi piedi sprofondavano attraverso le assi del pavimento che sembravano fatte di balsa, ma i gradini di marmo erano ancora in buono stato. Tutto il mobilio della casa era stato portato via, e Sanders arrivò senza difficoltà dal pianerottolo superiore alla camera nella quale aveva scorto la donna. "Louise...!" La ragazza si voltò a guardarlo ridendo, lasciando ricadere a terra i resti pretenziosi di una vecchia tenda di pizzo. Sorrise a Sanders agitando leggermente testa e capelli. "Ti ho spaventato? Mi dispiace." "Louise... è stata proprio una stupida trovata..." Con uno sforzo Sanders si controllò. Poi chiese: "Come diavolo sei arrivata fin quassù?". Louise si mise a gironzolare per la stanza, osservando i segni lasciati sulle pareti dai quadri portati via, come se stesse visitando una spettrale galleria d'arte. "Camminando, naturalmente." Si girò a guardare il medico. Il suo sguardo si era fatto più penetrante. "Cosa succede... Ti ho forse ricordato qualcuno?" Sanders le si avvicinò. "Forse. Louise, è già abbastanza difficile così, senza bisogno di scherzi di questo genere." "Non voleva essere uno scherzo." Louise prese Sanders per un braccio. Il sorriso ironico era scomparso dalle sue labbra. "Edward, mi dispiace... non avrei dovuto..." "Lasciamo perdere." Sanders tenne il viso di lei contro la propria spalla. Con l'aiuto del contatto fisico di Louise, parve riprendersi. "Per l'amor del cielo, Louise. Tutto questo sarà finito quando saremo a Mont Royal... prima non avevo scelta." "Certamente..." Louise lo trascinò via dalla finestra. "Aragon... ci può vedere." La tenda di trine giaceva per terra ai loro piedi, la mantiglia che Sanders aveva visto dalla fontana asciutta del giardino. Louise fece per inginocchiarvisi sopra, sempre tenendolo per le mani, ma Sanders scrollò la testa e con un calcio buttò la tenda in un angolo. Più tardi, quando furono tornati al motoscafo, Aragon si fece loro incontro a metà del molo. "Dobbiamo andare, dottore," disse. "Qui la barca resta allo scoperto. Alle volte pattugliano il fiume." "Certo. Quanti soldati ci sono nella zona di Mont Royal?" domandò Sanders. "Quattro o cinquecento. Forse anche di più." "Un battaglione? Sono molti, capitano." Offrì ad Aragon una delle sue sigarette, mentre Louise li precedeva. "Quell'incidente nel porticciolo indigeno, ieri notte... Avete assistito anche voi?" "No, ne ho sentito parlare questa mattina... Le barche di quelli del mercato si incendiano facilmente." "Può darsi. Un uomo di mia conoscenza è stato assalito... Un europeo che si chiama Ventress." Fissò Aragon. "C'era un grosso motoscafo d'altura con un cannoncino in coperta... Vi è mai capitato di vederlo su questo fiume?" La faccia di Aragon rimase impassibile. Alzò le spalle in un gesto vago. "Forse appartiene a una delle compagnie minerarie. Non ho mai conosciuto questo Ventress." Prima che Sanders muovesse un altro passo, aggiunse: "Ricordate, dottore, che ci sono molti interessi a Mont Royal, per i quali si cerca di impedire alla gente di recarsi nella foresta... o di uscirne". "Questo lo capisco. A proposito, quell'annegato nel porticciolo, questa mattina... Quando lo avete visto, era per caso sdraiato su una zattera?" Aragon inalò lentamente il fumo della sigaretta, fissando Sanders con un'espressione piena di rispetto. "Siete un uomo in gamba, dottore." "E a proposito della sua armatura di luce, era coperto di cristalli dalla testa ai piedi?" Aragon gli mostrò un sorriso che era quasi una smorfia, mettendo in mostra un canino d'oro. Si toccò il dente con la punta dell'indice. "Coperto? È il termine esatto, questo...? Il mio dente è tutto d'oro, dottore." "Capisco la distinzione." Sanders si mise a fissare l'acqua bruna che scorreva intorno ai pali lucidi del pontile. Louise gli fece un cenno con la mano, già seduta al suo posto nell'imbarcazione, ma Sanders era troppo assorto nei suoi pensieri per risponderle. "Vedete, capitano, mi stavo chiedendo se quest'uomo, che si chiamava Matthieu, fosse morto nel senso più assoluto quando voi lo avete visto, o se, diciamo, l'acqua agitata del porticciolo non l'abbia sospinto giù dalla zattera a cui però era rimasto in qualche modo aggrappato con una mano... Questo spiegherebbe molte cose. Potrebbe avere conseguenze molto importanti. Capite cosa voglio dire?" Aragon fumava e intanto osservava i coccodrilli sdraiati sulle secche sotto la sponda opposta. Poi buttò la sigaretta fumata per metà nell'acqua. "Credo che sia ora di ripartire per Mont Royal. Quelli dell'esercito qui non sono molto intelligenti." "Hanno altro cui pensare, ma forse avete ragione. Mademoiselle Peret crede che stia per arrivare un fisico. Se è così, si potrebbe riuscire a impedire che avvengano altri tragici incidenti." Appena prima di ripartire, Aragon si rivolse al dottor Sanders per dirgli: "Mi stavo domandando perché avete tanta fretta di arrivare a Mont Royal, dottore". L'osservazione aveva il sapore di una scusa per i sospetti palesati precedentemente, ma Sanders si ritrovò a ridere, rimanendo sulla difensiva. Con un'alzata di spalle disse: "Due miei cari amici si trovano nella zona colpita, insieme a un collega americano di Louise. È naturale che siamo preoccupati per loro. La tentazione dell'esercito sarà di isolare automaticamente tutta la zona, per poi stare a vedere che cosa succede. Stavano già caricando rotoli di filo spinato e sezioni di reticolato nella caserma di Port Matarre, ieri. Per uno che si ritrovasse intrappolato dentro il cordone di sicurezza, sarebbe come restare congelato dentro un ghiacciaio". 5. La foresta cristallizzata Sette chilometri prima di Mont Royal il fiume si stringeva a una larghezza non superiore ai cento metri. Aragon ridusse a pochi nodi la velocità del natante, virando di continuo fra isolette di detriti trasportati dalla corrente ed evitando i rampicanti che pendevano dalle pareti curve della giungla fino in mezzo al fiume. Proteso in avanti, il dottor Sanders scrutava la foresta, ma i grandi alberi erano scuri e immobili come sempre. Sbucarono in un tratto più aperto, dove una parte del sottobosco sulla sponda di destra era stata abbattuta per ricavare uno spiazzo libero. Mentre il dottor Sanders stava indicando un gruppo di baracche semidistrutte, dal folto della foresta sopra di loro eruppe un improvviso scoppio fragoroso, come se un enorme motore fosse stato montato sui rami più alti. Un momento dopo un elicottero passò al di sopra degli alberi. Scomparve alla loro vista, ma il suo baccano continuò a echeggiare nel fogliame. I pochi uccelli della zona sfrecciarono via nell'oscurità della foresta, e i coccodrilli che oziavano sulle secche si inabissarono nell'acqua del fiume punteggiata di pezzi di corteccia. Quando l'elicottero riapparve librato nell'aria, quattrocento metri davanti a loro, Aragon abbassò i giri del motore e incominciò a virare verso la sponda. Ma Sanders scrollò la testa. "Tanto vale continuare, capitano. Non possiamo attraversare la foresta a piedi. Più su riusciamo ad arrivare, meglio è." L'imbarcazione riprese il suo viaggio, tenendosi al centro del corso d'acqua, mentre l'elicottero continuava a girare in tondo sulle loro teste, talvolta alzandosi a duecentocinquanta o trecento metri come per controllare meglio i meandri del fiume più avanti, talvolta invece abbassandosi sull'acqua a cinquanta metri da loro, sfiorando quasi la superficie del fiume con le ruote. Poi, bruscamente, scattò orizzontalmente e compì un largo giro sulla foresta. Sbucando da dietro una curva del fiume, dove il corso d'acqua si allargava in una specie di porto naturale, trovarono la strada sbarrata da un ponte di barche tirato da una sponda all'altra. Sulla destra, lungo i pontili, c'erano i depositi con i nomi delle varie compagnie minerarie. Due unità da sbarco e diverse lance militari erano legate ai moli, e alcuni soldati indigeni erano indaffarati lì intorno a scaricare equipaggiamento e bidoni di combustibile. Nello spiazzo poco oltre era stato posto un campo militare per un reparto molto numeroso. Le file di tende scomparivano tra gli alberi, parzialmente nascoste da grigi festoni di muschio. Grossi ammassi di sezioni di reticolato metallico erano disposti in più punti, e una squadra di uomini era intenta a preparare una serie di cartelli di segnalazione neri con scritte in vernice luminosa. Nel mezzo dello sbarramento, un sergente francese armato di megafono elettrico si rivolse agli occupanti della barca, indicando i pontili. "À droite! À droite!" Una pattuglia di soldati era ferma in attesa vicino alla banchina. Aragon esitò, facendo girare la barca in una lenta spirale. "Che si fa, dottore?" Sanders si strinse nelle spalle. "Dobbiamo obbedire. Non servirebbe a niente cercare di fuggire o di passare con la forza. Se voglio trovare i miei amici e se Louise vuole ottenere la sua storia, dobbiamo venire a patti con l'esercito." Perciò si accostarono al pontile che si trovava fra le due unità da sbarco e Aragon buttò il cavo di ormeggio ai soldati in attesa. Mentre i tre salivano sul pontile di legno, il sergente col megafono lasciò la sua postazione sullo sbarramento e venne loro incontro. "Avete fatto alla svelta, dottore. L'elicottero vi ha raggiunti appena adesso." Indicò una piccola pista d'atterraggio situata vicino al campo militare, tra i depositi. Accompagnato dal suo rombo e sollevando una tempesta di polvere, l'elicottero si stava posando a terra in quel momento. "Sapevate che stavamo arrivando? Credevo che la linea telefonica fosse caduta." "Infatti. Ma abbiamo una radio, dottore." Il sergente gli rivolse un sorriso amabile. Il buon umore del sottufficiale, le sue maniere rilassate e così poco caratteristiche di un militare che stesse trattando con dei civili, fecero pensare a Sanders che forse gli strani avvenimenti nella foresta vicina avessero una volta tanto indotto i soldati a essere ben contenti di trovarsi in compagnia di loro simili, in uniforme o meno. Il sergente salutò Louise e Aragon, consultando un foglietto. "La signorina Peret? Il signor Aragon? Volete seguirmi? Il capitano Radek desidera scambiare due parole con voi, dottore." "Certamente. Ditemi, sergente... se avete una radio, come mai la polizia di Port Matarre non ha idea di quel che sta succedendo?" "Cosa sta succedendo, dottore? Ci sono molte persone in questo momento che cercano di dare una risposta a questo interrogativo. Per quel che riguarda la polizia di Port Matarre, diciamo loro quel poco che riteniamo opportuno. Vedete, non ci piace diffondere troppe chiacchiere." Il gruppetto si incamminò verso un grosso capanno metallico che fungeva da palazzina comando per il battaglione. Il dottor Sanders si voltò a guardare il fiume. Lungo lo sbarramento che attraversava il corso d'acqua, due soldati camminavano avanti e indietro armati di grosse reti per la caccia alle farfalle. Con quegli strumenti setacciavano metodicamente l'acqua che passava attraverso la rete metallica tesa tra le barche che formavano il ponte. Altri mezzi anfibi erano ormeggiati al pontile a monte dello sbarramento, con gli equipaggi a bordo e pronti a salpare. Le due unità da sbarco erano basse sul pelo dell'acqua, caricate a dismisura di casse, balle di merce e tutto un assortimento di elettrodomestici, come frigoriferi, condizionatori d'aria e simili, insieme a macchinari e armadietti da ufficio. Quando arrivarono ai margini della pista d'atterraggio, il dottor Sanders s'accorse che la pista principale altro non era che un tratto della strada Port Matarre-Mont Royal. A settecento metri da lì la strada era stata interrotta da una fila di bidoni da cinquanta galloni colorati a strisce bianche e nere. Oltre quel punto la foresta si inerpicava lentamente verso l'alto, salendo per le colline azzurre della zona mineraria. Più in basso, vicino al fiume, i tetti bianchi della città brillavano nella luce del sole sopra la giungla. (here) C'erano altri due veicoli, monoplani militari, parcheggiati ai bordi della pista. Intanto i rotori dell'elicottero si erano fermati e le pale pendevano curve sulla testa di quattro o cinque civili che stavano smontando con movimenti incerti dalla cabina. Mentre raggiungevano la porta del quartier generale, il dottor Sanders riconobbe una figura vestita di nero che stava attraversando lo spiazzo polveroso. "Edward!" Louise lo afferrò per un braccio. "Chi è quello?" "Il prete. Balthus." Sanders si rivolse al sergente che stava aprendo la porta. "Che ci fa qui il sacerdote?" Il sergente rifletté per un momento, fissando Sanders. "Qui c'è la sua parrocchia, dottore. Vicino alla città. Bisogna bene che lo lasciamo passare, non crede?" "Naturalmente." Sanders si controllò. La sua brusca reazione alla vista del sacerdote gli aveva fatto capire quanto già si stesse identificando con la foresta. Indicò i civili che ancora non avevano trovato l'equilibrio sulle gambe: "E gli altri?". "Esperti in agricoltura. Sono arrivati a Port Matarre questa mattina con un idrovolante." "Un'operazione in grande stile, a quanto pare. Avete visto la foresta, sergente?" Il sergente alzò una mano: "Il capitano Radek vi spiegherà tutto, dottore". Il sottufficiale scortò il dottor Sanders per un corridoio, poi aprì una porta che dava in una piccola sala d'aspetto e fece cenno a Louise Peret e ad Aragon d'entrare. "Mademoiselle... vogliate per favore accomodarvi qui. Vi farò portare del caffè." "Ma sergente, io devo..." Louise avrebbe voluto far udire le sue rimostranze al sottufficiale, ma Sanders intervenne posandole una mano su una spalla. "Louise, è meglio che aspetti qui. Cercherò di scoprire tutto quel che posso." Aragon salutò Sanders con un cenno della mano. "Ci vediamo più tardi, dottore. Baderò io ai vostri bagagli." Il capitano Radek stava aspettando il dottor Sanders nel suo ufficio. Il capitano era ufficiale medico dell'esercito e sembrava evidentemente contento di trovarsi di fronte a un collega. "Accomodatevi, dottore. È un piacere vedervi. Prima di tutto, per mettervi subito a vostro agio, posso dirvi che una pattuglia d'ispezione partirà da qui tra mezz'ora e io ho fatto in modo che noi due possiamo andare con loro." "Grazie, capitano. E per mademoiselle Peret? Lei vorrebbe..." "Mi dispiace, dottore, ma questo non è possibile." Radek posò le mani a palme in giù sulla scrivania metallica, come per cercare di ricavare maggior risolutezza dalla sua superficie dura. Era un uomo alto e magro, con occhi in un certo modo deboli. Sembrava soprattutto ansioso di trovare al più presto un'intesa amichevole con Sanders, preoccupato perché la situazione gli imponeva di lasciare da parte gli usuali preliminari dell'amicizia. "Temo che per il momento siamo costretti a tenere lontani tutti i giornalisti dalla zona. La decisione non è mia, ma sono sicuro che voi mi capite. Forse dovrei aggiungere che c'è un certo numero di cose che non posso confidare nemmeno a voi... come le nostre operazioni in questa zona, i piani di evacuazione e via di seguito. Ma sarò sincero per quanto mi è possibile. Questa mattina è venuto direttamente da Libreville in aereo il professor Tatlin. Adesso si trova sul luogo dell'ispezione. Sono sicuro che sarà felice di avere la vostra opinione." "Sarò ben lieto di dargliela," rispose il dottor Sanders. "Tuttavia non è proprio la mia specialità." Radek fece un mezzo gesto con la mano, che poi lasciò ricadere sulla scrivania. A voce bassa, senza riguardo per quali sentimenti potesse provare Sanders in proposito, disse: "Chi può dirlo, dottore? Secondo me, quello che sta succedendo qui e ciò in cui voi siete specializzato hanno grandi analogie. Si potrebbe dire che una cosa è il lato oscuro dell'altra. Sto pensando alle scaglie argentee della lebbra che danno il nome alla malattia". Si raddrizzò. "E ora, ditemi... avete qualcuno degli oggetti cristallizzati?" "Fiori e foglie." Sanders decise di non parlare dell'uomo morto, ripescato quella mattina nel fiume. Per quanto sincero e socievole fosse il giovane medico dell'esercito, lo scopo principale di Sanders era di arrivare nella giungla. Se avesse dato loro modo di sospettare anche la più remota complicità nella morte di Matthieu, avrebbe corso il rischio di ritrovarsi invischiato in qualche interminabile inchiesta militare. "Il mercato indigeno ne è pieno. Li vendono come souvenir." Radek annuì. "È da un pezzo che va avanti, questa storia. È quasi un anno, per essere più precisi. Prima erano gioielli per i costumi, poi sono arrivati le statuette e gli oggetti sacri. Da non molto qui è sorto un vero e proprio commercio... I nativi portavano nella zona attiva piccoli intagli di poco conto. Ce li lasciavano per tutta la notte, e il giorno dopo andavano a riprenderseli. Purtroppo una parte di questi oggetti, i preziosi in particolare, avevano la tendenza a dissolversi." "Il movimento rapido?" domandò il dottor Sanders. "L'ho notato. Un effetto curioso, la scarica della luminosità. Da lasciare sconcertati chi li porta." Radek sorrise. "Non aveva molta importanza, nel caso dei gioielli per i costumi, ma alcuni minatori indigeni hanno incominciato a servirsi della stessa tecnica con i piccoli diamanti che riuscivano a trafugare. Come saprete, le nostre miniere di diamanti non producono grosse pietre, e tutti rimasero esterrefatti quando incominciarono ad arrivare sul mercato pietre enormi. I prezzi delle azioni alla Borsa di Parigi raggiunsero quotazioni fantastiche. È così che è incominciata. Una persona è stata mandata qui a svolgere indagini, ed è stata ripescata nel fiume." "C'erano interessi in gioco?" "Ce ne sono ancora. Noi non siamo gli unici che stanno cercando di tenere la situazione sotto controllo. Le miniere non hanno mai reso molto..." Radek sembrò sul punto di rivelare qualcosa, ma poi cambiò idea, forse avvertendo il contegno riservato di Sanders. "Be', credo di potervi dire, in tutta confidenza naturalmente, che questa non è l'unica area colpita nel mondo. In questo momento ci sono almeno due altre vaste zone... una nelle Everglades nella Florida e l'altra nelle paludi di Pripet nell'Unione Sovietica. Ovviamente, sono ambedue oggetto di indagini accurate." "Dunque si è capito come funziona?" domandò il dottor Sanders. Radek scrollò la testa. "Nient'affatto. La squadra sovietica è guidata da un seguace di Lysenko e, come potete immaginare, sta buttando via il suo tempo e quello di tutti i russi. Lui crede che ne siano responsabili mutazioni non ereditarie e che, siccome apparentemente aumenta il peso dei tessuti, si potrebbe sfruttare il fenomeno per aumentare la produzione agricola." Radek si lasciò sfuggire una risatina stanca. "Mi piacerebbe vedere uno di questi russi che cerca di masticare un pezzo di questo vetro cristallizzato." "Qual è la teoria di Tatlin?" "In generale si trova d'accordo con gli esperti americani. Gli ho parlato questa mattina, sul luogo dell'ispezione." Radek aprì un cassetto, ne tolse qualcosa che buttò sulla scrivania verso Sanders. Sembrava cuoio cristallizzato ed emanava una fievole luce. "Questo è un pezzo di corteccia che mostro ai visitatori." Il dottor Sanders spinse indietro la corteccia. "Grazie, ma la notte scorsa ho visto il satellite." Radek annuì con aria assorta. Ripose la corteccia nel cassetto insieme al righello, poi richiuse il cassetto, evidentemente contento di non doverla più vedere. Unì le dita delle mani. "Il satellite? Già, una visione fantastica. Adesso Venere ha due fanali. Anzi, non solo due. A quanto pare, all'osservatorio di Monte Hubble negli Stati Uniti hanno notato l'efflorescenza di lontane galassie!" Radek fece una pausa radunando le sue energie con uno sforzo. "Tatlin ritiene che questo effetto Hubble, come lo chiamano, sia qualcosa di molto simile al cancro... e più o meno altrettanto curabile. Si tratterebbe di una vera e propria proliferazione delle identità subatomiche di tutta la materia. È come se una sequenza di immagini dello stesso oggetto, disposte in maniera distinta nello spazio ma identiche, venissero prodotte per rifrazione attraverso un prisma, ma con l'elemento tempo che sostituisce il ruolo della luce." Si udì bussare alla porta. Il sergente infilò dentro la testa. "Il gruppo per l'ispezione è pronto a partire, signore." "Bene." Radek si alzò e prese il berretto dal piolo cui era appeso. "Andiamo a dare un'occhiata, dottore. Credo che ne valga la pena." Cinque minuti più tardi, il gruppo dei visitatori, una mezza dozzina circa, si imbarcò su uno dei mezzi anfibi. Padre Balthus non era con loro, e Sanders pensò che fosse partito a piedi per la sua missione. Tuttavia, quando chiese a Radek come mai non andavano a Mont Royal servendosi della strada, il capitano gli rispose che l'arteria era chiusa. Su esplicita richiesta di Sanders, il capitano riuscì a mettersi in contatto con la clinica dove lavoravano Suzanne e Max Clair per mezzo del telefono da campo. Il proprietario della miniera lì vicino, uno svedese-americano di nome Thorensen, li avrebbe avvertiti dell'arrivo di Sanders, e con un po' di fortuna Max si sarebbe fatto trovare al pontile per incontrarsi con lui quando fossero arrivati a Mont Royal. Radek non sapeva niente di Anderson. "Comunque," spiegò a Louise prima della partenza, "abbiamo avuto anche noi grossi problemi quando abbiamo tentato di scattare fotografie... I cristalli si presentano come neve bagnata, una volta stampati i fotogrammi, e a Parigi sono ancora scettici. Forse Anderson si trova da qualche parte, in attesa di scattare una fotografia più convincente." Prendendo posto vicino al guidatore verso la prua dell'anfibio, il dottor Sanders salutò con la mano Louise Peret che li osservava dal pontile sull'altro lato del ponte di barche. Le aveva promesso che sarebbe tornato a prenderla con Max, dopo aver visitato la zona infetta, ma anche così Louise aveva fatto un debole tentativo per impedirgli di andare. "Edward, aspetta che io possa accompagnarti... È troppo pericoloso per te..." "Mia cara, sono in buone mani... Il capitano farà in modo che tutto vada bene." "Non c'è pericolo, mademoiselle Peret," la rassicurò Radek. "Ve lo riporterò." "Non volevo dire..." incominciò Louise, ma poi si interruppe, abbracciò Sanders con forza e si staccò subito dopo da lui per tornare verso il motoscafo su cui attendeva Aragon intento a discorrere con due soldati. Lo sbarramento sembrava voler segnare un confine tra una parte della foresta e l'altra, un punto oltre il quale si entrava in un mondo dove le normali leggi dell'universo fisico erano state sospese. La pattuglia che risaliva il fiume era silenziosa e assorta. I funzionari e gli esperti se ne stavano tutti seduti a poppa, come per mettere la maggior distanza possibile tra loro e quel qualcosa di misterioso che andavano a vedere. Per dieci minuti procedettero senza incidenti, fiancheggiati dalle pareti verdi della foresta. Incontrarono un convoglio di lance legate dietro a un'unità da sbarco. Erano tutte cariche di svariate merci, sui ponti e sui tetti delle cabine; carrozzelle per bambini e materassi, macchine per lavare e fagotti di biancheria. Restavano pochi centimetri liberi su ogni imbarcazione. Bambini francesi e belgi sedevano con espressione solenne in cima al carico con le valigie sulle ginocchia. I genitori osservarono con occhi privi di espressione il dottor Sanders e i suoi compagni che avanzavano nella direzione opposta. Quando l'ultima imbarcazione del convoglio fu passata, trascinata dall'unità da sbarco nell'acqua increspata, Sanders si girò per guardare ancora. "State evacuando la città?" chiese a Radek. "Quando siamo arrivati noi, era già per metà vuota. La zona colpita si sposta da un luogo all'altro, e per loro è troppo pericoloso restare." Stavano girando seguendo la linea di una curva del fiume, in un punto in cui il corso d'acqua, ormai vicino a Mont Royal, si allargava. L'acqua davanti a loro era sfiorata da un riverbero rosato, come se riflettesse un lontano tramonto o le fiamme di una silenziosa conflagrazione. Il cielo, però, manteneva il suo colore, un azzurro pallido e limpido, assolutamente sereno. Passarono sotto un ponticello, dove il fiume si apriva in un largo bacino del diametro di quattrocento metri. Con un'esclamazione di sorpresa, si sporsero tutti in avanti a fissare il limite della giungla di fronte agli edifici bianchi della città. Il lungo arco di alberi che si curvava sull'acqua sembrava gocciolare e brillare di una miriade di prismi. Tronchi e rami erano coperti da strisce di luce gialla e rossa che si riflettevano sulla superficie dell'acqua come se l'intera scena fosse la riproduzione a tinte eccessivamente cariche di una pellicola in technicolor. La sponda opposta scintillava per tutta la sua lunghezza in questo confuso caleidoscopio, e le bande sovrapposte di diversi colori incrementavano la densità della vegetazione, tanto che era impossibile vedere oltre la fila anteriore dei tronchi. Il cielo era sereno e immobile, la luce del sole brillava ininterrotta sopra questa sponda magnetica, ma ogni tanto una folata di vento attraversava l'acqua e la scena si scomponeva in una cascata di colori che brillavano nell'aria tutt'intorno. Poi, l'attimo di turbamento svaniva e riapparivano gli alberi, ora nuovamente visibili singolarmente, ciascuno inguainato nella sua armatura di luce, con il fogliame luminescente, come carico di gioielli liquefatti. Scosso dallo sbigottimento, come tutti gli altri a bordo dell'anfibio, il dottor Sanders contemplava questo spettacolo con le mani aggrappate alla ringhiera. La luce cristallina gli inondava volto e vestito, trasformando il color pallido del tessuto in un brillante palinsesto di tinte. Il natante compì un largo cerchio dirigendosi verso il molo, dove un gruppo di lance veniva caricato di materiale, e si trovò a passare a circa venti metri dagli alberi, dove il gioco delle luci colorate sugli abiti dei passeggeri per un momento li trasformò tutti in arlecchini. Furono in molti a ridere per questo fenomeno, ma fu più una reazione di sfogo che vero divertimento. Poi molti tesero un braccio per indicare il lungofiume, dove si vedeva che il processo non aveva agito soltanto sulla vegetazione. Partendo dalla base della sponda, per due o tre metri si estendevano lunghi frammenti aguzzi di qualcosa che sembrava essere acqua cristallizzata. Le sfaccettature angolari emettevano una luce azzurrognola e prismatica, contro la quale andava a rompersi la scia dell'imbarcazione. Le schegge crescevano nell'acqua come cristalli in una soluzione chimica, aggregando a sé nuovo materiale in continuazione, così che lungo la sponda si estendeva un ammasso confuso di aguzze punte romboidali, come le sporgenze di una barriera corallina, taglienti al punto di poter facilmente squarciare lo scafo della loro imbarcazione. Sul mezzo da sbarco si intrecciarono teorie e congetture in un borbottio confuso, durante il quale rimasero in silenzio soltanto il dottor Sanders e Radek. Il capitano teneva gli occhi levati sugli alberi curvi, incrostati di un reticolo translucido attraverso il quale la luce del sole veniva riflessa in una teoria di arcobaleni dai colori precisi. Senza dubbio tutti quegli alberi erano ancora vivi, senza dubbio foglie e rami erano pieni di linfa. Il dottor Sanders stava ripensando alla lettera di Suzanne Clair. Gli aveva scritto: "La foresta è una cascata di gioielli". Per chissà quale ragione non si sentiva affatto preoccupato dal desiderio di trovare una presunta spiegazione scientifica per il fenomeno cui stava assistendo. La bellezza dello spettacolo aveva messo in moto la sua memoria, e mille immagini dell'infanzia rimaste dimenticate per quasi quarant'anni gli riempirono la mente, riproducendo davanti ai suoi occhi quel mondo paradisiaco in cui tutto sembra illuminato dalla luce prismatica descritta così bene da Wordsworth nei suoi ricordi dell'infanzia. Quella sponda magica che aveva davanti sembrava sfavillare come quella breve primavera. "Dottor Sanders," Radek gli sfiorò un braccio. "Dobbiamo andare, ora." "Sì, certo." Sanders cercò di riprendere il controllo dei propri pensieri. I primi passeggeri stavano già sbarcando, servendosi della passerella posta a poppa. Il dottor Sanders attraversò l'imbarcazione da prua a poppa per accodarsi agli altri, ma si arrestò improvvisamente con un moto di sorpresa, indicando un uomo barbuto in un vestito bianco che stava attraversando la passerella. "Là...! Ventress!" "Dottore?" Radek lo raggiunse e lo scrutò negli occhi con un'espressione preoccupata, come consapevole degli effetti a volte violenti della foresta. "Vi sentite poco bene?" "Niente affatto. Ho... Mi pareva di aver riconosciuto qualcuno, ecco tutto." Sanders rimase a osservare Ventress che superava il gruppo dei funzionari girando loro intorno e si incamminava per il molo, il cranio ossuto rigido sulle spalle. Il suo vestito era ancora animato da un vago gioco di colori, come se la luce della foresta ne avesse contaminato il tessuto mettendo in moto il processo di cristallizzazione. Senza girarsi a guardare, l'ometto passò tra due magazzini e scomparve tra i sacchi di farina di cacao. Sanders lo vide scomparire, ancora non del tutto sicuro di aver veramente riconosciuto Ventress. Forse la figura vestita di bianco era stata un'allucinazione prodotta dalla foresta prismatica? Gli pareva impossibile che Ventress fosse salito clandestinamente a bordo del mezzo militare, anche se si fosse fatto passare per uno degli esperti agricoli, e anche se Sanders era così distratto dalla prospettiva di vedere finalmente la zona infetta da non essersi curato di guardare chi erano i suoi compagni di viaggio. "Volete riposarvi un momento dottore?" domandò Radek. "Possiamo anche aspettare." "Se non vi spiace..." Si fermarono vicino a una bitta metallica. Sanders vi si sedette sopra, pensando ancora a ciò che poteva significare la presenza di Ventress in quel luogo, e provò di nuovo quel senso di confusione che aveva avvertito nella strana luce di Port Matarre, una confusione che in qualche modo veniva simbolizzata da Ventress e dalla sua testa simile a un teschio. Comunque, per quanto Ventress avesse riflesso la strana mezza luce della città, Sanders era sicuro che lì a Mont Royal l'ometto vestito di bianco si sarebbe mostrato nelle sue vesti autentiche. "Capitano..." Senza pensare, Sanders disse: "Radek, non sono stato del tutto sincero con voi...". "Come, dottore?" Radek fissava Sanders negli occhi. Poi annuì lentamente, come se già sapesse che cosa Sanders intendeva dirgli. "Non fraintendetemi." Sanders indicò la foresta che scintillava dall'altra parte del corso d'acqua. "Sono contento che voi siate qui, Radek. Prima pensavo soltanto a me stesso. Dovevo partire da Fort Isabelle..." "Capisco, dottore." Radek gli toccò un braccio. "Venite adesso. Dobbiamo seguire il gruppo." Mentre si incamminavano per il molo, Radek disse con voce bassa: "Fuori da questa foresta tutto sembra polarizzato, non trovate? Diviso tra bianco e nero. Aspettate finché non saremo arrivati agli alberi, dottore... Là, forse, tutto si normalizzerà ai vostri occhi". 6. L'incidente Il drappello dei visitatori si scompose in due gruppi più piccoli, ciascuno accompagnato da due sottufficiali. Passarono oltre la corta colonna di automobili e camion di cui si servivano gli ultimi abitanti europei della città per trasportare al molo i loro effetti. Le famiglie, quelle dei tecnici minerari francesi e belgi, attendevano pazientemente il loro turno, segnalato dalla polizia militare. Le strade di Mont Royal erano deserte e sembrava che tutta la popolazione indigena fosse scomparsa ormai da tempo nella foresta. Le case si ergevano vuote nella luce del sole, le persiane tutte serrate alle finestre, e i soldati in servizio camminavano su e giù tra banche e negozi chiusi. Le strade secondarie erano ingombre di automobili abbandonate, segno che il fiume era l'unica via d'uscita dalla città. Mentre si dirigevano verso il posto di controllo, con la giungla che brulicava di luce duecento metri alla loro sinistra, una grossa Chrysler con un paraurti ammaccato sbucò da una curva e scese verso di loro. Si fermò quando fu alla loro altezza e ne smontò un uomo alto e biondo che indossava una giacca azzurra a doppiopetto, sbottonata. Riconobbe Radek e gli fece cenno di avvicinarsi. "È Thorensen," spiegò Radek. "Uno dei proprietari della miniera. Sembra che sia riuscito a mettersi in contatto con i vostri amici. Forse avrà notizie." Thorensen appoggiò una mano al tetto dell'automobile e osservò le case circostanti. Teneva il colletto della camicia bianca aperto. Si grattò il collo con un gesto annoiato. Anche se di costituzione possente, la faccia lunga e flaccida tradiva una debolezza di carattere. "Radek!" gridò. "Non posso star qui tutto il giorno! È quello Sanders?" Indicò il dottore con uno scatto della testa, poi lo salutò con un cenno. "Sentite, ho parlato con loro da parte vostra. Sono all'ospedale della missione vicino al vecchio Bourbon Hotel. Dovevano venire qui, lui e sua moglie. Dieci minuti fa il vostro amico ha telefonato per dirmi che la moglie era andata a ficcarsi non si sa dove e che doveva andare a cercarla." "Andata a ficcarsi non si sa dove?" ripeté il dottor Sanders. "Che cosa vorrebbe dire?" "E come posso saperlo?" Thorensen montò in automobile, costringendo il proprio corpo sul sedile come se stesse caricando un sacco di farina. "Comunque, ha detto che sarà qui alle sei. Va bene, Radek?" "Grazie, Thorensen. Saremo qui a quell'ora." Con un cenno del capo per saluto, Thorensen andò in retromarcia sollevando un nuvolone di polvere; poi ripartì a velocità folle, mancando un soldato per un pelo. "Un diamante grezzo," commentò Sanders. "Se mi è lecito usare questa metafora in un posto come questo. Credete che si sia veramente messo in contatto con i Clair?" Radek si strinse nelle spalle. "Probabilmente sì. Non che ci si possa fidare ciecamente di Thorensen, ma ha un piccolo debito nei miei confronti per certe medicine. È un uomo difficile, sempre occupato non si sa in quali intrighi. Ma ci è stato utile. Gli altri proprietari delle miniere se ne sono andati, ma Thorensen è ancora qui con la sua grossa imbarcazione." Sanders ricordò l'attacco a Ventress nel porticciolo di Port Matarre e si voltò a guardare l'ufficiale. "Un grosso motoscafo d'altura? Con un cannone ornamentale?" "Ornamentale? Non è nello stile di Thorensen." Radek rise. "No, non mi pare di ricordare un'imbarcazione di questo tipo... Perché me lo chiedete?" "Mi pareva di averlo già visto. Adesso che cosa facciamo?" "Niente. Il Bourbon Hotel è a circa quattro chilometri da qui. Un rudere o poco più. Se ci andiamo, potremmo non riuscire a essere di ritorno in tempo." "È strano... Suzanne Clair che se ne va così, senza dire niente..." "Forse aveva un paziente da visitare. Credete che abbia a che vedere con il vostro arrivo qui?" "Spero di no..." Sanders si abbottonò la giacca. "Tanto vale che diamo un'occhiata alla foresta prima che arrivi Max." Seguendo il gruppo dei visitatori, svoltarono nel vicolo più vicino. Si avvicinarono così alla foresta, che si fermava a circa quattrocento metri dalla strada, su tutti e due i lati. La vegetazione era più rada e l'erba cresceva a ciuffi dal suolo sabbioso. Nello spazio aperto era stato apprestato un laboratorio mobile su una roulotte, e un plotone di soldati si aggirava intorno al veicolo scegliendo pezzi da staccare dagli alberi e da posare poi su una fila di tavolini pieghevoli disposti allo scopo. I pezzi tagliati sembravano frammenti di vetro colorato. Il grosso della foresta accerchiava il perimetro orientale della città, tagliando fuori la strada che si dirigeva a sud, verso Port Matarre. Dividendosi a gruppetti di due o tre, i visitatori penetrarono nei lembi esterni della vegetazione più fitta e incominciarono a girovagare tra le felci glacé che uscivano dal terreno friabile. La superficie sabbiosa era stranamente dura e levigata, e dalla crosta di recente formazione sporgevano piccoli speroni formati da grani di sabbia saldati insieme. A pochi metri dalla roulotte, due tecnici facevano roteare alcuni rami incrostati di gioielli in una centrifuga. Saette di luce schizzavano dalla macchina svanendo nell'aria, in un inseguirsi continuo di lampi successivi. In tutta la zona dell'ispezione, fino alla delimitazione posta sotto gli alberi, soldati e funzionari in visita si girarono a osservare. Quando la centrifuga si fermò, i tecnici controllarono l'interno del recipiente sul cui fondo giacevano, spogliati del loro involucro di cristallo, alcuni ramoscelli le cui foglie umide e scolorite si erano appiccicate al metallo. Senza un commento, uno dei tecnici mostrò al dottor Sanders e a Radek un piccolo raccoglitore sottostante, completamente asciutto. A venti metri dalla foresta, un elicottero si preparò al decollo. Le pesanti pale presero a ruotare come falci ricurve, mandando lampi di luce nella vegetazione scompigliata dallo spostamento d'aria. Con uno sforzo improvviso, l'apparecchio decollò a fatica, piegandosi subito su un lato, appena in aria. Poi incominciò ad avanzare sopra il tetto della foresta. Le pale ruotavano all'impazzata, stentando a far presa nell'aria. I soldati e il gruppo dei visitatori si fermarono a osservare la vivida scarica di luce irradiata dalle pale dell'elicottero, un riverbero paragonabile a quello di un incendio. Poi, con un terribile boato simile all'urlo di un animale ferito, il velivolo si piegò all'indietro e precipitò verso il manto della foresta una trentina di metri più in basso. Per un attimo furono visibili da terra i due piloti, ancora seduti ai comandi. Le sirene montate su alcuni veicoli dell'esercito parcheggiati nell'area dell'ispezione incominciarono a ululare, e tutti i presenti partirono contemporaneamente di corsa verso la foresta, nella direzione in cui avevano visto scomparire l'elicottero. Mentre correva per la strada, il dottor Sanders sentì vibrare la terra all'impatto dell'elicottero contro il suolo. Una vampata di luce si alzò tra gli alberi. La strada andava verso il punto in cui era caduto l'elicottero. A intervalli irregolari sorpassavano correndo i vialetti di accesso delle abitazioni situate lungo i lati della strada e ora abbandonate. "Le pale si sono cristallizzate quando l'elicottero è arrivato agli alberi!" urlò Radek mentre si arrampicava con gli altri sulla staccionata che delimitava l'area. "Si sono visti distintamente i cristalli che si liquefacevano. Speriamo che i piloti si siano salvati!" Un sergente sbarrò loro la via, facendo segno a Sanders e agli altri civili di fermarsi all'altezza dello steccato. Radek urlò al sergente di lasciar passare Sanders e aggiunse l'ordine di staccare una squadra di sei uomini per perlustrare la foresta. I soldati passarono di corsa davanti a Radek e al dottor Sanders, fermandosi ogni venti metri a sbirciare attraverso gli alberi. Ben presto si trovarono nel mezzo della foresta. Era stato come varcare la soglia di un mondo incantato. Gli alberi di cristallo intorno a loro erano incrostati di muschio di vetro. L'aria era notevolmente più fredda, come se tutt'intorno ci fosse ghiaccio, ma sul manto di fronde che li sovrastava la luce giocava incessantemente illuminando il terreno. Il processo di cristallizzazione era più avanzato. Gli steccati lungo la strada erano incrostati così fittamente da formare una palizzata continua, coperta da una specie di brina bianca spessa quindici centimetri su ogni parte. Le poche case che si intravedevano fra gli alberi brillavano, tetti e camini bianchi trasformati in esotici minareti e cupole barocche. Su un prato di speroni di vetro verde un triciclo da bambino scintillava come un prezioso gioiello, le ruote simili a brillanti corone di diaspro. I soldati precedevano sempre Sanders, ma Radek era rimasto indietro e adesso zoppicava, fermandosi di tanto in tanto per toccarsi le suole degli stivali. Ora Sanders capiva come mai la strada per Port Matarre era stata chiusa. La superficie della strada era diventata un tappeto di aghi, di spunzoni di vetro e quarzo alti fino a quindici centimetri, che riflettevano le luci colorate emanate dalle foglie sovrastanti. Gli spunzoni stavano facendo a pezzi le scarpe di Sanders, costringendolo a camminare piano lungo i margini della strada. "Sanders! Tornate indietro, dottore!" La debole eco della voce di Radek arrivava all'orecchio di Sanders col suono di un fioco lamento proveniente da una grotta sotterranea. Ma Sanders non si fermò, continuò invece a procedere a tentoni per la strada, seguendo gli intricati disegni che si muovevano e si espandevano sopra di lui come mandala ingioiellati. Sentì alle spalle il rumore di un motore. Vide la Chrysler di Thorensen che arrivava lanciata per la strada. I pesanti copertoni del veicolo sbriciolavano i frammenti irregolari di cristallo. Venti metri più avanti l'automobile si fermò con un sobbalzo e il motore si spense sussultando. Thorensen balzò giù e si mise a urlare agitando le braccia per indicare a Sanders di tornare indietro lungo la strada, che ora le fronde della foresta avevano trasformato in un tunnel di luce gialla e cremisi. "Indietro! Sta arrivando un'altra onda!" Guardandosi freneticamente intorno, come per cercare qualcuno, Thorensen partì di corsa dietro ai soldati. Il dottor Sanders si fermò a riprendere fiato vicino alla Chrysler. La foresta era cambiata improvvisamente e in modo radicale, come se fosse imminente un crepuscolo. Dappertutto, gli involucri glacé che avviluppavano alberi e vegetazione si erano scuriti, erano diventati più opachi. Il pavimento di cristallo si era fatto cupo e grigiastro e gli aghi erano diventati speroni di basalto. La brillante panoplia di luce colorata si era spenta e adesso tra gli alberi si spostava un fievole riverbero color ambra in cui morivano i riflessi dei cristalli della pavimentazione. Contemporaneamente, l'aria si era fatta decisamente fredda. Il dottor Sanders abbandonò l'automobile e incominciò a tornare indietro sulla strada. Radek continuava a gridare ma Sanders non lo udiva. D'un tratto l'aria fredda gli si parò davanti come un muro di ghiaccio, impedendogli di proseguire. Sanders voltò all'insù il colletto dell'abito tropicale e ritornò all'automobile, indeciso se rifugiarvisi dentro. Il freddo si faceva via via più intenso, e già il volto gli era diventato insensibile e le mani inerti e fragili. Sentì da qualche parte un grido di Thorensen e per un attimo riuscì a scorgere un soldato che correva come un pazzo tra gli alberi grigi e ghiacciati. Sulla destra della strada la foresta era immersa nelle tenebre e i profili degli alberi erano scomparsi. Poi l'oscurità scese come un manto impenetrabile. Il dottor Sanders sentì fitte dolorose agli occhi. Si passò le mani sul volto per liberare le pupille dai cristalli di ghiaccio che ci si erano formati sopra. Non appena riuscì finalmente a vedere di nuovo distintamente, si accorse che tutt'intorno si andava formando una brina densa, che accelerava il processo di cristallizzazione. Gli spuntoni che uscivano dal fondo stradale erano ormai alti una trentina di centimetri, come gli spini di un porcospino gigante, e il reticolo di muschio appeso agli alberi si era infittito ed era diventato più trasparente. Sanders ebbe l'impressione che i tronchi venissero rapidamente imprigionati in una trama multicolore. Le foglie, unite tra loro, formavano un mosaico ininterrotto. I finestrini dell'automobile erano coperti da quella brina pesante. Il dottor Sanders cercò la maniglia della portiera ma si sentì pungere le dita da un freddo intenso. "Ehi, laggiù! Venite! Da questa parte!" La voce proveniva da un vialetto che si trovava alle sue spalle. Guardandosi intorno nell'oscurità sempre più fitta, il dottor Sanders vide la figura sfocata di Thorensen che gli faceva cenno di raggiungerlo dalla veranda di una casa poco distante. Il prato che li divideva sembrava appartenere a una zona meno fosca, in cui l'erba non aveva ancora perso il suo vivido, liquido scintillio, qualcosa di simile a un'isola di tranquillità nell'occhio di un uragano. Il dottor Sanders corse per il vialetto verso la casa, dove l'aria era più calda di qualche grado. Raggiunta la veranda, si mise a cercare Thorensen, ma il proprietario della miniera era scappato di nuovo nel folto della foresta. Non sapendo se seguirlo o no, Sanders si concesse una pausa e stette a osservare il muro di tenebre che avanzava lentamente sul prato. Il fogliame sovrastante, poco prima luminoso, scomparve nel buio. In fondo al vialetto, la Chrysler era adesso incrostata da un denso strato di vetro gelato, e dal parabrezza scaturivano cristalli a migliaia. Sanders passò immediatamente dietro la casa, cercando di restare nella zona di salvezza che portava fuori dalla foresta. Passò vicino ai resti di un vecchio orto, dove piante di vetro verde che arrivavano alla vita gli sorgevano intorno come statue meravigliose. Sanders si fermò quando la zona di salvezza parve esitare a sua volta. Poi la zona cambiò direzione e Sanders si mosse di nuovo con essa, tentando di mantenersi nel centro dell'area. Per tutta l'ora successiva continuò a procedere faticosamente per la foresta, avendo ormai perso ogni senso di orientamento, trascinato da sinistra verso destra dalle pareti trasmigranti delle tenebre. Era entrato in un'interminabile caverna sotterranea, dove rocce ingioiellate comparivano all'improvviso, scaturendo dal buio spettrale come enormi piante marine, con ciuffi di vegetazione a formare fontane bianche. Più di una volta si trovò ad attraversare e riattraversare la strada. Gli spunzoni arrivavano all'altezza della vita e Sanders era costretto ad arrampicarsi su quegli steli fragili. A un certo punto, mentre si riposava appoggiato al tronco di una quercia biforcuta, un immenso uccello variopinto si alzò da un ramo sopra di lui e si allontanò mandando uno strillo, mentre aureole di luce scendevano a cascata dalle sue ali rosse e gialle. Finalmente la tempesta si placò e una pallida luce filtrò attraverso il manto di vetro colorato. La foresta si rianimò di mille arcobaleni e una luce forte e iridescente incominciò a brillare tutt'intorno. Sanders scese per una stradina tortuosa verso una grande casa coloniale eretta come un padiglione barocco su un dosso nel cuore della foresta. Trasformata dalla brina, sembrava un pezzo di Versailles o di Fontainebleau, con i suoi pilastri e i suoi fregi che ricadevano dal grande tetto come getti d'acqua scolpiti. La strada si stringeva, passando intorno al dosso su cui sorgeva la casa, ma la sua crosta levigata, come quarzo quasi fuso, offriva una superficie più agevole della distesa di denti cristallizzati del prato. Cinquanta metri più avanti, il dottor Sanders si imbatté in qualcosa che senza dubbio doveva essere una barca a remi fatta di gemme, solidamente infissa nel fondo stradale, ormeggiata al margine della strada da una catena di lapislazzuli. Allora si rese conto che stava camminando su un piccolo affluente del fiume e che sotto la crosta scorreva ancora un ruscelletto d'acqua viva. Era lo scivolare dell'acqua che impediva che la crosta eruttasse negli speroni aguzzi che coprivano il terreno sotto la foresta. Sanders sostò vicino alla barca, toccando i cristalli che la ricoprivano. In quel momento, una grossa creatura a quattro zampe, quasi del tutto incastrata nel fondo, scattò in avanti dalla crosta che la imprigionava. Alcuni pezzetti dell'ammasso di gioielli che le ricoprivano il muso e il dorso tremarono come in una corazza trasparente. Le grosse fauci si aprirono per inghiottire silenziosamente una boccata d'aria, mentre la bestia faticava sulle zampe piegate, incapace di spostarsi per più di qualche centimetro dal vano in cui si trovava e che ora veniva riempito da un sottile rivolo d'acqua. Nella luce scintillante che il suo corpo emanava, il coccodrillo sembrava un favoloso animale araldico. Gli occhi ciechi si erano trasformati in immensi rubini cristallini. La bestia tentò di avanzare di nuovo verso di lui e Sanders le sferrò un calcio sul muso, staccando i gioielli umidi che le soffocavano le fauci. Abbandonando l'animale che si stava riadagiando nella sua posizione originaria, il dottor Sanders salì sulla sponda e zoppicando attraversò il prato verso la casa, le cui torri incantate sporgevano tra gli alberi. Ormai senza fiato e pressoché esausto dalla fatica, il dottor Sanders provava tuttavia una singolare premonizione di speranza e di gioia, come un Adamo fuggitivo incappato per caso in un cancello dimenticato del paradiso proibito. Da una delle finestre del piano superiore, l'ometto barbuto nel suo vestito bianco lo sorvegliava, la doppietta tra le mani puntata sul suo petto. Parte seconda L'UOMO ILLUMINATO 7. Specchi e assassini Due mesi dopo, descrivendo gli avvenimenti di quel periodo in una lettera indirizzata al dottor Paul Derain, direttore del lebbrosario di Fort Isabelle, Sanders scriveva: ...ma ciò che mi sorprese sopra ogni altra cosa, Paul, fu il mio stato d'animo: non so come, ma mi sentivo preparato alla trasformazione della foresta. Gli alberi cristallini pendevano come icone sotto quelle volte luminose, i telai ingioiellati delle foglie si fondevano in un reticolo di prismi attraverso i quali brillava il sole in una miriade di arcobaleni, uccelli e coccodrilli, congelati in posizioni grottesche come bestie araldiche, sembravano scolpiti nella giada e nel quarzo... La cosa più sorprendente era quanto io fossi pronto ad accettare tutte queste meraviglie come parte dell'ordine naturale delle cose, parte di un disegno intrinseco dell'universo. Devo ammettere che, all'inizio, ero rimasto impressionato come tutti gli altri che compivano per la prima volta il viaggio sul Matarre fino a Mont Royal, ma dopo la meraviglia iniziale alla vista della foresta, una sorpresa più per lo spettacolo che altro, riuscii a capirla, a rendermi conto che i pericoli che essa nascondeva erano un prezzo esiguo da pagare in cambio della chiarezza che veniva a far luce sulla mia vita. Allora il resto del mondo, mi sembrò monotono e inerte, al confronto, solo il riflesso sbiadito di quell'immagine vivida, una zona opaca di penombra simile a un purgatorio semiabbandonato. Tutto ciò, mio caro Paul, e l'assenza di ogni stupore da parte mia confermano la mia convinzione che questa foresta illuminata riflette in qualche modo un periodo precedente delle nostre vite, forse un ricordo arcaico che ci portiamo dietro dalla nascita, di qualche paradiso ancestrale in cui ogni foglia e ogni fiore esiste nell'unità perfetta di tempo e spazio. Adesso è evidente a tutti che nella foresta la vita e la morte hanno un significato diverso che nel nostro mondo banale e smorto. Qui noi abbiamo sempre associato il movimento alla vita e al trascorrere del tempo, ma dalla mia esperienza in questa foresta vicino a Mont Royal ho ricavato la certezza che ogni movimento porta inevitabilmente alla morte, e che il tempo è il suo schiavo. Forse possiamo dire che la nostra unica conquista, in qualità di signori di questo creato, è stata l'aver separato il tempo dallo spazio. Soltanto noi abbiamo dato a ciascuno un valore diverso, una misura diversa a sé stante, che adesso ci definisce e ci lega come la lunghezza e la larghezza di una bara. Trovare una nuova soluzione al tempo e allo spazio è la meta più ambita delle scienze naturali... come tu e io abbiamo visto, Paul, quando lavoravamo al virus, con la loro esistenza semianimata e cristallina, per metà dentro e per metà fuori del nostro corso del tempo, come se lo intersecassero ad angolo. Spesso ho pensato che nei nostri microscopi, quando esaminavamo i tessuti di quei poveri lebbrosi al nostro ospedale, stavamo contemplando la replica in miniatura del mondo che avrei più tardi trovato nella foresta sulle colline di Mont Royal. Comunque tutti questi sforzi tardivi sono finalmente finiti. Mentre ti scrivo, qui nella quiete e nella solitudine dell'Hotel Europe a Port Matarre, vedo davanti a me la notizia riportata in una copia del "Paris Soir," di due settimane fa (Louise Peret, la giovane francese che si trova qui con me, adoperandosi per difendere il tuo ex assistente dai suoi stessi capricci, mi aveva nascosto il giornale per un'intera settimana) che tutta la penisola della Florida negli Stati Uniti, con la sola eccezione dell'autostrada per Tampa, è stata chiusa e che ormai qualcosa come tre milioni di abitanti di quello stato si sono trasferiti in altre parti del paese. Ma a parte la perdita nel valore dei terreni e nel reddito degli alberghi ("Oh, Miami," non posso fare a meno di dirmi, "città dalle mille cattedrali che salgono per l'arcobaleno fino al sole"), la notizia di questa straordinaria emigrazione umana ha suscitato ben pochi commenti. È tale l'innato ottimismo del genere umano, tale la nostra convinzione che sopravviveremo a qualunque diluvio o cataclisma, che quasi tutti noi inconsciamente reagiamo con un'alzata di spalle agli avvenimenti che sconvolgono in questo momento la Florida, fiduciosi che si escogiterà qualche sistema per evitare la crisi quando arriverà. E invece, Paul, direi che ormai è evidente che la crisi autentica è passata da un pezzo. In fondo all'ultima pagina della stessa copia del "Paris Soir", c'è un breve trafiletto sull'avvistamento di un'altra "doppia galassia" da parte degli osservatori dell'Hubble Institute sul Monte Palomar. Il fatto è riassunto in meno di una dozzina di righe senza commento, benché sia inequivocabile il suo significato: un'altra area di trasformazione si è aperta da qualche parte sulla superficie terrestre, in una giungla piena di templi della Cambogia, o nelle foreste stregate di ambra dell'altopiano cileno. Eppure è passato soltanto un anno da quando gli astronomi di Monte Palomar hanno individuato la prima galassia doppia nella costellazione di Andromeda, il grande diadema schiacciato ai poli che è probabilmente il più bell'oggetto dell'universo fisico, l'isola galattica M31. Senza dubbio queste casuali trasfigurazioni che avvengono in tutto il mondo sono il riflesso di processi cosmici lontanissimi, il cui scopo e le cui dimensioni sono enormi e di cui abbiamo potuto scorgere il primo accenno nella spirale di Andromeda. Adesso sappiamo che è il tempo ("Tempo dal tocco di Mida," come lo descriveva Ventress) il responsabile di questa trasformazione. La recente scoperta dell'antimateria nell'universo comporta inevitabilmente il concetto di antitempo, come quarto lato di questo continuum caricato negativamente. Quando un'antiparticella e una particella si scontrano, non solo distruggono le loro identità fisiche, ma i loro valori temporali opposti si eliminano a vicenda, sottraendo all'universo un altro quantum dalla sua riserva totale di tempo. Sono scariche casuali di questo tipo, innescate dalla creazione di antigalassie nello spazio, che hanno portato all'esaurimento del tempo disponibile nei materiali del nostro sistema solare. Proprio come una soluzione ipersatura si scarica in una massa cristallina, così l'ipersaturazione di materia nel nostro continuum la fa ricomparire in una matrice spaziale parallela. E via via che il tempo "cola" fuori il processo di ipersaturazione continua, gli atomi e le molecole originari producono repliche spaziali di se stessi, sostanza senza massa, in un tentativo di restare aggrappati alla loro esistenza. Il processo è teoricamente senza fine, e potrebbe succedere a un certo punto che un singolo atomo produca un numero infinito di duplicati di se stesso, tanti da riempire l'intero universo, dal quale scomparirebbe simultaneamente ogni traccia di tempo, un definitivo zero macrocosmico che supera di gran lunga le visioni più pazze di Platone e Democrito. Tra parentesi: leggendo questa lettera da sopra la mia spalla, Louise osserva che forse ti sto traendo in inganno, minimizzando i pericoli che tutti noi abbiamo corso dentro la foresta cristallizzata. È certamente vero che si trattava di pericoli autentici, nel momento in cui si presentavano, come stanno a dimostrare le molte tragiche morti incorse. È vero anche che quel primo giorno, quando mi trovai intrappolato nella foresta, non capivo niente di tutto questo, a parte quel poco che mi aveva confidato Ventress nel suo modo ambiguo e sconnesso. Ma anche allora, mentre mi allontanavo da quel coccodrillo ingioiellato e risalivo il prato verso l'ometto vestito di bianco che mi guardava dalla finestra con la doppietta puntata su di me... Semisdraiato in una delle grosse poltrone imbottite e come ricamate di cristalli nella camera da letto al piano superiore della casa, il dottor Sanders tirò il fiato dopo la sua fuga nella foresta. Mentre saliva per le scale era scivolato su uno dei gradini cristallizzati e per un momento era rimasto senza fiato per la caduta. Fermo in cima alle scale, Ventress lo aveva guardato riprendere l'equilibrio, mentre il legno vetrificato gli si frantumava sotto le mani. La piccola faccia di Ventress, con la pelle tesa ora maculata di chiazze azzurrognole, era priva di espressione. Assolutamente immobile, stette a guardare il dottore che si aggrappava disperatamente alla balaustra nel tentativo di mantenersi in piedi. Quando finalmente Sanders arrivò al pianerottolo, Ventress gli fece un breve cenno secco con la mano, quindi riprese la sua posizione alla finestra, fracassando con il calcio del fucile i cristalli che si stavano riformando. Il dottor Sanders si spazzolò la brina dal vestito, quindi incominciò a togliersi dalle mani le schegge di cristallo che gli si erano conficcate nella carne come aghi. L'aria nella casa era fredda e immobile, ma col placarsi della tempesta che si era allontanata nella foresta, il processo di vetrificazione sembrava aver rallentato i tempi. Tutto quanto si trovava nella stanza era stato trasformato dal gelo. Molti vetri delle finestre si erano frantumati e, finiti sul tappeto, si erano fusi insieme. Raffinati disegni persiani si delineavano sotto la superficie come il pavimento di una profumata fontana delle Mille e una notte. Tutto il mobilio era ricoperto da un simile strato lucente, e gambe e braccioli delle sedie a schienale rigido appoggiate contro la parete erano ornati di squisite spirali. I pezzi in imitazione Luigi XV erano stati trasformati in enormi frammenti di zucchero filato opalescente, i cui molteplici riflessi riverberavano come gigantesche chimere sui muri rivestiti di vetro. Dalla porta nella parete opposta il dottor Sanders poteva vedere in un piccolo spogliatoio. Ritenne di trovarsi nella camera da letto principale di una residenza ufficiale, che veniva riservata a funzionari del governo in visita o al presidente di qualche compagnia mineraria. Anche se arredata con pompa, la camera era spoglia di effetti personali. Per qualche ragione il grande letto matrimoniale (a colonne a giudicare dal segno che Sanders aveva scorto sul soffitto) era stato rimosso, e tutto il resto del mobilio era stato ammassato da Ventress in un angolo. L'ometto era sempre fermo in piedi accanto alla finestra, a scrutare in direzione del ruscello dov'erano imbalsamati la barca e il coccodrillo rivestito di gemme. La barba gli dava un aspetto febbricitante e stregato. Curvo sul suo fucile, si portò ancora più vicino alla finestra, senza badare ai pezzi di cristallo che, nel movimento, staccò dalla pesante tenda di broccato. Il dottor Sanders fece per alzarsi, ma Ventress gli fece segno di rimanere dov'era. "Riposatevi, dottore. Resteremo qui per un po'." La sua voce aveva inflessioni brusche e aveva perso la solita sfumatura ironica. Distolse gli occhi dalla canna del fucile. "Quando avete visto Thorensen per l'ultima volta?" "Il padrone della miniera?" Sanders puntò un dito verso la finestra. "Dopo che siamo corsi a cercare l'elicottero. Lo state cercando?" "Per modo di dire. Cosa stava facendo?" Il dottor Sanders rivoltò all'insù il colletto della giacca, spazzolando via le fini schegge di ghiaccio che avevano coperto il tessuto. "Correva da una parte e dall'altra come tutti noi, assolutamente sperduto." "Sperduto?" Ventress, fece una specie di risatina di derisione. "Quell'uomo è astuto come una volpe. Conosce ogni forra e ogni crepa di questa foresta come il palmo della sua mano." Quando Sanders si alzò e si avvicinò alla finestra, Ventress gli fece cenno con impazienza di stare indietro. "State alla larga dalla finestra, dottore." Riesumando per l'occasione la sua vecchia vena ironica, aggiunse: "Non voglio ancora servirmi di voi come esca". Ignorando l'avvertimento, Sanders rimase a guardare il prato deserto. Come passi in un prato coperto di brina, le impronte delle sue scarpe si stagliavano nette sulla superficie di lustrini, confondendosi nella distesa in pendio color verde pallido. Intanto il processo di cristallizzazione proseguiva. Nonostante l'onda principale di attività si fosse spostata altrove, la foresta continuava a vetrificarsi. L'assoluto silenzio degli alberi ingioiellati sembrava confermare che l'area investita si era estesa notevolmente. Fin dove Sanders riusciva a vedere, si stendeva una calma gelida, quasi che lui e Ventress si fossero sperduti tra i crepacci di un immenso ghiacciaio. Come a sottolineare la loro vicinanza al sole, dappertutto c'era la stessa corona di luce. La foresta era un interminabile dedalo di grotte di ghiaccio staccate dal resto del mondo e illuminate da lampade sotterranee. Ventress si rilassò per un momento. Appoggiato un piede sul davanzale della finestra, rivolse al dottor Sanders un'occhiata indagatrice. "È stato un viaggio lungo, dottore. Mi domando se ne valeva la pena." Sanders si strinse nelle spalle. "Non sono ancora arrivato alla mia destinazione. Tutt'altro. Devo ancora ritrovare i miei amici. Comunque, sono d'accordo sul fatto che si tratta di un'esperienza straordinaria. In questa foresta c'è qualcosa di fantastico, come un ringiovanimento totale. Anche voi...?" "Certamente, dottore." Ventress ritornò a guardare fuori della finestra, facendo segno con una mano a Sanders di star zitto. La brina brillava sulle spalle del suo vestito bianco con vari riflessi colorati. Contemplò la vegetazione di cristallo lungo il ruscello. Dopo una pausa disse: "Mio caro Sanders, voi non siete il solo a provare questo stato d'animo, ve lo assicuro". "Eravate già stato qui prima?" domandò Sanders. "Volete dire... déjà vu?" Ventress si guardò intorno. I lineamenti minuti del suo volto erano quasi del tutto nascosti dalla barba. Il dottor Sanders esitò un momento. "Intendevo dire in senso letterale." Ventress ignorò la precisazione. "Tutti siamo già stati qui, dottore, e tutti se ne renderanno conto tra non molto... se ce ne sarà il tempo." Pronunciò quest'ultima parola con una singolare inflessione nella voce, facendola squillare come il rintocco di una campana. Stette ad ascoltare gli ultimi echi che rimbalzavano lungo i muri di cristallo, come un requiem che moriva in lontananza. "Ma temo che la nostra riserva di tempo si stia estinguendo rapidamente, dottore... Non credete anche voi?" Il dottor Sanders cercò di riscaldarsi le mani massaggiandosele. Si sentiva le dita fragili e insensibili. Guardò il caminetto vuoto alle sue spalle, chiedendosi se fosse stato messo lì soltanto a scopo ornamentale, sorvegliato com'era da due grossi delfini dorati, uno per parte, o se fosse invece provvisto di canna fumaria. Comunque, malgrado l'aria fredda della casa, si sentiva più rinvigorito che infreddolito. "Il tempo che ci viene a mancare?" ripeté. "Non ci avevo ancora pensato. Qual è la vostra spiegazione?" "Non è ovvio, dottore? Avrei pensato che proprio la vostra 'specialità', il lato oscuro del sole che vediamo intorno a noi, vi avrebbe offerto la chiave. La lebbra, come il cancro, non è soprattutto una malattia temporale, il risultato di una iperestensione di se stessi attraverso quel particolare medium?" Il dottor Sanders annuì mentre Ventress parlava e intanto osservava la testa simile a un teschio dell'ometto che si rianimava nel descrivere cose che, almeno in superficie, sembrava disprezzare. "È una teoria," disse, quando Ventress finì. "Non..." "Non abbastanza scientifica?" Ventress buttò la testa all'indietro. A voce più alta dichiarò: "Ma guardate i virus, dottore, con la loro struttura cristallina, esistenze né animate né inanimate, immuni al tempo". Passò una mano sul davanzale della finestra e tirò su un gruppo di granuli vitrei che buttò sul pavimento come frammenti di marmo. "Voi e io saremo così tra breve Sanders, e insieme a noi sarà così tutto il mondo. Né vivo né morto." Alla fine di questa arringa, Ventress tornò a scrutare la foresta. Un muscolo vibrò sulla sua guancia sinistra, simile a un lampo lontano che segnasse la fine di una tempesta. "Perché state cercando Thorensen?" domandò il dottor Sanders. "È la sua miniera di diamanti che vi interessa?" "Non siate stupido!" lo investì Ventress. "È l'ultima cosa... Le gemme non sono certo una rarità in questa foresta, dottore." Con un gesto sprezzante strappò una manciata di cristalli dal tessuto del suo vestito. "Vi faccio una bella collana di diamanti Hope in un attimo, se volete!" "Che cosa ci fate qui?" domandò il dottor Sanders con voce pacata. "In questa casa?" "Qui abita Thorensen." "Cosa?" Incredulo, Sanders osservò di nuovo l'arredamento troppo adorno e gli specchi dorati, ripensando all'uomo massiccio nel vestito azzurro al volante della Chrysler ammaccata. "L'ho visto solo per pochi istanti, ma non mi sembra in carattere." "Precisamente. Non ho mai visto tanto cattivo gusto." Ventress annuì a se stesso. "E credetemi, sono architetto e ne ho viste di tutti i colori. Tutta questa casa non è che uno scherzo patetico." Indicò uno dei divani intarsiati con appoggio a spirale che si era trasformato in una scintillante parodia di un cartouche rococò, con la spirale ritorta come le corna di una capra. "Luigi XIX, forse?" Trasportato dalle sue elucubrazioni sul cattivo gusto di Thorensen, Ventress aveva voltato la schiena alla finestra. Sanders, lanciando un'occhiata da quella parte, vide in quel momento il coccodrillo intrappolato nel ruscello che si alzava sulle deboli zampe come per tentare di mordere qualcuno. Interrompendo Ventress, Sanders indicò la finestra, ma una voce precedette il suo segnale di avvertimento. "Ventress!" Il grido, in tono di sfida rabbiosa, proveniva dalla macchia di sottobosco cristallino che si allungava lungo il margine sinistro del prato. Un secondo più tardi l'aria fredda fu percorsa dal rumore di uno sparo. Nel momento in cui Ventress piroettava su se stesso spingendo Sanders lontano con uno spintone, il proiettile andò a piantarsi nel soffitto sulle loro teste, staccando una grossa sezione reticolare che si frantumò ai loro piedi in un ammasso di scaglie. Ventress si tirò indietro e sparò alla cieca dalla finestra verso i cespugli. Lo sparo echeggiò tra gli alberi pietrificati, mandando un fremito tra i vividi colori. "State giù!" Ventress si spostò camminando carponi e raggiunse la finestra attigua. Spinse la canna del fucile attraverso il vetro gelato. Dopo un iniziale momento di panico, si era immediatamente ripreso e quasi sembrava non volersi lasciar scappare questa occasione di un confronto. Scrutò attentamente il giardino, poi si rialzò quando un crepitare lontano tra gli alberi sembrò indicare che lo sconosciuto aggressore era battuto in ritirata. Ventress tornò da Sanders che si trovava in piedi con la schiena appoggiata alla parete di fianco alla finestra. "Tutto a posto. Se n'è andato." Sanders esitò prima di muoversi. Guardò verso gli alberi ai margini del prato, cercando di non esporsi troppo. In fondo al prato, inquadrato tra due querce, un chiosco bianco era stato trasformato dalla gelata in un'enorme corona di cristallo. La struttura vitrea tempestata di gioie mandava riverberi di luce come se qualcosa si muovesse dall'altra parte. Tuttavia, Ventress se ne stava in piedi nel bel mezzo della finestra a osservare la scena. "Era Thorensen?" domandò Sanders. "Naturalmente." La breve sparatoria sembrava aver tranquillizzato Ventress. Teneva il fucile appoggiato all'incavo del braccio piegato. Prese a gironzolare per la stanza, fermandosi di tanto in tanto per esaminare i segni lasciati dal proiettile nel soffitto. Per qualche ragione, dava per scontato che Sanders avesse scelto di stare con lui in quel duello privato, forse perché Sanders gli aveva già salvato la vita una volta, quando era stato assalito nel porticciolo indigeno di Port Matarre. Comunque, Ventress non poteva non rendersi conto che le reazioni di Sanders in quell'occasione erano state dettate da un riflesso condizionato. Evidentemente Ventress non era tipo da sentirsi in obbligo nei confronti del suo prossimo, qualunque servigio ottenesse dagli altri. Eppure Sanders aveva avuto l'impressione che Ventress mostrasse qualche traccia di simpatia nei suoi confronti durante il viaggio in vaporetto da Libreville, e che tutta la sua amicizia o inimicizia potesse dipendere esclusivamente da un simile incontro casuale. Il movimento all'interno del chiosco si era arrestato. Sanders avanzò da dietro la finestra. "Quell'aggressione a Port Matarre... erano uomini di Thorensen?" Ventress si strinse nelle spalle. "Potrebbe darsi benissimo, dottore. Non vi preoccupate. Baderò io a voi." "Avrete un bel da fare... Quegli assassini non facevano per scherzo. Da quel che mi ha detto il capitano dell'esercito alla base, le compagnie diamantifere non intendono permettere che qualcuno le intralci." Ventress scrollò la testa, esasperato dall'ottusità di Sanders. "Dottore! Voi insistete nel voler trovare le ragioni più banali... Evidentemente non avete la più pallida idea di quel che sta accadendo qui intorno. Per l'ultima volta vi dico che non mi interessano affatto quei dannati diamanti di Thorensen... né interessano a Thorensen! Questa questione che c'è tra di noi..." Si interruppe e si mise a guardare con aria assente attraverso la finestra. Per la prima volta l'espressione del volto non sembrava più affaticata. Con voce distratta, più parlando a se stesso che a Sanders, riprese dicendo: "Credetemi, io rispetto Thorensen... Per quanto rozzo, capisce anche lui che abbiamo lo stesso scopo. È solo una questione di metodo...". Poi Ventress girò sui tacchi. "È meglio che andiamo, adesso. Non serve a niente restare qui. Voi dove andrete?" "A Mont Royal, se possibile." "Non lo è." Ventress indicò la finestra. "Il centro della tempesta si trova esattamente tra qui e la città. La vostra unica speranza è di raggiungere il fiume e di seguirlo per ritornare alla base militare. Chi state cercando?" "Un mio vecchio collega e sua moglie. Conoscete il Bourbon Hotel? È un po' fuori della città. Vicino all'albergo c'è una missione e una clinica." "Il Bourbon?" Ventress contrasse il volto. "Dovete essere nel secolo sbagliato... Siete di nuovo fuori tempo, Sanders." Si diresse verso la porta. "È un vecchio rudere, e Dio solo sa dove si trova. Dovrete restare con me finché non arriveremo ai margini della foresta. Poi vi arrangerete da solo a ritrovare la base militare." Saggiando con cura ogni gradino, discesero per le scale cristallizzate. A metà della discesa, Ventress, che si trovava in testa, si fermò e fece segno a Sanders di precederlo. "La mia pistola," disse. Si batté una mano sulla fondina che portava all'ascella. "Vi seguo. Guardate intanto se si nota qualcosa fuori dell'ingresso." Mentre Ventress risaliva i gradini, Sanders attraversò l'atrio vuoto. Si fermò tra le colonne ingioiellate, riluttante a esporsi sulla soglia della veranda con le sue colonne, malgrado le istruzioni ricevute da Ventress. Dal centro dell'atrio, il giardino e gli alberi al di là di esso apparivano tranquilli e silenziosi. Sanders si girò e attese tra le colonne vicino a un'alcova alla sua destra. A dozzine, immagini riflesse della sua persona brillavano nel mobilio e nelle pareti ricoperte di vetro. Involontariamente Sanders alzò le mani come per afferrare gli arcobaleni di luce che gli circondavano il vestito e la faccia. Una legione di El Dorado, tutti con la sua faccia, si mossero in quegli specchi, immagini fantastiche di se stesso nelle vesti dell'uomo luce, più luminose e fitte di quanto avesse mai potuto sperare. Studiò un proprio riflesso di profilo, notando come le bande di colore ammorbidissero le linee tese della sua bocca e degli occhi, sminuendo i residui del tempo che gli avevano indurito i tessuti in quei punti, come le scaglie della lebbra vera e propria. Per un momento si vide di vent'anni più giovane ritratto con una gamma di rossi sulle guance che superavano in bellezza la tavolozza di un Rubens o di un Tiziano. Riportando la sua attenzione al riflesso che aveva di fronte, Sanders notò con una certa sorpresa che, tra le immagini prismatiche di sé riflesse dal sole, ce n'era una che era quella di un suo gemello scuro. Profilo e lineamenti erano bui, ma la pelle era quasi nera come ebano e rifletteva le chiazze bluastre e violette dell'estremità opposta dello spettro. Minacciosa in mezzo a tanta luce, la tenebrosa figura se ne stava immobile con la testa girata dall'altra parte, come conscia del suo aspetto negativo. Nella mano abbassata una lama di luce argentea scintillava come una stella in un calice. Sanders balzò improvvisamente dietro la colonna alla sua sinistra, e in quel momento il negro nascosto nell'alcova si lanciò in avanti per sbarrargli la strada. Il coltello fendette l'aria passando vicino alla faccia di Sanders e la sua luce bianca scintillò tra i riflessi che oscillavano come soli ubriachi intorno ai due uomini, mandando riverberi rossi sulle loro braccia e gambe. Sanders sferrò un calcio alla mano del negro, riconoscendo in lui uno dei sicari che aveva scorto sulle passerelle di Port Matarre. Accovacciatosi, la faccia oscura quasi nascosta tra le ginocchia, il negro fece una finta con il coltello. Sanders tornò indietro verso le scale e in quell'attimo vide il mulatto gigantesco con la camicia cachi che lo osservava da dietro una libreria nel soggiorno, con una Colt automatica nella mano sfregiata. Il ghiaccio esterno aveva animato il suo volto scuro di una patina lucente. Prima che Sanders potesse lanciare un grido a Ventress, si udì uno sparo che riempì l'aria sopra la sua testa. Mentre si buttava a terra, Sanders vide il negro armato di coltello che stramazzava al suolo, agitando i piedi per il dolore. Il reticolo di punti scintillanti sul muro dietro di lui scivolò a terra e si frantumò in mille pezzi su un divano. Il negro si alzò in piedi e sparì di corsa attraverso l'ingresso come un animale ferito. Un secondo sparo lo seguì dalla scala, poi Ventress sbucò da dietro la balaustra. Col volto teso nascosto dal calcio del fucile, fece segno a Sanders di togliersi dall'entrata e di riparare nel soggiorno. Il mulatto nascosto dietro la libreria attraversò di corsa la stanza, si fermò sotto il lampadario e sparò un colpo. Lo spostamento d'aria creato dall'esplosione fece fremere i pendagli di vetro sfaccettato che mandarono una pioggia di luce sui suoi capelli a spazzola. Gridò in direzione di un uomo alto di pelle bianca con un giubbotto di cuoio che si trovava presso la parete di fondo, con le spalle rivolte alla scalinata, intento ad aprire una cassaforte sopra al caminetto ornamentale. Per tentare una manovra di copertura, il mulatto sparò attraverso la porta. L'uomo alla cassaforte estrasse dal ripiano superiore una piccola cassetta di sicurezza proprio nel momento in cui Ventress ribaltava una console di mogano nella soglia del passaggio ad arco. La cassetta di sicurezza cadde per terra e numerosi rubini e zaffiri schizzarono tra i piedi dell'uomo. Ignorando Ventress, che stava cercando di mirare al mulatto, l'uomo si chinò e raccolse una parte delle pietre. Poi, insieme al mulatto si girò e lasciò la casa per una delle portefinestre, sfondando i fragili serramenti a spallate. Scavalcando con un balzo la sua barricata, Ventress piombò nel soggiorno, sfrecciando tra i divani e le poltrone imbottite. Ventress arrivò alle finestre quando le sue prede stavano già scomparendo tra gli alberi. Ricaricò il fucile con cartucce tirate fuori di tasca e sparò un colpo d'addio verso il prato. Poi mosse la canna in direzione di Sanders che stava entrando in quel momento nella stanza. "Tutto bene, dottore?" Ventress respirava affannosamente e le sue piccole spalle sussultavano in un eccesso di energia nervosa. "Che vi succede? Non siete stato ferito, vero?" Sanders gli si parò davanti. Scostò bruscamente la canna del fucile che Ventress teneva ancora puntata verso di lui, poi fissò con uno sguardo duro la faccia ossuta dell'ometto e i suoi occhi ipereccitati. "Ventress! Sapevate benissimo che erano qui! Vi siete servito di me come esca!" Sanders si interruppe. Ventress non gli prestava nessuna attenzione. Guardava invece a destra e a sinistra, al di là delle portefinestre. Sanders si girò mentre un senso di tranquillità lo invadeva dileguando la sua fatica. Notò i gioielli che scintillavano abbandonati per terra. "Mi pareva che aveste detto che Thorensen non era interessato ai preziosi." Ventress si voltò a guardare Sanders. Poi guardò il pavimento sotto la cassaforte. Abbassando il fucile, si chinò e incominciò a toccare le pietre preziose che giacevano per terra, come stupito di trovarle lì. Con aria assorta se ne ficcò alcune in tasca. Poi raccolse tutte le altre e se le infilò nei calzoni. Ritornò alle finestre. "Avete ragione, Sanders, naturalmente," disse in un tono di voce piatto. "Ma io pensavo alla vostra salvezza, credetemi." Poi, più bruscamente, disse: "Andiamo via!". Mentre attraversavano il prato, Ventress rimase una seconda volta indietro. Allora il dottor Sanders si fermò a guardare verso la casa che sbucava fra gli alberi dietro di loro come una gigantesca torta di nozze. Ventress stava contemplando la manciata di gemme preziose che reggeva in un palmo. I lucenti zaffiri gli scivolarono tra le dita e caddero nell'erba vetrificata dietro di lui, illuminando le impronte lasciate dalle sue scarpe mentre lui entrava sotto le volte scure della foresta. 8. La residenza estiva Per un'ora procedettero lungo il ruscello fossilizzato. Ventress camminava davanti imbracciando il fucile, sempre pronto a servirsene. I suoi movimenti erano agili e articolati, mentre Sanders lo seguiva zoppicando. Ogni tanto passavano vicino a una barca a motore incastonata nella crosta del corso d'acqua, oppure un coccodrillo vetrificato indietreggiava e spalancava silenziosamente le fauci tempestate di gioielli. Ventress era sempre all'erta, nell'eventualità che Thorensen si rifacesse vivo. Sanders non riusciva a capire chi dei due stesse cercando l'altro, né la ragione della loro faida sanguinosa. Sebbene Thorensen l'avesse attaccato già due volte, pareva che Ventress lo volesse incoraggiare esponendosi deliberatamente, come per tendere un tranello all'avversario. "Non possiamo tornare a Mont Royal?" gridò Sanders. La sua voce riecheggiò sotto le volte della foresta. "Da questa parte ci inoltriamo nella giungla." "La città è tagliata fuori, mio caro Sanders. Non vi preoccupate. Vi condurrò a Mont Royal a tempo debito." Ventress scavalcò agilmente una fessura nella superficie del ruscello. Sotto la massa dei cristalli che si dissolvevano, un torrentello scorreva in un canale sepolto. Procedettero nella foresta, in testa l'ometto vestito di bianco con la sua espressione preoccupata in viso, Sanders dietro. Ogni tanto compivano qualche lungo giro, come se Ventress si stesse familiarizzando con la topografia del suo mondo crepuscolare pieno di gioielli. Ogni volta che il dottor Sanders si sedeva per riposarsi su un tronco vetrificato e si dilungava a spazzolare via dalle suole delle scarpe i cristalli che vi si formavano malgrado il costante movimento, Ventress aspettava impaziente, fissando l'altro meditabondo, come in dubbio se abbandonarlo al suo destino nella foresta. L'aria era sempre gelida e le ombre scure si chiudevano e si dilatavano intorno a loro. Poi, mentre si inoltravano fra gli alberi lasciandosi alle spalle il ruscello nella speranza di raggiungere il fiume in un punto più basso del suo corso, si imbatterono nei resti dell'elicottero caduto. Da principio, passando vicino al velivolo che giaceva in una piccola conca alla sinistra del loro sentiero, Sanders non lo riconobbe. Ventress invece si fermò e con un'espressione cupa negli occhi indicò l'apparecchio. Allora Sanders ricordò l'elicottero che era precipitato nella foresta a settecento metri dal luogo dell'ispezione. Le quattro pale contorte, venate e cristallizzate come le ali di una gigantesca libellula, erano già state ricoperte dai rampicanti di cristallo che pendevano dagli alberi circostanti. La fusoliera, in parte sepolta nel terreno, si era trasformata in un'enorme gemma trasparente nelle cui solide profondità, come cavalieri simbolici incastonati nella base di un gioiello medioevale, sedevano i due piloti pietrificati ai comandi. I caschi argentei mandavano una luce intensa in un flusso perenne. "Ormai non potete più essere loro di alcun aiuto." Un fremito di dolore torceva la bocca di Ventress. Senza guardare l'altro in faccia, si incamminò, deciso ad allontanarsi subito. "Andiamo, Sanders, o diventerete anche voi come loro. La foresta cambia in continuazione." "Aspettate!" Sanders si arrampicò sulla vegetazione fossilizzata del sottobosco, staccando a calci alcuni pezzi del fogliame di vetro. Girò intorno alla cupola di una cabina. "Ventress! C'è un uomo, qui!" Scesero insieme sul fondo della conca a destra dell'elicottero. Disteso sulle radici serpeggianti di una gigantesca quercia, immortalato nell'atto di trascinarsi al di là di esse, giaceva il corpo cristallizzato di un uomo in uniforme militare. Torace e spalle erano coperti da una pesante corazza di piastre ingioiellate. Le braccia erano chiuse in un involucro di prismi levigati identici a quello che Sanders aveva visto sull'avambraccio dell'uomo ripescato nel fiume a Port Matarre. "Ventress, è il capitano dell'esercito! Radek!" Sanders guardò attraverso la visiera del suo berretto che era diventato un immenso zaffiro tagliato nella forma dell'elmo di un conquistador. Riflessi dai prismi che gli erano spuntati sul volto, i lineamenti del capitano sembravano sovrapporsi l'uno all'altro in una dozzina di piani diversi, ma il dottor Sanders riuscì lo stesso a riconoscere il volto dal mento sfuggente del capitano Radek, l'ufficiale medico che l'aveva condotto sul luogo dell'ispezione. Si rese conto che Radek doveva essere tornato indietro, probabilmente per cercare proprio lui, quando non lo aveva visto sbucare dalla foresta. E invece aveva trovato i piloti dell'elicottero. Negli occhi dell'ufficiale morto brillavano mille arcobaleni. "Ventress!" Sanders ricordò l'annegato nel porticciolo di Port Matarre. Premette le mani sulle lastre di cristallo che coprivano il petto dell'uomo cercando di individuare una qualche traccia di calore residuo. "È ancora vivo, qui sotto! Aiutatemi a tirarlo fuori!" Quando Ventress si alzò, scrollando la testa, Sanders urlò: "Ventress! Io conosco quest'uomo!". Afferrato il suo fucile, Ventress incominciò ad arrampicarsi fuori della conca. "Sanders, state sprecando tempo." Scrollò di nuovo la testa, frugando con lo sguardo tra gli alberi all'intorno. "Lasciatelo dov'è. Lui ha trovato la sua pace." Sanders si mise a cavalcioni del corpo cristallizzato del capitano e cercò di sollevarlo dalla cavità in cui era adagiato. Il peso del corpo era spaventoso e Sanders riuscì a smuovergli appena un braccio. Parte della testa e delle spalle, oltre al braccio destro per tutta la sua lunghezza, si erano fusi insieme con le strutture cristalline che uscivano dalla base della quercia. Quando Sanders incominciò a sferrare calci alle radici serpentine per cercare di liberare il corpo di Radek dal loro laccio, Ventress gridò per fermarlo. Ma Sanders non desisté e con uno strattone riuscì a liberare il corpo dell'ufficiale dalle radici dell'albero. Dalle spalle e dalla faccia di Radek caddero pezzi dell'involucro cristallino. Con un urlo Ventress saltò nuovamente sul fondo della conca. Afferrò con violenza Sanders per un braccio. "Per l'amor di Dio...!" cominciò, ma quando Sanders lo ricacciò indietro con uno spintone rinunciò a opporsi. Dopo una pausa, durante la quale ristette a osservare Sanders con occhi tristi, si avvicinò al medico e lo aiutò a issare il corpo ingioiellato fuori della conca. Cento metri più avanti raggiunsero la sponda del ruscello. L'affluente era più largo in quel punto e formava un canale di una decina di metri. Nel centro la crosta fossilizzata era spessa soltanto pochi centimetri. Abbandonato il corpo di Radek sulla sponda con le braccia allargate, il dottor Sanders staccò un grosso ramo da uno degli alberi circostanti e incominciò a rompere la crosta che si era formata sull'acqua. Intanto l'involucro di cristallo che avvolgeva il corpo di Radek si scioglieva lentamente mandando bagliori di luce. Sotto i colpi violenti del ramo la crosta si frantumava facilmente e, nel giro di pochi minuti, Sanders aveva già aperto un buco circolare largo tre o quattro metri. Allora ritornò sulla sponda dove giaceva Radek tirandosi dietro il ramo. Si chinò, sollevò il corpo del capitano e lo adagiò sul ramo. Poi si sfilò la cintura e con essa legò le spalle di Radek al pezzo di legno. Con un po' di fortuna il ramo avrebbe sorretto la testa di Radek al di sopra del pelo dell'acqua abbastanza a lungo perché il capitano riacquistasse conoscenza una volta che i cristalli si fossero dissolti nella corrente del corso d'acqua. Ventress non disse niente e si limitò a osservare Sanders con occhi tristi. Appoggiò il fucile a un albero e aiutò Sanders a trasportare il corpo dell'ufficiale sull'apertura che il medico aveva praticato nella crosta che ricopriva l'acqua. Reggendo il ramo alle due estremità, calarono Radek nell'acqua verticalmente. La corrente era abbastanza forte. I due stettero a guardare il corpo del capitano che scivolava nella bianca galleria. I cristalli sulle braccia e sulle gambe di Radek scintillavano sotto l'acqua. La testa, per metà sommersa, restò appoggiata al tronco. Il dottor Sanders ritornò zoppicando alla sponda. Si sedette sulla sabbia marmorea e incominciò a togliersi le schegge appuntite che gli si erano conficcate nelle palme delle mani e nelle dita. "È solo una vaga speranza, ma valeva la pena tentare," commentò. Ventress si trovava a pochi passi da lui, in piedi. "Sorveglieranno il fiume. Forse lo vedranno." Ventress si avvicinò a Sanders. Era rigido nel suo piccolo corpo, il mento barbuto premuto contro la gola. I muscoli della sua faccia ossuta si mossero e la sua bocca si aprì e richiuse senza produrre alcun suono, come se Ventress stesse componendo la sua risposta con estrema attenzione. Poi disse: "Sanders, era troppo tardi. Un giorno vi renderete conto di cosa avete portato via a quell'uomo". Il dottor Sanders alzò gli occhi. "Che cosa intendete dire?" Con un gesto irritato proseguì: "Ventress, io dovevo qualcosa a quell'uomo". Ventress ignorò le sue giustificazioni. "Ricordatevi solo una cosa, dottore. Se mai vi dovesse capitare di trovare me in quello stato, lasciatemi stare. Avete capito bene?" Continuarono la loro marcia attraverso la foresta senza più parlarsi. Ogni tanto Sanders restava indietro, fino a cinquanta metri da Ventress. Più di una volta pensò che Ventress l'avesse abbandonato, ma ogni volta l'ometto vestito di bianco, con i capelli e le spalle ricoperti da un sottile strato di brina, riappariva davanti a lui. Sebbene esasperato dall'insensibilità e dall'assoluta mancanza di compassione che Ventress aveva dimostrato nei confronti di Radek, Sanders intuiva che c'era probabilmente qualche spiegazione per questo suo comportamento. Finalmente arrivarono ai limiti di una piccola radura, delimitata su tre lati dal fondo sconnesso e instabile di una piccola insenatura che si apriva in una sponda del fiume. Sul lato opposto una casa estiva con un alto frontone saliva verso il cielo attraverso un varco nel manto della foresta. Dall'unica cuspide una sottile ragnatela di trefoli opachi si estendeva fino agli alberi circostanti come un velo diafano, che mandava sul giardino di vetro e sui cristalli della residenza estiva un riverbero marmoreo, quasi sepolcrale. Come a sottolineare questa impressione, le finestre sulla veranda intorno alla casa erano incrostate di disegni elaborati simili a spire ornamentali, il tutto come fosse una tomba scolpita. Facendo segno a Sanders di restare indietro, Ventress si avvicinò al margine del giardino, tenendo la canna del fucile alzata. Per la prima volta da quando Sanders l'aveva conosciuto, Ventress sembrava poco sicuro di sé. Osservò la casa, come un esploratore che si fosse imbattuto per caso in qualche strano ed enigmatico reliquiario nel cuore della giungla. Alto sopra di loro, con le ali imprigionate nel manto vitreo della foresta, un rigogolo dorato si fletté lentamente nella luce del pomeriggio. La sua aureola liquida lo circondava tremolando di luce come un sole a forma di croce. Ventress diede segno di aver preso una decisione. Dopo aver atteso un eventuale movimento nella residenza estiva, partì con la velocità di un lampo, passando da albero ad albero, poi attraversò a passi felini la superficie congelata del fiume. A dieci metri dalla casa si fermò di nuovo, distratto dal riverbero del rigagnolo proprio sopra la sua testa. "È Ventress! Prendetelo!" La radura fu scossa dal rumore di uno sparo che echeggiò tra il fragile fogliame di cristallo. Colto alla sprovvista, Ventress si accovacciò sugli scalini della casa, scrutando le finestre sbarrate. Ai limiti della radura, a cinquanta metri da lui, apparve un uomo alto e biondo in un giubbotto di pelle nera. Era Thorensen, il proprietario della miniera. Corse verso la casa con la pistola in pugno. Si fermò per sparare di nuovo verso Ventress, e ancora l'esplosione trasmise un fremito per tutta la radura. Dietro al dottor Sanders, i festoni cristallini di muschio sospesi agli alberi si staccarono a pezzi, come le pareti di una casa di specchi che crollasse. La porta sul retro della residenza estiva si aprì. Ne uscì un africano nudo, che aveva gamba e fianco sinistro ingessati fino all'altezza del petto. Il negro uscì sulla veranda con un fucile imbracciato. Impacciato dall'ingessatura, riuscì lo stesso a raggiungere una colonna alla quale si appoggiò per sparare a Ventress sempre acquattato sui gradini. Ventress abbandonò la veranda con un balzo e riattraversò il fiume come una lepre in fuga. Correva curvo e scavalcava a gran balzi le crepe aperte nella superficie. Lanciandosi un'ultima occhiata alle spalle, il piccolo volto barbuto contratto dalla paura, trovò rifugio tra gli alberi. Thorensen rimase indietro. Poi, mentre Ventress raggiungeva la curva dell'insenatura, nel punto in cui si allargava verso il fiume, da una macchia della vegetazione da palude che cresceva come ventagli d'argento sul limite della sponda, comparve la testa del mulatto. Il suo grosso corpo nero, stagliato nettamente contro la foresta imbiancata dalla gelata, scattò in avanti come un toro deciso a incornare un matador in fuga. Ventress passò a pochi metri da lui. Il mulatto lanciò una rete metallica sopra la sua testa. Perduto l'equilibrio, Ventress si spostò lateralmente e cadde. Poi scivolò per una decina di metri sulla superficie ghiacciata, guardandosi intorno con un'espressione sbigottita. Con un grugnito di soddisfazione, il mulatto sfilò un lungo panga dalla cintura e si buttò in avanti verso l'ometto che giaceva davanti a lui come un animale intrappolato. Ventress si mise a scalciare nella rete, cercando di liberare il fucile. A tre metri da lui, il mulatto fendette l'aria con il coltellaccio in un colpo d'assaggio, poi avanzò per sferrare il colpo di grazia all'avversario. "Thorensen! Fermatelo!" urlò Sanders. La rapidità con cui tutto questo era avvenuto aveva inchiodato Sanders dove si trovava, ai margini della radura, con le orecchie frastornate dalle esplosioni. Il medico urlò di nuovo a Thorensen, che stava a guardare da sotto i gradini della casa, con le mani sui fianchi. Teneva la faccia rivolta altrove, come se preferisse non prendere parte alla scena finale. Sempre per terra, Ventress era riuscito a liberarsi in parte dalla rete. Abbandonato il fucile, era riuscito a spingere giù la rete fino alla vita. Il mulatto era in piedi sopra di lui, con il panga levato al di sopra della testa. Con uno strattone epilettico, Ventress riuscì a spostarsi di qualche passo. Il mulatto mandò una sonora risata, seguita da un ruggito di rabbia. La superficie smerigliata aveva ceduto sotto il suo corpo pesante e il mulatto era sprofondato quasi fino alle ginocchia. Con uno sforzo si issò su, tirando fuori una gamba, ma risprofondò nella crosta quando cercò di tirare fuori l'altra. Ventress si staccò di dosso la rete a furia di calci, mentre il mulatto si protendeva in avanti e vibrava un colpo di panga che andava a spezzare il ghiaccio a pochi centimetri dai tacchi dell'altro. Ventress riuscì a tirarsi in piedi. Il fucile era ancora impigliato nella rete metallica. Allora Ventress tirò su il fagotto della rete e scappò attraverso il fiume, scivolando ogni tanto sulle lastre semicristallizzate. Dietro di lui il mulatto caricò come un leone marino imbizzarrito, lanciandosi contro la crosta che si incrinava e spaccandola a colpi di panga. Ventress era ormai irraggiungibile. Lì, dove l'insenatura si allargava, il corso d'acqua più profondo che scendeva a raggiungere il fiume era coperto da una lastra più sottile. La lastra sotto i piedi di Ventress era solo brinata, ma alcune venature di ghiaccio più solido reggevano il suo peso leggero. Dopo venti metri aveva raggiunto la sponda ed era scomparso fra gli alberi. Mentre un ultimo colpo di fucile sparato dall'africano ingessato sulla veranda della casa salutava la sua fuga, il dottor Sanders uscì nel centro della radura. Stette a guardare il mulatto che rompeva la crosta del fiume mezzo cristallizzato sferrando rabbiosi colpi di panga e sollevando spruzzi di luce con i colori dell'arcobaleno. "Ehi, voi! Venite qui!" Thorensen con la pistola fece segno a Sanders di avvicinarsi. La giacca di pelle che indossava sul vestito azzurro metteva in risalto la muscolatura del suo corpo. Sotto la bionda capigliatura, la faccia lunga aveva un'espressione imbronciata e triste. Quando Sanders gli fu vicino, Thorensen lo scrutò con occhi attenti: "Che cosa ci facevate con Ventress? Non eravate con gli ispettori? Vi ho visto sul pontile, con Radek". Il dottor Sanders fece per dire qualcosa, ma Thorensen alzò una mano per interromperlo. Dopo aver fatto un cenno all'africano sulla veranda, che spostò il fucile per tenere Sanders sotto mira, Thorensen si incamminò in direzione del mulatto. "Ci vediamo tra un momento... Non cercate di scappare." Il mulatto si era arrampicato sulla crosta più solida, vicino alla casa. All'avvicinarsi di Thorensen prese a gesticolare e a gridare agitando il panga in direzione della superficie rotta, come per giustificare la mancata uccisione di Ventress. Thorensen annuì e proseguì dedicandogli soltanto un gesto annoiato. Procedendo sulla superficie del fiume, incominciò a tastare con i piedi i cristalli che si erano formati soltanto per metà. Per parecchi minuti passeggiò su e giù, guardando il fiume, come per misurare a occhio le dimensioni dei canali sotterranei. Poi tornò da Sanders. I cristalli umidi attaccati alle sue scarpe mandavano riflessi di luce colorata. Ascoltò con aria distratta Sanders che gli spiegava come era stato intrappolato nella foresta dopo che l'elicottero era caduto. Sanders descrisse il suo incontro casuale con Ventress e la successiva scoperta del corpo di Radek. Ricordando le proteste di Ventress, Sanders si dilungò a spiegare le ragioni che lo avevano spinto a quell'apparente tentativo di annegare un uomo morto. Thorensen annuì, con un'espressione incupita sul volto. "Forse ce la farà." Poi come per rassicurare Sanders, aggiunse: "Avete fatto la cosa migliore". Il mulatto e l'africano nudo per metà ingessato si erano seduti sui gradini della veranda. Il mulatto si era messo ad affilare il suo panga, mentre l'altro scrutava la foresta con il fucile appoggiato sul ginocchio nudo. Aveva il volto magro e intelligente del giovane impiegato o di un capo del personale. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata a Sanders con l'espressione di un uomo che ha riconosciuto un altro membro della sua stessa casta. Sanders riconobbe in lui il negro armato di coltello che lo aveva attaccato nell'atrio di specchi della casa di Thorensen e la cui immagine riflessa aveva scambiato per una propria immagine oscura. Thorensen aveva la testa girata e stava osservando le finestre della residenza estiva, solo per metà conscio della presenza di Sanders al suo fianco. Sanders notò che, a differenza dell'abito di Ventress e dei suoi stessi indumenti, la giacca di Thorensen non era stata attaccata dalla brina. "Potete ricondurmi alla base militare?" domandò a Thorensen. "Sono ore che cerco di uscire da questa foresta. Conoscete il Bourbon Hotel?" La lunga faccia di Thorensen assunse un'espressione turbata. "L'esercito è lontano di qui. La gelata si sta espandendo per tutta la foresta." Puntò la pistola verso il fiume. "E Ventress? L'uomo con la barba. Dove vi siete conosciuti?" Sanders ripeté la sua spiegazione. Né Thorensen né il mulatto avevano riconosciuto in lui l'uomo che aveva difeso Ventress nello scontro notturno a Port Matarre. "Si era rifugiato in una casa vicino al fiume. Perché gli avete sparato? È forse un criminale... sta forse cercando di rubare qualcosa dalla vostra miniera?" Il giovane africano armato di fucile scoppiò a ridere. Thorensen annuì con il volto inespressivo. Il suo atteggiamento era enigmatico e teso, come se fosse insicuro di sé e non sapesse cosa fare di Sanders. "Molto peggio," disse. "È un folle, completamente pazzo." Si voltò e risalì i gradini della veranda, facendo un segno a Sanders come per dirgli che era libero di andarsene. "Siate molto prudente. Non si può sapere che cosa farà la foresta. Cercate di restare sempre in movimento e procedete per cerchi." "Aspettate un momento!" lo richiamò Sanders. "Voglio riposarmi qui. Ho bisogno di una carta topografica. Devo trovare questo Bourbon Hotel." "Una carta? E a che cosa serve ormai una carta?" Thorensen esitò, alzando gli occhi verso la casa come se temesse che Sanders potesse in qualche maniera oscurare il suo luminoso biancore. Poi, mentre il medico lasciava ricadere le braccia stanche lungo il corpo, Thorensen si strinse nelle spalle e indicò ai suoi uomini di seguirlo. "Thorensen!" Sanders avanzò di un passo. Indicò il giovane africano ingessato. "Fatemi controllare quella medicazione. Posso fargliene una più comoda. Sono un medico." I tre uomini si girarono a fissarlo. Persino il mulatto osservava Sanders con interesse. Nei suoi occhi biliosi c'era uno sguardo calcolatore. Thorensen stava osservando Sanders come se lo riconoscesse in quel momento per la prima volta. "Un medico? Già, è vero. Radek mi aveva detto... Ora ricordo. Va bene, dottor...?" "Sanders. Non ho con me niente, né medicine, né..." "Va bene lo stesso, dottore," disse Thorensen. "Anzi, meglio ancora." Poi annuì tra sé, come ancora indeciso se invitare Sanders in casa. Finalmente disse: "E sta bene, dottore. Potete entrare per cinque minuti. Forse ho qualcosa da chiedervi". Il dottor Sanders salì i gradini della veranda. La residenza estiva era costituita da una grande sala circolare con una piccola cucina e uno sgabuzzino sul retro. Le finestre erano state oscurate da grandi persiane ora fuse con gli infissi dai cristalli che vi si erano formati sopra. La poca luce entrava dalla porta. Thorensen diede un'occhiata circolare verso la foresta e ripose la pistola. Mentre i due africani giravano dietro la casa, Thorensen abbassò la maniglia della porta d'ingresso. Attraverso i vetri gelati, il dottor Sanders scorse il vago profilo di un grande letto a colonne, ovviamente quello che era stato portato via dalla camera da letto dell'abitazione in cui lui e Ventress avevano cercato riparo dalla tempesta. Cupidi dorati giocavano sul letto di mogano, tutti intenti a suonare il flauto. Thorensen si schiarì la gola. "La signora... Ventress," spiegò finalmente a voce bassa. 9. Serena I due uomini fissarono lo sguardo sulla donna adagiata nel letto. Teneva la testa appoggiata a un grosso capezzale di raso e una mano febbricitante abbandonata sul copriletto di seta. Da principio il dottor Sanders credette che si trattasse di una donna anziana, probabilmente la madre di Ventress, ma poi si accorse che in effetti era poco più di una bambina, una giovane donna sulla ventina. I lunghi capelli color platino le cingevano le spalle come uno scialle bianco e il suo viso magro dagli zigomi alti era ben visibile anche nella luce scarsa. Forse era stata una bellezza delicata un tempo, ma adesso la pelle sciupata e la debole luce dei suoi occhi semichiusi davano l'impressione di una donna invecchiata prematuramente, ricordando al dottor Sanders i piccoli pazienti della corsia riservata ai bambini, all'ospedale del lebbrosario, nei pochi minuti che precedevano la loro morte. "Thorensen." La debole voce risuonò tremante nel riverbero color dell'ambra. "Si è fatto freddo di nuovo. Potresti accendere il fuoco?" "La legna non brucia, Serena. È diventata tutta vetro." Thorensen era fermo ai piedi del letto e fissava la giovane donna. Nella sua giacca di pelle sembrava un agente di polizia in servizio nella camera di un'ammalata. Fece scorrere la cerniera del giubbotto. "Ti ho portato questi, Serena. Ti aiuteranno." Si curvò in avanti, nascondendo qualcosa alla vista di Sanders. Poi riversò diverse manciate di gemme rosse e azzurre sul copriletto. Rubini e zaffiri di dimensioni diverse brillarono nella luce del pomeriggio ora più rada. Pareva che le gemme fossero fosforescenti. "Thorensen, grazie..." La mano libera della ragazza scivolò sul copriletto per accarezzare le pietre preziose. Il suo viso da bambina aveva assunto un'espressione volpina per la bramosia di quel contatto. Un'espressione furba era comparsa nei suoi occhi, e Sanders credette di intuire le ragioni per le quali il padrone della miniera la trattava con tanta deferenza. La ragazza prese una manciata di gioielli e se li portò al collo, premendoli con forza contro la pelle, dove le pietre lasciarono segni abbastanza visibili. Il contatto con i preziosi sembrò ridarle vita. Mosse le gambe, e molti dei gioielli scivolarono per terra. La ragazza alzò gli occhi su Sanders e poi si rivolse a Thorensen. "A chi sparavi?" domandò dopo una pausa. "Ho sentito un fucile. Mi ha fatto venire mal di testa." "Era solo un coccodrillo, Serena. Qui intorno ci sono dei coccodrilli un po' troppo intraprendenti. Devo starci attento." La giovane donna annuì. Con una mano sempre stretta intorno alle pietre, indicò Sanders. "Chi è? Che cosa fa qui?" "È un dottore, Serena. L'ha mandato qui il capitano Radek. È un amico." "Mi avevi detto che non ho bisogno di dottori!" "Infatti, Serena, lo so. Il dottor Sanders è qui solo di passaggio. È venuto a visitare uno degli uomini." Durante queste complicate spiegazioni, Thorensen aveva continuato a tormentarsi i risvolti della giacca, guardando dappertutto meno che verso Serena. Sanders si avvicinò di un passo al letto, dando per scontato che Thorensen ora gli avrebbe permesso di esaminare la fanciulla. Il suo respiro da tubercolotica e il suo stato di grave anemia non avevano bisogno di diagnosi. Sanders le prese lo stesso il polso. "Dottore..." Come spinto da un impulso incontrollato, Thorensen lo allontanò dal letto. Fece un gesto incerto con una mano, poi mostrò a Sanders la porta della cucina. "Credo che sia meglio più tardi, dottore... no?" Poi si rivolse in fretta alla giovane donna. "Adesso riposati, Serena." "Ma Thorensen, io ne ho bisogno. Devi darmene di più. Oggi me ne hai portati troppo pochi." La sua mano, come una zampa munita di artigli, frugava il copriletto alla ricerca delle gemme, quelle che Thorensen e il mulatto avevano tolto dalla cassaforte nel pomeriggio. Sanders fu sul punto di protestare, ma la giovane donna piegò la testa appoggiando una guancia al cuscino e parve subito assopita. Le pietre giacevano come scarabei sulla pelle bianca del suo seno. Thorensen diede a Sanders un colpetto con un gomito. I due passarono in cucina. Prima di chiudere la porta, Thorensen osservò con occhi malinconici la ragazza, come timoroso che, una volta lasciata sola, potesse dissolversi in polvere. Solo per metà conscio della presenza di Sanders, disse: "Mangiamo qualcosa". In fondo alla cucina, vicino alla porta, il mulatto e l'africano nudo erano seduti su una panca semiaddormentati sulle loro armi. La cucina era quasi del tutto vuota. Un piccolo frigorifero spento era appoggiato sul fornello freddo. Thorensen aprì lo sportello e incominciò a svuotare le tasche dei gioielli posandoli sui ripiani. Una leggera brina ghiacciata ricopriva la superficie smaltata del frigorifero. Tutta la cucina era coperta di brina, ma le pareti interne del frigorifero non ne erano affette. "Chi è?" domandò il dottor Sanders a Thorensen il quale stava aprendo una scatoletta. "Bisogna portarla via da qui. Ha bisogno di essere curata. Questo non è posto per..." "Dottore!" Thorensen alzò una mano per zittire Sanders. Dava sempre l'impressione che stesse nascondendo qualcosa. I suoi occhi erano sempre di una frazione più bassi di quelli di Sanders. "È mia moglie, adesso," disse con una curiosa enfasi come se stesse cercando di convincere se stesso. "Serena. Qui è al sicuro più che altrove, finché starò attento a Ventress." "Ma sta solo cercando di salvarla! Per l'amor di Dio..." "È pazzo!" urlò Thorensen con improvvisa foga. I due negri in fondo alla cucina si girarono a guardarlo. "È rimasto per sei mesi legato in una camicia di forza! Non sta cercando di aiutare Serena. Vuole solo riportarla in quella sua casa pazzesca in mezzo alla palude." Mentre mangiavano estraendo la carne fredda direttamente dalle scatolette con la forchetta, Thorensen raccontò a Sanders qualcosa di Ventress, lo strano e malinconico architetto che aveva progettato molti dei nuovi edifici governativi di Lagos e Accra e che due anni prima aveva improvvisamente abbandonato il suo lavoro, disgustato. Aveva sposato Serena quando la ragazza aveva solo diciassette anni, comprando l'assenso dei suoi genitori, una povera coppia di coloni francesi residenti a Libreville, solo poche ore dopo averla vista per la prima volta nella strada davanti al suo ufficio, mentre ne usciva per l'ultima volta. Poi l'aveva portata con sé in una costruzione folle e grottesca che aveva edificato su un'isola tra i coccodrilli delle paludi, quindici chilometri a nord di Mont Royal, dove il fiume Matarre si diramava in una serie di acquitrini. Secondo Thorensen, Ventress aveva parlato solo di rado a Serena dopo il loro matrimonio, impedendole di lasciare la casa o di vedere qualcuno, fatta eccezione per una serva negra cieca. Evidentemente vedeva la sua giovane sposa in una specie di sogno preraffaellita, ingabbiata in quella casa come uno spirito perduto della sua immaginazione. Thorensen l'aveva scovata lì, già malata di tubercolosi, durante una battuta di caccia, quando il suo motoscafo aveva rotto l'albero dell'elica ed era andato ad arenarsi sull'isola. Durante le lunghe assenze di Ventress, Thorensen si era recato spesso a trovare Serena finché la ragazza non era fuggita con lui, dopo che la casa aveva preso fuoco. Thorensen l'aveva mandata in un sanatorio in Rhodesia e aveva preparato la sua grande casa di Mont Royal, riempiendola di mobilio finto antico, per darle il benvenuto al suo ritorno. Dopo la scomparsa della moglie e i primi passi per ottenere l'annullamento del matrimonio, Ventress aveva perso la testa e aveva trascorso un periodo come paziente volontario in un manicomio. Ora era tornato con l'idea fissa di riprendersi Serena per riportarla a quel che restava della sua dimora nelle paludi. Thorensen sembrava convinto che la presenza morbosa e folle di Ventress fosse responsabile del riacutizzarsi improvviso della malattia di Serena. Tuttavia quando Sanders gli chiese di lasciargli visitare la ragazza, nella speranza di persuaderlo a portarla via da quella foresta congelata, il proprietario della miniera si oppose. "Qui sta bene," rispose Thorensen caparbio. "Non si preoccupi per lei." "Ma, Thorensen, quanto crede che potrà durare, qui? Tutta la foresta si sta cristallizzando. Non vi rendete conto...?" "Sta benissimo dov'è," insisté Thorensen. Si alzò e guardò il tavolo. La sua figura alta, china in avanti, sembrava un patibolo nel crepuscolo. "Dottore, abito in questa foresta da molto tempo. L'ultima speranza che Serena ha è qui." Con la mente occupata da questa enigmatica dichiarazione e rimuginando sul presunto significato che Thorensen voleva darle, Sanders si sedette su una sedia accanto al tavolo. Nel tramonto si sentì una sirena dalla parte del fiume. L'eco rimbalzò tra le fragili fronde della foresta intorno alla residenza estiva. Thorensen parlò con il mulatto e tornò da Sanders. "Vi lascio nelle loro mani, dottore. Sarò di ritorno tra non molto." Prese un rotolo di bende dallo scaffale vicino al fornello e poi fece un cenno all'africano ferito. "Kagwa, lascia che il dottore ti dia un'occhiata." Dopo che Thorensen se ne fu andato, il dottor Sanders esaminò le ferite alla gamba e al petto dell'africano, e pulì i ruvidi tamponi di filaccia di lino. Una dozzina di pallini era penetrata nella carne dell'africano, ma sembrava che le ferite si stessero già rimarginando, punture che non davano l'impressione di voler sanguinare o suppurare. "Siete stato fortunato," disse Sanders all'africano quand'ebbe finito. "Mi sorprende che riusciate ancora a camminare." Poi aggiunse: "Vi ho visto questo pomeriggio, negli specchi a casa di Thorensen...". Il giovane gli rivolse un sorriso amichevole. "Stavamo cercando monsieur Ventress, dottore. Ne succedono di cose in questa foresta, eh?" "Potete ben dirlo... Anche se dubito che ci sia qualcuno tra di voi che sappia che cosa sta facendo." Sanders notò che il mulatto lo osservava con interesse crescente. "Ditemi," domandò a Kagwa, decidendo di approfittare per quanto poteva dei modi affabili del giovane. "Voi lavorate per Thorensen? Alla sua miniera?" "La miniera è chiusa dottore, ma io ero il numero uno incaricato dei magazzini tecnici." Fece un cenno di assenso con il capo, con un gesto orgoglioso. "Per tutta la miniera." "Un posto importante." Sanders indicò la porta della camera da letto, dietro la quale giaceva la giovane. "La signora Ventress... Serena, mi pare che abbia detto Thorensen. Bisogna portarla via di qui. Voi siete una persona intelligente, signor Kagwa, e vi rendete certamente conto che deve andarsene. Ancora qualche giorno qui e sarà bell'e morta." Kagwa distolse gli occhi dal dottore e sorrise tra sé. Si guardò le bende intorno alla gamba e al torace e se le toccò con aria assorta. "'Bell'e morta'... Un'espressione appropriata, dottore. Capisco quel che volete dire, ma è meglio per madame Ventress se resta qui." Controllando a stento la voce, Sanders ribatté: "Per l'amor del cielo, Kagwa, morirà! Lo volete capire sì o no? Cosa diavolo vuole Thorensen?". Kagwa alzò la mano per placare Sanders. Giratosi sulla gamba sana, appoggiò l'altra al tavolo. "Voi, dottore, state parlando in termini medici. Ascoltate!" insisté, quando Sanders tentò di intervenire. "Non sto cercando di farvi passare per buona qualche formula di magia. Sono un africano colto. Ma succedono molte cose strane in questa foresta. Voi..." Si interruppe quando il mulatto gli abbaiò qualcosa, uscendo sulla veranda. Si sentiva la voce di Thorensen che stava ritornando alla casa accompagnato da due o tre altri. Gli stivali dei nuovi arrivati frantumavano il fogliame di cristallo lungo la sponda. Il dottor Sanders, che si stava dirigendo verso l'uscio, fu sfiorato dalle dita di Kagwa. Il dottore si girò per incontrare il viso dell'africano atteggiato in un sorriso di avvertimento. "Ricordate, dottore, di camminare solo in una direzione nella foresta, ma di guardare in tutte e due..." Poi, con il fucile in mano, il giovane africano uscì zoppicando sulla gamba bendata. Thorensen salutò Sanders sulla veranda. Superò i gradini, chiudendo la cerniera della sua giacca di pelle per difendersi dal gelo di tomba della casa estiva. "Ancora qui, dottore? Ho portato un paio di guide per voi." Indicò i due africani che si erano fermati alla base degli scalini. Erano membri dell'equipaggio del suo motoscafo. Indossavano jeans e camicie in denim. Uno dei due aveva un berretto dalla visiera bianca, calato sulla fronte. Entrambi avevano una carabina e scrutavano la foresta con molta attenzione. "La mia barca è ormeggiata da quella parte," spiegò Thorensen. "Se il motore funzionasse ancora vi farei accompagnare via fiume. Comunque arriverete a Mont Royal in poco tempo." Detto questo, entrò in cucina e poco dopo Sanders lo sentì passare nella camera da letto. Circondato dalle figure luccicanti dei quattro africani, simili a figurine dipinte con gelida vernice bianca contro un fondale scuro, Sanders aspettò che Thorensen riapparisse. Poi si girò e seguì le guide, lasciando Thorensen e Serena Ventress barricati insieme nel loro sepolcro. Prima di entrare nella foresta si girò a guardare verso la veranda, dove il giovane Kagwa lo stava ancora osservando. Il suo corpo scuro, quasi diviso in due tra parte bendata bianca e parte scoperta scura, ricordò a Sanders Louise Peret e quello che lei gli aveva detto del giorno dell'equinozio. Ripensando alla sua breve conversazione con Kagwa, incominciò a capire i motivi che spingevano Thorensen a cercare di tenere Serena Ventress all'interno della zona colpita. Nel timore che potesse morire, preferiva questa immolazione volontaria dentro quelle volte di cristallo a una morte fisica nel mondo esterno. Forse aveva visto insetti e uccelli immobilizzati nei loro prismi, ma ancora in vita, e per questo aveva concluso che quella era l'unica via che si offriva alla sua sposa agonizzante per sfuggire alla morte totale. Seguendo un sentiero che costeggiava l'insenatura, i tre uomini partirono in direzione del luogo dell'ispezione, che secondo i calcoli di Sanders avrebbe dovuto trovarsi poco meno di un chilometro da lì lungo il corso del fiume. Con un po' di fortuna un reparto dell'esercito poteva essere nelle vicinanze della zona e i soldati avrebbero potuto seguire le tracce da loro lasciate per andare a salvare il padrone della miniera e Serena Ventress. Le due guide procedevano a passo svelto. Ogni tanto si fermavano per scegliere la direzione da seguire, ma riprendevano subito la marcia. Una camminava davanti a Sanders e l'altra, quella col berretto dalla visiera bianca, gli stava dieci metri dietro. Dopo un quarto d'ora, quando avevano coperto quasi un chilometro ma si trovavano ancora nel cuore della foresta, Sanders si rese conto che i marinai non stavano affatto cercando di portarlo in salvo. Facendolo andare in giro per la foresta, senza dubbio Thorensen si serviva di lui come esca, secondo la frase usata da Ventress, sicuro che l'architetto avrebbe cercato di raggiungerlo per avere notizie della moglie rapita. Quando ripassarono per la seconda volta in una piccola radura tra due macchie di querce, Sanders si fermò e tornò indietro verso il marinaio col berretto. Incominciò a protestare ma l'altro scosse la testa e con la carabina gli fece segno di continuare a camminare. Cinque minuti dopo, Sanders scoprì di essere solo. Davanti a lui il sentiero era deserto. Tornò indietro fino alla radura e alle sue ombre vuote. Le guide erano scomparse nel sottobosco. Sanders si guardò alle spalle, fissando gli occhi nelle caverne nere che si aprivano tutt'intorno alla radura, restando in ascolto con la speranza di udire un rumore di passi. Ma i fusti degli alberi gemevano e scricchiolavano mentre la foresta diventava più fredda nelle tenebre. Sopra di lui, attraverso il reticolo che si estendeva su tutta la radura, vedeva la faccia della luna con le sue crepe. Tutt'intorno, nelle pareti vitree, le stelle riflesse scintillavano come lucciole. Riprese a camminare per il sentiero. I suoi abiti avevano incominciato a brillare nell'oscurità. Il ghiaccio che gli ricopriva il vestito mandava lampi di luce rubandoli alle stelle. Spuntoni di cristallo si stavano formando sul quadrante dell'orologio da polso, imprigionandogli la mano in un medaglione di adularia. Cento metri dietro di lui, il rumore di una fucilata rimbalzò tra gli alberi. Una carabina sparò due colpi in risposta. Seguì un trambusto confuso di passi in corsa, grida e colpi di fucile che passarono vicino a Sanders accovacciato dietro un tronco. Poi improvvisamente tutto tornò tranquillo. Sanders aspettò, scrutando nell'oscurità che lo circondava. Gli arrivavano alle orecchie suoni frammentari, mozzati, dalla parte del sentiero. Si udì un mezzo grido, interrotto da un'altra fucilata. La lontana voce di un africano arrivò alle orecchie di Sanders con un grido lamentoso. Sanders tornò indietro fra gli alberi. A cinque metri dal sentiero, in un piccolo avvallamento tra le radici sporgenti di una quercia, trovò una delle guide morente. L'uomo era per metà seduto contro il tronco, spinto contro le radici dall'impatto della rosa di pallini. Guardò con occhi vacui Sanders che gli si avvicinava, mentre con una mano toccava il sangue che gli sgorgava dal petto squarciato. A tre metri da lui giaceva il berretto con la visiera bianca. Su di esso era visibile l'impronta lasciata da un piccolo piede. Sanders si inginocchiò di fianco al ferito. L'africano voltò gli occhi dall'altra parte. Li fissò, umidi di pianto, verso un varco tra gli alberi in fondo al quale si vedeva il fiume. La superficie pietrificata del corso d'acqua si stendeva come ghiaccio bianco fino alla foresta ingioiellata sulla sponda opposta. Dalla parte della residenza estiva arrivò il suono di una sirena. Rendendosi conto che Thorensen e i suoi uomini si sarebbero sbarazzati di lui senza fatica, Sanders si rialzò. L'africano stava morendo silenziosamente ai suoi piedi. Sanders lo abbandonò dove si trovava e attraversò il sentiero dirigendosi verso il fiume. Quando arrivò alla sponda, vide il motoscafo ormeggiato in un laghetto di acque chiare a quattrocento metri di distanza, alla bocca di un torrente che scendeva tortuoso nel fiume passando vicino a un molo semidistrutto. Sul ponte brillava un faro la cui luce danzava sulla superficie bianca che andava dalla piccola insenatura d'acqua fino al letto del fiume. Sanders si chinò e procedette curvo nell'erba che cresceva sulla sponda. La sua ombra in movimento, illuminata dalla luce del faro che frugava tra i cespugli, giocava davanti a lui tra gli alberi pietrificati, un'immagine scura in cui brillavano i gioielli come puntini di luce. Settecento metri più a valle, il letto del fiume si allargava in un vasto ghiacciaio. Dall'altra parte di questa distesa bianca, Sanders scorse i tetti lontani di Mont Royal. Come un ponte sopraelevato fatto di gas solidificato, quell'ammasso si stagliava nell'oscurità rotto da crepacci profondi. Ai suoi piedi scorreva l'acqua ghiacciata del letto originario. Sanders sbirciò verso il basso, sperando di individuare qualche segno del corpo del capitano Radek arenato sulle spiagge di ghiaccio sottostanti. Costretto ad abbandonare il fiume quando la superficie si frastagliò in una sequenza di gigantesche cataratte, Sanders si avvicinò ai sobborghi di Mont Royal. Il profilo congelato dello steccato e i resti dell'equipaggiamento militare gli fecero individuare il punto in cui era stata delimitata la zona di ispezione, ora abbandonata. La roulotte-laboratorio, i tavolini e tutto l'equipaggiamento erano stati ricoperti da un solido strato di brina. I ramoscelli della centrifuga erano ridiventati ammassi brillanti di gioielli. Sanders raccolse un casco abbandonato, ora simile a un porcospino di vetro, e lo scaraventò contro uno dei finestrini della roulotte. Nell'oscurità le case dai tetti bianchi della città mineraria scintillavano come i templi funerari di una necropoli. Gli edifici erano ornati di un numero infinito di spire e guglie, legate insieme attraverso le strade da ramificazioni che si espandevano. Un vento gelido passava per le strade deserte, trasformate in foreste di spuntoni fossili che arrivavano all'altezza della vita. Le automobili abbandonate erano incastrate fra gli speroni di cristallo, come sauri corazzati fossilizzati sul fondo di un antico oceano. Dappertutto il processo di trasformazione stava accelerando. I piedi di Sanders erano incastonati in enormi pantofole di cristallo. Questi spuntoni gli permettevano di camminare sul fondo aguzzo e irregolare della strada, ma ben presto gli aghi che fuoriuscivano dalle sue suole e quelli che scaturivano dal fondo stradale si sarebbero fusi insieme e lo avrebbero inchiodato al terreno. L'entrata orientale della città era sigillata dalla foresta e dalle eruzioni del fondo stradale. Sanders ritornò zoppicando verso il fiume, nella speranza di poter risalire la serie delle rapide e ritrovare la via per il campo militare situato a sud. Mentre scalava il primo blocco di cristallo, sentì le correnti sotterranee che si riversavano nel fiume aperto passando sotto le morene. Un lungo crepaccio con un davanzale di ghiaccio correva ancora diagonalmente attraverso la cataratta e lo guidò per un reticolo di gallerie simili alle terrazze aeree di una cattedrale. Al di là, le cascate scendevano a una spiaggia bianca che sembrava delimitare il lato sud della zona colpita. Gli spiragli dei canali sepolti si aprivano tra le cascate, e una corrente chiara di acqua illuminata dalla luna correva tra i blocchi sboccando in un corso di acqua bassa, almeno tre metri sotto quello originario. Sanders si incamminò per quella spiaggia congelata, osservando la foresta vetrificata che si trovava ai due lati. Gli alberi erano già più cupi, e le guaine cristalline avevano formato chiazze sui tronchi, simili a pezzi di ghiaccio semidisciolti. Cinquanta metri più avanti sulla spiaggia di ghiaccio, che si restringeva dove l'acqua era più veloce, Sanders vide la figura scura di un uomo in piedi sotto uno degli alberi curvi. Con uno stanco cenno della mano, Sanders si diresse di corsa verso l'ombra. "Aspettate!" gridò timoroso che l'uomo potesse scomparire nella foresta. "Da questa parte...!" Arrivato a dieci metri dallo sconosciuto, Sanders rallentò la sua corsa. L'uomo non si era mosso da sotto l'albero. Con la testa reclinata portava un grosso ceppo sulle spalle... un soldato, pensò Sanders, recatosi a raccogliere legna per il fuoco. Quando Sanders gli fu ancora più vicino, l'uomo compì un passo in avanti, in un gesto a un tempo difensivo e aggressivo. La luce delle cascate illuminava il suo corpo straziato. "Radek... buon Dio!" Atterrito, Sanders indietreggiò quasi inciampando in una radice semiscoperta che usciva dal ghiaccio. "Radek...?" L'altro esitò, simile a un animale ferito indeciso se arrendersi o attaccare. Sulle spalle portava ancora il giogo di legno che Sanders vi aveva legato. Il lato sinistro del suo corpo si inarcò dolorosamente come se l'uomo cercasse di liberarsi di quell'incubo, ma Radek non era in grado di alzare le mani fino alla fibbia che aveva dietro al collo. Il lato destro del suo corpo pendeva abbandonato, come una parte a sé stante, sospeso a quella croce di legno simile a un cadavere in disfacimento. Una terribile ferita lo lacerava lungo tutto il fianco destro, lasciandogli scoperta la carne viva dal gomito allo sterno. Il volto sfigurato, dal quale un unico occhio osservava Sanders, era coperto di sangue che gocciolava sul ghiaccio bianco del terreno. Riconosciuta la cintura con la quale aveva legato il ramo alle spalle di Radek, il dottor Sanders avanzò facendo dei gesti come per tranquillizzarlo. Ricordò gli avvertimenti di Ventress e i pezzi di cristallo che aveva strappato dal corpo di Radek, quando lo aveva trascinato via dall'elicottero. Poi ricordò anche Aragon che si toccava il dente finto dicendo: "Coperto? Il mio dente è tutto d'oro, dottore". "Radek, lasciate che vi aiuti..." Sanders avanzava ma Radek esitava. "Credetemi, io cercavo di salvarvi..." Radek lo fissava, continuando a cercare di liberare le spalle dal ramo. L'espressione sul suo volto cambiava in continuazione, a mano a mano che nella sua mente passavano pensieri appena formati. Poi quell'unico occhio debole diede segno di aver riconosciuto Sanders. "Radek..." Sanders aveva alzato una mano per trattenerlo, temendo che Radek potesse buttarglisi addosso oppure fuggire nella foresta come una bestia ferita. Strascicando i piedi, Radek si fece più vicino. Dalla sua gola scaturì un verso simile a un grugnito. Poi il capitano si mosse di nuovo, quasi perdendo l'equilibrio a causa del ramo. "Riportatemi..." incominciò. Fece un altro passo disperato. Allungò un braccio sanguinante simile a uno scettro. "Riportatemi indietro!" Avanzava a fatica, con quel ramo che gli faceva dondolare le spalle da sinistra a destra e un piede strascicato nel ghiaccio, il viso illuminato dalla luce ingioiellata della foresta. Sanders rimase a osservarlo. Il capitano si spingeva in avanti con un braccio teso, come se volesse afferrare il medico per una spalla. Eppure, sembrava che si fosse già dimenticato di lui e la sua attenzione era ora fissa sulla luce che proveniva dalle cascate. Sanders si spostò su un lato, disposto a lasciarlo proseguire. Ma Radek piegò improvvisamente a sua volta e spinse Sanders davanti a sé: "Riportatemi...!". "Radek...!" Rimasto senza fiato per il colpo che Radek gli aveva sferrato col suo giogo di legno, Sanders barcollò in avanti, come, uno spettatore sospinto su un sanguinoso Golgota dalla vittima designata. Passo dopo passo, accelerando l'andatura nella luce prismatica della foresta che si mescolava ai riflessi del suo sangue, Radek avanzava frenetico, impedendo a Sanders di sfuggirgli con il ramo curvo sulle sue spalle. Sanders si mise a correre verso la cascata. A venti metri dal primo blocco, dove la corrente di acqua chiara dei canali sotterranei gli passava tra i piedi, scura e fresca come nei suoi ricordi del mondo esterno, Sanders si girò e corse giù verso le secche. Radek mandò per l'ultima volta un grido terribile. Sanders si tuffò nell'acqua d'argento del fiume e incominciò a nuotare. 10. La maschera Alcune ore più tardi, mentre camminava con gli abiti fradici ai margini della foresta illuminata, Sanders trovò una strada larga e deserta nella luce della luna. In lontananza vide profilarsi l'edificio bianco di un albergo. Con la sua lunga facciata e il colonnato caduto, sembrava un rudere monumentale illuminato dai riflettori. A sinistra della strada la foresta saliva per le pendici delle colline azzurre sopra a Mont Royal. Questa volta, mentre si avvicinava all'uomo che vedeva in piedi di fianco a una Land Rover nel cortile vuoto dell'albergo, il suo cenno di saluto ottenne una pronta risposta. Una seconda persona che si aggirava tra le rovine dell'albergo corse fuori. Un faro dal tetto dell'automezzo si puntò sulla strada davanti al dottor Sanders. I due indigeni, che indossavano l'uniforme del servizio ospedaliero locale, si fecero avanti per riceverlo. Nella luce che proveniva dalla foresta gli occhi liquidi dei due si fissarono sul dottor Sanders, mentre il medico veniva aiutato a montare sulla vettura. Le loro dita nere tastavano il tessuto fradicio del suo vestito. Il dottor Sanders si lasciò andare contro lo schienale del sedile posteriore, troppo stanco per dare le proprie generalità. Uno dei due si infilò al posto di guida e accese la ricetrasmittente della Land Rover. Mentre parlava al microfono teneva gli occhi fissi sui cristalli che si stavano dissolvendo sulle scarpe e sull'orologio da polso del dottor Sanders. La luce bianca emanava fievoli scintille nell'ombra dell'abitacolo. Gli ultimi cristalli sul quadrante dell'orologio mandarono un lampo di luce e svanirono. All'improvviso le lancette ripresero a muoversi. La strada segnava il confine più esterno della zona colpita e agli occhi del dottor Sanders le tenebre che lo circondavano sembravano totali e l'aria nera inerte e vuota. Dopo lo sfavillare continuo della foresta vetrificata, gli alberi lungo la strada, l'albergo semidistrutto e persino i due uomini che erano con lui sembravano soltanto le vacue ombre di se stessi, repliche di originali illuminati che si trovavano in qualche landa remota vicino alla fonte del fiume pietrificato. Per quanto contento di essere sfuggito alla foresta, questa sensazione di piattezza e di irrealtà, di trovarsi invischiato nelle secche di un mondo spento, riempirono Sanders di un senso di sconfitta e di delusione. Un'automobile veniva verso la Land Rover. L'uomo al volante mandò un segnale con il faro e l'altra vettura sterzò per fermarsi di fianco a loro. Un uomo alto che indossava una tuta militare sugli abiti civili smontò dalla vettura. Sbirciò attraverso il finestrino, vide Sanders e fece un cenno d'assenso all'autista indigeno. "Dottor Sanders...?" chiese. "Tutto bene?" "Aragon!" Sanders aprì la portiera e fece per smontare ma Aragon lo fermò con un cenno. "Capitano... me n'ero quasi dimenticato. Louise è con voi? Mademoiselle Peret?" Aragon scrollò la testa. "È con gli altri visitatori al campo, dottore. Abbiamo pensato che forse sareste venuto fuori da questa parte, e così io sono rimasto a sorvegliare la strada." Aragon si spostò per lasciare che i fanali della sua automobile illuminassero il volto di Sanders. Guardò il medico negli occhi, come per cercare di individuare nel suo sguardo i segni lasciati dalla foresta. "Siete fortunato a essere arrivato qui, dottore. Si teme che molti dei soldati siano ormai persi... e che il capitano Radek sia morto. L'area di influenza si è dilatata in tutte le direzioni. La sua estensione si è moltiplicata di molte volte." L'autista dell'automobile di Aragon spense il motore. Mentre la luce dei fari moriva, Sanders si sporse in avanti. "Louise... sta bene... capitano? Vorrei vederla." "Domani, dottore. Verrà alla clinica dei vostri amici. Voi dovete vedere i signori Clair, prima. Questo la signorina lo ha capito. Il dottor Clair e sua moglie sono alla clinica, adesso. Si prenderanno cura di voi." Aragon tornò alla sua macchina. La vettura fece manovra e ripartì per la strada buia a buona andatura. Cinque minuti dopo, al termine di una stradina che passava vicino a una vecchia cava mineraria, la Land Rover entrò nel cortile dell'ospedale della missione. Dalle baracche veniva la luce di alcune lampade a olio, e fuori parecchie famiglie indigene indugiavano vicino ai loro carretti, riluttanti a trovare riparo al coperto. Gli uomini sedevano insieme vicino alla fontana vuota al centro del cortile. Il fumo dei loro sigari saliva a lente volute bianche nell'oscurità. "È qui il dottor Clair?" domandò Sanders al conducente. "E la signora?" "Sono qui tutti e due, signore." Il conducente lanciò un'occhiata a Sanders, ancora insicuro di fronte a questa apparizione che si era materializzata davanti a lui nella notte, uscendo dalla foresta cristallizzata. "Voi siete il dottor Sanders, signore?" azzardò, mentre parcheggiava la macchina. "Esatto. Mi stanno aspettando?" "Sì, signore. Dottor Clair stato ieri a Mont Royal per voi. Ma poi guai in città e lui via, signore." "Lo so, è andato tutto sottosopra. Mi dispiace di non averlo incontrato." Mentre Sanders scendeva dalla Land Rover, gli si fece incontro una figura familiare, grassoccia nella giacca bianca di cotone. Il dottor Clair scendeva a precipizio i gradini della casa. Gli occhi miopi sotto l'ampia fronte si fissarono sull'amico. "Edward...? Edward! Dio sia lodato..." Prese Sanders per un braccio. "Dove diavolo sei stato?" Per la prima volta da che era arrivato a Port Matarre, Sanders si sentì rilassato: o per meglio dire, per la prima volta da quando aveva lasciato il lebbrosario di Fort Isabelle. "Max, vorrei proprio saperlo anch'io... Sono così contento di vederti!" Strinse la mano di Clair, scrollandola con forza. "È pazzesco quel che succede qui... come stai, Max? E come sta Suzanne? È...?" "Sta bene, benissimo. Aspetta un istante." Lasciato Sanders sugli scalini, Clair andò dai due indigeni sulla Land Rover e distribuì qualche pacca sulle loro spalle. Osservò brevemente gli altri indigeni che si erano raccolti nello spiazzo, indirizzando loro un gesto con la mano mentre si rannicchiavano sui loro fagotti nella luce bassa. A settecento metri da loro, al di là dei tetti delle baracche, un'immensa cappa di luce argentea scintillava nel cielo notturno sopra la foresta. "Suzanne sarà felice di vederti, Edward," disse Max, quando fu di nuovo con l'amico. Sembrava più preoccupato di quanto Sanders ricordasse di averlo mai visto. "Si è parlato spesso di te... mi dispiace per ieri pomeriggio. Suzanne aveva promesso di andare a visitare uno dei dispensari delle miniere. Quando Thorensen si è messo in contatto con me, non è stato possibile raggiungerti." La scusa zoppicava palesemente, e Max cercò di farsi perdonare con un sorriso. Entrarono in un cortile interno che attraversarono per raggiungere uno chalet lungo e basso dall'altra parte. Sanders si fermò a guardare le corsie vuote dalle finestre. Da un punto imprecisato veniva il ronzio di un generatore e alcune lampadine elettriche mandavano un po' di luce in fondo ai corridoi, ma l'ospedale sembrava deserto. "Max... ho fatto un errore spaventoso." Sanders si spiegò velocemente, sperando che non comparisse Suzanne a interromperlo. Di lì a mezz'ora, quando si fossero trovati tutti e tre comodamente seduti nel salotto dei Clair, la tragedia di Radek avrebbe cessato di sembrargli reale. "Quando Radek... un capitano medico... l'ho trovato nella foresta completamente cristallizzato. Sai cosa voglio dire?" Max annuì. Fissava Sanders con uno sguardo che superava in intensità il suo solito modo attento di guardare la gente. Sanders continuò: "Ho creduto che l'unica maniera di salvarlo fosse di immergerlo nell'acqua del fiume... ma ho dovuto strapparlo via da terra! Alcuni cristalli gli si sono staccati di dosso ma al momento non me ne sono reso conto...". "Edward!" Max lo prese per un braccio e cercò di spingerlo avanti. "Non c'è..." Sanders respinse la sua mano. "Max, l'ho ritrovato più tardi. Gli avevo strappato via mezza faccia, una parte del torace...!" "Dio santo!" Max strinse i pugni. "Non sei stato il primo a commettere quell'errore. Non puoi biasimarti!" "Max, non... Aspetta, capiscimi! Non è solo quello!" Sanders esitò per un momento. "Il punto è... è che voleva tornare indietro! Voleva ritornare nella foresta per essere cristallizzato di nuovo! Sapeva, Max, lui sapeva!" Clair abbassò la testa e si spostò di qualche passo. Alzò gli occhi alle finestre dello chalet. La figura alta di sua moglie li stava osservando dalla porta semiaperta. "Ecco Suzanne," disse. "È contenta di vederti, Edward, ma..." In tono vago, come distratto da altri problemi, aggiunse: "Vorrai cambiarti. Ho un vestito che dovrebbe andarti bene... Un nostro paziente europeo... morto, se non ti dà fastidio... E vorrai qualcosa da mangiare. Fa un freddo cane nella foresta". Sanders stava guardando Suzanne Clair. Invece di uscire a riceverlo, la donna si era ritirata indietreggiando nella stanza buia. Per un momento Sanders si chiese se fosse ancora turbata dal vecchio imbarazzo che li aveva divisi. Sebbene secondo Sanders la sua passata relazione con Suzanne lo avesse avvicinato, piuttosto che allontanato, a Max, questi gli sembrava distante e nervoso, come se il suo arrivo gli fosse dispiaciuto. Ma poi Sanders scorse il sorriso di benvenuto sul volto di Suzanne. Indossava una vestaglia di seta nera che la rendeva quasi invisibile nelle ombre della sala. La pallida lampada del suo viso si librava nell'aria come un alone. "Suzanne... sono felice di vederti!" Sanders le prese la mano ridendo. "Temevo che foste stati ingoiati tutti e due dalla foresta. Come stai?" "Sono tanto felice, Edward." Sempre tenendo Sanders per un braccio, Suzanne si girò verso il marito. "Sono contenta che tu sia venuto. Adesso potrai dividere con noi questa foresta." "Mia cara, credo che il nostro povero amico ne abbia già avuto abbastanza." Max si chinò dietro il divano per accendere la lampada da scrivania che era stata posata per terra vicino alla libreria. La luce debole illuminò le lettere d'oro sul dorso dei libri, ma il resto della stanza rimase in ombra. "Ti rendi conto che è rimasto intrappolato nella foresta da ieri pomeriggio?" "Intrappolato?" Allontanandosi da Sanders, Suzanne superò le portefinestre e chiuse l'uscio. Rimase a guardare fuori il cielo della notte brillante sopra la foresta. Poi andò a sedersi vicino a un mobiletto di legno appoggiato alla parete di fondo. "Ti sembra il termine esatto? Io ti invidio, Edward. Dev'essere stata un'esperienza bellissima." "Be'..." Accettato il bicchiere da Max, che adesso si stava versando due dita di whisky da una brocca di cristallo, Sanders si appoggiò al caminetto. Nascosta nelle ombre intorno all'armadio, Suzanne continuava a sorridergli, ma questo riflesso del suo buon umore sembrava ora velato dall'atmosfera ambigua della sala. Sanders si domandò se ciò fosse dovuto alla sua stanchezza, ma sembrava che ci fosse qualcosa di stonato in quell'incontro, come se i loro rapporti avessero acquistato una nuova, invisibile dimensione. Sanders portava ancora gli indumenti con i quali aveva attraversato il fiume a nuoto, ma Max non aveva più ripetuto il suo invito a cambiarsi. Alzò il bicchiere verso Suzanne. "Immagino che si possa dire che è stata un'esperienza bellissima," disse. "È questione di punti di vista... Il fatto è che non ero preparato." "Meraviglioso... non te lo potrai mai scordare." Suzanne si sporse in avanti. Portava i lunghi capelli neri in un'acconciatura per lei insolita, in avanti ai lati del volto, tanto che dei suoi lineamenti si intravedeva appena una piccola sezione frontale. "Raccontami tutto, Edward. Io..." "Cara," intervenne Max con la mano alzata. "Lascia a questo pover'uomo il tempo di riprendere fiato. E poi adesso avrà voglia di mangiare e di mettersi a letto. Possiamo riparlarne a colazione." A Sanders spiegò: "Suzanne passa molto tempo a passeggiare per la foresta". "Passeggiare?" ripeté Sanders. "Cosa vuoi dire?" "Solo ai limiti della foresta, Edward," disse Suzanne. "Noi ci siamo solo vicini, qui, ma è già abbastanza... Ho visto quelle volte ingioiellate!" Animatasi, riprese: "Qualche mattina fa, quando sono uscita prima dell'alba, le mie pantofole si stavano già cristallizzando! E i piedi! I miei piedi si stavano trasformando in diamanti e smeraldi!". Con un sorriso, Max disse: "Mia cara, tu sei la principessa del bosco incantato". "Max, stavo veramente..." Suzanne annuì e i suoi occhi si posarono sul marito che teneva lo sguardo basso, fisso sul tappeto. Poi si rivolse a Sanders dicendo: "Edward, non potremo più andare via di qua". Sanders si strinse nelle spalle. "Capisco, Suzanne. Ma può darsi che ci siate costretti. La zona colpita si espande. Dio solo sa a cosa è dovuto tutto questo, ma sembra proprio che non ci sia modo di arrestare il fenomeno." "Perché provarci?" Suzanne fissò Sanders. "Non dovremmo essere grati alla foresta che ci fa questo splendido regalo?" Max finì il suo whisky. "Suzanne," disse allora, "sei qui a farci la morale come un missionario. Tutto ciò che Edward può desiderare in questo momento è di cambiarsi d'abito e mangiare qualcosa." Andò verso la porta. "Sarò da te tra poco, Edward. Ti abbiamo fatto preparare una camera. Serviti da bere." Quando Max se ne fu andato, Sanders si riempì il bicchiere di soda e disse a Suzanne: "Devi essere stanca. Mi dispiace di averti tenuta in piedi fino a tardi". "No, ti assicuro. Adesso dormo di giorno... Max e io abbiamo deciso che dobbiamo tenere il dispensario aperto ventiquattr'ore su ventiquattro." Consapevole che la spiegazione non suonava del tutto convincente, aggiunse: "Per essere sincera, preferisco la notte. La foresta si vede meglio". "Questo è vero. Non mi sembra che ti spaventi, Suzanne." "Perché dovrebbe? È più facile essere spaventati dalle proprie sensazioni che da ciò che le ha prodotte. La foresta non è così... Io l'ho accettata, e con essa ho accettato anche tutte le paure che ne derivano." Poi, in un tono di voce più basso, soggiunse: "Sono contenta che tu sia qui, Edward. Temo che Max non capisca quello che sta accadendo nella foresta... voglio dire, in un senso più ampio... a tutte le nostre idee di tempo e di mortalità. Come posso spiegarmi? 'La vita, come una cupola di vetri variopinti, macchia la bianca radiosità dell'eternità.' Sono sicura che tu mi capisci". Portandosi dietro il bicchiere, Sanders attraversò la stanza buia. Nonostante i suoi occhi si fossero ormai abituati alla luce bassa, il volto di Suzanne rimaneva ancora nascosto nelle ombre dietro il mobiletto di legno scuro. Quel sorriso un po' enigmatico che le era rimasto sulle labbra fin dal momento del suo arrivo non l'aveva ancora abbandonata, e quasi sembrava volesse richiamarlo. Ma quando le si avvicinò si rese conto che quella leggera curva della sua bocca verso l'alto non era affatto un sorriso. Era invece un rictus facciale, causato dall'indurimento nodulare del labbro superiore. La pelle del suo volto aveva un caratteristico aspetto scuro, che Suzanne era riuscita a mascherare con i lunghi capelli sulle guance e un abbondante strato di cipria. Malgrado questo camuffamento, Sanders scorse gli inturgidimenti nodulari che le coprivano il volto fino al lobo dell'orecchio sinistro. Suzanne spostò un po' indietro la sedia alzando le spalle. Dopo tanti anni di esperienza al lebbrosario, Sanders aveva riconosciuto i primi segni della cosiddetta maschera leonina. Confuso dalla scoperta, anche se per metà se l'era aspettato fin dalla prima lettera che Suzanne gli aveva scritto da Mont Royal, Sanders riattraversò la stanza sperando che Suzanne non avesse notato la mossa goffa e incontrollata che gli aveva fatto versare un po' di liquido dal bicchiere sul tappeto. Il suo primo sentimento di rabbia per questo crimine della natura, perpetrato ai danni di una persona che già aveva rinunciato a buona parte della sua vita nel tentativo di curare altri affetti dallo stesso male, lasciò il posto a una sensazione di sollievo, come se questa tragedia li trovasse ambedue già preparati psicologicamente. Si accorse che si era aspettato che Suzanne fosse attaccata dal morbo. Anche la loro relazione era stato un tentativo inconscio di arrivare a questa meta. La vera fonte dell'infezione di Suzanne era lui, e non i poveri diavoli del lebbrosario. Sanders finì di bere e posò il bicchiere. Si voltò a guardare Suzanne. Nonostante l'intimità che c'era stata tra loro, trovava quasi impossibile esprimersi con lei. Dopo una pausa, disse con voce stentata: "Mi è dispiaciuto quando sei partita da Fort Isabelle, Suzanne. A dire la verità, ho dovuto farmi forza per non correrti subito dietro. Però sono contento che tu sia venuta qui. Può essere apparsa come una strana scelta, a molta gente. Ma io capisco. Chi potrebbe biasimarti per aver voluto cercare di fuggire dal lato buio del sole?". Suzanne scrollò la testa, forse perplessa per queste parole enigmatiche, o forse preferendo non capire. "Che cosa vuoi dire?" Sanders esitò. Anche se sembrava sorridere, Suzanne stava in realtà soltanto cercando di controllare il tremito involontario della sua bocca. Il suo viso, una volta fine e aggraziato, era contratto adesso in una maschera che stentava a riconoscere. Sanders fece un gesto. "Stavo pensando ai nostri pazienti di Fort Isabelle. Per loro..." "Non ha niente a che vedere con loro. Edward, tu sei stanco e io devo andare al dispensario. Non voglio trattenerti ancora. Devi andare a mangiare." Con un movimento repentino, Suzanne si alzò in piedi, più alta di Sanders. Il suo viso incipriato si girò verso di lui, guardandolo dalle orbite scure con quell'intensità che ricordava a Sanders lo sguardo di teschio di Ventress. Poi le ricomparve sul volto il sorriso deforme. "Buonanotte, Edward. Ci vediamo domani a colazione. Avrai molto da raccontarci." Sanders la fermò sulla porta. "Suzanne..." "Cosa c'è, Edward?" Suzanne richiuse per metà la porta, bloccando il fascio di luce che dal corridoio le investiva metà del volto. Sanders cercò disperatamente qualcosa da dire, poi, come per un riflesso semicondizionato, alzò le braccia per abbracciarla. Quindi, tanto attratto dal suo volto sfigurato quanto da esso respinto, ma consapevole che doveva per prima cosa capire se stesso, si girò. "No, niente, Suzanne," disse. "Hai già visto tutto, qui nella foresta?" "Non tutto, Edward," rispose Suzanne. "Un giorno mi ci dovrai portare." 11. L'albergo bianco Il mattino seguente, indossando gli abiti del paziente deceduto, Sanders incontrò Louise Peret. Aveva trascorso la notte in uno dei quattro chalet vuoti che costituivano i lati di un piccolo cortile situato dietro ai bungalow dei Clair. Gli ultimi membri del personale medico europeo avevano abbandonato l'ospedale, e prima di colazione Sanders se ne andò a spasso per gli chalet deserti, cercando di prepararsi al momento in cui avrebbe rivisto Suzanne. I pochi libri e le riviste rimasti sugli scaffali, e i barattoli ancora intatti rimasti in cucina, erano come le vestigia di un mondo lontano. Il suo nuovo abito era appartenuto a un ingegnere belga di una delle miniere. L'uomo, più o meno della sua statura a giudicare dal taglio dei pantaloni e della giacca, era morto qualche settimana prima di polmonite. Nelle tasche della giacca Sanders aveva trovato pezzettini di corteccia e alcune foglie secche. Sanders pensò che l'ingegnere era stato probabilmente colto dall'ondata di freddo mortale mentre raccoglieva quegli oggetti, una volta cristallizzati, dal suolo della foresta. Suzanne Clair non si fece vedere per colazione. Quando Sanders arrivò al bungalow dei Clair e fu condotto nella sala da pranzo dal domestico, Max lo salutò alzando un indice. "Suzanne dorme," disse a Sanders. "Ha avuto una nottata intensa, poverina... Ci sono molti indigeni qui intorno, nel sottobosco, nella speranza di scoprire qualche buon filone di diamanti, immagino. Si sono portati dietro i loro malati, per lo più incurabili. E tu come stai, Edward? Come ti senti questa mattina?" "Abbastanza bene," rispose Sanders. "Grazie per il vestito, a proposito." "Il tuo è asciutto, ormai," disse Max. "Uno dei domestici l'ha stirato questa mattina presto. Se vuoi cambiarti..." "Ti ringrazio. Comunque questo è più caldo." Sanders tastò il tessuto di saia azzurra. L'abito scuro sembrava in un certo modo più appropriato al suo incontro con Suzanne di quello tropicale di cotone; un abbigliamento più adatto a questo mondo a rovescio, dove Suzanne dormiva durante il giorno e compariva solo di notte. Max consumò la colazione con gusto, attaccando il pompelmo con le mani. Dopo il loro incontro della notte precedente era riuscito a rilassarsi del tutto, come se l'assenza di Suzanne gli desse ora l'occasione propizia per abbandonare il suo atteggiamento difensivo verso Sanders. A sua volta, Sanders indovinava adesso che Max lo aveva di proposito lasciato solo con Suzanne per qualche minuto, la sera prima, perché potesse giudicare da sé, se voleva, le ragioni che avevano spinto entrambi a venire a Mont Royal. "Edward, non mi hai ancora raccontato della tua visita alla zona di ispezione, ieri. Che cosa è successo con esattezza?" Sanders osservò Max, stupito dalla sua aria distaccata. "Tu hai già probabilmente visto tanto quanto me... La foresta si sta vetrificando. A proposito, conosci Thorensen?" "La nostra linea telefonica passa per il suo ufficio alla miniera. L'ho incontrato qualche volta... Quell'abito apparteneva a uno dei suoi ingegneri. È sempre preso in certe sue faccende private." "Cosa sai della donna che vive con lui... Serena Ventress? Immagino che la loro relazione sia argomento di pettegolezzi in città." "Assolutamente no... Ventress, hai detto? Probabilmente qualche cocotte che ha rimorchiato in una sala da ballo di Libreville." "Non proprio." Sanders decise di non approfondire l'argomento. Mentre finivano di fare colazione, descrisse il suo arrivo a Port Matarre, il viaggio fino a Mont Royal, concludendo con la sua visita al luogo di ispezione. Alla fine, mentre camminavano per le corsie vuote, buttò lì la spiegazione data dal professor Tatlin dell'effetto Hubble e quello che secondo lui doveva essere il vero significato della teoria. Max però non sembrava molto interessato a questi discorsi. Ovviamente considerava la foresta cristallizzata come una deviazione della natura, che presto si sarebbe esaurita e gli avrebbe permesso di dedicarsi alla cura di Suzanne. Ogni volta che Sanders alludeva in maniera indiretta a lei, Max faceva finta di non sentire. Con una punta di orgoglio, mostrò a Sanders l'ospedale, soffermandosi in particolar modo nelle corsie nuove e nel reparto per i raggi x che aveva personalmente allestito con l'aiuto di Suzanne durante il loro breve periodo di residenza a Mont Royal. "Credimi, Edward, è stato un lavoraccio, anche se non voglio accreditarlo tutto a noi. Sono le compagnie minerarie che ci hanno inviato i pazienti e di conseguenza sono state loro a darci i soldi." Stavano camminando lungo il recinto esterno sul lato orientale dell'ospedale. In lontananza, oltre i bassi edifici, si vedeva la foresta nella sua piena estensione. La sua luce dolce scintillava come un'enorme campana di vetro colorato nel sole del mattino. Anche se contenuta dalla strada di circonvallazione che passava davanti al Bourbon Hotel, la zona colpita si era spinta per parecchi chilometri giù lungo il fiume, estendendosi alle aree boscose tutt'intorno alle sponde. Sessanta metri sopra la giungla, l'aria riluceva in continuazione come se atomi cristallizzati si sciogliessero nel vento e venissero via via sostituiti da altri che salivano dalla foresta sottostante. Sanders fu distratto da un rumore di grida e di canne di bambù. A cinquanta metri da loro alcuni dipendenti dell'ospedale camminavano tra gli alberi dall'altra parte del recinto. Stavano respingendo una fila di indigeni che Sanders aveva notato seduti tra le ombre dei rami. Gli infermieri, come a voler dimostrare la loro superiorità, soffiavano nei fischietti e battevano il terreno con le canne, vicino ai piedi degli indigeni. Guardando sotto gli alberi, Sanders vide che c'erano almeno duecento indigeni, raccolti in piccoli gruppi intorno ai loro fardelli e ai loro bastoni, intenti a guardare con occhi smorti verso la foresta lontana. Sembrava che fossero tutti invalidi o ammalati, con volti, braccia e spalle deformi. Quelli che venivano spinti indietro si ritiravano per qualche metro fra gli alberi portando con sé i malati, ma gli altri rimanevano seduti dov'erano. Sembrava che non si accorgessero delle canne e dei fischietti. Sanders concluse che evidentemente non erano spinti a recarsi all'ospedale dalla speranza di trovarvi aiuto o attenzioni, ma soltanto per cercare uno scudo temporaneo da ergere tra loro e la foresta. "Max, chi diavolo...?" Sanders passò al di là della recinzione di fil di ferro. Il gruppo più vicino era a venti metri da lui, i corpi scuri quasi invisibili fra le frasche e la vegetazione del sottobosco. "Tribù mendicanti," spiegò Max, seguendo Sanders dall'altra parte della recinzione. Rispose al saluto di uno degli inservienti. "Non ti preoccupare per loro. Girano sempre da queste parti. Credimi, non cercano aiuto." "Ma, Max..." Sanders avanzò di qualche passo nella radura. Gli indigeni l'avevano fino ad allora guardato senza interesse, ma adesso, vedendo che si avvicinava, cominciarono a mostrare qualche reazione. Un vecchio con la testa gonfia si rannicchiò per terra, come per scomparire agli occhi di Sanders. Un altro, con le mani mutilate, si nascose i moncherini tra le ginocchia. Pareva che non ci fossero bambini, ma qua e là Sanders vide donne invalide che portavano piccoli fagotti legati alle spalle. Dappertutto la sua comparsa aveva provocato agitazione. Gli indigeni si muovevano lentamente senza però lasciare i loro posti, con l'atteggiamento di chi sa che non può nascondersi in alcun modo. "Max, ma questi sono..." Clair lo prese per un braccio e incominciò a tirarlo verso il recinto. "Sì, Edward, è vero. Sono lebbrosi. Ti vengono sempre dietro, non è vero? Mi dispiace che non possiamo fare niente per loro." "Ma come, Max...!" Sanders si voltò di scatto. Puntò il dito verso le corsie deserte dell'ospedale. "L'ospedale è vuoto. Perché li avete buttati fuori?" "Non li abbiamo buttati fuori." Clair distolse gli occhi dagli alberi. "Vengono da un piccolo campo... non lo si può certo definire lebbrosario. Lo dirigeva un sacerdote cattolico. Quando se n'è andato, i lebbrosi si sono dispersi nel sottobosco. Comunque il campo non funzionava molto bene, dato che tutto quello che il prete faceva per loro era pregare, e neanche tanto, a sentire quel che dicono. Adesso sono tornati... è la luce della foresta, penso..." "Ma perché non ne ricoveri qualcuno? Hai posto per qualche dozzina di pazienti." "Edward, non siamo equipaggiati per curare i lebbrosi. Anche se volessimo, non servirebbe a niente. Credimi, io devo pensare a Suzanne. Abbiamo tutti le nostre difficoltà, lo sai." "Naturalmente." Sanders riprese. "Capisco, Max. Avete fatto entrambi più del vostro dovere." Max scavalcò la recinzione e tornò sul terreno dell'ospedale. Gli inservienti si erano spinti tra gli alberi conducendo via gli ultimi lebbrosi. Battevano i vecchi e gli invalidi sulle gambe, quando si attardavano. "Mi troverai nel mio ambulatorio, Edward. Se vuoi, possiamo bere qualcosa insieme alle undici. Se esci, lascialo detto a qualcuno." Sanders lo salutò e ritornò verso la radura. Gli inservienti avevano terminato il loro lavoro e stavano ritornando al portone, con le loro canne in spalla. I lebbrosi erano tornati nelle ombre più profonde e Sanders non riusciva quasi più a scorgerli. Però gli pareva di sentire i loro occhi fissi da sotto gli alberi sulla foresta alle sue spalle, ultimo legame tra questo quasi irriconoscibile residuo di umanità e il mondo intorno a esso. "Dottore! Dottor Sanders!" Sanders si girò e vide Louise Peret che veniva verso di lui da una vettura militare ferma vicino all'ingresso dell'ospedale. La ragazza salutò il tenente francese che guardava dal finestrino del posto di guida. L'ufficiale rispose al suo saluto e ripartì. "Louise... Aragon mi aveva detto che ti avrei vista, questa mattina." Louise lo raggiunse. Rivolgendogli un grande sorriso, lo prese per un braccio. "Quasi non ti riconoscevo, Edward. Questo vestito. Sembra un travestimento." "Sento di averne bisogno in questo momento." Con una mezza risatina, Sanders indicò gli alberi a venti metri da loro, ma Louise non notò i lebbrosi seduti nell'ombra. "Aragon mi ha detto che sei rimasto imprigionato nella foresta," riprese la giovane donna guardando Sanders con occhi critici. "Ma mi sembri tutto intero. Ho parlato con il dottor Tatlin, il fisico. Mi ha spiegato tutte le sue teorie sulla foresta... Molto complicate, credimi, tutta una questione di stelle e di tempo. Vedrai, quando ti racconterò. È sorprendente!" "Ci credo." Contento di ascoltare la sua voce gaia, Sanders infilò il braccio sotto il suo e la fece girare lungo i margini della radura verso il gruppo degli chalet sul retro dell'ospedale. Dopo l'odore degli antisettici e l'atmosfera di malattia e compromesso con la vita, il passo svelto di Louise e il suo corpo fresco sembravano riportargli il sapore di un mondo perduto. La sottana e la blusa bianca della ragazza brillavano contro la polvere e gli alberi scuri con i loro spettatori nascosti. Sentendo quei fianchi premuti contro i suoi, Sanders credette quasi per un momento di starsene andando per sempre da Mont Royal, dalla foresta, dall'ospedale. "Louise!" Con una risata, Sanders interruppe il suo rapido resoconto della sera passata alla base militare "Per l'amor del cielo, smettila. Non so se te ne accorgi, ma mi stai elencando tutti gli ufficiali del campo!" "Non è vero! Cosa dici? Ehi, dove mi stai portando?" "Caffè... per te. Per me un bicchierino. Andiamo al mio chalet. Il domestico di Max ci servirà." Louise esitò. "Va bene," disse poi. "Ma quella..." "Suzanne?" Sanders si strinse nelle spalle. "Dorme." "Dorme? A quest'ora?" "Dorme sempre durante il giorno... Di notte è al dispensario. Se devo dirti la verità, l'ho vista appena solo di sfuggita." Poi, conscio che non era necessariamente la risposta che Louise si attendeva da lui, aggiunse subito: "È stato inutile venire fin qui. È stato un completo fallimento". Louise annuì a questa dichiarazione. "Bene," disse, come se fosse convinta solo per metà. "Forse è così che doveva essere. E il tuo amico... il marito?" Prima che Sanders potesse rispondere, Louise si era fermata, ghermendolo per un braccio. Sbigottita, stava indicando un punto sotto gli alberi. Lì, lontano dalla strada e dal casotto del portone, i lebbrosi si erano ritirati di pochi passi soltanto e si vedevano distintamente i loro visi. "Edward! Là, quella gente! Che cosa sono?" "Esseri umani," rispose con voce pacata Sanders. Con una punta di sarcasmo, aggiunse: "Non lasciarti spaventare". "Non sono spaventata. Ma che cosa fanno? Mio Dio... sono centinaia. Erano lì anche prima, mentre parlavamo..." "Non credo che stessero ad ascoltarci." Sanders indicò a Louise un varco nel recinto. "Poveri diavoli. Se ne stanno lì seduti come stregati." "Cosa vuoi dire? Per me?" Sanders rise di gusto. Prendendo di nuovo Louise per un braccio, la tenne salda. "Mia cara, che cosa ti hanno fatto quei francesi? Tu hai stregato me, ma temo che quella povera gente si preoccupi solo della foresta." Attraversarono il piccolo cortile ed entrarono nello chalet di Sanders. Sanders suonò il campanello per chiamare il domestico dei Clair e ordinò caffè per Louise e whisky e soda per sé. Quando il ragazzo tornò, i due si accomodarono in salotto. Sanders azionò un ventilatore al soffitto e si sfilò la giacca. "Ti togli il tuo travestimento?" gli chiese Louise. "Già." Sanders avvicinò a sé lo sgabello e si sedette davanti al divanetto. "Sono contento che tu sia qui, Louise. Con te, questo posto perde un po' del suo aspetto sepolcrale." Le prese la tazza e il piattino dalle mani. Si alzò per sedersi di fianco a lei, poi si alzò di nuovo e andò alla finestra che dava dalla parte del bungalow dei Clair. Tirò giù la veneziana di plastica. "Edward, per un uomo così insicuro della sua reale natura, mi sembri piuttosto sicuro di quel che fai." Louise lo guardava divertita. Sanders si sedette di nuovo al suo fianco. Fingendo di respingere il suo braccio, la ragazza gli chiese: "Stai ancora mettendo alla prova te stesso, mio caro? A una donna piace sempre sapere qual è il ruolo che sta recitando e soprattutto in momenti come questo". Quando Sanders non disse niente, lei indicò la veneziana. "Mi pareva che avessi detto che dorme. Oppure qui i vampiri volano di giorno?" Sanders le prese il mento nella mano per interrompere la sua risata. "Il giorno e la notte... Ma contano ancora qualcosa?" Pranzarono insieme nello chalet. Più tardi, Sanders le descrisse la sua esperienza nella foresta. "Louise, ricordo che quando arrivai a Port Matarre tu mi dicesti che era il giorno dell'equinozio di primavera. Naturalmente, non ci avevo pensato prima, ma adesso capisco come tutto nel mondo intorno a questa foresta sia sempre stato diviso tra luce e tenebre... A Port Matarre lo si vedeva chiaramente, nella strana luce sotto i portici e nella giungla intorno alla città, e anche nella gente, ciascuno il gemello oscuro di un suo identico chiaro, o viceversa. A ripensarci, mi pare che tutto abbia il suo riflesso opposto... Ventress con il suo vestito bianco e Thorensen, il proprietario della miniera, con la sua banda di negri. Si combattono adesso sul corpo di quella donna morente, in qualche punto della foresta. Poi ci siete Suzanne e tu. Tu non l'hai ancora conosciuta, ma lei è il tuo esatto opposto, elusiva, tenebrosa. Quando tu sei arrivata questa mattina, Louise, ho avuto quasi l'impressione che stessi scendendo dal sole. E poi c'è Balthus, il prete, con quella sua faccia che sembra una maschera di morte... Ma Dio solo sa chi è il suo gemello contrario." "Forse sei tu, Edward." "Potresti aver ragione... Io credo che Balthus stia cercando di liberarsi di quanto gli resta della sua fede, così come io cerco di fuggire da Fort Isabelle e dal lebbrosario... Radek mi aveva indicato questa spiegazione, poveraccio." "Ma questa visione, Edward, tra bianco e nero... perché? Io credo che il loro significato sia solo quello che uno vuole attribuire." "Davvero? Io sospetto che ci sia qualcosa di più. Può esserci anche una distinzione fondamentale tra luce e buio che noi ereditiamo dalle primissime creature viventi. Del resto, la reazione alla luce è una reazione a tutte le possibilità della vita. Per quel che ne sappiamo, questa divisione è la più impellente che ci sia, forse è l'unica rinvigorita giorno dopo giorno per centinaia di milioni di anni. Per dirla nella maniera più semplice, è il tempo che la perpetua. E adesso che il tempo si ritira, incominciamo a vedere i contrasti molto più chiaramente. Non è questione di identificare nozioni morali col concetto di luce e tenebra. Io non prendo le parti né di Ventress, né di Thorensen. Presi isolatamente, sono grotteschi entrambi, ma forse la foresta li riunirà. Là nel regno degli arcobaleni, niente è distinguibile da nient'altro." "E Suzanne... la tua tenebrosa signora... che cosa significa per te, Edward?" "Non ne sono sicuro... È evidente che rappresenta in qualche maniera il lebbrosario e il suo significato, qualunque esso sia... il lato buio dell'equinozio. Credimi, adesso riconosco che le motivazioni che mi avevano spinto a lavorare al lebbrosario non erano del tutto umanitarie, ma limitarmi ad accettare questo fatto non mi è d'aiuto. Naturalmente c'è anche un lato buio della psiche, e immagino che tutto ciò che si possa fare sia di trovare l'altro lato e cercare di riconciliare i due... È quello che succede là fuori, nella foresta." "Quanto tempo ti trattieni?" gli domandò Louise. "A Mont Royal?" "Ancora qualche giorno. Non posso andarmene in questo momento. Dal mio punto di vista, l'essere venuto qui è stato un vero buco nell'acqua... ma li ho visti appena, tutti e due, e può darsi che abbiano bisogno del mio aiuto." "Edward..." Louise si avvicinò alla finestra. Alzò la veneziana facendo entrare la luce del pomeriggio. Stagliati contro il sole, il suo vestito bianco e la sua pelle pallida divennero improvvisamente scuri. Mentre giocava con la corda, aprendo e chiudendo le stecche, la sua figura veniva illuminata ed eclissata, come un'immagine che comparisse e scomparisse dietro un otturatore. "Edward, c'è una lancia militare che torna a Port Matarre domani. Nel pomeriggio. Ho deciso di andare." "Ma, Louise..." "Devo andare." Si voltò a guardarlo, col mento sollevato. "Non c'è nessuna speranza di ritrovare Anderson... ormai dev'essere morto... E io sono impegnata con l'agenzia. Devo scrivere la mia storia." "Storia? Ma, cara, queste cose sono diventate irrilevanti." Sanders andò a prendere la bottiglia di whisky. "Louise, io speravo che tu potessi restare con me..." Si interruppe quando capì che Louise lo stava mettendo alla prova. Malgrado quel che aveva detto Suzanne, sapeva che sarebbe rimasto con lei e con Max, per qualche tempo. Se mai, la lebbra di Suzanne aveva acuito il suo bisogno di rimanerle vicino. Nonostante la sua evanescenza della notte prima, Sanders sapeva di essere l'unica persona che poteva comprendere la reale natura di ciò che l'affliggeva e il suo significato per entrambi. A Louise che stava prendendo la sua borsetta disse: "Chiederò a Max di chiamare la base e di farti mandare una macchina". Durante il resto del pomeriggio, Sanders rimase nello chalet a guardare la corona di luce che si estendeva sulla foresta in lontananza. Dietro di lui, oltre il recinto, i lebbrosi erano di nuovo avanzati tra gli alberi. Mentre la luce del pomeriggio si spegneva, la lucentezza del sole indugiava nell'aria, trattenuta dai cristalli della foresta, e i vecchi e le donne venivano fuori dagli alberi ad aspettare, simili a fantasmi frementi. Dopo il tramonto Suzanne riapparve. Se avesse veramente dormito, o se fosse rimasta seduta nella sua stanza come Sanders dietro le persiane chiuse, non c'era modo di sapere. Comunque, a cena, sembrò più chiusa in se stessa della sera precedente. Mangiò con movimenti tesi, come se si sforzasse di mandare giù cibo del tutto privo di sapore. Aveva già finito tutte le portate, quando Sanders e Max stavano ancora chiacchierando sui loro bicchieri di vino. La tenda di velluto nero, che aveva alle spalle, tirata ovviamente su quell'unica finestra a beneficio di Sanders, ingoiava la tunica scura che Suzanne indossava, rendendola invisibile nella fioca luce. Dal capo del tavolo, dove Suzanne aveva fatto sedere Sanders, perfino la maschera di cipria sul suo viso gli appariva come una macchia velata. "Max ti ha fatto vedere l'ospedale?" gli chiese Suzanne. "Spero ti abbia fatto una buona impressione." "Ottima," rispose Sanders. "Non ci sono pazienti." Poi aggiunse: "Mi meraviglia che tu abbia da fare al dispensario". "Durante la notte vengono molti indigeni," spiegò Max. "Di giorno se ne stanno fuori, vicino alla foresta. Uno degli autisti mi ha detto che stanno incominciando a portare malati e moribondi dell'area colpita. Una specie di mummificazione istantanea, suppongo." "Ma assai più splendida," intervenne Suzanne. "Come una mosca nell'ambra delle proprie lacrime o un fossile vecchio di milioni di anni, che fa del suo corpo un diamante per noi. Spero che l'esercito li lasci passare." "Non possono fermarli," ribatté Max. "Se questa gente desidera suicidarsi, è affare loro. L'esercito è comunque troppo occupato a evacuare se stesso." Max si rivolse a Sanders. "È quasi comico, Edward. Non fanno in tempo a mettere il campo in un posto, che devono tirare su tutto e spostarsi di altri quattrocento metri." "A che velocità si espande l'area?" "Circa trenta metri al giorno, o più. Secondo la radio dell'esercito, si sta arrivando al panico nell'area colpita della Florida. Metà dello stato è stato evacuato e la zona si estende già dalle Everglades fino a Miami." Suzanne alzò il bicchiere come a brindare a questa notizia. "Te lo immagini, Edward? Un'intera città. Centinaia di alberghi bianchi trasformati in vetro colorato... dev'essere come Venezia ai tempi del Tiziano o del Veronese, o Roma con dozzine di San Pietro." Max rise. "Suzanne, a sentir te sembrerebbe la nuova Gerusalemme. Prima che tu potessi muovere un dito, temo che ti ritroveresti nelle forme di un angelo in un rosone." Dopo cena, Sanders aspettò che Clair se ne andasse per lasciarlo qualche minuto da solo con Suzanne. Ma Max tirò fuori la scatola degli scacchi dall'armadietto di legno nero e incominciò a disporre i pezzi sulla scacchiera. Mentre Sanders e Max facevano le loro mosse d'apertura, Suzanne si scusò e scivolò fuori. Sanders aspettò un'ora sperando che tornasse. Alle dieci si diede per vinto e augurò la buonanotte a Max, lasciandolo a rimuginare sulle possibili mosse finali. Non riuscendo a dormire, Sanders se ne andò in giro per lo chalet, bevendo il whisky rimasto nella caraffa. In una delle stanze vuote trovò un fascio di riviste illustrate francesi e le sfogliò, cercando di vedere se gli capitava di trovare il nome di Louise in fondo a qualche servizio. Guidato da un impulso, uscì dallo chalet e si inoltrò nelle tenebre. Andò verso la recinzione dell'ospedale. A venti metri dal fil di ferro vide i lebbrosi seduti sotto gli alberi nella luce della luna. Erano usciti allo scoperto per esporsi alla luce lunare. Uno o due si aggiravano tra le file di persone mezzo addormentate per terra o accovacciate sui loro fardelli. Nascosto nelle ombre vicino allo chalet, Sanders si girò per seguire la direzione del loro sguardo. Una vasta area di cielo luminoso sovrastava la foresta. Solo la forma bianca del Bourbon Hotel interrompeva quella luce su un lato. Sanders tornò indietro. Attraversò il cortile e si diresse verso il fil di ferro, nel punto in cui la recinzione girava in direzione dell'albergo distrutto, che adesso restava nascosto tra gli alberi. C'era un sentiero che portava da quella parte passando tra gli alberi, oltre le cave della miniera abbandonata. Sanders scavalcò la recinzione e si incamminò nell'aria buia verso l'albergo. Dieci minuti dopo, fermo in cima ai grandi scalini che scendevano tra le colonne riverse al suolo, vide Suzanne Clair che camminava nella luce della luna sotto di lui. In certi punti la zona colpita aveva attraversato la strada maestra e alcuni ciuffi d'erba lungo i bordi della strada avevano incominciato a vetrificarsi. Le foglie giallastre e brune emanavano una debole luminescenza. Suzanne camminava fra quelle erbacce, spazzando il terreno con la lunga tunica. Sanders vide che le scarpe e lo strascico dell'abito di Suzanne avevano incominciato a cristallizzarsi. Minuscoli prismi scintillavano nella luce lunare. Sanders scese gli scalini, fra i cocci di marmo tra le colonne. Suzanne si voltò e lo vide. Per un momento compì qualche passo verso la strada, poi lo riconobbe e si affrettò a risalire il vialetto pieno di erbacce. "Edward." Sanders tese le mani verso quelle di lei, temendo che la donna potesse inciampare, ma Suzanne gli premette contro il petto senza bisogno del suo aiuto. Sanders l'abbracciò. La vita e le spalle di Suzanne erano come ghiaccio e la tunica di seta gelida sotto le sue mani. "Suzanne, ho pensato che forse ti avrei trovata qui." Cercò di spingerla un po' indietro per poterla guardare in viso, ma la giovane donna era avvinghiata a lui, come una ballerina che provasse col partner un passo difficile. Teneva gli occhi fissi in un punto lontano e per questo la sua voce sembrava provenire dalle rovine dietro la spalla sinistra di Sanders. "Vengo qui tutte le notti." Indicò i piani superiori dell'albergo bianco. "Ero lì anche ieri e ti ho visto venire fuori dalla foresta! Sai una cosa, Edward? I tuoi indumenti brillavano!" Sanders annuì. Insieme risalirono il vialetto fino ai gradini. Come per ravviarsi i capelli, Suzanne si teneva una mano sulla fronte dalla parte di Sanders, mentre con l'altra stringeva una mano di lui contro il proprio fianco freddo. "Max sa che sei qui?" domandò Sanders. "Potrebbe mandare uno dei domestici a sorvegliarti." "Caro Edward!" Suzanne rise per la prima volta. "Max non sa niente. Lui dorme, pover'uomo... Si rende conto che sta vivendo ai margini di un incubo..." Si interruppe, controllandosi, nel dubbio che potesse intuire che con quelle parole alludeva alla sua condizione. "Mi riferisco alla foresta. Max non ha mai veramente capito che cosa significa. Tu, invece, hai capito, Edward. Me ne sono accorta subito." "Forse..." salirono i gradini superando le basi delle colonne cadute ed entrarono nel grande atrio. La cupola che si trovava una volta sopra la scalinata era crollata. Attraverso il buco Sanders vedeva un grappolo di stelle, ma la luce della foresta aveva per contrasto immerso l'atrio in un'oscurità quasi totale. Immediatamente sentì che Suzanne era più a suo agio. Prendendolo per mano, la donna lo guidò oltre il lampadario distrutto ai piedi delle scale. Salirono al primo piano e girarono per un corridoio alla loro sinistra. Attraverso i pannelli rotti Sanders vide le carcasse divorate dai tarli dei grandi guardaroba e dei baldacchini dei letti distrutti, come monumenti abbandonati di qualche mausoleo. "Eccoci qui." Suzanne passò attraverso la cornice di una porta chiusa a chiave ma sfondata nel mezzo. Nella stanza, dall'altra parte, il mobilio stile impero era ancora al suo posto. Uno scrittoio vicino alla finestra e un comò senza specchio inquadravano la foresta sottostante. La polvere di legno si era stesa come un velo sul pavimento dove erano visibili piccole impronte di piedi. Suzanne si sedette sul bordo del letto e aprì la sua tunica con i gesti pacati di una moglie col marito che rincasa. "Cosa ne pensi, Edward? È il mio pied-à-terre. O è troppo vicino alle nuvole perché lo possa chiamare così?" Sanders si guardò intorno nella stanza polverosa, cercando qualche traccia di Suzanne. A parte le impronte sul pavimento, di lei non c'era niente, come se il suo passaggio tra quelle camere vuote dell'albergo bianco fosse stato di uno spettro. "Mi piace questa camera," disse. "C'è una bellissima vista sulla foresta." "Vengo qui soltanto di notte. Quando la polvere sembra luce lunare." Sanders si sedette sul letto al suo fianco. Alzò gli occhi al soffitto, un po' timoroso che da un momento all'altro l'albergo potesse sbriciolarsi e precipitare in un pozzo di polvere, portandosi dietro lui e Suzanne. Attese che le tenebre si rischiarassero, conscio del contrasto che c'era tra Suzanne e quella stanza d'albergo in rovina, con il suo mobilio stile impero illuminato dalla luna, e lo chalet funzionale e illuminato dal sole dove quella mattina aveva fatto l'amore con Louise. Il corpo di Louise era rimasto adagiato di fianco a lui come un pezzo di sole, un'odalisca d'oro intrappolata nella tomba di un faraone. Lì invece teneva tra le braccia il corpo freddo di Suzanne, evitando di toccarle con le mani il viso che restava chiuso dietro un velo di oscurità, una pallida lanterna simile a una luna morente. Ricordò Ventress che gli diceva che il tempo stava venendo a mancare. E col ritirarsi del tempo, la relazione che lo legava a Suzanne, nel dileguarsi di ogni cosa, eccetto l'immagine della lebbra e il significato che questa malattia aveva nella sua mente, aveva incominciato a dissolversi nella polvere che li circondava dappertutto fuori della foresta. "Suzanne..." Sanders si raddrizzò massaggiandosi le mani infreddolite. I seni della donna gli erano parsi globi di ghiaccio. "Domani ritorno a Port Matarre. Devo ripartire." "Cosa?" Suzanne si strinse nella sua tunica nascondendo nell'oscurità il profilo bianco del suo corpo. "Ma, Edward, io credevo..." Sanders le prese una mano. "Cara, a parte tutto quello che devo a Max, ci sono anche i miei pazienti. Non posso dimenticarmi di loro." "Erano anche i miei pazienti. La foresta si espande in tutte le direzioni. Ormai non possiamo fare più niente per loro. Né tu né io." "Forse no... forse sto pensando di nuovo soltanto a me stesso... e a te, Suzanne..." Mentre Sanders parlava, Suzanne si era alzata dal letto e adesso era in piedi davanti a lui. La sua tunica nera smuoveva la polvere depositata sul pavimento. "Resta con noi per una settimana, Edward. Derain non se la prenderà. Sapeva che venivi qui. Nel giro di una settimana..." "Nel giro di una settimana potremmo essere tutti costretti ad andarcene. Credimi, Suzanne. Io sono rimasto intrappolato in quella foresta." Suzanne gli si riavvicinò, il volto sollevato e illuminato da un fascio di luce lunare. Sembrava che si accingesse a baciare Sanders sulla bocca. Ma poi Sanders si rese conto che non voleva affatto essere un gesto romantico. Suzanne aveva semplicemente deciso di mostrargli la faccia. "Edward, adesso... adesso hai capito con chi... con chi hai fatto l'amore?" Sanders le sfiorò una spalla con una mano, come per rassicurarla. "Sì, Suzanne, lo so. Ieri sera..." "Cosa?" Suzanne indietreggiò e il suo volto fu di nuovo nell'ombra. "Che vuoi dire?" Sanders la seguì dall'altra parte della stanza. "Mi dispiace, Suzanne. Certo ti sarà di ben poco conforto, ma voglio dirti che io porto in me le stesse lesioni che hai tu." Prima che riuscisse a raggiungerla, Suzanne era sgattaiolata fuori dalla porta. Sanders raccolse la giacca e la scorse che si allontanava per il lungo corridoio, diretta verso le scale. Quando Sanders arrivò nell'atrio dell'ingresso, Suzanne era già cinquanta metri davanti a lui e correva tra le colonne cadute, la sua tunica scura come un immenso velo che svolazzava per il sentiero cristallino, lasciandosi l'albergo bianco alle spalle. 12. Duello con un coccodrillo Verso mezzanotte, disteso semiaddormentato nella sua stanza in fondo allo chalet, il dottor Sanders udì i rumori distanti e confusi che provenivano dallo spiazzo dell'ospedale. Quasi troppo stanco per riuscire a prendere sonno, ma comunque stanco abbastanza per non riuscire ad ascoltare attentamente, ignorò le voci concitate e i fasci di luce dei fari della Land Rover che frugavano tra gli alberi circostanti illuminandoli. Più tardi il trambusto riprese. Qualcuno cercava di mettere in funzione il motore di un vecchio camion nel cortile. Si sentirono i colpi di tosse e gli starnuti della vecchia macchina, voci che parlavano tutte insieme, e poi un rumore di passi in corsa dentro e fuori gli chalet. A quanto pareva, tutti gli inservienti erano in piedi e giravano per le stanze dei vari edifici, sbattendo le ante degli armadi. Quando vide qualcuno che ispezionava con una torcia la vegetazione davanti alla sua finestra, Sanders si alzò dal letto e si vestì. Nella sala da pranzo dello chalet trovò uno dei giovani servitori che guardava dalla finestra aperta verso la foresta. "Cosa succede?" domandò il dottor Sanders. "Cosa diavolo ci fai qui? Dov'è il dottor Clair?" Il ragazzo puntò il dito verso il cortile. "Dottor Clair con camion, signore. Guai in foresta. Andato a vedere." "Che tipo di guai?" Sanders si avvicinò alla finestra. "La foresta si sta avvicinando?" "No, signore, non si avvicina. Dottor Clair dice voi dormire, signore." "Dov'è la signora Clair? È qui?" "No, signore. Signora Clair occupata adesso." "Cosa vuoi dire?" insisté il dottor Sanders. "Credevo che fosse in servizio l'intera notte. Coraggio, vuoi dirmi una volta per tutte che cosa succede?" Il ragazzo era titubante. Le sue labbra parvero comporre silenziose le formule cortesi che Max Clair gli aveva lasciato a uso e consumo di Sanders. Stava per borbottare qualcosa, quando un rumore di passi attraversò il cortile. Sanders andò alla porta e vide Max Clair che veniva verso di lui, seguito da due inservienti. "Max! Che succede... state evacuando?" Clair si fermò davanti a lui. Teneva la bocca serrata, il mento abbassato. Il sudore della sua fronte brillava nella luce della torcia. "Edward... Suzanne è lì con te?" "Cosa?" Sanders indietreggiò, facendo segno a Clair di entrare. "Max... è sparita? Dov'è andata?" "Se solo lo sapessi..." Clair arrivò alla porta. Diede un'occhiata all'interno, indeciso se accettare l'invito di Sanders. "Se n'è andata un paio d'ore fa, Dio solo sa dove... Non l'hai vista?" "L'ho vista questa sera sul presto." Sanders incominciò ad abbottonarsi i polsini della camicia. "Andiamo, Max. Dobbiamo cercarla." Clair alzò una mano. "No, tu no, Edward. Ho già abbastanza problemi, credimi. Ci sono un paio di insediamenti su tra le colline," spiegò poco convinto. "Può darsi che sia andata a visitare gli ambulatori. Tu rimani qui e cerca di tenere l'ospedale sotto controllo. Prendo la Land Rover con un paio di uomini. Gli altri possono andare col camion a tenere d'occhio il Bourbon Hotel." Sanders fece per protestare, ma Max si girò e se ne andò. Sanders lo seguì nel vialetto e lo osservò salire in macchina. Il dottore si rivolse al domestico: "Allora è ritornata nella foresta... povera donna!". Il ragazzo lo fissò. "Voi sapete, signore?" "No. Ma ne sono sicuro lo stesso. Tutti noi abbiamo qualcosa che non possiamo sopportare che ci venga ricordato. Di' all'autista del camion di aspettare. Può darmi un passaggio fino all'albergo." Il ragazzo lo prese per un braccio. "Voi andate, signore... alla foresta?" "Certamente. Lei è là... È un giudizio su me stesso che devo accettare." Il vecchio motore del camion aveva incominciato a girare, facendo vibrare tutto l'ospedale. Mentre Sanders si arrampicava sul pianale, il veicolo partì e passò lentamente intorno alla fontana. Una mezza dozzina di assistenti indigeni era seduta dietro all'autista. Pochi minuti dopo raggiunsero la strada maestra. Il sordo rombo del motore si sparse nell'oscurità, mentre il veicolo si dirigeva verso lo scheletro bianco del Bourbon Hotel. Il camion si fermò in un vialetto invaso dall'erbaccia, puntando i fari verso la foresta. La luce dilagò tra quegli alberi cristallini, simile a una cascata enorme di vetri rotti. I prismi bianchi scintillarono fino al fiume, settecento metri più a sud. Il dottor Sanders saltò giù e si avvicinò all'autista. Nessuno degli uomini aveva visto Suzanne andarsene, ma da come osservavano attentamente la foresta davano tutti ovviamente per scontato che la donna si fosse inoltrata fra quegli alberi. Comunque, dal confuso aggirarsi degli uomini intorno al camion, era egualmente ovvio che nessuno di loro aveva intenzione di seguire Suzanne. Quando Sanders insisté perché l'autista ripartisse, questi rispose borbottando e facendo allusioni a certi "fantasmi bianchi" che si aggiravano tra i recessi della giungla. Forse si trattava di improvvise e brevi apparizioni di Ventress e di Thorensen, l'uno all'inseguimento dell'altro, o di Radek che si trascinava verso la sua tomba perduta. Cinque minuti dopo, quando vide che il drappello dei ricercatori non aveva alcuna intenzione di mettersi in marcia, di fronte all'autista che insisteva nel voler rimanere accanto al suo riflettore e mentre gli altri si erano raccolti al Bourbon Hotel, accovacciati tra le colonne cadute, a fumare i loro sigari, il dottor Sanders partì da solo a piedi per la strada. Alla sua sinistra, lo sfavillio della foresta superava la fredda luce della luna sul macadam sotto i suoi piedi e illuminava l'accesso di una stradina che si inoltrava in direzione del fiume. Sanders guardò da quella parte, lungo il varco che si allontanava dal mondo illuminato. Per un momento esitò, restando in ascolto dei mormorii degli indigeni dietro di lui. Poi si ficcò le mani nelle tasche e si incamminò ai bordi della strada, attento a dove metteva i piedi tra gli speroni di vetro che fuoriuscivano dal terreno. Di lì a quindici minuti era arrivato al fiume. Attraversò un ponte in rovina, inclinato fino a confondersi con la superficie ingioiellata del corso d'acqua, come una ragnatela di preziosi fatta di travi d'argento. La superficie bianca del fiume scendeva tortuosa tra gli alberi ghiacciati. I pochi natanti lungo le sponde erano ormai incrostati a tal punto che era difficile riconoscerne le forme. La loro luce sembrava più scura e più intensa, come se volessero custodire all'interno la loro brillantezza. Il vestito di Sanders aveva ripreso a scintillare nell'oscurità. Sulla stoffa il pulviscolo di brina aveva incominciato a formare punte di cristallo. Dovunque il processo di cristallizzazione era più avanzato, e le sue scarpe erano già avvolte da grappoli di prismi. Mont Royal era deserta. Attraversando a passo incerto le strade vuote, intorno alle quali scaturivano gli edifici bianchi simili a sepolcri, Sanders arrivò al porticciolo. Si fermò sul molo, da cui vedeva la superficie pietrificata del fiume fino alla cataratta. La cascata era diventata ancora più alta e formava un'impenetrabile barriera posta tra lui e l'esercito del Sud. Poco prima dell'alba, Sanders ripeté l'attraversamento della città, nella speranza di trovare la residenza estiva dove avevano cercato riparo Thorensen e la sua sposa morente. Passò vicino a una piccola zona di marciapiede ancora liscio, sotto la finestra rotta di uno dei depositi blindati delle miniere. Lì erano sparse per terra manciate di anelli di rubini e smeraldi, spille e orecchini di topazi, mescolati a un numero indefinito di pietre più piccole e diamanti industriali. Questo bottino abbandonato scintillava di una luce fredda sotto la luna. Mentre se ne stava fermo a osservare le pietre, Sanders notò che i cristalli formatisi sulle sue scarpe si stavano dissolvendo, sciogliendosi come ghiaccioli esposti improvvisamente a una fonte di calore. Pezzetti di crosta cadevano a terra e si liquefacevano, svanendo subito nell'aria. Allora capì perché Thorensen avesse portato pietre preziose alla giovane donna e perché lei le avesse afferrate con tanta bramosia. Per qualche bizzarro effetto ottico o elettromagnetico, la luce intensa e compatta contenuta nelle pietre provocava simultaneamente una compressione del tempo, così che la scarica di luce emessa dalla loro superficie invertiva il processo di cristallizzazione. Forse era questa dote temporale che spiegava l'eterna attrazione delle pietre preziose, la stessa dei dipinti e dell'arte barocca. Tutti questi intricati ornamenti, quei cartigli architettonici che occupavano ben più che il loro volume fisico nello spazio, allo stesso modo davano l'impressione di godere di un tempo più lungo, da cui quell'inequivocabile sensazione di immortalità che si avvertiva in San Pietro e nel palazzo di Nymphenburg. Per contrasto, l'architettura del ventesimo secolo, caratteristica per le sue strutture rettangolari e spoglie di decorazioni, basata su semplici assi euclidei di spazio e tempo, apparteneva al Nuovo Mondo, dove l'uomo era fiducioso del suo progredire nel futuro e indifferente alle intuizioni della moralità che turbavano la mente della vecchia Europa. Il dottor Sanders si inginocchiò e si riempì le tasche di gemme, ficcandole nella camicia e nei polsini. Si sedette appoggiandosi alla parete dell'edificio. Quel semicerchio di marciapiede levigato sembrava un patio in miniatura, delimitato tutt'intorno dagli spuntoni di cristallo che brillavano con l'intensità di un giardino spettrale. Premute contro la sua pelle fredda, le dure sfaccettature delle gemme gli davano un senso di calore. Di lì a pochi secondi, improvvisamente esausto, si addormentò. Si svegliò nella luce brillante del sole in una strada di templi, dove gli arcobaleni attraversavano l'aria dorata in fasci di colori. Facendo scudo agli occhi con la mano, Sanders si sdraiò a guardare verso i tetti. Le tegole d'oro, tempestate di file e file di gemme colorate, sembravano i padiglioni del quartiere dei templi di Bangkok. Una mano lo scosse per una spalla. Mentre cercava di mettersi a sedere, Sanders vide che il semicerchio di marciapiede levigato non c'era più. Adesso giaceva su un letto di aghi appuntiti. Le efflorescenze si erano sviluppate più rapidamente sull'entrata del deposito, e ora il suo braccio destro era incastonato in un ammasso di speroni cristallini lunghi una decina di centimetri che gli arrivavano fino alla spalla. Dentro quella guaina fossilizzata, quasi troppo pesante perché riuscisse a spostarla, le sue dita erano un intrico di arcobaleni. Sanders riuscì a tirarsi sulle ginocchia e si strappò via alcuni dei cristalli. Allora vide l'ometto barbuto vestito di bianco accosciato di fianco a lui, con il fucile tra le mani. "Ventress!" Con un grido Sanders levò il braccio ingioiellato. Nella luce del sole, le gemme che si era ficcato nel polsino brillarono nei tessuti espansi del suo braccio come stelle incastonate. "Ventress! Per l'amor di Dio!" Il suo grido distrasse Ventress dal suo esame della strada piena di luce. La piccola faccia dagli occhi scintillanti era stata trasfigurata da strani colori che gli macchiavano la pelle, mettendo in risalto le venature azzurrognole e violette della sua barba. Dal suo vestito si irradiavano mille bande di colore. Ventress si inginocchiò accanto a Sanders cercando di rimettergli a posto i pezzi di cristallo che il medico si ora strappato via dal braccio. Prima che potesse dire qualcosa, si udì un'esplosione e il reticolo di vetro che incrostava la soglia del deposito si schiantò in una pioggia di frammenti. Ventress si buttò dietro a Sanders e poi trascinò dentro il medico attraverso una finestra. Si udì un nuovo colpo provenire dall'altro lato della strada, e Ventress e Sanders si lanciarono di corsa tra i banchi saccheggiati infilandosi in una camera blindata. Trovarono una cassaforte con lo sportello aperto. All'interno erano ammucchiate varie scatole metalliche. Ventress ribaltò in fretta le scatole sui vassoi e raccolse subito i pochi, piccoli gioielli finiti per terra. Li ficcò tutti nelle tasche di Sanders. Poi trascinò il medico attraverso la finestra nel vicolo sul retro del deposito, e da lì nella strada vicina, trasformata dai reticoli cristallini in una galleria di luce vermiglia. Si fermarono al primo angolo. Lì Ventress indicò a Sanders la foresta che distava da loro una cinquantina di metri. "Correte! Correte più in fretta che potete! Non importa dove! Attraverso la foresta! Non potete fare altro!" Col calcio del fucile spinse Sanders in avanti. L'estremità posteriore dell'arma era incrostata da un ammasso di cristalli argentei, come le decorazioni di un archibugio medioevale. Sanders alzò il braccio. Le escrescenze cristalline danzarono nella luce del sole come uno sciame di lucciole. "Il braccio, Ventress! Mi è arrivato alla spalla!" "Correte! Non c'è altro che possa aiutarvi!" Il volto illuminato di Ventress scintillava di collera, come se l'ometto fosse spazientito davanti al rifiuto di Sanders ad accettare la foresta. "Non sprecate le pietre. Non dureranno per sempre!" Costringendosi a correre, Sanders partì verso la foresta inoltrandosi sotto la prima delle volte di luce. Agitava il braccio facendolo roteare come una goffa elica, e sentì che i cristalli diminuivano leggermente. Con un po' di fortuna raggiunse presto un piccolo affluente del fiume che veniva dal porticciolo e vi si buttò sopra, come un pazzo, correndo sulla superficie vetrificata. Corse per ore attraverso la foresta avendo perso ogni senso del tempo. Se si fosse fermato per più di un minuto il fascio di cristalli gli avrebbe preso il collo e la spalla. Si sforzò di proseguire, fermandosi soltanto per lasciarsi andare esausto sulle spiagge di vetro. Poi, si premette i gioielli contro la faccia, come per proteggersi dalla guaina lucente. Ma la forza dei cristalli si stava spegnendo e le sfaccettature diventavano opache, trasformandosi in nodi di silice grezza. Intanto le pietre chiuse dentro i tessuti cristallizzati del suo braccio brillavano di una luce costante. Finalmente, mentre correva tra gli alberi vicino al fiume facendo roteare il braccio, vide la guglia dorata della residenza estiva. Procedendo a fatica sulla sabbia fusa, si diresse da quella parte. Ormai la vetrificazione della foresta aveva sigillato l'abitazione tra gli alberi che la circondavano. Erano rimasti liberi soltanto i gradini della soglia. Per Sanders, comunque, c'era ancora una debole speranza di salvezza in quel rifugio. Il balcone era ornato di strani disegni araldici, opera di qualche bizzarro architetto. Sanders si fermò a pochi metri dai gradini e osservò la porta ostruita. Si girò a guardare lungo il corso serpentino del fiume. La superficie ingioiellata del corso d'acqua scintillava nella luce del sole, marmorea come la crosta rosea di un lago di sale. A duecento metri di distanza il motoscafo di Thorensen era ancora fermo nell'insenatura di acqua chiara alla confluenza delle correnti sotterranee. Mentre guardava l'imbarcazione, Sanders scorse due uomini che si muovevano sul ponte di prua. Erano in parte nascosti dal cannone davanti all'albero maestro. Ma uno dei due era certamente Kagwa, l'assistente di Thorensen. Infatti l'indigeno era diviso quasi perfettamente per metà dalle bende che gli ricoprivano tutto un lato del corpo di bianco, lasciandogli l'altro lato nudo. Sanders fece alcuni passi verso il motoscafo, indeciso se arrivare al margine della superficie vetrificata e attraversare a nuoto lo specchio d'acqua. Anche se i cristalli avrebbero probabilmente incominciato a dissolversi nell'acqua, temeva che il loro peso l'avrebbe trascinato sul fondo. Dalla canna del cannone scaturì un lampo di luce. Un attimo dopo, con un leggero tremore del terreno, Sanders intravide una palla di otto centimetri che attraversava l'aria verso di lui. Il proiettile passò con un sibilo acuto sopra la sua testa e andò a piantarsi con fragore tra gli alberi pietrificati a venti metri dalla casa estiva. Il cupo rimbombo dell'esplosione seguì il proiettile. Rimbalzando sulla superficie dura del fiume, l'eco urtò contro le pareti della foresta, frastornando Sanders. Non sapendo più da che parte andare, Sanders corse verso una macchia di sottobosco vicino ai gradini della casa estiva. Si inginocchiò e cercò di nascondere il braccio tra le fronde cristalline. I due indigeni a bordo dell'imbarcazione stavano ricaricando il cannone. Quello in ginocchio, intento a far andare su e giù lo scovolo nella canna, era il mulatto. "Sanders..." La voce bassa, poco più di un mormorio contratto, proveniva da un punto a pochi metri alla sinistra di Sanders. II medico si girò, cercando di sbirciare verso la porta sigillata della casa stiva. Allora, da sotto i gradini, vide comparire una mano che gli faceva un segnale. "Qui! Sotto la casa!" Sanders corse verso i gradini. Nello stretto spiraglio sotto la piattaforma che faceva da basamento alla residenza estiva, Ventress era rannicchiato dietro uno degli appoggi con il fucile in mano. "Giù! Prima che vi sparino di nuovo!" Sanders scivolò all'indietro nel pertugio e Ventress lo aiutò tirandolo per una scarpa e torcendogli il piede con uno scatto irritato. "Giù! Perdio, Sanders! Ci trovate gusto a rischiare la pelle!" La sua faccia maculata si avvicinò a Sanders che si stava sistemando contro il fianco del basamento. Poi Ventress tornò a guardare il fiume e il motoscafo. Il suo archibugio era appoggiato davanti a lui. La canna intarsiata rifletteva ogni movimento della luce. Sanders si guardò intorno, chiedendosi se Thorensen avesse portato Serena con sé, abbandonando la casa, nella speranza di intrappolarvi Ventress... o se quest'ultimo fosse arrivato in tempo, dopo l'attacco di quella mattina nelle strade di Mont Royal. Le assi di legno sopra di loro si erano vetrificate ed erano dure come rocce, ma nel centro si vedevano ancora le fessure di una botola. Ventress gliela indicò. "Tra poco lascerò provare anche voi. È un lavoraccio." Sanders si trascinò in avanti. Alzò il braccio e si girò in modo da poter guardare verso il fiume. "Serena... vostra moglie... è ancora qui?" Ventress alzò gli occhi alle travi sopra di loro. "Sarò con lei tra poco. È stata una lunga ricerca." Poi tornò a guardare lungo la canna del suo fucile, esaminando i ciuffi di vetro colorato che costeggiavano le sponde. Dopo un po' disse: "Allora l'avete vista, Sanders?". "Soltanto per un minuto. Ho detto a Thorensen di portarla via da qui." Abbandonato il suo fucile, Ventress si trascinò fino a Sanders. Inginocchiato nel vano, fissò Sanders negli occhi. "Sanders, ditemi... non l'ho ancora vista! Mio Dio!" Batté sulle travi di legno, mandando un'eco per tutto il basamento. "Sta... bene," disse Sanders. "Dorme quasi sempre. Come siete arrivato fin qui?" Con la mente altrove, Ventress continuò a fissarlo per un lungo momento, poi tornò carponi al suo fucile. Fece segno a Sanders di guardare più avanti indicando la sponda a venti metri. Supino sull'erba, ormai fuso insieme con il sottobosco e gli spuntoni che gli uscivano dal corpo cristallizzato, giaceva uno degli uomini di Thorensen. "Povero Thorensen," mormorò Ventress. "Uno per uno, lo stanno lasciando tutti. Tra poco resterà solo, Sanders." Ci fu un'altra vampata dalla bocca del cannone sul motoscafo. L'imbarcazione indietreggiò leggermente nell'acqua e la palla d'acciaio compì un arco nell'aria, andando a colpire gli alberi a cento metri dalla casa estiva. Mentre il rimbombo dell'esplosione si spegneva sul fiume facendo tremare la balaustra del balcone, Sanders notò la luce emanata dal suo braccio in una serie di dolci pulsazioni. La superficie del fiume si mosse e si fermò, lanciando lame di luce carminio nell'aria. Kagwa e il mulatto si erano inginocchiati di nuovo presso il cannone e lo stavano ricaricando. Sanders disse: "Che pessima mira. Ma Serena... Se è davvero ancora qui, perché cercano di colpire la casa?". "Non è quel che stanno facendo, amico mio." Ventress stava osservando il sottobosco lungo le sponde, come per assicurarsi che Thorensen non stesse cercando di giocargli qualche tiro avvicinandosi alla casa mentre lui era distratto dal fuoco dell'artiglieria. Dopo un momento, apparentemente soddisfatto, si rilassò. "Ha diversi progetti per il suo cannone. La sua idea è di smuovere il lastrone del fiume con il rumore delle esplosioni. Allora potrà portare la barca più vicino alla casa e stanarmi da qui a cannonate." Infatti, per tutta l'ora successiva, l'aria tranquilla fu scossa a intervalli da una serie di cupe esplosioni. I due negri lavoravano senza tregua al cannone, e ogni cinque minuti circa scaturiva una fiammata e una palla d'acciaio passava sul fiume. Rimbalzando tra le sponde e gli alberi, l'eco delle esplosioni tracciava saette color rosso vivo sulla superficie pietrificata. Ogni volta il braccio ingioiellato di Sanders e il vestito di Ventress irradiavano tutt'intorno vivaci arcobaleni. "Che cosa ci fate voi qui, Sanders?" domandò Ventress durante una delle pause. Non c'era traccia di Thorensen, e Kagwa e il mulatto lavoravano per conto proprio. Ventress era ritornato sotto la botola e con una baionetta stava intaccando i cristalli, fermandosi ogni tanto per premere la testa contro il basamento e restare in ascolto di eventuali rumori che provenissero dall'interno della casa. "Credevo che ve ne foste andato." "La moglie di un mio collega, Suzanne Clair, è scappata nella foresta questa notte. È stata in parte colpa mia." Sanders guardò l'involucro di cristallo che racchiudeva il suo braccio. Non dovendo più portarsi dietro quell'enorme peso in corsa, gli pareva che l'escrescenza mostruosa ora fosse meno impressionante. Sebbene i tessuti cristallini fossero freddi come ghiaccio, e gli fosse impossibile muovere anche impercettibilmente le dita e il polso, i nervi e i tendini sembravano aver acquistato una vita nuova e brillavano di una luce compatta. Solo lungo l'avambraccio, dove aveva strappato alcuni cristalli, gli pareva di provare delle sensazioni. Ma anche lì, non era vero dolore, quanto un senso di calore, a mano a mano che i cristalli si dissolvevano. Un'altra esplosione rimbombò sul fiume. Ventress buttò via la baionetta e strisciò di nuovo al suo posto vicino ai gradini. Sanders guardava l'imbarcazione. Era sempre ormeggiata alla foce del fiumiciattolo, ma Kagwa e il mulatto avevano abbandonato il cannone scomparendo all'interno. Evidentemente era stata sparata l'ultima bordata. Ventress puntò il dito ossuto verso il fumo che saliva dalla poppa. Il motoscafo d'altura incominciò a far manovra. Quando si fu messo di fianco e i finestrini della cabina si vennero a trovare dalla loro parte, ambedue videro un uomo alto e biondo al timone. "Thorensen!" Ventress si trascinò in avanti, il piccolo corpo rannicchiato con le ginocchia premute contro il petto. Sanders afferrò la baionetta con la mano sinistra. Il motoscafo si muoveva sul fiume in retromarcia e il fumo dello scappamento scivolava lungo la carena. Si fermò e si raddrizzò. A tutta forza, il grosso motoscafo balzò in avanti e la prua si sollevò sull'acqua placida. Un tratto di cinquanta metri lo separava dal margine più vicino alla crosta pietrificata. Quando cambiò rotta puntando su uno dei crepacci che si erano aperti dopo il bombardamento, Sanders ricordò quando Thorensen era andato a esaminare le crepe della superficie dopo che Ventress era sfuggito all'attacco del mulatto. Avanzando a venti nodi, il motoscafo d'altura si scagliò contro la lastra che ricopriva lo specchio d'acqua e poi passò attraverso il cristallo sottile come un rompighiaccio, allontanando di forza i blocchi dalla sua rotta. Dopo trenta metri rallentò. Alcuni grossi banchi di ghiaccio si erano accumulati davanti alla prua, e il motoscafo si girò di lato fermandosi. Il ponte si rianimò, quando gli uomini a bordo si misero a lottare ai comandi. Ventress mirò ai finestrini della cabina. A novanta metri il grosso motoscafo era assolutamente fuori portata. Tutt'intorno all'imbarcazione erano comparse sulla superficie del fiume grandi crepe, e la vivida luce color carminio macchiava il ghiaccio circostante come rivoli sanguigni. Gli alberi della sponda fremevano ancora per l'urto del motoscafo contro il ghiaccio, diffondendo luce dai rami come liquidi germogli. Dopo una pausa, il motoscafo indietreggiò di qualche metro e ripercorse a ritroso il varco che aveva aperto. Retrocesso di cinquanta metri, all'imboccatura dello specchio d'acqua si fermò e ripuntò la prua. Mentre scattava di nuovo in avanti sollevandosi sull'acqua, Ventress si ficcò una mano sotto la giacca. Dalla fondina che portava sotto l'ascella tirò fuori l'automatica che Sanders aveva fatto passare alla dogana. "Prendete questa!" Ventress puntò di nuovo il fucile sul motoscafo che si avvicinava, gridando a Sanders da sopra il calcio dell'arma: "State attento alla sponda dalla vostra parte! Io tengo d'occhio Thorensen!". Questa volta l'avanzata del grosso motoscafo fu interrotta più bruscamente della prima. Urtando contro banchi più spessi, scagliò una mezza dozzina di giganteschi blocchi di cristallo sulla superficie del fiume. Poi si fermò con un tremito, chinato su un fianco di quindici gradi e col motore che saliva di giri. Gli uomini a bordo finirono per terra nella cabina di comando. Dovettero passare diversi minuti prima che il motoscafo si raddrizzasse e tornasse lentamente indietro per il varco aperto. La terza volta l'imbarcazione a motore partì più lentamente. La prua tagliò la superficie del fiume e poi spinse via i blocchi di cristallo. Sanders era accovacciato dietro a uno degli appoggi di legno e aspettava che il mulatto facesse fuoco col cannone prima che il motoscafo si trovasse a tiro di Ventress. Era ormai a poco più di sessanta metri dalla residenza estiva e il ponte torreggiava sopra di loro. Però Ventress sembrava tranquillo e sorvegliava le sponde nell'eventualità di un attacco di sorpresa. Il terreno sotto la casa tremava, ogni volta che il grosso motoscafo attaccava la banchisa di cristallo. Nell'aria si librava il fumo del tubo di scappamento, alterando la fragranza della brezza. Ogni volta il motoscafo si avvicinava di qualche metro in una fontana di schegge bianche. Intanto lo scafo era stato avviluppato da uno strato sottile di brina e il mulatto spaccò i finestrini cristallizzati della cabina con il calcio del fucile. Le ringhiere del ponte erano ricoperte di piccole escrescenze di cristallo. Ventress si spostò per tentare di sparare agli uomini che si trovavano nella cabina, ma le teste restavano nascoste dietro ai vetri rotti. Scaraventati sulla superficie del fiume, i blocchi di umidi cristalli venivano sospinti lontano dal motoscafo. Alcuni pezzi incominciarono a scivolare fino ai gradini della casa estiva. "Sanders!" Ventress si rizzò per metà in piedi esponendo la faccia e il petto. "Si sono arenati!" A trenta metri da loro, la prua danneggiata si era incastrata in un crepaccio fra due banchi di cristallo e il motoscafo rollava leggermente. Con un ultimo ruggito il motore si spense in un gemito. Immobile, il motoscafo d'altura era lì davanti a loro. La brina leggera lo stava già trasformando in una bizzarra torta di nozze. Oscillò ancora un paio di volte, come se qualcuno stesse lavorando a poppa con un remo o un grappino. Ventress teneva il fucile puntato sulla cabina. Tre metri alla sua destra, Sanders teneva l'automatica in una mano e l'altro braccio appoggiato per terra, scintillante nella sua vita cristallina. Aspettarono insieme che Thorensen facesse una mossa. Per mezz'ora il motoscafo rimase in silenzio, mentre la brina si faceva più densa sulla tolda. Creste e spirali si formarono sui finestrini della cabina e ornarono le ringhiere del ponte e i boccaporti. La prua danneggiata brulicava di luce, come la dentatura di una balena congelata. Sotto la cabina il cannone si era trasformato in un'arma medioevale, la culatta decorata di corni e creste. La luce del pomeriggio stava scemando. Sanders osservava la sponda alla sua destra, dove i colori vivaci si erano incupiti al calare del sole dietro gli alberi a occidente. Poi, tra le efflorescenze bianche dell'erba, vide una lunga creatura d'argento che avanzava strisciando sulla sponda. Ventress venne ad accovacciarsi di fianco a lui e scrutò nella luce fioca. Insieme rimasero a guardare il muso ingioiellato e le zampe piegate nell'armatura di cristallo. Il coccodrillo scivolava lentamente sullo stomaco nelle sue antiche movenze di rettile. Lungo almeno cinque metri, sembrava che si spingesse in avanti più con la coda che con le zampe. La zampa anteriore sinistra pendeva inerte nell'aria, inguainata nei cristalli. Col movimento del corpo, la luce scaturiva dagli occhi smerigliati e dalle fauci semiaperte tempestate di gioielli. L'animale si fermò come se avesse avvertito la presenza dei due uomini sotto la casa. Poi riprese la sua marcia. A un paio di metri da loro si fermò una seconda volta, manovrando debolmente le mascelle e frantumando l'erba con i sussulti del corpo. Con un remoto senso di compassione per questo mostro chiuso nella sua armatura di luce, incapace di capire la propria trasfigurazione, Sanders fissava gli occhi vacui su quelle fauci aperte. Poi, quando i denti ingioiellati scintillarono verso di lui, Sanders si accorse che stava guardando il foro della canna di un fucile. Trattenendo solo per metà un'esclamazione involontaria, Sanders abbassò la testa e si allontanò di mezzo metro dal pilastro. Quando alzò la testa di nuovo, vide il coccodrillo con la bocca aperta. La canna del fucile avanzò da sotto la fila superiore dei denti. Poi sparò, una volta, verso l'ombra del pilastro di legno. Nel rimbombo del colpo di fucile che aveva seguito la fiammata, Sanders appoggiò la pistola sulla superficie frastagliata del suo braccio di cristallo e sparò alla testa del coccodrillo. Il muso della bestia si piegò su un lato, e la canna del fucile cercò di mirare al medico. Dentro la pelle ingioiellata, Sanders scorse i gomiti e le ginocchia di un uomo. Allora sparò di nuovo al torace e all'addome della bestia. Con un tremendo sforzo, il bestione si alzò nell'aria sulle zampe posteriori e barcollò, simile a un dinosauro ingioiellato. Poi stramazzò su un fianco esponendo il lungo squarcio che lo apriva dalle mandibole fino all'addome. Dentro a quella corazza vitrea, il corpo del mulatto giaceva con la faccia rivolta al tramonto. La sua pelle scura era illuminata dalla luce emessa dalla nave di cristallo ormeggiata come uno spettro dietro di lui. Si udì un rumore di passi in corsa sulla sponda opposta. Con un grido Ventress si levò su un ginocchio e fece fuoco. Si udì un urlo acuto e poi la figura semibendata di Kagwa crollò tra l'erba a dieci metri dalla casa. Il negro si rialzò e passò vacillando oltre la casa, ormai senza più alcuna coscienza di ciò che faceva. Per un momento, gli ultimi bagliori della luce del giorno sulla sua pelle scura lo fecero sembrare quasi bianco come la piccola figura di Ventress. Una seconda fucilata lo raggiunse al petto facendolo stramazzare sulla sponda. Il negro rimase a terra bocconi sul limitare della zona d'ombra. Sanders aspettò nel suo nascondiglio che Ventress ricaricasse il fucile. L'ometto strisciò a guardare i due cadaveri. Per alcuni minuti ci fu solo silenzio, poi Ventress toccò Sanders su una spalla con la canna del fucile. "Ci siamo, dottore." Sanders alzò gli occhi su quel volto privo d'espressione. "Cosa vorreste dire?" "È ora che ve ne andiate. Adesso Thorensen e io siamo rimasti soli." Mentre Sanders cercava di tirarsi in piedi, poco desideroso di mettersi in mostra, Ventress gli disse: "Thorensen capirà. Uscite dalla foresta, Sanders. Voi non siete ancora pronto, per venire qui." Mentre Ventress parlava, Sanders gli guardava l'abito coperto dalle scaglie ingioiellate dei cristalli che vi si erano formati sopra. Così Sanders si accomiatò da Ventress. Fuori, la bianca nave aveva incominciato a confondersi con la superficie contorta del fiume. Uscendo da sotto la casa e incamminandosi lungo la sponda, lasciandosi alle spalle i tre uomini morti, uno dei quali ancora chiuso nella pelle del coccodrillo, Sanders non vide traccia alcuna di Thorensen. A cento metri dalla casa, dove il fiume girava, si fermò per guardarsi alle spalle. Ma Ventress si era ritirato sotto il basamento della casa estiva. Sopra di lui la debole luce di una lanterna brillava dietro le finestre cristallizzate. Finalmente, nel tardo pomeriggio, quando la luce rossa del crepuscolo si era fatta più tenebrosa invadendo la foresta, Sanders sbucò in una piccola radura dove le note profonde di un organo riverberavano tra gli alberi. Nel centro si ergeva una chiesetta la cui guglia sottile si era fusa con i rami degli alberi circostanti già cristallizzati in un ordito di gemme. Alzando il braccio ingioiellato per illuminare i battenti di quercia, Sanders aprì il portone ed entrò nella navata del luogo sacro. Sopra di lui, riflesso dalle finestre di vetro variegato, un riverbero brillante di luce investiva l'altare. Sanders si mise ad ascoltare la musica dell'organo appoggiato contro la balaustra davanti all'altare e tese il braccio verso la croce d'oro, tempestata di rubini e smeraldi. Immediatamente, la guaina che gli ricopriva il braccio incominciò a dissolversi, come una manica di ghiaccio che si liquefacesse. Con lo scomparire dei gioielli, la luce scaturiva da una fonte. Padre Balthus, seduto all'organo, si girò a guardare il dottor Sanders. Le sue dita affusolate premevano sui tasti ricavando dalle canne dello strumento una musica ininterrotta che veleggiava attraverso le vetrate variopinte delle finestre fino al sole smembrato nel cielo. 13. Sarabanda per lebbrosi Durante i tre giorni successivi Sanders rimase con Balthus mentre gli ultimi spuntoni di cristallo si dissolvevano dai tessuti del suo braccio. Tutto il giorno stava inginocchiato di fianco all'organo a far funzionare i mantici con il braccio ingioiellato. Col dissolversi dei cristalli, la ferita che si era aperta nell'avambraccio incominciava a sanguinare, inumidendo i pallidi prismi dei tessuti esterni. La sera, quando il sole sprofondava in migliaia di frammenti nella notte dell'occidente, padre Balthus lasciava l'organo e usciva sul portico a guardare gli alberi spettrali. La sua faccia magra di studioso e i suoi occhi calmi si fissavano su Sanders, quando i due mangiavano un parco pasto su uno sgabello vicino all'altare. I lineamenti composti del sacerdote erano traditi dai movimenti nervosi delle sue mani, come il falso momento di calma di qualcuno che si stesse riprendendo da un attacco di febbre. La croce che li difendeva era un dono delle compagnie minerarie. Gli enormi bracci incrociati, lunghi più di un metro e mezzo, erano tempestati di pietre preziose come i rami degli alberi cristallizzati della foresta. Le file di smeraldi e rubini, tra le quali si leggeva il disegno stellare dei piccoli diamanti di Mont Royal, andavano da un capo all'altro della croce. I gioielli emettevano una luce fredda e continua, così intensa che le pietre sembravano fondersi insieme in uno spettro cruciforme. Dapprincipio Sanders pensò che Balthus considerasse la sua sopravvivenza come una prova di intervento divino. Per questo aveva espresso in qualche maniera la sua gratitudine. Ma Balthus aveva risposto con un sorriso ambiguo. Perché fosse ritornato alla sua chiesa, Sanders non aveva modo di sapere. Ormai essa era circondata su ogni lato dal reticolo dei cristalli come se stesse per essere ingoiata dalla bocca di un immenso ghiacciaio. Dalla porta del coro, Sanders vedeva gli altri edifici, la scuola indigena e il dormitorio, descrittigli da Max Clair, presumibilmente le dimore della tribù di lebbrosi abbandonata dal suo sacerdote. Sanders accennò al suo incontro con i lebbrosi, ma Balthus sembrò disinteressarsi dei suoi ex parrocchiani e del loro destino. Sembrava che nemmeno la presenza di Sanders intaccasse il suo isolamento. Occupato a pensare, sedeva per ore all'organo o si aggirava tra le panche deserte della chiesa. Una mattina, comunque, Balthus trovò un pitone cieco che strisciava di fronte al porticato. Gli occhi del rettile erano stati tramutati in enormi gemme che sporgevano dalla sua fronte come corone. Balthus si inginocchiò e raccolse il pitone, avvolgendosi le sue spire intorno alle braccia, lo trasportò giù per la navata fino all'altare, poi lo sollevò verso la croce. Quando, riacquistata la vista, il serpente si allontanò strisciando fra le panche, il prete lo osservò con un sorriso obliquo. Il terzo giorno, Sanders si svegliò nella luce del primo mattino e trovò Balthus che celebrava da solo l'eucarestia. Sdraiato sulla panca che era stata trasportata contro la balaustra dell'altare, Sanders lo guardò senza muoversi, ma il sacerdote si interruppe e se ne andò, dopo essersi spogliato dei suoi paramenti. Durante la colazione confidò a Sanders: "Probabilmente vi sarete chiesto che cosa stessi facendo. Mi era sembrato un momento opportuno per verificare la validità del sacramento". Con un gesto indicò i colori prismatici che emanavano dalle finestre di vetro colorato. Le originarie scene della Sacra Scrittura erano state trasformate in disegni di una strana, astratta bellezza, in cui i frammenti disarticolati delle facce di Giuseppe e di Gesù, di Maria e dei discepoli, si muovevano sul fondo liquido color azzurro oltremare del cielo. "Può sembrare un'eresia, ma il corpo del Cristo qui è con noi dappertutto..." Il sacerdote toccò la sottile guaina di cristalli sul braccio di Sanders. "In ogni prisma e in ogni arcobaleno, nelle diecimila facce del sole." Alzò le mani magre, brillanti nella luce. "Così, vedete, io ho paura che la Chiesa, come anche il suo simbolo..." e qui indicò la croce, "possano aver esaurito la loro funzione." Sanders cercò una risposta. "Mi spiace. Forse se ve ne andaste..." "No," insisté Balthus, seccato dal fatto che Sanders sembrava non voler comprendere. "Possibile che non capiate? Una volta ero un vero apostata... Sapevo che Dio esisteva, ma non potevo credere in Lui." Rise di un riso amaro, rivolto a se stesso. "Adesso sono stato sopraffatto dagli eventi. Per un prete non esiste crisi più profonda della negazione di Dio quando Dio è qui che esiste in ogni foglia e in ogni fiore." Con un gesto si fece seguire da Sanders per la navata fin fuori, sul portico. Indicò a Sanders il reticolo a forma di cupola delle travi cristalline che partivano dai margini della foresta come l'intelaiatura di un'immensa cappa di diamanti e di vetro. Incastonate in vari punti, c'erano le forme quasi del tutto immobili di uccelli con le ali spiegate, di rigogoli dorati e di macai scarlatti, come chiazze brillanti di luce. Le fasce di colore sfrecciavano per la foresta e i riflessi delle piume fuse insieme costituivano infiniti disegni concentrici. Le arcate soprastanti attraversavano l'aria come le finestre votive di una città di cattedrali. Dappertutto intorno a loro Sanders vedeva innumerevoli uccelli, farfalle e insetti, che univano insieme le loro aureole a forma di croce come a incoronare la foresta. Padre Balthus prese il braccio di Sanders. "In questa foresta vediamo la finale celebrazione dell'eucarestia del corpo di Cristo. Qui tutto è trasfigurato e illuminato, fuso insieme nella definitiva unione di spazio e tempo." Verso la fine, in piedi l'uno a fianco dell'altro con le spalle rivolte all'altare, parve che il sacerdote fosse di nuovo in preda all'incertezza. Mentre la densa brina penetrava nella chiesa, la navata si trasformava in una galleria piena di colonne di vetro. Con un'espressione quasi di panico, padre Balthus contemplò i tasti dell'organo manuale che si fondevano insieme in un'unica striscia. Sanders sapeva che stava frugando nella sua mente, alla ricerca di una via di fuga. Poi finalmente ritrovò la sua forza interiore. Afferrò la croce dell'altare e la strappò al suo sostegno. Con la collera improvvisa che scaturiva dalla convinzione assoluta, consegnò la croce a Sanders, buttandogliela tra le braccia. Trascinò Sanders fino al portico e lo spinse verso una delle volte della foresta che si stava avvicinando e attraverso la quale si vedeva in lontananza la superficie del fiume. "Andate! Andate via da qui! Trovate il fiume!" Quando Sanders esitò, cercando di mantenere in equilibrio la pesante croce appoggiata al braccio bendato, Balthus urlò con rabbia: "Dite loro che sono stato io a ordinarvi di portarla via!". L'ultima visione che Sanders ebbe del sacerdote fu quella di un uomo in piedi, con le braccia spalancate rivolte alle pareti di cristallo che avanzavano, nello stesso atteggiamento degli uccelli illuminati, con gli occhi pieni di pace e serenità alla vista dei primi cerchi di luce che incominciavano a brulicare nelle palme delle sue mani aperte. La cristallizzazione della foresta era ormai quasi completa. Soltanto i gioielli della croce permettevano a Sanders di aprirsi un varco attraverso le volte della giungla. Tenendo saldamente nelle mani il fusto, il dottor Sanders muoveva la croce tra i reticoli che univano un albero all'altro come in una ragnatela di ghiaccio, cercando i punti più deboli che si sarebbero sciolti più in fretta nella luce. A mano a mano che i cristalli si scioglievano cadendo ai suoi piedi, Sanders passava oltre, tirandosi dietro la sua croce. Quando arrivò al fiume, cercò il ponte che aveva attraversato quando era entrato nella foresta la seconda volta, ma la superficie prismatica si estendeva in una grande curva e la luce obliterava tutti i punti di riferimento che forse avrebbe potuto riconoscere. Sopra le sponde, le fronde mandavano riverberi di luce come neve colorata. L'unico movimento era quello lentissimo del sole. Qua e là, un ammasso sotto il ciglio della sponda tradiva la presenza spettrale e illuminata di una chiatta o di una barca, ma nient'altro sembrava conservare qualche traccia delle precedenti identità. Sanders seguì la sponda del fiume, evitando i crepacci della superficie e gli spuntoni alti fino alla vita che crescevano lungo tutta la parte superiore dei pendii. Arrivò alla foce di un torrente e prese a percorrerlo, troppo stanco per superare le rapide. Anche se i tre giorni trascorsi con padre Balthus gli avevano restituito abbastanza forza perché si rendesse conto che ci doveva essere ancora un mondo esterno al di fuori della foresta, l'assoluto silenzio della vegetazione lungo le sponde del fiume e il forte riverbero prismatico quasi lo convincevano che tutta la Terra fosse stata ormai trasformata e che quella sua marcia nel mondo di cristallo era del tutto inutile. E tuttavia, proprio allora scoprì di non essere solo nella foresta. Ogni volta che la cappa si apriva in un varco verso il cielo, lungo il letto del torrente o in corrispondenza delle piccole radure, passava di fianco ai corpi semicristallizzati di uomini e donne fusi contro i tronchi degli alberi, con i visi rivolti al sole. Per lo più si trattava di coppie anziane, un uomo e una donna seduti insieme, come fusi l'uno nell'altra e negli alberi e nel sottobosco ingioiellato. L'unico giovane vicino al quale gli capitò di passare era un soldato in tuta da campo, seduto su un tronco caduto sul ciglio del torrente. L'elmetto era sbocciato in un immenso carapace di cristallo, un ombrello solare che gli aveva coperto faccia e spalle. Sotto il soldato, la superficie del torrente era attraversata da un profondo crepaccio. In fondo a esso correva ancora un rivolo d'acqua, in cui erano immerse le gambe di altri tre soldati che avevano cercato di guadare il corso dell'acqua in quel punto, ed erano ora imbalsamati nelle pareti cristalline. Ogni tanto le gambe si muovevano, lentamente, come se quegli uomini, legati insieme nella vita, volessero marciare per l'eternità attraverso quel ghiacciaio di cristallo, la faccia persa nel riverbero circostante. Sanders avvertì un movimento lontano nella foresta e poi udì un suono di voci. Accelerò il passo stringendosi al petto la pesante croce. A cinquanta metri, in una radura tra due macchie di alberi, una comitiva di persone vestite come tanti arlecchini stava avanzando per la foresta danzando e gridando. Sanders li raggiunse e si fermò ai margini della radura, cercando di contare gli uomini e le donne di ogni età, tutti indigeni, alcuni con bambini piccoli, che prendevano parte a quella aggraziata sarabanda. In una processione scomposta venivano avanti, e ogni tanto piccoli gruppi si staccavano dal grosso della comitiva per un girotondo intorno a un albero o a un cespuglio. Erano più di cento, ad attraversare la foresta senza meta. Braccia e facce erano trasformate dalle escrescenze di cristallo, e già le loro tuniche o i perizomi cominciavano a ingioiellarsi. Sanders, fermo con la sua croce, fu avvicinato da un gruppo che arrivò verso di lui saltando e ballando. Gli indigeni gli girarono intorno danzando come inquilini appena arrivati in paradiso che facessero una serenata a un arcangelo di guardia. Un vecchio con il volto deforme e pieno di luce passò oltre Sanders facendogli un gesto con le mani prive di vita ed emettendo lampi di luce dal corpo rachitico. Sanders ricordò i lebbrosi seduti sotto gli alberi vicino all'ospedale della missione. Durante gli ultimi giorni, l'intera tribù era penetrata nella foresta. Ballando si allontanarono da lui sulle gambe deformi, tenendo i loro bambini tra le braccia, in un gioco grottesco di arcobaleni che sfrecciavano da un viso all'altro. Sanders li seguì, trascinando la sua croce trattenuta nelle mani. Tra gli alberi vide la processione ancora per qualche istante. I lebbrosi comparivano e scomparivano improvvisamente come se bramosi di familiarizzarsi con ogni albero e ogni foglia di questo paradiso ritrovato. Tuttavia, senza alcuna ragione apparente, improvvisamente la comitiva si girò per tornare indietro. Come se volessero rallegrarsi guardando per l'ultima volta Sanders e la sua croce, gli furono di nuovo tutti intorno. Quando gli passarono vicino, Sanders scorse per un attimo una donna alta, vestita di una tunica nera, che marciava alla loro testa e li richiamava con voce chiara. Le sue braccia pallide e il suo viso bianco brillavano già della luce cristallina della foresta. La donna si girò a guardare indietro e Sanders urlò al di sopra delle teste degli indigeni che ballavano. "Suzanne! Suzanne! Qui...!" Ma la donna e gli ultimi membri della comitiva si erano già sparpagliati tra gli alberi. Sanders avanzò a fatica e trovò i rimasugli del tetro bagaglio degli indigeni, sparsi per terra... scarpe malridotte, cestini rotti, ciotole per l'elemosina con pochi grani di riso fusi tra loro e uniti al terreno vetrificato. D'un tratto Sanders si imbatté nel corpo semicristallizzato di un bambino piccolo che era rimasto indietro e non era riuscito a raggiungere gli altri. Fermatosi per riposare, si era fuso col terreno. Sanders rimase in ascolto delle voci che svanivano tra gli alberi in lontananza, tra le quali c'erano quelle dei suoi genitori. Allora abbassò la croce sul bambino e aspettò che i cristalli sulle sue braccia e sulle sue gambe si liquefacessero. Di nuovo libere, le mani deformi del bambino rotearono nell'aria. Con un sussulto, il piccolo si rizzò in piedi e scappò via tra gli alberi, lasciandosi dietro una scia di luce che gli usciva dalla testa e dalle spalle. Sanders stava ancora seguendo la processione, perdutasi ormai in lontananza, quando arrivò alla residenza estiva dove in precedenza si erano rifugiati Thorensen e Serena Ventress. Ormai era l'ora del crepuscolo e i gioielli della croce brillavano di una luce cupa nella penombra. La croce aveva ormai perso gran parte dei suoi poteri e la maggior parte dei piccoli diamanti e dei rubini si era scurita, trasformandosi in carbonio e corindone. Solo gli smeraldi più grandi brillavano ancora, nella luce dell'ammasso bianco del motoscafo di Thorensen intrappolato nel suo crepaccio di fronte alla residenza estiva. Sanders si incamminò per la sponda e passò oltre i resti cristallizzati del mulatto nella sua pelle di coccodrillo. I due esseri si erano fusi insieme, ma i profili dei due corpi erano ancora distinguibili nelle efflorescenze dei loro tessuti che si incrociavano. La faccia del mulatto scintillava attraverso le mandibole del rettile e sotto i suoi occhi. La porta della casa estiva era stata forzata. Sanders salì i gradini ed entrò nella camera. Guardò il letto. Come nuotatori addormentati sul fondo di un lago incantato, Serena e il padrone della miniera giacevano insieme. Gli occhi di Thorensen erano chiusi, e i delicati petali di una rosa rosso sangue erano sbocciati da un buco nel suo petto come una squisita pianta marina. Di fianco a lui, Serena dormiva tranquilla. Il battito invisibile del suo cuore creava un alone di debole luce color dell'ambra tutt'intorno al suo corpo, pallido residuo di vita. Anche se Thorensen era morto cercando di salvarla, Serena viveva ancora nella sua semimorte. Qualcosa scintillò nell'oscurità dietro a Sanders. Il medico si girò e scorse una brillante chimera, un uomo con braccia e petto incandescenti che passava correndo tra gli alberi, seguito da una cascata di particelle che si diffondevano nell'aria dietro di lui. Sanders si nascose dietro la sua croce, ma l'uomo era scomparso, correndo senza meta sotto le volte cristalline. Nello svanire della sua scia luminosa, Sanders udì la sua voce che riecheggiò nell'aria gelida. Le parole lamentose erano ingioiellate e decorate come tutto in quel mondo trasfigurato. "Serena...! Serena!" 14. Il sole prismatico Due mesi dopo, nel terminare la sua lettera per il dottor Paul Derain, direttore del lebbrosario di Fort Isabelle, nella quiete della sua camera d'albergo a Port Matarre, Sanders scriveva: ...è difficile credere, Paul, qui in questo albergo vuoto, che gli strani fatti di questa foresta fantasmagorica siano mai avvenuti. Eppure io sono a poco più di sessanta chilometri a sud a volo di uccello (o dovrei dire di grifone?) dall'area locale, quindici chilometri a sud di Mont Royal. E se ho bisogno di una prova che mi ricordi quel che è successo, non ho che da guardare la ferita al mio braccio, rimarginata da poco. Secondo il barista di qui (sono contento di dire che almeno lui è ancora al suo posto, mentre quasi tutti gli altri se ne sono andati) la foresta avanza ormai di quattrocento metri circa al giorno. Uno dei giornalisti venuti qui a parlare con Louise ha detto che, a questa velocità, almeno un terzo della superficie terrestre sarà invasa alla fine del prossimo decennio, e una ventina delle capitali del mondo resterà pietrificata sotto gli strati di cristallo prismatico, come è già successo a Miami. Senza dubbio avrai letto della località abbandonata come di una città dalle mille guglie di cattedrale, una visione materializzata di san Giovanni. A dire la verità, devo ammettere che la prospettiva non mi preoccupa molto. Come ho detto, Paul, mi sembra ormai evidente che l'origine di tutto questo è ben più che fisica. Quando sono uscito dalla foresta e mi sono imbattuto nel cordone militare a sette chilometri da Mont Royal, due giorni dopo aver visto il fantasma di quello che una volta era stato Ventress, con la croce stretta fra le braccia, ero assolutamente deciso a non rivedere mai più quella foresta. Per una di quelle ironiche inversioni della logica, invece di essere accolto come un eroe mi sono ritrovato a dover subire un processo sommario davanti a una corte militare e sono stato incriminato di saccheggio. Stando alle apparenze, la croce d'oro era stata saccheggiata dei suoi gioielli, generosa donazione delle compagnie minerarie, e vane sono state le mie proteste nel tentativo di spiegare che le pietre scomparse erano il prezzo pagato per la mia salvezza. Solo le intercessioni di Max Clair e di Louise Peret mi hanno salvato. Dietro nostro consiglio, una pattuglia militare armata di croci ingioiellate entrò nella foresta nel tentativo di ritrovare Suzanne e Ventress. Ma la pattuglia dovette battere subito in ritirata. Comunque, quali che fossero stati i miei sentimenti in quel momento, adesso so con certezza che un giorno farò ritorno alla foresta di Mont Royal. Ogni notte il disco fratturato del satellite Echo passa sopra di noi, illuminando il cielo di mezzanotte come un lampadario d'argento. E sono convinto, Paul, che anche il sole abbia incominciato a emettere cristalli. Al tramonto, quando il disco è velato dal pulviscolo cremisi, sembra che sia attraversato da un reticolo, una vasta saracinesca che un giorno si espanderà fino ai pianeti e alle stelle, fermando l'universo nel suo corso. Come illustra l'esempio del coraggioso prete apostata che mi diede la croce, ci sono immense ricompense in quella foresta pietrificata. Là la trasfigurazione di tutte le forme viventi e inanimate avviene davanti ai nostri occhi. Il dono dell'immortalità è una conseguenza diretta della resa di ciascuno di noi alle nostre identità fisica e temporale. Per quanto apostati si possa essere in questo mondo, nella foresta diventiamo per forza tutti apostoli del sole prismatico. Così, quando mi sarò completamente rimesso, ritornerò a Mont Royal con una delle spedizioni scientifiche che passano di qui. Non dovrebbe essere troppo difficile organizzare la mia fuga. Poi ritornerò alla chiesa solitaria del mondo incantato, dove di giorno uccelli fantastici volano attraverso la foresta pietrificata e coccodrilli ingioiellati scintillano come salamandre araldiche sulle sponde dei fiumi cristallini, e dove di notte l'uomo illuminato corre tra gli alberi, le braccia simili a ruote dorate e la testa come una corona spettrale. Mentre Louise Peret entrava nella stanza, il dottor Sanders posò la penna, piegò la lettera e la infilò in una vecchia busta di Derain che gli aveva scritto per chiedergli dei suoi progetti. Louise si avvicinò allo scrittoio presso la finestra e posò una mano su una spalla di Sanders. Indossava un vestito bianco e pulito che metteva in risalto lo squallore di Port Matarre. Nonostante la trasformazione della foresta a solo pochi chilometri di distanza, qui alla foce del fiume la vegetazione aveva ancora il suo aspetto tenebroso, anche se i puntini di luce che ammiccavano tra il fogliame stavano a indicare che la cristallizzazione era imminente. "Stai ancora scrivendo a Derain?" domandò la ragazza. "Che lettera lunga!" "Avevo molto da dire." Sanders si appoggiò allo schienale e le prese la mano, fissando lo sguardo sui portici deserti. Al molo della polizia erano ormeggiate alcune unità da sbarco, dietro le quali il fiume buio si inoltrava verso l'interno. La base militare principale era stata posta questa volta in una delle grandi piantagioni governative a quindici chilometri dalla foce. Lì era stata apprestata una pista d'atterraggio dove arrivavano direttamente, a centinaia, scienziati, tecnici e giornalisti, che cercavano ancora di raccapezzarsi davanti all'enigma di quella foresta in movimento. Così a Port Matarre non arrivava più nessuno. La città fluviale era per metà deserta. Il mercato indigeno aveva chiuso. I proprietari delle bancarelle con i loro oggetti cristallizzati erano rimasti senza lavoro a causa dell'avanzare della foresta e del suo sovrabbondante carico di preziosi. Tuttavia, qua e là Sanders scorgeva qualche solitario mendicante fermo vicino alla caserma o alla prefettura della polizia, con una vecchia coperta sulla sua cesta da cui offriva grotteschi pezzi sottratti alla foresta... un pappagallo cristallizzato, una carpa ingioiellata, e una volta persino il busto di un neonato. "Allora ti dimetti?" domandò Louise. "Io credo che dovresti rifletterci... Abbiamo parlato..." "Mia cara, non si può riflettere sulle cose fino al centesimo decimale. A un certo momento uno deve prendere una decisione." Sanders si tolse la lettera di tasca e la buttò sullo scrittoio. Per non ferire Louise che era rimasta con lui all'albergo fin dal momento in cui l'avevano salvato dalla foresta, disse: "In effetti, non ho ancora deciso. Mi servo della lettera per riordinare i pensieri". Louise annuì, fissandolo attentamente. Sanders notò che aveva ripreso a portare gli occhiali da sole, inconsciamente rivelando la sua personale decisione su Sanders e sul suo futuro, e sulla loro inevitabile separazione. Comunque, piccole ipocrisie come quelle erano il misero prezzo da pagare per la loro tolleranza reciproca. "La polizia ha notizie di Anderson?" Durante il primo mese trascorso a Port Matarre, Louise era scesa alla prefettura ogni mattina, nella speranza di ottenere notizie del collega scomparso e in parte, secondo Sanders, per giustificare il lungo soggiorno con lui nell'albergo. Il fatto che adesso potesse fare a meno di questo sotterfugio con cui mettere in pace la propria coscienza stava a significare che aveva altri progetti. "Può darsi che abbiano saputo qualcosa... chi lo sa... Ci sei andata?" "No. Ormai non entra più nessuno nella zona." Louise si strinse nelle spalle. "Suppongo che valga la pena di tentare." "Certamente." Sanders si alzò, appoggiandosi al braccio ferito, e si infilò la giacca. "Come va?" domandò Louise. "Il braccio. Mi pare a posto, ormai." Sanders si batté una mano sul gomito. "Credo che si sia rimarginato. Louise, sei stata tanto cara a prenderti cura di me. Lo sai che ti sono grato." Louise lo fissava da dietro le lenti degli occhiali da sole. Un vago sorriso, non privo di affetto, le sfiorò le labbra. "Che altro avrei potuto fare?" Poi rise e si diresse verso la porta. "Devo salire nella mia stanza a cambiarmi. Buona passeggiata." Sanders la seguì sulla porta e poi la trattenne per un braccio un momento. Quando Louise se ne fu andata, Sanders rimase ancora un attimo ad ascoltare i pochi rumori dell'albergo semideserto. Sedutosi di nuovo allo scrittoio, rilesse la lettera per Paul Derain. Pensando nel contempo a Louise, si rese conto che non poteva biasimarla se aveva deciso di partire. In effetti, lui l'aveva spinta ad andarsene, non tanto con il suo modo di fare lì a Port Matarre, ma piuttosto perché non era più lì... La sua vera identità era rimasta nelle foreste di Mont Royal. Durante il viaggio di ritorno sul fiume, nel battello-ambulanza con Louise e Max, e durante la successiva convalescenza a Port Matarre, si era sentito come la vuota proiezione di un se stesso che si aggirasse ancora per la foresta con la croce ingioiellata tra le braccia, a rianimare bambini sperduti come una divinità il giorno della creazione. Louise non sapeva nulla di tutto questo, e credeva che lui cercasse Suzanne. Si udì bussare alla porta ed entrò Max Clair. Il medico salutò Sanders con un cenno della mano e posò la borsa sulla sedia. Al suo arrivo a Port Matarre, era andato a portare il suo aiuto alla clinica dei gesuiti. Più di una volta costoro avevano cercato di vedere Sanders, probabilmente per interrogarlo sull'autoimmolazione di padre Balthus nella chiesa della foresta. Probabilmente sospettavano che il sacerdote non si fosse occupato della sua parrocchia quanto avrebbe dovuto. "Buongiorno Edward... Spero di non disturbare le tue meditazioni giornaliere." "Ho finito." Quando Max guardò verso la porta semiaperta del bagno, Sanders disse: "Louise è di sopra. Che novità ci sono oggi?". "Non ne ho idea... Non ho tempo di andare al posto di polizia. Abbiamo troppo da fare alla clinica. Ne arrivano da tutte le parti." "Che cosa ti aspettavi...? Adesso c'è un dottore." Sanders scrollò la testa. "Metti un dottore in un posto come Port Matarre e crei subito un problema di salute pubblica." "Be'..." Max guardò Sanders da sopra gli occhiali, come a chiedersi se parlava seriamente. "Questo non lo so. Ma abbiamo molto da fare, Edward. A dir la verità, adesso che il tuo braccio è guarito, pensavano... i gesuiti in particolare, che potresti venire a darci una mano. Un paio di mattine alla settimana, tanto per incominciare. I gesuiti te ne sarebbero grati." "Ci credo." Sanders si voltò a guardare verso la foresta. "Mi piacerebbe aiutarvi, Max, naturalmente, però al momento sono piuttosto occupato." "Ma non è vero. Te ne stai seduto lì tutto il giorno. Bada, per lo più è routine, niente che ti possa distrarre dai tuoi pensieri più importanti. Qualche maternità, pellagra." Poi aggiunse in tono più basso: "Ieri sono arrivati un paio di casi di lebbra... pensavo che forse ti interessasse". Sanders si girò e studiò la faccia di Max. I brillanti occhi miopi sotto l'ampia fronte lo fissavano. La mossa di astuzia che Sanders intuiva in quella frase poteva essere frutto della sua immaginazione. Per un istante Sanders aveva sospettato che Max avesse sempre saputo che Suzanne sarebbe scappata nella foresta dopo averlo visto, e che la sua inutile ricerca tra gli insediamenti delle colline fosse stata una mossa deliberata al solo scopo di assicurarsi che nulla la fermasse. Durante il periodo trascorso a Port Matarre, Max aveva accennato solo raramente a Suzanne, anche se sua moglie ormai doveva essere pietrificata come un'icona in un punto imprecisato della foresta di cristallo. Tuttavia, quest'ultima allusione ai lebbrosi, a meno che non volesse provocarlo per spingerlo a tornare nella foresta, sembrava indicare che in realtà Max non aveva idea del significato che la foresta aveva per Suzanne e per Sanders, che non sospettava che per entrambi l'unica soluzione definitiva per quel leggero squilibrio della loro mente, quell'inclinazione verso il lato oscuro dell'equinozio, si trovava nel mondo di cristallo. "Due casi di lebbra? Non mi interessano affatto." Prima che Max potesse parlare, Sanders riprese: "Francamente, Max, non sono sicuro di essere ancora qualificato per aiutarvi". "Cosa? Ma certo che lo sei." "In termini assoluti. Ma ho l'impressione, Max, che l'intera professione della medicina sia stata soppiantata... Non credo che la pura e semplice distinzione tra vita e morte abbia più molto significato. Invece che cercare di curare quei pazienti, dovresti metterli in una lancia e mandarli a Mont Royal." Max si alzò. Fece un gesto sconsolato e poi con voce più allegra disse: "Tornerò domani. Riguardati". Quando se ne fu andato, Sanders completò la lettera, aggiungendo un ultimo paragrafo e un saluto. La sigillò in una busta nuova che indirizzò a Derain e l'appoggiò al calamaio. Poi tirò fuori il libretto degli assegni e ne firmò uno. Questo lo infilò in una seconda busta su cui vergò il nome di Louise. Mentre si alzava e si abbottonava la giacca, notò Louise e Max che chiacchieravano in strada davanti all'albergo. Di recente li aveva visti spesso insieme, nell'atrio dell'albergo o sulla soglia del ristorante. Attese che la loro conversazione finisse, poi scese nell'atrio. Al banco saldò i conti della settimana trascorsa per sé e per Louise, e pagò in anticipo un altro paio di settimane. Dopo aver scambiato qualche frase con il padrone portoghese, Sanders uscì per la sua solita passeggiata prima di colazione. In genere, la passeggiata lo conduceva al fiume. Passeggiava sotto i portici deserti, notando, come anche quella mattina, gli strani contrasti di luci e ombre, nonostante l'apparente assenza di luce diretta del sole in tutta Port Matarre. In un angolo, davanti alla prefettura della polizia, fletté il braccio ferito per l'ultima volta appoggiandolo a una delle colonne. Da qualche parte nelle strade cristalline di Mont Royal giacevano i suoi frammenti perduti, sparpagliati sul fondo prismatico. Ripensando al capitano Radek e a Suzanne Clair, Sanders arrivò sull'argine del fiume e si incamminò lungo i moli deserti. Quasi tutte le imbarcazioni indigene se n'erano andate e gli insediamenti sull'altra sponda del fiume erano stati abbandonati. C'era però sempre un'imbarcazione che fendeva l'acqua deserta della foce. A trecento metri Sanders vedeva il motoscafo rosso e giallo su cui lui e Louise si erano recati a Mont Royal per la prima volta. Al timone c'era l'alta figura di Aragon che lasciava andare alla deriva la barca con la marea. Ogni mattina Aragon osservava Sanders che passava lungo il fiume, ma i due uomini non si erano mai rivolti la parola. Sanders avanzò verso di lui, toccandosi il portafoglio nella giacca. Quando fu sul ciglio della sponda, Aragon lo salutò con un cenno della mano, poi mise in moto e si allontanò. Perplesso, Sanders riprese il cammino, ma poi notò che Aragon stava accostando in un punto più basso della sponda, più o meno dove era stato ripescato il corpo cristallizzato di Matthieu due mesi prima. Sanders raggiunse l'imbarcazione e scese sotto l'argine. Per un attimo i due si guardarono. "Gran bella barca la vostra, capitano," disse Sanders, ripetendo l'espressione usata la prima volta. Mezz'ora dopo, mentre risalivano il fiume, Sanders si lasciò andare contro lo schienale del suo sedile quando passarono davanti ai moli principali. Nell'acqua smossa la schiuma si frangeva irregolarmente e nella scia scura dietro di loro giocavano gli arcobaleni. Nella strada fiancheggiata dai portici, un vecchio negro era fermo nella polvere con uno scudo bianco in mano, ad aspettare il passaggio del battello. Sul molo della polizia Louise Peret era immobile accanto a Max Clair. Con gli occhi nascosti dietro gli occhiali da sole, rimase a guardare Sanders senza salutarlo mentre il motoscafo accelerava su per il fiume deserto. Indice Parte prima EQUINOZIO 7 27 39 48 62 76 1. Il fiume buio 2. L'orchidea ingioiellata 3. Il mulatto sulla passerella 4. L'annegato 5. La foresta cristallizzata 6. L'incidente Parte seconda L'UOMO ILLUMINATO 87 102 114 128 138 155 173 182 7. Specchi e assassini 8. La residenza estiva 9. Serena 10. La maschera 11. L'albergo bianco 12. Duello con un coccodrillo 13. Sarabanda per lebbrosi 14. Il sole prismatico