Tra 2 mondi - sui banchi dell`intercultura
Transcript
Tra 2 mondi - sui banchi dell`intercultura
1 Tra due mondi Gabriella Kuruvilla Novembre 2005. Ero in una stanza d’albergo a Brindisi: quella sera, insieme ad Igiaba Scego, dovevo presentare l’antologia di racconti Pecore Nere, edita da Laterza. Il libro, curato da Emanuele Coen e Flavia Capitani, raccoglie otto testi, di cui due miei, di scrittrici donne, immigrate o figlie di immigrati, con un età compresa tra i 30 e i 40 anni. E affronta il tema della doppia identità: a ognuna di noi, infatti, erano stati chiesti due racconti che narrassero, in maniera ironica e leggera, il mondo dell’immigrazione visto dalle donne, e dalla parte delle donne, cogliendone gli aspetti privati, raccontati in prima persona. In modo che il lettore potesse più facilmente immedesimarsi nelle protagoniste, e nelle loro esperienze, sdrammatizzate dall’umorismo. In quegli stessi giorni gli scontri delle periferie parigine campeggiavano sulle prime pagine di tutti i giornali, mettendo in luce la situazione, paradossale e tragica, di molti ragazzi cosiddetti di “seconda generazione”, ovvero figli di immigrati, che erano francesi a tutti gli effetti, perché nati in Francia o giunti in questo Paese da piccoli, ma che non godevano degli stessi diritti dei loro connazionali: venivano considerati diversi, a partire dal colore della loro pelle. E, a causa di questa e di altre diversità, erano trattati in maniera differente, e pregiudiziale. Da molto tempi in Italia, i politici che si trovano attualmente al governo, con i loro proclami conditi dallo slogan “tolleranza zero”, non esitano a usare parole offensive, in ogni occasione, per chi proviene da un indistinto terzo mondo, avvalorando la tesi che l’immigrato è un pericolo, da cui ci si può, anzi ci si deve, difendere, con qualsiasi mezzo. Per poi commentare, quando gli immigrati vengono feriti o uccisi, psicologicamente o fisicamente, che il razzismo non fa parte del dna del popolo italiano. Come se il razzismo fosse un dato genetico. E immutabile. Certo, forse, razzisti non si nasce. Ma, ultimamente, molti lo diventano. E i media e la politica fanno un’ottima propaganda che, innegabilmente, favorisce questa tendenza. Subito dopo la morte di Abdoul Guibre, un ragazzo italiano figlio di immigrati, ho scritto l’articolo “Milano fa male”, pubblicato sul numero del settimanale Internazionale, uscito in edicola il 19 settembre 2008. Lo leggo. Dopo la pausa estiva, sabato 13 settembre, il Leoncavallo riapre: tre sale, tre musiche. Reggae, techno e trance. Ce n’è per tutti i gusti. Deve essere per questo che davanti al portone d’ingresso si accalca una lunga fila di persone: di ogni sesso, razza ed età. Nessun bambino e pochi anziani, a ben vedere. Donne e uomini, bianchi e neri, ragazzi e Peter Pan, invece, ci sono tutti. Si potrebbe dire che a Milano, il melting pot esiste: ma solo in certi luoghi. “Di dove sei?” . “Di Lambrate”, “Di Arona”, “Di Aicurzio”. Zone metropolitane o paesi della provincia. “Come ti chiami?”. “Lamine”, “Anil”, “Rody”. “Sì, ma da dove arrivi?” “Dal Gambia”, “Dallo Sri Lanka”, “Dalle Mauritius”. Molti di loro, sono italiani, a tutti gli effetti. Sono nati a Lambrate, ad Arona, ad Aicurzio. Sono figli di immigrati. Solo che agli occhi degli altri sono stranieri. Divergenze di sguardi, in cui è facile perdersi e non ritrovarsi. Le “feccie” di Sarkozy, che nell’autunno del 2005 sono salite alla ribalta della cronaca per gli scontri nelle banlieues parigine, erano francesi, a tutti gli effetti. Agli occhi degli altri erano stranieri. Quindi godevano di un diverso “trattamento”. Bisognerebbe interrogarsi sul perché uno straniero debba godere 2 di un diverso “trattamento”. Abdoul Guibre, detto Abba, aveva 19 anni, era originario del Burkina Faso e abitava a Cernusco sul Naviglio. Il padre gli diceva “Non temere, sei italiano”. Bisognerebbe interrogarsi anche sul perché uno straniero debba temere. Pare che i media e la politica, se poi tra i due termini c’è ancora una distinzione, abbiano ottenuto l’effetto desiderato individuando nell’extracomunitario il pericolo da cui ci si deve difendere, con qualsiasi mezzo. Abba era un amante dell’hip hop e un lavoratore precario, caratteristiche che accomunano molti giovani, italiani e non. Dopo una notte trascorsa in un locale, in compagnia degli amici e della musica, voleva andare al Leoncavallo: lì, e forse solo lì, la serata finiva al mattino. Noi a quell’ora ce ne stavamo andando, lui non c’è mai arrivato. Le nostre strade si sono incrociate solo per un attimo, verso le sei, nei dintorni di Greco, a pochi passi dalla Stazione Centrale. Lui non sapeva nulla di noi, noi non sapevamo nulla di lui: noi poche ore dopo abbiamo saputo tutto di lui, leggendo i giornali e ascoltando la radio. E’ stato ammazzato domenica all’alba, da un padre e un figlio, entrambi pregiudicati, proprietari di un bar di via Zuretti: probabilmente perché aveva rubato un pacco di biscotti. La causa non produce l’effetto. Eppure la causa ha prodotto l’effetto. Fausto e Daniele Cristofoli, 51 e 31 anni, hanno fracassato a sprangate la testa di un giovane italiano di colore colpevole, pare, di furto: che si trattasse di una caramella o dell’incasso poco importa. In realtà il fatto che il valore del bottino, tradotto in soldi, fosse pari a una manciata di euro rende solo la situazione più agghiacciante. Perché a Milano, come altrove, sembra quasi normale farsi giustizia da soli. Di fronte a quella che viene vissuta come una violazione della proprietà privata si reagisce con una violenza che in alcuni casi diventa efferata. Tra questi casi c’è il colore della pelle. Tra gli altri ci sono il credo religioso e l’orientamento sessuale. Se sei nero, musulmano e gay devi temere. Se sei italiano, forse, non devi temere. Ma se sei italiano nero, musulmano o gay sicuramente ti conviene temere. Anche se gli italiani brava gente non sono razzisti. E se ti urlano “Negro di merda” mentre ti prendono a bastonate è solo per modo di dire: stanno usando un intercalare come un altro. Infatti il pm Roberta Brera, magistrato titolare del fascicolo aperto dalla procura di Milano sull’uccisione di Abdoul Guibre, non contesta ai due responsabili del delitto l’aggravante di aver agito per odio razziale: l’accusa è di omicidio volontario, per futili motivi. Nove anni fa, il 25 settembre del 1999, Radio popolare aveva promosso una manifestazione notturna: al Parco Nord di Milano si erano riunite circa ottomila persone che, con le torce, avevano composto la scritta “Milano fa male”. Il 14 settembre del 2008 Milano fa male, e anche il resto dell’Italia non si sente tanto bene. La differenza tra quello che sei, e senti di essere, e quello che appari è stato lo spunto iniziale del primo racconto, Nero a metà, nato proprio durante gli scontri nelle banlieues parigine e da cui soni scaturiti, quasi “a cascata”, tutti i testi che oggi compongono il libro E’ la vita, dolcezza (Baldini Castoldi Dalai editore), formato da vari ritratti che, come in un puzzle, creano un quadro (uno tra i tanti possibili) dell’immigrazione in Italia. E narrano la complessità, le difficoltà e la ricchezza, del vivere tra due, o più, mondi, sentendosi spesso stranieri in ogni luogo. Cercando di smascherare, e scardinare, molti luoghi comuni legati all’immagine dell’immigrato, che oggi viene presentato come una figura stereotipa: se ne offre infatti un ritratto superficiale, generico e de-soggettivizzante che priva la persona della sua complessità individuale per renderlo omogeneo, e classificabile, in una massa. Che in questo caso è la massa dell’immigrazione. Riscoprire l’individuo, al di là della massa, 3 permette di avvicinarsi di più alla realtà, che si presenta con infinite sfumature e contraddizioni, annientate solo dal comune pregiudizio. Di seconde generazioni si è parlato, e scritto, molto. Di seconda generazioni ho parlato, e scritto, molto nel libro E’ la vita dolcezza. Adesso vorrei leggere un articolo, sempre apparso su Internazionale (il 6 febbraio 2009), nato dopo che mi avevano invitato a un convegno, organizzato dall’università Bocconi di Milano, intitolato “Cross generetion marketing”. Fino ad allora non sapevo che le seconde generazioni venissero chiamate anche cross generation, ovvero generazione ponte, così come fino a poco fa non sapevo che i figli di immigrati venissero chiamati 2G, ovvero seconde generazioni. Addentrandomi nel significato di questa terminologia, ho anche scoperto che esistono due tipi di 2G: quelli DOC, figli di entrambi i genitori immigrati e quelli contraffatti, figli di un genitore italiano e di uno immigrato. Il secondo caso era, ed è, il mio caso: quindi in realtà neanche come figlia di un immigrato sono “di marca”. Mi sento un po’ come una di quelle borsette di Prada vendute dai nordafricani sulle strade di Milano: un prodotto d’imitazione, una che ci prova ma neanche come figlia di un immigrato ci riesce. Inoltre, come molti 2G, del Paese d’origine di mio padre conosco davvero poco: essendo nata e cresciuta in Italia questo è il mio Paese reale, mentre l’altro, l’India, è quello immaginario. E’ il luogo del sogno e del desiderio, una terra vissuta solo a tratti, durante brevi viaggi, fatti solitamente per andare a trovare i parenti. C’è, però, chi è messo anche peggio: un amico figlio di genitori senegalesi, e portato in Italia da piccolo, essendo ancora privo della cittadinanza italiana, si sente ed è italiano, ma dallo stato viene considerato senegalese. Anche se, come mi ha detto una volta, del Senegal non conosce nulla, al massimo riesce ad indicarne la posizione sulla cartina geografica. Nonostante ciò, essendo un G2, viene considerato parte di quella che alcuni studiosi di economia hanno chiamato “cross generation”, generazione ponte. Concludo leggendo l’articolo che ho scritto su questo tema: Prima notizia: i giovani figli di immigrati non sono più la seconda generazione, termine considerato riduttivo, ma la cross generation, una generazione ponte, tra culture diverse. E’ anche vero che il ponte a volte, esiste solo negli occhi di chi guarda. Mentre chi è osservato rimane saldamente ancorato a una sola cultura, a dispetto delle aspettative altrui. Oppure il ponte lo percorre, ma senza sentirsi parte di un gruppo, se non per il fatto di avere una caratteristica in comune con gli altri: essere anche lui figlio di immigrati. Eppure nessun italiano è uguale a un altro, non si capisce perché tutti gli immigrati – o i loro figli- dovrebbero essere simili. Tant’è: così è come ci vedono. Una categoria: da nominare, talvolta rinominare e spesso da analizzare. Anche come target di mercato, dato che rappresenta una fetta importante della popolazione: la seconda generazione, in Italia, è raddoppiata negli ultimi 5 anni (+117,2% dal 2002), raggiungendo la cifra di 767.060 abitanti. Un numero che non lascia indifferenti gli esperti di marketing. Da qui la seconda notizia: un libro di economia, Cross generation marketing (ed. Egea), presentato a fine gennaio all’Università Bocconi di Milano, sembra descrivere meglio di una ricerca sociologica le seconde generazioni, o generazioni ponte. E lo fa, sfatando pregiudizi e stereotipi. Un po’ come Amir Issa, figlio di madre italiana e di padre egiziano, che durante il convegno racconta di essere stato inizialmente “venduto”, da una major discografica, come un rapper per immigrati. Perché questo vuole il mercato: creare fasce di prodotti per 4 fasce di consumatori. Con l’idea che tutti i figli di immigrati vogliano ascoltare rapper per immigrati, possibilmente su temi legati all’immigrazione. Una specie di corto circuito autoreferenziale. E si dimentica così che ci sono figli di somali appassionati di musica brasiliana e figli di indiani che detestano qualsiasi “nenia” induista. Secondo un’indagine di mercato gli intervistati, di età compresa tra i 14 e i 18 anni, si riconoscono “cittadini del mondo” e detestano essere chiamati “stranieri”, credono molto nell’amicizia e nella famiglia ma decisamente poco nella tradizione. Il 40,3% di loro non fa ritorno quasi mai nel paese di origine. Anche se consumano prevalentemente prodotti italiani, non si limitano a ricevere dal mercato quello che offre, ma vogliono avere un ruolo attivo. Lo dimostrano alcune iniziative, come le reti G2 e Associna, il mensile Yalla Italia e l’emmittente web CrossingTV. La volontà di essere protagonisti, e non solo spettatori, si potrebbe riassumere nello slogan: “Prova a prendermi!”, l’imperativo-sberleffo che la cross generation lancia al mercato. Ecco dunque la generazione ponte: un gruppo di ragazzi che corrono, inseguendo la libertà di essere, di pensare, di agire e anche di comprare, mentre gli esperti cercano di agguantarli. Li definiscono, non a torto, soggetti dotati di una forte identità, un forte senso di appartenenza e una forte voglia di riscatto. Ma sono anche persone esposte a pressioni relazionali, tensioni identitarie, rappresentazioni mediatiche e incertezze normative che spesso li fanno sentire stranieri nel paese dove sono nati o dove sono arrivati da piccoli. Per molti figli di immigrati, infatti, il diritto di cittadinanza negato è il problema principale. Un problema che li condiziona non solo a livello giuridico, ma anche sociale, economico, politico e psicologico. Intanto le generazioni ponte guardano già con fiducia alle “terze generazioni”: bambini e bambine di ogni razza, che giocano insieme. Senza problemi.