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RASSEGNA STAMPA
giovedì 27 novembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
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INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 26/11/14 (Genova)
"La mafia non è lavoro". Doria alla Maddalena
con i commercianti
La Comunità di San Benedetto lancia l'iniziativa con un hashstag
"La mafia non è lavoro". Doria alla Maddalena con i commerciantiMarco doria insieme
nella falegnameria Dateci un martello in via delle Vigne
L'hashtag è #lamafianonè, e il primo a usarlo è simbolicamente il sindaco di Genova
Marco Doria: si è fatto immortalare insieme a diversi commercianti della Maddalena, con
cartelli come "La mafia non è lavoro", e "La mafia non è folklore": "Abbiamo lanciato il
tweet dal profilo di don Gallo, di sicuro ne sarebbe stato felice", spiega Domenico Chionetti
della Comunità di San Benedetto.
È partita così "Sapori di giustizia", la campagna della Maddalena contro le mafie, la loro
presenza sul territorio e il negazionismo diffuso. Si sono messi in rete - sull'esempio di
quello che fecero con AddioPizzo i negozi di Palermo 10 anni fa - una decina di
commercianti, e si spera che saranno sempre di più: venderanno prodotti dei terreni
confiscati, o li proporranno tra gli ingredienti in menù, esponendo anche in vetrina volantini
sugli "impegni assunti nella tutela del lavoro e nel contrasto alle mafie presenti in città". E
tutti i cittadini e i genovesi illustri sono invitati a seguire l'esempio del Sindaco: passare in
questi luoghi, farsi foto (o selfie, se preferite) e diffonderle sul web, anche scrivendo un
proprio pensiero sotto "la mafia non è".
"Una forte azione di antimafia sociale e social", come la definisce Stefano Kovac di Arci,
che è promossa appunto da Arci, il circolo Belleville e San Benedetto, con il presidio di
Libera Francesca Morvillo e l'associazione Ama; e poi il Civ della Maddalena, consorzio di
commercianti che si è appena dato un innovativo Codice Etico che prevede di partecipare
alla vita associativa, applicare in modo trasparente i contratti di lavoro, "accrescere la
reputazione della classe imprenditoriale" con il rispetto della legalità.
Una rete che era uscita allo scoperto, qualche settimana fa, con l'"invasione" notturna del
Centro storico, tappezzandolo di frasi sulle mafie in Liguria tratte da relazioni parlamentari
e processi. Ora, l'avvio del percorso con i commercianti, "e un'alleanza con i residenti del
quartiere - dice Silvia Melloni del circolo Arci Belleville - per urlare tutti insieme che le
mafie non sono cosa buona".
Soprattutto che "La mafia non è una banca", "perché la percezione maggiore della
criminalità nel Centro storico si ha vedendo negozi "aiutati", o meglio "inquinati", da chi ha
i soldi, che poi li rileva - spiega Daniela Vallarino, presidente del Civ - Il fenomeno è in
crescita e preoccupante. Deve crescere anche la consapevolezza, dobbiamo creare gli
anticorpi".
E allora eccoli, i primi negozi della rete, da cui passare, a costo di deviare i propri percorsi
quotidiani, in nome di un consumo critico e consapevole: sono Pulsatilla di via dei Macelli,
l'erboristeria Altea di piazza delle Vigne e la vicina falegnameria Dateci un martello, la
taperia Jalapeno di via della Maddalena, Mielaus di vico della Rosa, Mimì e Cocò di piazza
del Ferro, Bio Soziglia in piazzetta Macelli, GloGlo Bistrot di piazza Lavagna, il Teatro
Altrove di piazzetta Cambiaso, il Salotto
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Creativo ai Quattro Canti di San Francesco e In Scia Stradda, il bene confiscato di vico
Mele che San Benedetto sta trasformando da bottega equo solidale a spazio per iniziative
sociali. Qui, da In Scia Stradda, sabato 29 c'è anche un incontro di formazione sulle
cooperative che lavorano le terre confiscate: appuntamento alle 18.30. "Quanta vita, alla
Maddalena, in poche centinaia di metri quadrati - conclude Stefania Orengo di Ama alimentiamola".
http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/11/26/news/maddalena-101512436/
Da il Secolo XIX del 26/11/14
«Mafia non è...» alla Maddalena nasce il patto
tra commercianti e cittadini
Beatrice D'Oria
Genova - «Mafia non è folklore», «Mafia non è una banca»: basta un selfie per ribadire
ancora una volta la lotta alle mafie. Si chiama "Sapori di giustizia" il progetto a cui
aderiscono Arci Genova, San Benedetto al Porto, associazione Belleville e presidio Libera
Francesca Morvillo, insieme ad Ama - abitanti della Maddalena e al Civ di quartiere,
progetto che vede riuniti in un network gli esercizi commerciali che si oppongono alle
mafie.
Da venerdì e sabato una decina di commercianti esporranno un cartello dichiarando di
essere commercianti anti-mafie e terranno a titolo simbolico nelle loro vetrine un prodotto
di Libera, sostenendo la lotta alle mafie.
Anche i social network aiutano la consapevolezza: «Con l'hashtag #lamafianone proviamo
a sensibilizzare anche attraverso la rete - spiega Domenico Chionetti della Comunità di
San Benedetto - il primo è stato il sindaco che, questa mattina, ha lanciato la campagna
nella falegnameria "Dammi un martello" di vico Lepre posando per un selfie: bisogna
continuare a parlarne perché la mafia si insinua in tutti i gangli ed è importante esserne
consapevoli»
Un'iniziativa che segue quella della notte del 2 novembre, quando un collettivo di silenziosi
"attacchini" ha tappezzato la zona di volantini con scritte anti-mafie: «Si tratta di una rete
che da tempo si interroga su quali implicazioni ha l'infiltrazione mafiosa nel nostro
quartiere - spiega la presidente del Civ Maddalena Daniela Vallarino - la nostra intenzione
è creare una consapevolezza su questo problema».
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/11/26/AR7XjtgCcommercianti_maddalena_cittadini.shtml
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ESTERI
del 27/11/14, pag. 7
Tripoli contro Tobruk, è battaglia a Bengasi
Giuseppe Acconcia
Libia. Mandato di arresto per il generale filo-Usa Khalifa Haftar, raid su
Tripoli, la Farnesina si schiera per l’intervento
La Farnesina sembra cambiare marcia e diventa ancora una volta interventista, e stavolta
in Libia. Dietro gli interessi espliciti, quelli petroliferi e quelli non dichiarati di controllo
dell’immigrazione, per l’ennesima volta che cosa si nasconde?
Pare cogente il disastroso attacco di Francia e Gran Bretagna del 2011 che ha di fatto
spodestato l’Italia, pure disponibile, con gli Usa, alla guerra e la Germania, contraria all’
intervento armato, nel controllo delle risorse petrolifere a favore di Parigi e Londra.
E così, ieri il ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni ha parlato del possibile invio di
una forza armata, tanto per cambiare di «peace-keeping con l’avallo delle Nazioni unite»
— ma lì è in corso una feroce guerra civile con almeno due governi e due parlamenti
contrapposti, in mezzo a centinaia di milizie armate fino ai denti. «Non potremo più
delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio
Oriente, per la sicurezza della Libia», ha detto il ministro. Già martedì era arrivato un forte
appello, lontano dai toni consueti, della Farnesina a una cessazione immediata dei raid
dell’esercito, vicino al generale Haftar, su Tripoli per non pregiudicare gli sforzi dell’inviato
speciale del Segretario generale dell’Onu per la Libia, Bernardino Leon.
Raid sull’aeroporto
I velivoli coinvolti nei raid su Tripoli sono partiti martedì dall’aeroporto militare libico di
Mitiga, vicino Tripoli. Testimoni riferiscono di aver visto un solo aereo passare a bassa
quota sullo scalo e di aver sentito subito dopo una forte esplosione, seguita da una
colonna di fumo. Tre giorni fa, i militari vicini all’ex agente Cia, Khalifa Haftar, che controlla
il parlamento illegittimo di Tobruk e sostiene il premier Abdullah al-Thinni, con l’avallo del
Cairo, avevano annunciato l’avvio di un’operazione per liberare la capitale libica dalle
milizie filo-islamiste. Haftar ha lanciato un ultimatum di 24 ore alle milizie Scudo di
Misurata per lasciare la capitale. La procura di Tripoli ha risposto spiccando un mandato di
arresto contro Haftar.
Poche settimane fa la Corte suprema libica si era espressa per lo scioglimento in toto del
parlamento di Tobruk, eletto lo scorso giugno da una minoranza di libici, la cui sede si
trova ancorata su una nave a largo delle coste di Bengasi, per le instabili condizioni di
sicurezza. Non solo, il Congresso Nazionale Generale di Tripoli, vicino ai Fratelli
musulmani libici, ha anche emesso un decreto che vieta alle organizzazioni internazionali
e ai governi stranieri di mantenere contatti con qualsiasi parte «illegittima».
Battaglia a Bengasi
Ma la guerra continua anche a Bengasi dove non si fermano i raid di Haftar contro Ansar
al-Sharia, gruppo radicale inserito nella lista dei gruppi terroristici dagli Stati uniti. Ieri due
soldati sono morti nei raid sul capoluogo della Cirenaica. Tuttavia, la roccaforte dei jihadisti
è la città orientale di Derna che ha ora un’organizzazione amministrativa autonoma a cui
capo siede Abu al Baraa al Azdi, di origini yemenite. A Derna sono attive anche la brigata
Rafallah al Sahati, 17 febbraio e l’esercito dei mujahedin. Questi gruppi dichiarano la loro
fedeltà ai jihadisti dello Stato islamico (Isis), attivi in Iraq e Siria.
1.700 milizie
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La Libia è attraversata da un’instabilità politica cronica sin dal 2011. Sono oltre 1700 le
milizie presenti nel paese, in cui circolano indisturbate enormi quantità di armi, dopo i
sanguinosi attacchi della Nato (2011) e la morte violenta del colonnello Muammar
Gheddafi. Sin dal suo insediamento, il fragile governo islamista di Ali Zeidan è stato
incapace di disarmare i miliziani.
Lo scorso ottobre, Zeidan era stato preso in ostaggio per alcune ore. Ma la sfiducia per
l’esecutivo, targato Fratelli musulmani, è arrivata lo scorso marzo, quando Zeidan si è
dimostrato incapace di impedire l’esportazione di petrolio al cargo Morning Glory da parte
dei separatisti della Cirenaica. Proprio da Bengasi è partito il tentativo di golpe dell’ex
generale, critico verso Gheddafi, Khalifa Haftar, insieme ai miliziani di Zintan, che ha
conquistato Bengasi ma non è riuscito ad entrare a Tripoli. Dopo le elezioni del 25 giugno
scorso, con una vittoria dei laici e la formazione del parlamento pro-Haftar a Tobruk, le
milizie jihadiste hanno di nuovo conquistato posizioni.
Come la Somalia
In seguito agli scontri che hanno distrutto l’aeroporto di Tripoli e causato oltre 200 morti,
nel luglio scorso i gruppi radicali avevano dichiarato la nascita dell’«Emirato di Bengasi»,
dopo aver preso il controllo delle basi delle forze speciali della seconda città libica. Da
allora Haftar ha lanciato almeno tre offensive per sottrarre agli islamisti il controllo di
Tripoli.
Fin qui l’unico risultato è una Libia sempre più lacerata, sulla stessa terribile strada della
Somalia, e spaccata in tre: Cirenaica, Tripolitania e sud desertico che è terra di nessuno.
Finalmente anche l’Italia se ne è accorta.
del 27/11/14, pag. 7
Sacrosanto ministro Gentiloni
Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci
«L’Italia sta attrezzandosi per fronteggiare la guerra che le si presenta alle porte?»: Gad
Lerner è andato a chiederlo al nuovo ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, «formatosi nella
cultura del pacifismo e del disarmo, oggi rimessa drammaticamente in discussione
dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare, a cominciare dalla
vicinissima Libia».
Nell’intervista (la Repubblica, 26 novembre), che il ministero degli esteri riporta nel suo sito
dandole carattere ufficiale, Gentiloni ribadisce che, di fronte all’attuale crisi libica, «certo
non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi: abbatterlo era una causa sacrosanta». Spiega
quindi che, poiché «la Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il
dramma dei profughi, il rifornimento energetico», il governo sta lavorando, manco a dirlo,
per «un intervento di peacekeeping, che vedrebbe l‘Italia impegnata in prima fila». E alla
domanda di Lerner se «bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta
contro l’Isis», risponde: «È un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi
ottomila km di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa
minaccia». E aggiunge che «abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e
pacificato, ma ora sappiamo di non poter più delegare le nostre responsabilità agli
americani, strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente».
Questa in sintesi l’intervista che, se non fosse per la drammaticità dell’argomento, rischia
di apparire come un teatrino comico.
Paolo Gentiloni (Pd), formatosi secondo Lerner nella «cultura del pacifismo e del disarmo»
— come si sa, in Italia tutti sono stati da giovani contro la guerra, (perfino Benito
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Mussolini) — è però ora esponente di quello schieramento politico bipartisan che,
stracciato l’articolo 11 della nostra Costituzione (e l’allora trattato di amicizia italo-libico),
ha messo a disposizione nel 2011 le basi e le forze aeree e navali dell’Italia per la guerra
Usa/Nato alla Libia. In sette mesi i cacciabombardieri, decollando per la maggior parte
dall’Italia, effettuavano 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre
40mila bombe e missili.
Venivano allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos
qatariani e occidentali. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli
e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi.
Tra questi, i primi nuclei del futuro Isis, frutto diretto della «sacrasonta», per Gentiloni,
cacciata di Gheddafi — che, dopo aver contribuito a rovesciare il Colonnello libico, sono
passati in Siria per rovesciare Assad.
Una domanda: ma se è sacrosanto l’abbattimento di Gheddafi perché non dovrebbe
essere altrettanto «sacrosanto» l’Isis che è stato il prevedibile effetto collaterale di quella
guerra voluta a tutti i costi dalla Nato?
Qui in Libia, a Bengasi l’11 settembre 2012, le milizie jihadiste si sono ribellate agli alleati
e istruttori Usa assaltando il consolato americano e uccidendo l’ambasciatore Chris
Stevens. Uno smacco per gli Usa. Si dimise il capo della Cia Petraeus e uscì di scena il
segretario di Stato Hillary Clinton (è la spina nel fianco della sua candidatura
presidenziale).
E in Siria, nel 2013, è nato l’Isis che ha ricevuto finanziamenti, armi e vie di transito dai più
stretti alleati degli Usa (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia, Giordania) in un piano
coordinato da Washington (in barba al «disimpegno occidentale» di cui parla Lerner),
lanciando poi l’offensiva in Iraq.
Ma a quanto pare per l’Italia è come se questo disastro non fosse mai accaduto. È la
stessa Italia che ha contribuito ad appiccare «l’incendio» di cui parla Lerner, scaturito dalla
demolizione dello Stato libico e dal tentativo, non riuscito, di demolire quello siriano in
base agli interessi strategici degli Usa e delle maggiori potenze europee, provocando
centinaia di migliaia di vittime (per la maggior parte civili) e milioni di profughi.
La battuta non-sense di Gentiloni che gli Usa sono «strategicamente meno interessati di
noi alle sorti del Medio Oriente» è un penoso tentativo di nascondere la realtà.
Il lancio in Libia di una operazione di «peacekeeping» (ossia di guerra, visto il caos militare
libico), con l’Italia in prima fila, rientra nei piani di Washington che, non volendo impegnare
truppe Usa in una operazione terrestre in Nordafrica (che nella strategia Usa è considerato
un tutt’uno col Medio Oriente), cerca alleati disponibili a farlo e a pagarne costi e rischi.
Già nel giugno 2013, nell’incontro col premier Letta al G8, il presidente Obama chiese
«una mano all’Italia per risolvere le tensioni in Libia». E Letta, da scolaro modello, portò il
compito già fatto: «Un piano italiano per la Libia».
Quello che il premier Renzi ha copiato e ora ripropone per bocca del sacrosanto Gentiloni,
promosso a ministro degli esteri anche per i meriti acquisiti quale presidente della sezione
Italia-Stati Uniti dell’Unione Interparlamentare.
del 27/11/14, pag. 7
Apre Rafah, breve sollievo per migliaia di
palestinesi
Michele Giorgio
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GERUSALEMME
Striscia di Gaza. Il terminal tornato operativo ieri rimarrà aperto anche
oggi. A casa però potrà fare ritorno solo una parte delle migliaia di
palestinesi bloccati da un mese in Egitto dopo le misure punitive decise
dal regime di al Sisi. La pioggia intanto aggrava la condizione degli
sfollati che hanno avuto l'abitazione distrutta dai bombardamenti
israeliani.
«Avevo programmato di viaggiare con mio figlio per due settimane, per dimenticare
l’ultima guerra a Gaza. Ora stiamo affrontando una realtà altrettanto difficile. Dal 5
novembre siamo bloccati in una stanza d’albergo al Cairo…Mi manca mia figlia Zeina». É
questo il racconto che qualche giorno fa Abu Abdallah Tafesh, un abitante di Gaza, ha
fatto a una giornalista di al Monitor. Una storia amara simile a quella che potrebbero dirci i
3500 palestinesi, secondo stime prudenti, 6000 secondo altri dati, bloccati al Cairo, a El
Arish e in altre località da circa un mese, da quando gli egiziani hanno ordinato la chiusura
del valico di Rafah in risposta a un attentato (33 soldati uccisi) compiuto il 24 ottobre nel
Sinai da Ansar Beit al Maqdes, una formazione jihadista affiliata allo Stato Islamico (Isis).
Attentato che, sostiene il regime del presidente Abdul Fattah al Sisi, sarebbe stato
concepito nella Striscia di Gaza. Una versione poco convincente che probabilmente serve,
sussurra qualcuno, alle autorità del Cairo per mascherare il fallimento di oltre un anno di
operazioni militari che hanno soltanto scalfito i jihadisti. Al Sisi e il resto dell’establishment
egiziano, dal giorno del golpe anti-islamista del 2013, sono impegnati in una dura
campagna contro i Fratelli musulmani e il loro braccio palestinese, Hamas. Al punto che il
presidente in una intervista al Corriere ha di fatto proposto l’occupazione militare egiziana
di Gaza descrivendola come un contributo alla stabilità del territorio palestinese e alla
sicurezza di Israele.
In questo mese l’esercito egiziano ha cambiato il volto dei 13 km di frontiera con Gaza,
creando una zona cuscinetto larga un chilometro, demolendo almeno 1500 abitazioni e
trasferendo da un giorno all’altro decine di migliaia di civili a El Arish e altre località
(promettendo risarcimenti irrisori). I militari hanno anche riferito di aver chiuso altre decine
di tunnel sotterranei tra la Striscia e l’Egitto. A ciò ha aggiunto la chiusura prolungata del
valico di Rafah, l’unica porta sul mondo a disposizione dei palestinesi di Gaza. Il terminal
ieri ha finalmente riaperto, per qualche ora, e oggi resterà operativo dalle 9 alle 16, però
solo in uscita dall’Egitto. E’ una buona notizia ma nessuno sa quanti palestinesi potranno
passare. E nessuno è in grado di prevedere quando il valico tornerà ad essere aperto in
futuro. Abu Abdullah Tafesh e il figlio forse non saranno in grado di rientrare a Gaza dove
l’uomo, un insegnante di educazione fisica, è atteso dalla famiglia e dai suoi studenti.
Probabilmente saranno costretti a tornare davanti all’ambasciata palestinese al Cairo a
chiedere aiuto per pagare l’albergo. L’ambasciatore Jamal al-Shobaki ripete che gli
abitanti di Gaza sono le vittime degli attentati terroristici nel Sinai, proprio come i soldati
che sono stati uccisi. Parole che non portano alcun conforto a chi è bloccato da settimane,
in particolare agli 800 palestinesi costretti ad aspettare all’estero, spesso in condizioni
precarie negli aeroporti, quando l’Egitto fisserà una nuova data per l’apertura del valico di
Rafah. Il regime di al Sisi consente l’arrivo allo scalo del Cairo ai palestinesi diretti a Gaza
solo se il terminal di confine è aperto. Da un anno l’Egitto preme affinchè la guardia
presidenziale dell’Anp di Abu Mazen prenda il controllo del versante palestinese di Rafah,
in sostituzione della polizia di Hamas.
Il dramma di tanti civili palestinesi ai quali viene impedito, con una decisione politica, di
tornare a casa, finisce per apparire marginale di fronte alla condizione spaventosa delle
decime di migliaia di palestinesi ai quali i bombardamenti israeliani della scorsa estate
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hanno distrutto l’abitazione. Piove tanto su Israele e Territori occupati. E la pioggia cade
copiosa anche su Gaza trasformando in laghi Shujayea, Beit Hanun, Kuzaa e le altre
località ridotte in macerie. Molte famiglie, con il tempo asciutto, avevano montato tende
accanto alla casa distrutta o si erano adattate a vivere negli edifici danneggiati ma ancora
in piedi. La pioggia però filtra ovunque, allaga, non lascia altra possibilità che quella di
tornare in quelle scuole dove gli sfollati, senza altra possibilità di sistemazione, sono
ospitati da mesi. La ricostruzione di Gaza, dopo le fanfare del 12 ottobre alla conferenza
dei Donatori (promessi 5,4 miliardi di dollari), rimane una parola scritta su fogli di carta.
Israele due giorni fa ha consentito l’ingresso a Gaza di un convoglio di 28 autocarri carichi
di cemento e materiali per l’edilizia, appena il secondo in tre mesi. A questo ritmo una
nuova casa gli sfollati potranno averla tra una dozzina di anni.
Del 27/11/2014, pag. 19
“Nazione ebraica”, Rivlin contro Netanyahu
Il presidente attacca il premier per la proposta di legge che farà
diventare la Torah fonte del diritto “È anti-democratica e spaccherà il
Paese”. La protesta della comunità araba e delle altre minoranze
FABIO SCUTO
Interrotto dai fischi e dalle proteste, incurante delle critiche che piovono da gran parte di
Israele e da quelle che arrivano da Stati Uniti e Europa, il premier Benjamin Netanyahu ha
difeso ieri davanti alla Knesset il disegno di legge che definisce Israele “Stato della
Nazione ebraica”. E’ una legge necessaria, ha argomentato il premier annunciando che
sarà votata la prossima settimana, per sventare iniziative volte a cambiare Israele ed
evitare che il Paese sia «inondato» da profughi palestinesi. Una legge che nelle sue
pieghe afferma che l’ebraismo sarà la fonte del diritto nella legislazione, e che lo Stato
come tale sosterrà solo l’educazione ebraica, altri gruppi sociali religiosi o etnici dovranno
provvedere per proprio conto. Stabilisce che fra ebraismo e democrazia, il primo è
superiore al secondo. Una legge voluta dai “falchi” dell’ultradestra del Likud e dai
nazionalisti di Focolare ebraico, che rischia di essere benzina sulla crisi di queste
settimane e aumentare le tensioni fra israeliani e arabi, che sono il 20 % della popolazione
di Israele, ma anche di ferire i rapporti con le altre comunità, come i drusi che sono da
sempre fedeli alleati del popolo ebraico.
I fiumi di parole sui giornali e nei talk show hanno spinto il capo dello Stato Reuven Rivlin
a dire la propria sulla legge che tanto sta a cuore al premier. Il successore di Shimon
Peres — ex avvocato, giurista ed ex presidente della Knesset — ha scelto un forum di
magistrati per denunciare che la «nuova legge non rafforzerà lo Stato ebraico di Israele
ma anzi lo indebolirà». Gli israeliani, ha detto il presidente, hanno una gloriosa casa
nazionale, parlano ebraico e producono una ricca cultura nella propria lingua, le festività
ebraiche sono celebrate in pubblico, la bandiera con la Stella di David e l’inno nazionale
sono chiaramente presenti negli eventi sportivi mondiali, il simbolo dello Stato è sul
passaporto di tutti gli israeliani. «E allora perché questa legge superflua e dannosa?» che
è contro la visione di uguaglianza con i cittadini arabi dei padri fondatori, si è chiesto il
presidente; «Israele è già di fatto lo Stato nazione del popolo ebraico».
Su questa legge si gioca la sopravvivenza del governo. “Netanyahu contro lo Stato di
Israele”, titolava ieri Yedioth Ahronoth, accusando il premier di pensare solo alla sua
sopravvivenza politica. La legge, spiega il giornale, è il ticket che il premier deve pagare
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alla destra ultrà del Likud se vuole ottenere ancora la nomination alle primarie di gennaio,
in vista del sicuro voto anticipato. Lo scontro nell’Esecutivo è al vetriolo. Yair Lapid,
ministro del Tesoro e capo dei centristi di “Yesh Atid” giudica che pure il capo storico della
destra israeliana «Menachem Begin si sentirebbe fuori posto dentro questo Likud». Non
meno tenera la signora Tzipi Livni, ministro della Giustizia che a Repubblica sintetizza così
lo scontro: «E’ una lotta fra sionisti che sostengono la democrazia e i membri estremisti di
un Tea-Party israeliano che vogliono uno Stato religioso ebraico che si nasconde e si
isola, uno Stato che alla fine è anti- sionista e anti-democratico».
Il disagio del presidente Rivlin, uomo di destra e da sempre nel Likud, è condiviso giuristi
come il Procuratore Generale Yehuda Weinstein che ha definito la legge in contrasto con
gli intenti della dichiarazione di indipendenza (Israele non ha una Costituzione) e con i
principi democratici dello Stato. Non è un giurista né un politico Mahmoud Seif, è lo zio del
poliziotto ucciso nella sparatoria alla Sinagoga la scorsa settimana. «Mio nipote - dice - è
caduto in battaglia contro i terroristi e prima, come tutti i drusi, ha fatto il servizio militare
nell’Esercito e adesso perché deve passare una legge che mette la nostra lealtà in
dubbio?».
del 27/11/14, pag. 17
“A Kabul gli alleati Nato
rispettino gli impegni presi”
L’inviato di Obama per l’Afghanistan: combatteremo ancora i taleban
Paolo Mastrolilli
«Nel corso del processo di revisione della missione in Afghanistan da parte delle nostre
agenzie governative, è stato raccomandato al presidente Obama che le truppe americane
possano, in circostanze limitate, dare supporto alle Forze di sicurezza afghane per evitare
effetti strategici dannosi». Dan Feldman, Rappresentante speciale degli Stati Uniti per
l’Afghanistan e il Pakistan, descrive con queste parole il cambiamento avvenuto nella
missione per il 2015, che quindi potrà avere ancora obiettivi di combattimento contro i
taleban. Ciò non riguarda direttamente l’atteggiamento tattico degli altri contingenti, come
quello italiano, che Washington si aspetta di vedere ancora attivo nella regione di Herat,
però starà ai militari di Roma decidere se fare eventuali aggiustamenti anche alla loro
postura per motivi di sicurezza. Feldman concede questa intervista esclusiva a «La
Stampa» in vista della conferenza di dicembre a Londra, dove il nuovo presidente Ghani e
il Chief Executive Abdullah presenteranno ai donatori le loro necessità per avere successo
nella stabilizzazione del Paese.
L’offensiva dell’Isis in Iraq, e la necessità di evitare che qualcosa del genere si
ripeta in Afghanistan dopo il ritiro del 2014, ha cambiato i vostri piani?
«La nostra missione non è mutata, rispetto a quanto aveva annunciato il presidente a
maggio. Naturalmente le cose che accadono nel resto del mondo vengono tenute presenti
da chi prende le decisioni, ma vorrei tenere separati i due teatri. La revisione è stata fatta
pensando solo alle esigenze dell’Afghanistan».
Il «New York Times» ha scritto che il presidente Obama ha approvato una direttiva
segreta, per continuare le operazioni di combattimento anche nel 2015. E’ vero?
«C’è stata un po’ di confusione e di esagerazione. Dopo la revisione di cui ho parlato, il
presidente ha accettato la raccomandazione che le nostre truppe non attaccheranno più i
belligeranti in quanto taleban, ma in circostanze straordinarie daranno supporto alle forze
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di sicurezza afghane per evitare effetti strategici dannosi, e garantire che siano più efficaci
possibile. Nello stesso tempo, faremo tutto il necessario per la sicurezza del nostro
personale. Sono chiarimenti legali, ma la missione non cambia».
Questi aggiustamenti avranno un effetto anche sull’atteggiamento tattico degli altri
contingenti in Afghanistan?
«Riguardano solo le forze americane e la sicurezza del nostro personale. Sono separati
dalla decisioni che prenderanno la Nato o i singoli Paesi».
Quindi sta all’Italia determinare autonomamente che deve cambiare l’atteggiamento
tattico del suo contingente in Afghanistan, per ragione di sicurezza?
«Sì, esatto. Io posso parlare solo delle raccomandazioni presentate al presidente per le
forze americane».
Cosa vi aspettate dagli italiani? Resteranno nella zona di Herat per curare
l’addestramento?
«Hanno fatto una lavoro straordinario nella regione occidentale dell’Afghanistan, ci
auguriamo di continuare questa collaborazione».
In base ai piani originari di Resolute Support, l’operazione che comincerà nel 2015,
gli Usa dovevano fornire 9800 soldati e la Nato i restanti 2200. Ieri però la Reuters ha
scritto che alcuni alleati hanno segnalato la difficoltà di avere i loro contingenti
pronti, a causa dei ritardi nella definizione della missione. Come risponderete?
Sarete costretti ad aumentare i vostri militari?
«Le forze Usa in Afghanistan nel 2015 saranno circa 10.000 uomini, e ci aspettiamo che i
partner della Nato rispettino i propri impegni. Naturalmente si riconosce che ci sono stati
ritardi a causa delle elezioni, e quindi la missione post 2014 è indietro di qualche mese
rispetto a quanto avremmo voluto. Ci aspettiamo comunque che all’inizio del 2015 sarà
completamente formata e in grado di svolgere i suoi compiti».
del 27/11/14, pag. 8
Lo Stato prigione
Marco Omizzolo, Roberto Lessio
Inchiesta. Almeno diecimila prigionieri politici. Leva obbligatoria fino a
50 anni per gli uomini e 40 per le donne. Obbligo di versare una
percentuale dei guadagni per chi fugge all’estero. Pena: ritorsioni
contro le famiglie. E’ l’Eritrea di Isaias Afewerki
In Eritrea da anni domina uno dei regimi più violenti al mondo. Il dittatore Isaias Afewerki,
al potere dal 1993, non ha scrupoli con la popolazione locale e con quanti cercano di
scappare dal paese. Chi sta con lui vive, chi lo contesta muore o è costretto a fuggire.
Ricordare la violenza di questa dittatura è utile in vista della conferenza ministeriale
organizzata dal viceministro per gli Affari Esteri Lapo Pistelli per oggi e domani a Roma
con lo scopo di lanciare il Processo di Khartoum: un dialogo rafforzato tra i paesi africani e
l’Ue per impegnarsi sulla gestione delle migrazioni. Alla conferenza prenderanno parte i
rappresentanti dei paesi di origine e transito della Horn of Africa Migratory Route, la
principale rotta migratoria verso l’Europa, tra i quali uno del governo eritreo. In
concomitanza, il Comitato Giustizia per i nuovi desaparecidos ha convocato per domani
una conferenza stampa alla Camera dei deputati per denunciare le morti di migranti
nell’area mediterranea, ricostruire la verità, sanzionare i responsabili e rendere giustizia a
vittime e familiari. A partire da quelle del regime eritreo. I portavoce del Comitato, tra cui
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Enrico Calamai, chiedono che il Processo di Khartoum non impedisca all’Italia di
condannare Afewerki e di sostenere il popolo eritreo, vittima di una dittatura che ha
cancellato ogni libertà, tutti i diritti civili e politici, qualsiasi tentativo di opposizione.
Le ultime elezioni si sono svolte nel 1994 mentre la costituzione, approvata nel 1997, non
è mai stata applicata. Dal 2001 sono agli arresti una quindicina tra ministri, funzionari e alti
ufficiali dell’esercito, senza essere comparsi davanti a un giudice per conoscere almeno le
accuse a loro carico. E numerosi giornalisti, leader religiosi, politici, obiettori di coscienza,
semplici cittadini, sono scomparsi in prigione, spesso senza processo. Secondo Amnesty
International sono almeno 10mila i prigionieri politici eritrei rinchiusi nelle carceri di
Asmara, alcuni anche da vent’anni. Lager in realtà, non semplici prigioni. Come ad
Eiraeiro, dove molti sono morti durante la carcerazione, come i giornalisti Dawit Isaak
(cittadino svedese oltre che eritreo) e Yohannes Fesshaye, del quale non si conosce
nemmeno l’anno preciso del decesso. Vige nel paese inoltre la leva militare obbligatoria
fino al 50esimo anno per gli uomini e al 40esimo per le donne. Gli eritrei di questa età non
possono espatriare e molti, quindi, fuggono illegalmente, spesso morendo nel
Mediterraneo o lungo il deserto, quando non diventano prede di trafficanti di esseri umani
che, come denunciato dalle Nazioni unite, sono collusi con l’establishment militare.
Secondo il The human trafficking cycle: Sinai and beyond della giornalista eritrea Meros
Estefanos redatto con van Reisen e Rijken dell’università olandese di Tilburg, sarebbero
circa 30 mila le persone imprigionate, tra il 2009 e il 2013, da clan di beduini. Questi
rapiscono i profughi in fuga dall’Eritrea, insieme a sudanesi ed etiopi, per ottenere un
riscatto passato in pochi anni da mille dollari a persona a 30–40 mila. Il giro d’affari è di
circa 622 milioni di dollari, 453 milioni di euro. Le vittime sono soprattutto giovani eritrei
(circa nove su dieci, secondo il rapporto) e spesso vengono dai campi profughi in Sudan o
dal campo militare di Sawa. I sequestratori sono invece militari eritrei che gestiscono i
campi di addestramento e che li vendono ai trafficanti di uomini. Questi operano lungo la
frontiera Sudan-Eritrea e appartengono alle stesse bande di predoni, legate a
organizzazioni internazionali del crimine, che per anni, nel Sinai, hanno sequestrato,
ricattato, torturato e spesso ucciso migliaia di persone che tentavano di varcare il confine
tra Egitto e Israele.
Un business mafioso
La loro presenza ai margini del confine settentrionale eritreo è la prosecuzione dello
stesso business mafioso, giocato sulla vita di chi cerca di evitare guerre e persecuzioni.
L’unica differenza è che le basi operative dei vari clan si sono trasferite dal deserto del
Sinai in Sudan, e che ai vecchi clan di predoni si sono aggiunti gruppi di terroristi che
fanno del traffico di uomini una lucrosa fonte di finanziamento. Una spinta decisiva in
questa direzione è arrivata dalla costruzione della barriera che ha blindato nel deserto la
frontiera israeliana. La conseguenza non è stata la fine del flusso crescente di profughi ma
solo il suo spostamento. I primi segnali si sono avuti con la presenza di emissari dei
mercanti di morte intorno o addirittura all’interno dei campi profughi sudanesi: personaggi
senza scrupoli che si propongono come intermediari per la traversata del Sahara verso la
Libia o addirittura rapiscono nei campi le loro vittime per venderle alle varie bande
organizzate. Questo sistema criminale si è ramificato intorno ai confini con l’Etiopia e
controlla sia la frontiera che il suo retroterra, intercettando e sequestrando un numero
crescente di profughi. L’ultima conferma viene da un episodio recente: almeno 15 ragazzi,
tra i 20 e i 23 anni, sono stati catturati da predoni armati a pochi chilometri dal confine,
mentre tentavano di raggiungere il campo di Shakarab o di proseguire verso Khartoum. La
loro sorte è stata segnalata all’agenzia Habeshia dalla famiglia di uno del gruppo; un
ventenne che, come i suoi compagni, ha disertato dall’esercito eritreo. Il ragazzo è riuscito
a contattare un familiare attraverso il cellulare messogli a disposizione dai rapitori per
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chiedere il riscatto: 15 mila dollari. Una cifra inesigibile. «Piangeva e urlava di dolore – ha
raccontato il familiare – perché durante la telefonata lo picchiavano e lo torturavano per
rendere più convincenti le sue parole…». Lui stesso ha raccontato come è stato rapito e
che erano una quindicina, incatenati l’uno all’altro, chiusi in una piccola casa nel deserto.
Se la famiglia non riuscirà a pagare la sua liberazione sarà venduto ad un’altra banda e
poi ad un’altra ancora, con crescita del riscatto ad ogni passaggio e la minaccia finale di
passarlo ai trafficanti di organi per i trapianti clandestini.
Ricatti alle famiglie
Anche le famiglie di chi fugge subiscono continue ritorsioni; i genitori o i parenti di primo
grado possono essere arrestati e obbligati a pagare una multa elevatissima. Un modo per
l’Eritrea di rimediare risorse per la propria sopravvivenza: è la cosiddetta diaspora
taxation. Ogni eritreo all’estero deve versare il 2% del proprio reddito al regime; una tassa
pagata alla dittatura proprio da chi fugge da essa e cerca di ricostruirsi una vita. Il regime
di Asmara liquida come provocazioni le contestazioni che si moltiplicano in Eritrea e
all’estero tra le migliaia di rifugiati della diaspora e parla di congiura internazionale per
giustificare la progressiva crisi del paese. Intanto la povertà domina. L’Eritrea è uno dei
paesi più poveri al mondo. Il pil pro capite è di 792 dollari l’anno. La carestia che ha
investito il Corno d’Africa nel 2010 è stata devastante. Ma il regime ha negato l’emergenza
e rifiutato gli aiuti internazionali per ragioni politiche e di prestigio, condannando la
popolazione a sofferenze enormi. La dittatura è accusata anche di armare i gruppi
fondamentalisti che operano nel Corno d’Africa. Hillary Clinton, allora segretario di stato
americana, ne ha parlato fin dal 2008–2009, con riferimento agli estremisti islamici di Al
Shebaab, il movimento legato ad Al Qaeda che opera in Somalia e vicino al califfato
dell’Isis. Il medesimo gruppo che ha attaccato recentemente un autobus pubblico a
Mandera, nel nord del Kenya, uccidendo 28 persone e ferendone molte altre. La stessa
contestazione è stata mossa ad Asmara da tutti gli Stati del Corno d’Africa. La Svezia,
invece, ha inserito nella lista dei personaggi da perseguire il presidente Afewerki e alcuni
suoi ministri. La Chiesa eritrea ha denunciato duramente l’attuale situazione con una
coraggiosa lettera pastorale firmata da tutti i vescovi. Inoltre, il Consiglio delle chiese,
riunitosi a Ginevra nel luglio scorso, ha fatto proprie le posizioni dei vescovi eritrei e
protestato contro l’arresto e detenzione ai domiciliari, dal 2004, del patriarca Antonio.
L’Eritrea è stata dunque isolata da quasi tutti i governi democratici. L’incontro del 28
novembre potrebbe essere l’occasione per un impegno reale dell’Italia contro il dittatore e
in favore della popolazione eritrea. A patto di usare quel palcoscenico per combattere al
fianco di un popolo oppresso e superare piccoli e grandi interessi che varie aziende
italiane continuano ad avere con la dittatura. Ma questo è un altro capitolo che
affronteremo a breve.
del 27/11/14, pag. 16
Guerra allo stupro
Giuseppe Acconcia
Congo. Intervista al medico congolese Denis Mukwege, premio
Sakharov 2014: «Salviamo le donne il cui corpo è trasformato in campo
di battaglia. La violenza sessuale di gruppo è un atto pianificato di
guerra. Per conquistare territorio»
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Abbiamo incontrato il carismatico medico congolese Denis Mukwege, un padre d’Africa
che ha appena ritirato il XXVI premio Sakharov 2014 del Parlamento europeo (che fu di
Nelson Mandela nell’88) per il suo impegno nel curare le donne congolesi vittime di stupro
di guerra. Mukwege ha dedicato il premio a tutte le vittime di stupro. Tra i nominati di
quest’anno c’era anche l’attivista per i diritti umani dell’Azerbaijan, Leyla Yunus,
attualmente in prigione: è stato impedito a una delegazione dell’Europarlamento di farle
visita. Nel 1999, Mukwege ha fondato l’ospedale Panzi, a otto chilometri dalla città di
Bukavu nella provincia del Sud Kivu nella zona orientale della Repubblica democratica del
Congo, dilaniata da uno dei conflitti più cruenti che sconvolgono la regione. Mukwege
lavora con un’équipe di sette medici con l’aiuto anche di tecnologia belga per «ridare la
vita alle donne incurabili»: alle vittime di stupri di guerra; e per ridurre gli altissimi tassi di
mortalità materna nel suo paese.
Cos’è uno stupro di guerra?
Il corpo delle donne è trasformato in campo di battaglia. La violenza sulle donne come
arma di guerra nulla ha a che vedere con lo stupro che subisce una donna che non
acconsente a un rapporto. Le donne che curiamo subiscono stupri di gruppo, torture
sull’apparato genitale. Molte di loro sono inoperabili quando arrivano al nostro ambulatorio
e spesso hanno 14 o 15 anni. In Congo i gruppi armati terrorizzano le donne violentandole
davanti a tutti. E la tendenza è a un aumento esponenziale di questi stupri di gruppo
anche al di fuori delle regioni colpite dal conflitto.
Come può un uomo commettere un atto tanto atroce?
I violentatori subiscono sin dall’età di dieci anni il lavaggio del cervello perché commettano
violenze sulle donne: lo fanno già all’interno delle loro famiglie con le madri e le sorelle. Il
70% di costoro, che poi si arruola, ha sindromi post-traumatiche gravi: sono formati per
violentare. Per questo lavoriamo con l’Università di Stoccolma soprattutto per aiutare le
donne a superare il trauma da un punto di vista psicologico. In Congo normalmente è la
comunità a prendersi cura di una donna violentata, ma questo meccanismo è interrotto
dalla guerra in corso: la società è traumatizzata. Non possiamo avere un esercito, poliziotti
e amministratori stupratori, criminali, che violentano il proprio popolo.
Cosa succede alle donne che hanno subito uno stupro di guerra in Congo?
Le donne stuprate lasciano la loro terra per vergogna, se rimangono diventano schiave,
costrette a lavorare per caporali. Lo stupro di guerra disumanizza, umilia e disonora. E’ un
modo per negare l’umanità della donna come portatrice della vita. Centinaia di donne
devono fare chilometri e chilometri a piedi per raggiungere il nostro ospedale. Chiediamo
che gli ospedali pubblici in Congo offrano la stessa cura olistica per avvicinare le cure alle
vittime.
Come è nato il suo impegno al fianco delle donne?
Il numero di vittime di stupri di guerra era talmente alto che non poteva essere un danno
collaterale ma un atto pianificato di guerra. Quando operavo le vittime mi rendevo conto
che questi stupri sono come delle firme: è possibile distinguere se la violenza è opera di
un gruppo o di un altro. E così decisi di fondare l’ospedale Panzi. Abbiamo curato 42 mila
donne dal 1998 a oggi. Ma non ci occupiamo solo dei danni fisici, forniamo una cura
olistica che consideri anche le profonde conseguenze psicologiche e legali che le donne
stuprate in Congo subiscono. E ci occupiamo poi dell’assistenza socio-economica alla
famiglia che è una vittima indiretta dello stupro: pensate a un bambino traumatizzato che
ha visto con i suoi occhi la madre subire uno stupro e un padre umiliato per la violenza
subita dalla sua donna come possono vivere.
Ma la guerra nel Congo orientale continua…
Abbiamo lavorato per anni nel silenzio totale dei media occidentali ora ci sentiamo ripagati
dei nostri sforzi, ma per sradicare questo abominio è necessario fermare la guerra in
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Congo. Da venti anni attendiamo un trattato di pace credibile: ci sono sempre stati accordi
che avevano in sé il germe di nuovi conflitti. Abbiamo dato credito agli accordi di Addis
Abeba del 2013 ma fin qui non hanno portato a nulla. Subìamo le conseguenze di
un’economia militarizzata e istituzioni fragili.
E’ diventato anche un conflitto per il controllo delle ingenti risorse di coltan presenti
nel sottosuolo congolese?
Viviamo in una condizione di sicurezza degradata nell’Est del paese. Qui operano gruppi
armati di Burundi, Uganda, Rwanda a cui si aggiungono i giovani Mai Mai, gruppi armati
locali che violentano le donne per costringerle a lasciare la loro terra e occuparla. E così
queste bande armate diventano proprietarie del suolo e del sottosuolo.
Come interviene la giustizia congolese?
Gli stupratori operano nell’impunità totale. Abbiamo leggi per la difesa dei diritti umani, una
riforma della sicurezza, votata dal parlamento, ma mai implementata. Vorremmo che
venisse creato un tribunale misto per formare i magistrati congolesi. Il Congo è la capitale
dello stupro ma non ci sono processi penali che condannino gli stupratori. Chiediamo poi
camere separate. Non è possibile che le donne violentate stiano di fronte a poliziotti e
soldati che sono stati i perpetratori della violenza quando decidono di denunciarli.
Dopo il tentativo di assassinio che ha subìto per il suo impegno al fianco delle
donne («una resistenza testarda», come è stata definita) ha pensato di lasciare il
suo paese?
Mi sono trasferito in Belgio per qualche tempo. Le donne che avevamo curato hanno
scritto a tutte le autorità congolesi chiedendo il mio rientro. Hanno assicurato che
avrebbero fatto loro stesse da sicurezza per evitare che subissi altri attentati. Ogni
settimana portavano i loro prodotti per pagarmi il biglietto aereo di ritorno, allora ho deciso
di fare rientro in Congo.
Qual è il primo passo perché lo stupro non sia più usato come strumento di guerra?
E’ molto importante che siano gli uomini a impegnarsi. Deve nascere un movimento di
uomini che lotta contro la violenza sulle donne. Sappiamo che il 99% degli uomini non
commette stupri, per questo sono gli uomini a dover lavorare insieme alle associazioni di
donne per superare questa piaga.
Del 27/11/2014, pag. 16
La rivolta delle star nere “Ferguson, uno
scandalo” L’America scende in piazza
La rabbia corre in Rete. Arresti a Los Angeles Magic Johnson: “Basta
con le morti inutili”
FEDERICO RAMPINI
FERGUSON
L’AMERICA intera protesta per l’ingiustizia di Ferguson, con la cittadina del Missouri
solidarizzano le metropoli dalla East Coast alla West Coast. E si mobilita con una
coesione rara il mondo delle star afroamericane, dallo sport allo spettacolo. Twitter,
Facebook, tutti i social media sono inondati di messaggi che vengono dalle celebrità nere.
Sono reazioni durissime contro l’assoluzione del Grand Jury per l’agente Darren Wilson,
che il 9 agosto uccise il 18enne nero Michael Brown, disarmato. Serena Williams
commenta: «Wow. Vergognoso». Magic Johnson: «Dobbiamo lavorare insieme per porre
fine alle morti inutili di giovani di colore. A Ferguson non è stata fatta giustizia». LeBron
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James riecheggia la linea di Barack Obama, un richiamo alla questione razziale e una
dissociazione dalle violenze: «Come società dobbiamo evitare il ripetersi di queste morti.
Sono vicino alle famiglie, ma la vendetta non è la risposta». L’attore Chris Brown
condanna con sarcasmo la lunghezza del procedimento del Grand Jury: «Non ci vogliono
100 giorni per decidere se un omicidio è un crimine, ci vogliono 100 giorni per capire come
dirlo agli americani». Il mondo dello sport e quello della musica, il cinema e la televisione,
è un coro di indignazione. Era dai tempi della prima elezione di Obama nel 2008, che gli
opinion leader della comunità afroamericana non scendevano in campo così compatti e
decisi. È una coalizione di celebrità che interpreta gli umori dei neri ed anche delle giovani
generazioni di tutte le etnie. È la conferma che Ferguson è diventata un simbolo. Al di là
delle polemiche che proseguono sulle testimonianze di parte, sulle scelte controverse del
magistrato che ha orientato il Grand Jury, la morte di Brown riapre un dibattito nazionale
sulla questione razziale. Un tema unifica le proteste: l’American Dream ha tradito una
parte di questa società. La ripresa economica che dura da cinque anni non ha sanato le
diseguaglianze crescenti, e i giovani maschi afroamericani sono la componente più
debole, hanno i salari più bassi, il tasso di disoccupazione più elevato. Per loro la
percentuale di arresti, condanne al carcere, uccisioni sotto il fuoco della polizia, è un
multiplo della media nazionale. Il coro delle star fa amplificare quello che succede nella
società civile. A Ferguson gli scontri violenti sono stati contenuti dalla mobilitazione
eccezionale di forze dell’ordine, 2.200 militari della National Guard schierati dal
governatore del Missouri, Jay Nixon. Ma nella metropoli vicina e più grande, Saint Louis, le
manifestazioni hanno costretto a chiudere il palazzo del municipio. Dopo che un gruppo di
manifestanti era riuscito a introdursi dentro il City Hall, centinaia di poliziotti sono accorsi in
rinforzo, fino a “blindare” la sede comunale, evacuando il personale e chiudendone
l’attività. Ormai l’epicentro della protesta non è più solo il Missouri ma l’America tutta
intera. La giornata di ieri è stata segnata proprio da questo salto di dimensione, la
“nazionalizzazione” delle proteste. L’elenco si è allungato a centinaia di città. A New York il
traffico è stato bloccato in diversi quartieri: il corteo principale è partito da Union Square,
diretto a Times Square. Altri gruppi di ma- nifestanti hanno bloccato ponti tra Manhattan e
Brooklyn col risultato di un caos nei trasporti, alla vigilia di Thanksgiving. Da Chicago ad
Atlanta, le maggiori metropoli hanno visto dei cortei in piazza, guidati da leader religiosi e
da politici afroamericani. La maggioranza sono state pacifiche, solo in alcuni casi le
proteste sono sfociate in scontri con la polizia. A Los Angeles ci sono stati 130 arresti.
Sempre in California, a Oakland la tensione con le forze dell’ordine è stata alta. 44 arresti
a Chicago, 21 ad Atlanta. Nel Midwest il Minnesota ha visto uno dei cortei più vasti.
Nelle proteste di piazza si sono visti anche bianchi e ispanici, soprattutto giovani. Ma la
“maggioranza silenziosa”, come venne chiamata fin dai tempi di Richard Nixon l’opinione
pubblica bianca e moderata, vive in altro modo la vicenda di Ferguson. Il confronto con
l’era Nixon richiama alla memoria una stagione di rivolte ben più radicali, violente e di
massa: le ribellioni nei ghetti metropolitani degli anni Sessanta, quando ci furono anche
movimenti di lotta armata (Black Panthers) che contrastavano la non violenza di Martin
Luther King. Oggi non esiste più un “terrorismo nero”, eppure i bianchi continuano a
percepire gli afroamericani come un pericolo per l’ordine pubblico. Gli ultimi sondaggi,
dalla Cnn all’ Huffington Post , rivelano che due terzi dei bianchi condividono l’assoluzione
dell’agente Wilson; mentre due terzi dei neri sono convinti che andava incriminato per
omicidio.
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del 27/11/14, pag. 1/15
Il sistema della violenza
Bruno Cartosio
Ferguson e dopo . Per il rapporto del 2013 Operation Ghetto Storm, nel
2012 una persona afroamericana è stata uccisa ogni 28 ore da un
agente, un poliziotto privato o un vigilante. E lo storico Robin Kelley ha
elencato su Counterpunch tutti gli ultimi casi di ingiustificabile e
mortale violenza poliziesca in Ohio, Illinois, Michigan, Utah, California,
New York
Di nuovo l’eruzione della protesta a Ferguson, ma stavolta i suoi lapilli incandescenti
ricadono su tutto il resto degli Stati Uniti: manifestazioni di varie entità e caratterizzate da
comportamenti diversi – e non composte da soli afroamericani – hanno luogo da lunedì
scorso in tutte le maggiori città, da una costa all’altra. Perché le parole con cui il
procuratore della contea di St. Louis ha annunciato la decisione del gran giurì sono state
tanto offensive, quanto la decisione di non rinviare a giudizio l’agente Darren Wilson.
Ma anche perché, nei tre mesi passati tra l’omicidio di Michael Brown e ora, altri fatti come
quello sono successi in altre parti del paese.
Soltanto i più assurdi – come quelli del dodicenne Tamir Rice ucciso in un parco di
Cleveland perché aveva in mano una pistola giocattolo o del ventottenne Akai Gurley
ammazzato sulle scale scure di casa sua a New York – fanno notizia fuori degli Stati Uniti.
Di tanti altri, al loro interno, spesso sono solo i media locali a dare notizia, con maggiore o
minore rilievo. Invece la comunità nera tiene i conti. La giornalista Melissa Harris-Perry ha
denunciato che almeno due cittadini afroamericani sono stati uccisi ogni settimana da
poliziotti bianchi tra il 2006 e il 2012. Il Malcolm X Grassroots Movement ha pubblicato
l’anno scorso un rapporto – Operation Ghetto Storm – da cui risulta che nel 2012 una
persona afroamericana è stata uccisa ogni 28 ore da un agente, un poliziotto privato o un
vigilante. E nei giorni scorsi lo storico Robin Kelley ha elencato su Counterpunch tutti gli
ultimi casi di ingiustificabile e mortale violenza poliziesca accaduti in Ohio, Illinois,
Michigan, Utah, California, New York.
Perché la protesta si allarga
Ed è proprio la diffusione di tale violenza su tutto il territorio nazionale che dopo avere
prodotto infinite iniziative di denuncia e organizzazione ha portato ora all’allargamento
della protesta. Ferguson ha fatto da catalizzatore. La stessa lentezza del gran giurì e i
dubbi intorno ai suoi lavori hanno favorito la crescita del movimento a St. Louis, che dopo
avere organizzato manifestazioni pacifiche nei mesi scorsi, è stato al centro della risposta
di piazza, non più pacifica, il 24 novembre.
Dopo il 9 agosto, tutti avevano scritto che a Ferguson il corpo di polizia era quasi
totalmente bianco in un contesto sociale prevalentemente nero e tutti avevano scritto
dell’impoverimento della sua popolazione afroamericana.
L’espropriazione dei poveri
Ma solo ora, grazie al lungo, impressionante saggio-inchiesta di Radley Balko, un
giornalista del Washington Post, le più generali analisi sociologiche e politiche sulla
oppressione di casta e classe hanno conferma nei «numeri» e nella casistica minuta delle
«persecuzioni e umiliazioni giornaliere» inflitte ai neri poveri in quella parte del Missouri.
Anzitutto, soltanto in una delle 31 municipalità della contea di St. Louis, cui appartiene
anche Ferguson, la proporzione di neri nei singoli corpi di polizia è superiore a quelle dei
locali residenti neri. E pressoché ovunque i comportamenti di poliziotti e magistrati sono
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così stabilmente, e spesso pretestuosamente, mirati a colpire i residenti afroamericani con
incriminazioni, pene e sanzioni da giustificare che, da una parte, Robin Kelley possa
parlare di una «guerra di bassa intensità» contro le componenti povere della popolazione
e che, dall’altra, si possa dire che attraverso essa viene anche messo in atto un letterale
esproprio ai loro danni. A Ferguson il numero degli arresti è pazzesco: su 21.000 abitanti,
32.000 mandati d’arresto nel 2012. Per alcune delle municipalità circostanti i proventi dalle
multe e sanzioni costituiscono fino al 40 per cento delle entrate. Non è dappertutto così,
naturalmente. E le forme persecutorie cambiano a seconda delle aree e di quale è la
minoranza più numerosa. Qui i poveri sono soprattutto afroamericani, altrove sono anche
latinoamericani. A New York o a Los Angeles neri e latinos insieme costituiscono l’ottanta
per cento delle persone fermate e perquisite dalla polizia.
Il procuratore McCulloch e i «suoi» giurati hanno ritenuto insufficienti le prove necessarie
per sottoporre l’agente Darren Wilson a un regolare processo in una corte di giustizia.
Tuttavia il caso di Ferguson non è chiuso. Rimane in piedi l’indagine federale sul suo
corpo di polizia voluta da Obama e affidata al ministro della Giustizia Holder. La speranza
è che l’impunità della polizia venga infine scardinata, grazie alla tenaglia della protesta dal
basso e dell’intervento dall’alto; ma le aspettative, realisticamente, non sono altrettanto
ottimistiche.
Il debito del debole Obama
Il pessimismo è giustificato dalla situazione in cui si trovano il Presidente e il suo
gabinetto. Il dato di partenza è che gli afroamericani e i latinos hanno votato in percentuali
molto alte per Obama e per i democratici. A loro la Presidenza attuale deve molto. Per
questo Obama ha inaugurato i suoi ultimi due anni di mandato con un ordine esecutivo
che apre la strada verso la regolarizzazione a 4–5 milioni di immigrati illegali i cui figli sono
nati negli Stati Uniti (e che per il vigente ius soli sono cittadini statunitensi). L’ordine
esecutivo è stato motivato con il fatto che la maggioranza repubblicana ha sempre
impedito che venisse discusso alla Camera il progetto di riforma approvato dal Senato.
Esso rivela, però, anche l’isolamento dell’esecutivo. Ora che i repubblicani sono in
maggioranza in entrambe le camere, cercheranno di sgonfiare l’operatività della decisione
di Obama. Lo faranno senza fanfara, per non perdere il voto latino nelle prossime elezioni;
ma lo faranno, impugnando l’ordine esecutivo sul piano procedurale e magari proponendo
un altro progetto di legge destinato a essere discusso e attuato dopo le votazioni del 2016.
Nulla per le minoranze
Per quanto riguarda gli afroamericani, quali che siano le conclusioni cui arriverà l’indagine
Holder – che è inevitabile che censuri i comportamenti della polizia – è assai difficile che
essa possa portare a cambiamenti sostanziali. Questi sarebbero possibili soltanto
attraverso un mutamento politico-culturale generalizzato, che l’amministrazione Obama
non è in grado di favorire e tanto meno di imporre. Le maggioranze repubblicane in
Congresso e magari un futuro presidente repubblicano non faranno nulla a favore della
minoranza afroamericana, né di altre minoranze, né dei poveri. L’elezione
dell’afroamericano Obama alla presidenza ha avuto un straordinario valore simbolico,
positivo per molti, ma negativo per molti altri. Lo hanno testimoniato le denigrazioni, gli
insulti e gli attacchi propriamente politici di cui è stato oggetto in Congresso e fuori. E ora
che Obama è «solo» nessuno avrà ragioni per cambiare atteggiamento nei confronti di
una minoranza che lo ha votato al 90 per cento. Soprattutto, per di più, se il farlo
implicasse – come implica, di fatto – cambiare gli orientamenti economico-politici a favore
delle fasce povere della popolazione. Rimangono i movimenti. Sono numerosi e resi più
combattivi dalle vicende di questi ultimi anni e mesi. Gli avvenimenti hanno anche
costretto l’opinione pubblica e i media a focalizzare l’attenzione sulla realtà oggetto delle
loro denunce. Ma per ora, anche loro, sono troppo soli.
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Del 27/11/2014, pag. 1-38
Ogni sedici minuti un Intoccabile è vittima di un crimine. Come Surekha,
uccisa perché aveva lottato per i suoi diritti. Perché, chiede la scrittrice
Arundhati Roy, il mondo si mobilita contro le ingiustizie, ma non
censura il sistema sociale induista?
ARUNDHATI ROY
Il mondo si ribelli all’India delle caste
MIO PADRE era un Indù riformato, un Brahmo. L’ho conosciuto solo da adulta. Sono
cresciuta con mia madre nella sua famiglia cristiana siriana del villaggio di Ayemenem, in
Kerala, nell’India sud occidentale. Allora governavano i comunisti, ma vivevo tra le
divisioni del sistema delle caste che squarciava e crepava il tessuto sociale. Ayemenem
aveva la sua chiesa “Paraiyan”, in cui sacerdoti “Paraiyan” predicavano ai fedeli
“intoccabili”. La casta si evinceva dal nome delle persone, da come si riferivano le une alle
altre, dal lavoro che facevano, dagli abiti che indossavano, dai matrimoni che
combinavano, dalla lingua che parlavano. Ma da studentessa in nessun testo scolastico
trovai menzione del concetto di casta, mai. Fu leggendo Annientamento della Casta il
testo scritto per una conferenza del 1936 da BR Ambedkar, autore e pensatore indiano,
che mi resi conto, allarmata, della falla esistente nel nostro universo pedagogico. Leggere
Ambedkar mi chiarì anche il motivo per cui quella falla esiste e continuerà ad esistere
finché la società indiana non subirà un cambiamento radicale e rivoluzionario.
Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai, una dei due vincitori del premio Nobel per la
pace di quest’anno, ma non di Surekha Bhotmange, vi invito a leggere Ambedkar. Malala
aveva solo 15anni, ma aveva già commesso vari reati. Innanzitutto era una ragazza,
abitava nella valle dello Swat in Pakistan, poi era una blogger della Bbc , era apparsa in
un video del New York Times e frequentava la scuola. Malala voleva fare il medico, suo
padre voleva che entrasse in politica. Era coraggiosa. Lei (e il padre) ignorarono i Taliban
quando dichiararono che le scuole non erano destinate alle ragazze e minacciarono di
uccidere Malala se non avesse smesso di criticarli apertamente. Il 9 ottobre 2012 un killer
la fece scendere dal bus della scuola e le piantò una pallottola in testa. Malala fu
trasportata in aereo in Inghilterra e, dopo aver ricevuto le cure migliori del caso,
sopravvisse. Fu un miracolo.
Il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato americano le inviarono messaggi di
sostegno e solidarietà. Madonna le dedicò un brano. Angelina Jolie scrisse un articolo su
di lei. Malala è apparsa sulla copertina del Time . Pochi giorni dopo il tentato omicidio,
Gordon Brown, inviato speciale delle Nazioni Unite per l’educazione globale, lanciò la
petizione “Io sono Malala” per esortare il governo del Pakistan a garantire l’istruzione a
tutte le bambine. In Pakistan proseguono i raid dei droni americani con la missione
femminista di “far fuori” i terroristi islamisti misogini.
Surekha Bhotmange aveva 40 anni e, come Malala, vari reati alle spalle. Era una donna in
primis — una dalit “intoccabile” che viveva in India ed era povera in canna. Era più istruita
del marito, quindi faceva le veci di capo famiglia. Ambedkar era il suo idolo. Come lui, la
famiglia di Surekha aveva ripudiato l’induismo per convertirsi al buddismo. I figli di
Surekha erano istruiti. I due maschi, Sudhir e Roshan, avevano frequentato l’università. La
figlia, Priyanka, aveva 17 anni e stava terminando le superiori. Surekha e il marito
avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel villaggio di Khairlanji, nello
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stato del Maharashtra. La loro proprietà era circondata da fattorie appartenenti a caste che
si consideravano superiori alla casta Mahar, cui apparteneva Surekha. Poiché era una
Dalit e non aveva diritto ad aspirare a vivere bene, la panchayat (assemblea) del villaggio
non le permise di collegarsi alla rete elettrica né di trasformare la capanna di fango col
tetto di paglia in una casa di mattoni. Gli abitanti del villaggio non permettevano alla
famiglia di Surekha di irrigare i campi con l’acqua del canale, o di attingere al pozzo
pubblico. Cercarono di costruire una strada pubblica attraverso la proprietà della donna e,
alle sue proteste, passarono coi carri trainati da buoi sui suoi terreni. Lasciavano le loro
bestie pascolare sulle sue coltivazioni. Ma Surekha non cedette. Si rivolse alla polizia che
non le prestò orecchio. Nel corso dei mesi la tensione nel villaggio salì alle stelle. A mo’ di
avvertimento, gli abitanti aggredirono un parente della donna, lasciandolo moribondo.
Surekha sporse nuovamente denuncia. Questa volta la polizia procedette a degli arresti,
ma gli accusati furono rilasciati su cauzione quasi subito. Il giorno del rilascio, il 29
settembre 2006, alle sei di sera, circa 40 persone del villaggio, uomini e donne, arrivarono
furibondi sui trattori e circondarono la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal,
che era nei campi, udì il rumore e corse a casa. Nascosto dietro un cespuglio vide la folla
aggredire la sua famiglia. Corse a Dusala, la città più vicina e, attraverso un parente, riuscì
a chiamare la polizia. (Servono i contatti giusti anche solo perché la polizia risponda a
telefono). I poliziotti non arrivarono mai. La folla trascinò fuori di casa Surekha, Priyanka e
i due ragazzi, uno parzialmente non vedente. Ai ragazzi fu ordinato di stuprare la madre e
la sorella; al loro rifiuto vennero mutilati dei genitali e infine linciati. Surekha e Priyanka
subirono uno stupro di gruppo e vennero massacrate di botte. I quattro corpi vennero
gettati nel vicino canale dove furono ritrovati il giorno successivo. Inizialmente la stampa
presentò l’accaduto come “delitto d’onore”, riportando che gli abitanti del villaggio erano
indignati perché Surekha aveva una relazione con un parente (la vittima della precedente
aggressione). A seguito delle proteste di massa inscenate dalle organizzazioni Dalit, la
magistratura fu infine spinta a prendere atto del delitto. Comitati di cittadini indagarono
sull’accaduto, rivelando l’inquinamento delle prove. Nel primo grado di giudizio i principali
autori del delitto vennero condannati a morte, ma non venne invocata la legge di
Prevenzione delle atrocità riferita alle caste e alle tribù intoccabili — il giudice ritenne che il
massacro di Khairlanji fosse un crimine dettato da desiderio di “vendetta”. Disse che non
sussistevano prove dello stupro e che l’omicidio non aveva connotazioni di casta. Se un
giudice indebolisce il quadro giuridico in cui è inserito il reato per il quale commina poi la
pena di morte, non fa che spianare la strada alla riduzione o addirittura alla commutazione
della pena da parte dell’organo di giudizio superiore. Non è una prassi insolita, in India. La
condanna a morte di un individuo, per quanto efferato sia il suo crimine, difficilmente può
essere definita un atto di giustizia. L’ammissione da parte del tribunale che il pregiudizio di
casta continua ad essere un’orrenda realtà in India sarebbe stato un passo in direzione
della giustizia. Invece il giudice si è limitato a cancellare la casta dal quadro.
Surekha Bhotmange e i suoi figli vivevano in una democrazia orientata al mercato, quindi
niente petizioni Onu con lo slogan “Io sono Surekha”, né messaggi indignati di capi di stato
rivolti al governo indiano. Meno male, non vogliamo mica che ci sgancino bombe addosso
solo perché da noi vige il sistema delle caste.
«Per gli intoccabili», scrisse Ambedkar nel 1945, con un coraggio che gli intellettuali di
oggi in India fanno fatica a trovare, «l’induismo è una vera camera degli orrori». Per un
autore dover usare termini come “Intoccabili”, “casta intoccabile”, “classe arretrata” e “altre
classi arretrate” per definire esseri umani come lui è come vivere in una camera degli
orrori. Dato che Ambedkar ha usato il termine “Intoccabili” con rabbia fredda, lucida, e
senza batter ciglio, devo farlo anch’io. Oggi il termine “Intoccabile” è stato sostituito da
quello Marathi “Dalit” (“gente svantaggiata ”), che viene a sua volta usato in maniera
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intercambiabile con “casta registrata.” Questa prassi, come indica lo studioso Rupa
Viswanath, non è corretta, perché il termine “Dalit” include intoccabili che si sono convertiti
ad altre religioni per sfuggire allo stigma della casta (come i Paraiyan del mio villaggio che
si erano convertiti al cristianesimo), non considerati nell’accezione “casta registrata”. La
nomenclatura ufficiale del pregiudizio è un labirinto che porta ad una burocratizzazione del
discorso. Per tentare di evitarlo, nella maggior parte dei casi, ma non sempre, uso il
termine “Intoccabile” quando mi riferisco al passato e “Dalit” quando scrivo del presente. In
riferimento a Dalit convertiti ad altre religioni specifico Dalit sikh, Dalit musulmani, o Dalit
cristiani. Stando ai dati ufficiali del National Crime Records Bureau ogni sedici minuti un
Dalit è vittima di un crimine commesso ai suoi danni da un non Dalit; ogni giorno più di
quattro donne Intoccabili vengono stuprate da Toccabili; ogni settimana 13 Dalit vengono
assassinati e sei Dalit rapiti; nel solo 2012, l’anno in cui una ventitreenne venne uccisa a
Dehli dopo uno stupro di gruppo, sono state violentate 1574 donne Dalit (di regola si
calcola che venga denunciato solo il 10 per cento degli stupri o altri reati commessi ai
danni di Dalit) e 651 Dalit sono stati assassinati. Questo solo per quanto riguarda gli stupri
e le carneficine. Non sono contemplate le umiliazioni, come essere denudati e costretti a
sfilare nudi, a mangiare merda (letteralmente), i sequestri dei terreni, il boicottaggio sociale
in varie forme, la limitazione di accesso all’acqua potabile. Bant Singh, un Dalit Mazhabi
Sikh dello stato del Punjab, nel 2005 ha subito l’amputazione di entrambe le braccia e di
una gamba perché aveva osato sporgere denuncia contro gli stupratori della sorella. Il suo
caso non compare nelle statistiche ufficiali dei reati: non esiste la categoria “triplice
amputazione”. «Se la comunità si oppone ai diritti fondamentali non c’è legge, né
parlamento, né magistratura che possa garantirli nel vero senso della parola», diceva
Ambedkar. «Cosa se ne fanno dei diritti fondamentali i negri in America, gli ebrei in
Germania e gli intoccabili in India? Come diceva Burke, non si è ancora trovato il metodo
per punire le masse». Chiedete a un qualunque poliziotto di campagna in India e
probabilmente vi dirà che il suo compito è “mantenere la pace”. Questo si fa per lo più
difendendo il sistema delle caste. Le istanze dei Dalit infrangono la pace.
Altri abomini contemporanei come l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo
economico e il fondamentalismo religioso sono stati oggetto di critica sotto il profilo politico
e intellettuale a livello internazionale. Come mai il sistema delle caste in India — una delle
modalità più brutali di organizzazione sociale gerarchica che l’umanità conosca — è
riuscito a sfuggire a un simile scrutinio e censura? Forse perché è ormai talmente fuso con
l’Induismo e, per estensione, con ciò che è giudicato bello e buono (il misticismo, lo
spiritualismo, la non violenza, la tolleranza, il vegetarismo, Gandhi, lo yoga, il turismo
zaino in spalla, i Beatles) che, almeno dal di fuori, sembra impossibile scardinarlo e
tentare di comprenderlo.
del 27/11/14, pag. 13
Hong Kong, studenti in manette
La polizia arresta Joshua Wong, il leader 18enne dei manifestanti di
Occupy Central Travolte le barricate nel quartiere di Mong Kok. I
giovani: «Torneremo in piazza»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO Per sessanta giorni i ragazzi del
movimento democratico di Hong Kong e la polizia si erano affrontati in una sfida di
logoramento con pochissimi episodi di violenza. Ma nelle ultime ore la situazione sta
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subendo un’accelerazione drammatica per la tradizione pacifica del territorio. Gli agenti
sono andati all’attacco dei blocchi stradali nel quartiere Mong Kok a Kowloon, la zona
continentale di fronte all’isola di Hong Kong. Ci sono stati scontri, manganellate, uso di
spray urticanti e 148 arresti, compreso Joshua Wong, il diciottenne che guida
l’organizzazione «Scholarism», il suo compagno Lester Shum della «Federation of
Students» e altri due giovani leader. Tra i feriti o contusi anche una ventina di agenti.
Teatro degli scontri è stata Nathan Road, l’arteria a sei corsie che attraversa Mong Kok ed
è il centro della sua attività commerciale. I ragazzi avevano piazzato tende e barricate che
per otto settimane hanno fermato il traffico: l’ordine di sgombero è venuto dalla
magistratura indipendente di Hong Kong, sollecitata da una cooperativa di tassisti
esasperati. Quella delle ingiunzioni giudiziarie è la tattica alla quale si è affidato il governo
di Hong Kong, incapace di dare una risposta politica alla protesta dei ragazzi, che
chiedono candidature libere per le elezioni del governatore, nel 2017.
La settimana scorsa gli studenti si erano ritirati da una parte di Admiralty, il quartiere degli
affari di Hong Kong, quasi senza opporre resistenza; era stata spaccata solo una porta a
vetri del Legislative Council, l’assemblea parlamentare: episodio subito condannato come
provocazione di una piccola frangia del movimento. L’altra sera a Nathan Road invece ci
sono stati corpo a corpo tra gruppi di manifestanti e poliziotti: uno choc destinato a lasciare
il segno in una città non abituata alla violenza di piazza. Così come ha danneggiato
l’immagine della polizia il pestaggio di un attivista ripreso dalle telecamere il 15 ottobre: ieri
sette agenti sono stati arrestati. Dalla cella dove sono detenuti, i quattro leader
studenteschi hanno twittato: «Ci accusano di oltraggio al tribunale e resistenza alle forze
dell’ordine». Il loro arresto potrebbe riaccendere la protesta, che aveva perso di slancio ed
era stata sconfessata anche dalla maggioranza della popolazione, stanca dei disagi.
«Torneremo in strada e saremo in tanti», dicevano diversi studenti ieri notte.
La situazione del movimento democratico però si è fatta precaria: sono emerse divisioni al
suo interno, non c’è coordinamento con il gruppo di docenti universitari che avevano
lanciato «Occupy Central», non c’è dialogo politico con le autorità. Che cosa succederà
nelle prossime ore?
Steve Vickers, capo dell’intelligence della polizia fino al 1997, quando Hong Kong è stata
restituita alla Cina dalla Gran Bretagna, ora dirige una società di «valutazione rischi», ed è
pessimista: «Il governo locale non fa nulla, Occupy Central non ha una leadership unita:
così si è dato un pretesto a Pechino e ai suoi servizi di sicurezza per giocare un ruolo più
attivo a Hong Kong. Ci sono in giro agitatori, provocatori, anche legati alle Triadi; la polizia
si trova in mezzo, con pochi ordini, demoralizzata». Potrebbe finire male, con scontri gravi
e con la Cina «costretta» a prendere il controllo.
Guido Santevecchi
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INTERNI
Del 27/11/2014, pag. 2
Renzi: “Su Italicum e Senato chiudiamo entro
gennaio” Incontro con Napolitano
Vertice sulle riforme. “Preoccupazioni” sulla costituzionalità della legge elettorale in
aula a Palazzo Madama dal 16 dicembre
Attenzione alle «preoccupazioni delle forze politiche». Per quanto riguarda l’aria di elezioni
anticipate che alcune di esse sembrano avvertire. E soprattutto per quanto riguarda «il
rapporto tra legislazione elettorale e riforme costituzionali». Giorgio Napolitano riceve
Matteo Renzi per fare il punto sul percorso delle riforme che, concordano i due, «deve
essere condivisibile con un ampio arco di forze».
Garantendo in questo modo — è il punto di vista dell’inquilino del Colle — che
l’approvazione dell’Italicum 8in aula al Senato dal 16 dicembre) non diventi l’anticamera
della fine della legislatura. E per dare un segnale concreto, ecco che sul tavolo
dell’incontro entra l’ipotesi di una “clausola di salvaguardia” che preveda di andare ad
elezioni solo quando sia la Camera che il Senato avranno un nuovo sistema elettorale
evitando i dubbi di costituzionalità. Il premier rassicura il capo dello Stato sulla tenuta del
Patto del Nazareno, dopo le fibrillazione innescate nella minoranza del Pd e dentro Forza
Italia dai risultati delle regionali. «Sulle riforme andremo velocissimi», spiega poi Renzi ai
microfoni del Tg1. Per rendere l’Italia più semplice e più efficiente, «meno politici, più
semplicità nel procedimento della creazione della legge, riduzione del potere delle regioni
e naturalmente una legge elettorale in cui non ci sia la solita confusione italica in cui non si
sa mai chi ha vinto». Su queste riforme, prevede, «siamo ad un passo dalla chiusura, tra
dicembre e gennaio tutto sarà finalmente realizzato». Rassicurazioni al capo dello Stato
sull’orizzonte della legislatura che arriverà fino al 2018? «Napolitano — è la risposta del
premier — non ha bisogno di essere rassicurato. Sa che se il Parlamento fa le leggi e
lavora anche sabato e domenica per rispettare i tempi dati, arriverà a scadenza naturale».
Fatte le riforme, conclude, bisognerà dire un grande grazie a Napolitano, che su questo
«ha speso tutta la sua forza e la sua autorevolezza».
Il presidente della Repubblica prende atto degli impegni del presidente del Consiglio.
Anche se le urne deserte alle regionali lo preoccupano molto, e a maggior ragione in
questo contesto di fuga dalla politica il portare il paese alle urne rischierebbe di innescare
contraccolpi pesantissimi. E’ la ragione per cui il capo dello Stato ribadisce che non
metterebbe la sua firme sotto un atto di scioglimento, tanto più in vista del suo addio al
Colle. Un amaro calice che toccherebbe al suo successore, ma il capo dello Stato prova a
lasciare il Quirinale assicurando una rete di protezione per allontanare il rischio. Così nel
colloquio di stamattina fra Renzi e Napolitano, presente anche il ministro delle Riforme
Boschi, è stato «ampiamente esposto» il percorso che il governo considera «possibile e
condivisibile con un ampio arco di forze politiche» per quello che riguarda l’iter
parlamentare dei due provvedimenti fondamentali già approvati in prima lettura, ovvero
legge elettorale e legge costituzionale per la riforma del Senato. Per scongiurare rotture.
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Del 27/11/2014, pag. 2
E il Colle chiede garanzie: niente elezioni con
la nuova legge finché ci sono due Camere
FRANCESCO BEI UMBERTO ROSSO
Il secondo mandato è agli sgoccioli. Ma il capo dello Stato non rinuncia a farsi interprete
delle «legittime preoccupazioni » di quanti temono un Renzi pigliatutto. Va bene la fretta
sulle riforme dopo anni di chiacchiere, a patto però che la corsa non finisca nel burrone
delle elezioni anticipate. Così il colloquio sul Colle di ieri mattina, presente anche il
ministro Maria Elena Boschi, è meno fluido del solito, alcune obiezioni del presidente della
Repubblica effettivamente mettono il premier in imbarazzo. Una su tutte: la richiesta di una
«clausola di salvaguardia» nell’Italicum che impedisca l’ipotesi di andare al voto anticipato
senza una legge elettorale valida anche per il Senato. Ovvero una rete di protezione per
scongiurare la tentazione attribuita a Renzi di precipitarsi alle urne una volta incassato la
riforma elettorale (e con il Consultellum per palazzo Madama).
«Non è mio compito fornire indicazioni di merito, suggerire soluzioni tecniche per
raggiungere questo obiettivo ma — è il ragionamento svolto sul Colle — di certo bisogna
tenere insieme il cammino della legge elettorale con quello della riforma costituzionale». In
un sistema bicamerale perfetto, sono le riflessioni di Napolitano, non si possono avere due
leggi elettorali diverse. Il risultato sarebbe «schizofrenico», come hanno già fatto notare
nei giorni scorsi i due presidenti emeriti della Consulta, Tesauro e Silvestri, sentiti dalla
commissione affari costituzionali del Senato. Proprio i due giudici che erano in carica
quando la Corte bocciò il Porcellum. Renzi ascolta e reagisce. Il ministro Boschi già da
giorni, per averne discusso con Anna Finocchiaro, conosce il problema e ne ha informato il
capo del governo. «Presidente — replica Renzi — finché la maggioranza procede con le
riforme, come accaduto ieri con il Jobs Act, siamo noi i primi a voler andare avanti. Il
nostro orizzonte resta quello del 2018 e posso garantirle che non c’è alcuna voglia di
andare a elezioni anticipate. L’ho detto anche a Berlusconi». Il premier di conseguenza
frena. Inoltre, che forma dovrebbe avere questa clausola di salvaguardia? Per Renzi
sarebbe sbagliato, come pretende la minoranza dem, rinviare l’entrata in vigore della
legge elettorale per aspettare l’approvazione della riforma costituzionale. «Vorrebbero
inserire una norma transitoria per sterilizzare l’Italicum — racconta il premier al capo dello
Stato — ma in questo modo passerebbe almeno un anno prima di avere la legge pronta
per l’uso». Una rigidità «inaccettabile». Per il premier basterebbe un «impegno politico »,
al massimo un ordine del giorno in Parlamento: stessa sostanza della norma transitoria —
ovvero collegare riforma del Senato e legge elettorale — ma senza vincoli formali. Sulla
linea dell’ordine del giorno presentato ieri in commissione da Roberto Calderoli. Un’arma
anti-elezioni che però, per il Quirinale, sembra caricata a salve. Troppo poco. E se Renzi
lamenta il rischio di tempi infiniti per l’entrata in vigore della nuova legge, sul Colle
immaginano almeno un paio di ipotesi che possano ovviare a un Italicum- tartaruga. Per
esempio estendere la legge maggioritaria della Camera anche al Senato (nonostante la
minoranza dem pretese la cancellazione dell’articolo 2 che prevedeva proprio questo),
oppure approvare una legge ad hoc solo per il Senato, adattando il Consultellum su base
regionale.
Nel colloquio al Colle ufficialmente il tema delle dimissioni di Napolitano non entra. Per
palazzo Chigi è evidente tuttavia il pericolo di un ingorgo in caso di un addio troppo
ravvicinato dell’inquilino del Quirinale. Renzi ne ha parlato ai suoi collaboratori: «Se si apre
subito la corsa alla presidenza della Repubblica, mentre abbiamo ancora aperto il fronte
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riforme, saremo esposti a mille ricatti. Dei nostri e di Forza Italia. Meglio sarebbe se
Napolitano restasse ancora. Così potrebbe firmare egli stesso la legge elettorale ». E
tuttavia al Colle una cosa la mettono in chiaro: «Nessun legame fra dimissioni di
Napolitano e approvazione della legge elettorale». Non si tratta di stabilire record di
velocità o di appuntarsi medaglie a fine mandato. La riforma va fatta bene, deve
rispondere a quei criteri di costituzionalità ben evidenziati dalla Consulta nella sentenza
n.1 del 2014, quella che uccise il Porcellum. La minoranza Pd apprezza, sono
preoccupazioni che vanno incontro anche alle richieste di Ncd e Forza Italia. Anche
Berlusconi, nella sua altalena di posizioni, trova in questi richiami del Quirinale la garanzia
che non si dovrà misurare troppo presto con le urne. Come se ne esce? Il governo lavora
a un compromesso, un’ipotesi che non fissi in una norma precisa la clausola di
salvaguardia ma non sconfessi le attese di Napolitano. Si tratterebbe di approvare subito,
«entro dicembre», l’Italicum al Senato. Quindi la legge andrebbe nel congelatore, senza
l’ultimo passaggio a Montecitorio, quello definitivo. Nel frattempo la Camera procederebbe
con più velocità alla seconda lettura della riforma istituzionale. In modo tale da
ricongiungere i due binari e portarli insieme alla stazione finale.
del 27/11/14, pag. 3
Addio al Colle possibile già a metà dicembre:
l’ipotesi inquieta il premier
di Maria Teresa Meli
ROMA Il presidente della Repubblica è preoccupato per le voci di elezioni anticipate che si
rincorrono da qualche giorno. Il presidente del Consiglio è preoccupato perché ha saputo
della tentazione del capo dello Stato di annunciare il suo addio a metà dicembre nel
consueto scambio di auguri pre-natalizio con le istituzioni e le alte autorità.
Non è stato un incontro facile, quello al Quirinale tra Matteo Renzi, accompagnato dalla
ministra Maria Elena Boschi, e Giorgio Napolitano. Il premier si è speso per convincere
l’inquilino del Colle a restare, garantendogli la prosecuzione della legislatura e
l’approvazione delle riforme. Ma pare che Napolitano sia stato irremovibile: al massimo
aspetterà fine anno, non oltre. E certo non potrà certificare lui la fine della legislatura. «Ma
la legislatura andrà avanti, se si faranno le riforme», gli ha ribadito il premier, il quale, però,
ha dovuto ammettere che «il quadro non tiene come dovrebbe». E non solo perché
Berlusconi sta mandando tutto per le lunghe. C’è anche il problema della minoranza pd,
che ieri si è presentata al gran completo in commissione Affari costituzionali del Senato.
La quale commissione lavorerà a ritmo forsennato, pur di arrivare al dunque, in quei tempi
«brevi» richiesti da Renzi.
«Siamo a un passo dalla chiusura, tra dicembre e gennaio tutto sarà finalmente
realizzato», dice il premier. E per tutto intende non solo la riforma elettorale, che dovrà
essere approvata dall’aula di Palazzo Madama, ma anche quella del Senato, che la
commissione della Camera dovrà licenziare in tempi brevi, e il Jobs act, varato a
Montecitorio, e approdato ora nell’altro ramo del Parlamento. Anche a Palazzo Madama,
lascia intendere, il premier, il governo potrebbe non chiedere la fiducia su questo
provvedimento. Un modo per tentare di svelenire il clima, e, nel contempo, per sfidare la
minoranza interna. Perché far cadere quella legge delega equivarrebbe a far saltare la
legislatura.
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Non è questo l’ obiettivo primario del presidente del Consiglio, il quale lo ha ribadito più di
una volta a un preoccupatissimo Napolitano. Il suo traguardo è un altro: mandare a
termine lo «storytelling», ossia la narrazione, che ha fatto all’Italia e su cui si gioca la
«credibilità»: «È su quello che promettiamo e che poi manteniamo che la gente ci
giudicherà e che restituiremo fiducia nella politica e nelle istituzioni». Ma per raggiungere
questo obiettivo sulla riforma elettorale Renzi non può pensare di far a meno di Berlusconi
e di un ampio consenso in Parlamento, è stato il ragionamento del presidente della
Repubblica. Se così non fosse, il premier deve comunque sapere che il capo dello Stato, a
un certo punto si dimetterà, a riforme fatte o non fatte, e quindi il cerino gli rimarrà in
mano. E non è un caso, allora, se, intervistato dal Tg1 , il premier ripete che il «patto del
Nazareno ha ancora un senso» e che le «regole del gioco si fanno con Berlusconi».
Insomma, non è vero che Renzi intende andare avanti comunque senza Forza Italia. La
sua era stata una minaccia, un tentativo per costringere Berlusconi a non continuare a
temporeggiare. Ma, come gli ha spiegato il capo dello Stato, un «accordo va trovato».
Anche se lo stesso presidente non sembra tanto ottimista, dal momento che non lega più
la sua permanenza al Quirinale alla riforma del sistema elettorale.
Il che complica non poco le cose a Renzi. Che a casa sua, cioè nel Pd, deve fronteggiare
l’offensiva della minoranza che chiede meno capilista bloccati nell’Italicum e degli alleati
che reclamano la clausola sospensiva della legge per esorcizzare la paura del voto
anticipato. Paura comprensibile, dal momento che il Pd di Renzi, persino se si andasse
alle elezioni con il Consultellum avrebbe una maggioranza ben consolidata al Senato e di
stretta misura (320 voti) alla Camera, stando alle proiezioni dei voti delle europee.
Insomma, per farla breve, come ammette lo stesso Renzi «le elezioni in realtà
converrebbero solo a me, con qualsiasi sistema, di certo non a Berlusconi, checché se ne
dica, anche ne caso in cui il centrodestra schierasse Salvini di cui non ho certo paura. Ma,
ripeto, non sono le elezioni il mio obiettivo».
«Il mio obiettivo sono le riforme. Però questa legislatura ha un senso solo se le fa»,
confida più tardi ai collaboratori. Ben sapendo che, comunque, le elezioni del presidente
della Repubblica, inevitabili, dopo la presa di posizione di Napolitano, non gli permettono
grandi spazi di manovra. Un accordo con Berlusconi va comunque fatto.
del 27/11/14, pag. 5
«C’eravamo poco amati», nel Pd si litiga sulla
scissione impossibile
Daniela Preziosi
Democrack. Sul voto del jobs act esplodono vecchie ruggini e nuovi
rancori. Serracchiani contro Bindi, Cuperlo contro Orfini. Il presidente:
«I dissidenti non pensino che può finire con una pacca sulla spalla»
Il day after il voto sul jobs act che ha fatto emergere i 33 volti della ’sinistra non allineata’
del Pd, da di<CW-26>stinguere dalla sinistra riformista ex bersaniana in avvicinamento al
segretario e da quella renzista dei giovani turchi già da mesi solidamente in maggioranza,
il Pd è uno spettacolo pirotecnico di esplosioni variopinte. Ormai è chiaro che dei 33 «del
dissenso metodologico» (copyright Matteo Orfini, la frase finisce così: «perché nel merito
non mi pare che fra Fassina, Boccia e Bindi ci siano grandi punti di contatto») solo Civati
mette in conto un abbandono del partito. Ma senza fretta perché a sua volta è alle prese
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con il non facile aggancio di una sinistra-sinistra non tutta in linea con la sua idea di
«rifondazione del centrosinistra».
Altro elemento ormai lampante è che le tre sinistre, tre semplificando molto, dovranno
convivere fra loro a lungo, oltreché fare i conti con un segretario che se ne infischia del
dissenso interno: «Mi preoccupano i precari. Se qualcuno non rispetta gli accordi è un
problema suo», ha spiegato ieri al Tg1.
Così i forzati della coabitazione accendono singolar tenzoni. Ci sono litigi nuovi di zecca
come lo scontro fra Rosy Bindi e Debora Serracchiani. L’una sul Corriere della sera invoca
un Pd che torni «a essere il partito dell’Ulivo». L’altra replica: «L’esperienza dell’Ulivo è
nata 20 anni fa, sicuramente un’esperienza vincente, ma ora non risponde più alle
domande del paese». Chiosa non elegante dell renzianissimo Marcucci: «Ascoltando a
Radio radicale l’intervista di Bindi, per un attimo ho pensato ad interferenza con Rai
Storia».
Poi ci sono vecchie ruggini che affiorano finalmente alla luce del sole, come quella fra
Gianni Cuperlo e Matteo Orfini. Si consuma su facebook, il social che consente riflessioni
ponderose, libero dalla tirannia dei 140 caratteri di twitter. I due dirigenti hanno una lunga
storia di comunanza non sempre cordiale. Compagni di mozione al congresso in cui
Cuperlo era candidato, dopo la sconfitta il giovane turco ha subito traghettato la sua area
in zona Renzi. E alla fine ha sostituito l’ex leader alla presidenza del Pd. Cuperlo ieri gli ha
indirizzato una dolente lettera aperta dove si dichiarava «impressionato dal tono e dal
merito» di una sua definizione a proposito dei dissidenti: «Primedonne vittime di
protagonismo a fini di posizionamento interno». Risposta di Orfini: «Se tutti ci
comportassimo come avete fatto voi, questo partito diventerebbe uno spazio politico, e
non un soggetto politico (per citare Bersani). E non durerebbe a lungo».
La fibrillazione interna è destinata a crescere. Oggi pomeriggio alla camera il Pd ha
convocato la riunione dei deputati sulla legge di stabilità, sulla quale i dissidenti conducono
un serrato lavorìo emendativo. Già si annuncia il voto di fiducia. Ma il renziano Roberto
Giachetti attacca: «Vorrei capire che senso ha tornare a riunire il gruppo e votare se poi
queste decisioni non sono vincolanti ed ognuno senza colpo ferire fa come vuole. Dichiaro
pubblicamente che voterò a favore della legge di stabilità ed evito di partecipare a quello
che qualcuno ha voluto trasformare in un inutile teatrino».
Intanto ieri il senato ha respinto le dimissioni di Walter Tocci, rassegnate dopo un sofferto
sì proprio al jobs act. In aula Tocci ha ribadito tutto il suo dissenso sulla legge delega,
rincarando la dose con la preoccupazione per la trasformazione del parlamento in un
«apparato di consenso, peraltro mal tollerato, di una burocrazia dominante», ha concluso
citando Max Weber. In settimana il jobs act arriverà in aula per il sì definivo. Già
annunciato il no di Corradino Mineo.
I dissensi si incrociano, destinati a sfociare in una zuffa da saloon alla direzione di lunedì
dove il pasticcio jobs act si combinerà all’analisi del voto sulle regionali. Sulle quali gli ex
bersaniani, stavolta di nuovo uniti, accusano il segretario di sottovalutare l’astensionismo.
Dalla parte opposta Orfini ragiona così: «Spero che Renzi non minimizzi, ma del resto è
assurda la linea di chi non ha capito che in Emilia il sistema dei corpi intermedi, partito
cooperative confindustria università, sta andando in esaurimento. E gli esclusi che non
vanno a votare sono proprio i figli di questo sistema». Quanto ai dissidenti, nessun
provvedimento disciplinare, ma «quelli che non hanno votato il jobs act non possono
pensare che la cosa finisca con una pacca sulla spalla».
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Del 27/11/2014, pag. 4
Jobs Act, scontro in casa Pd Orfini accusa le
“primedonne” Cuperlo: difendo le mie idee
La Cgil prepara un ricorso alla Corte di giustizia europea Riforma in
Senato il 2 dicembre, ok prima dello sciopero
Il giorno dopo l’approvazione del Jobs act nel Pd non arriva la quiete dopo la tempesta.
Nonostante gli sforzi di Matteo Renzi per sdrammatizzare la situazione. «Sono più
preoccupato dei precari, delle mamme senza maternità, dei cassintegrati cinquantenni che
non delle legittime opinioni diverse all’interno del Pd», dice il premier al Tg1.
Anche se non rinuncia ad una stoccata agli avversari: «Il Pd si è riunito, ha ragionato, ha
discusso, ha trovato punto di accordo: se qualcuno non ha rispettato quel punto di accordo
è un problema suo». Acqua sul fuoco, comunque. E non sembra neanche preoccuparlo
l’annuncio di Susanna Camusso di un ricorso alla Corte di giustizia europea contro il Jobs
act. Gli stessi giudici che hanno dichiarati illegittime le norme sui precari della scuola.
«Valuteremo tutte le strade perchè siamo in presenza di una manomissione violenta dello
Statuto dei Lavoratori» annuncia Susanna Camusso. Renzi glissa, ma lo scontro nel Pd
ormai divampa. Quello fra Matteo Orfini, per esempio, e Gianni Cuperlo. Il presidente del
Pd definisce i dissidenti sul Jobs act «primedonne, vittime di protagonismo a fini di
posizionamento interno». Parole che non piacciono a Cuperlo che risponde:
«Primedonne? No, solo donne e uomini con le loro convinzioni e la loro coerenza». E
ricorda all’attuale presidente che gli ha lasciato quella poltrona e lo ha votato, che lui
«dovrebbe essere una figura di garanzia verso tutti». Orfini non la prende bene. Replica e
nega di avere mai parlato di “primedonne”. Nel frattempo si accedono altri fuochi. Rosy
Bindi assicura che non pensa alla scissione, ma attacca duramente il premier. Ospite di
Lilli Gruber dice: «Non voglio uscire dal Pd, ma non voglio che il Pd esca da se stesso.
Renzi fa sempre molta fatica a riconoscere gli errori, come per l’astensionismo in Emilia
Romagna che ha definito irrilevante. Per la prima volta dopo mesi di trionfo Renzi registra
una battuta d’arresto sulla quale andrebbe fatta una riflessione». La Bindi parla di ritorno
all’Ulivo, la formazione che portò al governo Romano Prodi. L’idea viene subito girata a
Prodi stesso. E il suo commento è: «Ho combattuto per l’Ulivo tanti anni perché pensavo
fosse la creazione di un sistema bipolare che unisse diversi riformismi. Ci ho dato metà
della mia vita. Non posso essere contro». Renzi in ogni caso vuole andare avanti a tappe
forzate. Il Jobs act arriverà al Senato il 2 dicembre e l’obiettivo è di approvarlo prima del
12 dicembre, data dello sciopero generale convocato da Cgil e Uil. A discuterne nell’aula
di Palazzo Madama ci sarà anche il democratico Walter Tocci che aveva presentato le
dimissioni dopo avere votato quel testo — senza condividerlo — ad ottobre. Il Senato ieri,
a larghissima maggioranza, ha respinto le sue dimissioni.
Del 27/11/2014, pag. 4
E la sinistra interna prepara la rivincita al
Senato: senza di noi il governo non ha i voti
TOMMASO CIRIACO GOFFREDO DE MARCHIS
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IL RETROSCENA
Allontanare la scissione, contare molto di più nel Pd approfittando di un Renzi che non
sembra invincibile come due mesi fa. «Quelli che l’altro ieri sono usciti dall’aula durante il
voto sul Jobs Act formano un gruppo molto più grande dell’Ncd », avverte Stefano
Fassina. «Non ci faremo sentire soltanto sul lavoro, ma anche sulle riforme costituzionali
ed elettorale. E sulla scelta del nuovo presidente della Repubblica». Ecco la vera partita, il
Quirinale, anche dentro al Partito democratico. Per questo l’obiettivo è far ballare il
governo al Senato sull’articolo 18 così come è avvenuto a Montecitorio. Con numeri della
maggioranza che a Palazzo Madama sono in bilico fin dalla partenza dell’esecutivo Renzi.
Diventare la seconda gamba del governo è l’obiettivo della minoranza, seppure divisa e
senza un leader riconosciuto. Costringere il premier a trattare con l’opposizione interna
punto su punto. E non abbandonare il partito, ovviamente, come invece ipotizzano Rosy
Bindi e Pippo Civati. I civatiani del Senato si comporteranno come il loro leader alla
Camera. E sono 4 voti a sfavore della riforma del lavoro, anche nel caso di una votazione
di fiducia. Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti, Felice Casson e Walter Tocci sono in
trincea. «La fiducia sarebbe una vergogna nazionale. Se Matteo la mette faccio un casino
pazzesco», annuncia l’ex direttore Rai. Tocci ha visto le sue dimissioni respinte proprio ieri
e si sente aneviterebbe cora più libero di manifestare il proprio dissenso. «Questo Jobs
Act non lo avrebbe scritto neanche la Fornero», dice Ricchiuti. Questo tipo di opposizione
è già stato digerito dal governo in occasione dell’abolizione del Senato elettivo. Ma la
maggioranza continua a viaggiare sul crinale di 7 voti di scarto tra la vita e la caduta
dell’esecutivo quindi a Palazzo Chigi i movimenti sono continuamente monitorati.
I tempi sono strettissimi. Il Jobs Act arriva a Palazzo Madama martedì, mercoledì e
giovedì si vota. La fiducia non è decisa ma nessuno si sente di escluderla. Un voto sul
governo altre plateali spaccature perché il grosso dei dissidenti non dirà no a Renzi. Se
invece il dibattito sarà aperto i dissensi si manifesteranno più chiaramente. Magari con la
stessa modalità di Montecitorio ossia l’uscita dall’aula. Federico Fornaro, bersaniano, sta
già preparando un documento critico e conta di ottenere le firme di 25 senatori. «Non è
accettabile il doppio binario per cui allo stesso banco di lavoro sederanno un dipendente
con l’articolo 18 e uno senza», dice. Se davvero i parlamentari contrari alla linea saranno
25 ovvero uno su quattro dentro il gruppo Pd, si rafforzerà la minaccia di Fassina. «Sono
tutti i voti che sommati a quelli della Camera peseranno nella successione a Giorgio
Napolitano», pronostica Massimo Mucchetti. Una battaglia del genere, per avere un
minimo respiro, va condotta sotto le insegne del Pd. «Bersani lo ha detto chiaramente —
dice Alfredo D’Attorre —. La parola scissione dobbiamo cancellarla dal vocabolario. E noi
vogliamo correggere oltre alle scelte di Renzi anche le oscillazioni di Bindi e Civati».
Fondamentale diventa una sostanziale unità della minoranza dem. Obiettivo ancora
lontano. «Non vogliamo alzare alcun muro — dice Fassina —. Tutti insieme vogliamo
cambiare la strada intrapresa da Renzi. Non funziona sia politicamente sia
economicamente. Lo dicono i lavoratori, le piazze che non sono fatte da funzionari della
Cgil in gita». I fronti aperti sono tanti. «Sulla legge elettorale non accetteremo più come
risposta Berlusconi non è d’accordo», avverte D’Attorre. E i rapporti di forza, continua
Fassina, «sono cambiati. Abbiamo riconosciuto il grande lavoro fatto da Speranza e
Damiano. Si può fare di più. Stando dentro il Pd». Manca un leader, è vero, lo ammette
anche D’Attorre. «Uscirà fuori». Magari proprio al momento chiave, il voto per l’elezione
del presidente della Repubblica, la madre di tutte le battaglie.
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del 27/11/14, pag. 4
«Mai gregari di qualche Matteo» Fitto accusa
e Berlusconi frena
Tensione su Salvini (e Renzi). Il Cavaliere si difende: lui solo uno dei
potenziali leader L’ex premier giustifica il Nazareno: ringrazio Verdini,
altrimenti saremmo irrilevanti
ROMA L’ultima volta che si era permesso di contestare punto su punto la linea del partito,
le scelte, le nomine, Silvio Berlusconi gli aveva puntato il dito contro, minacciandolo: «Io ti
caccio!». Ieri, indebolito da un voto drammatico che ha mandato nel panico l’intero partito,
reduce da dichiarazioni su leadership, allenatori, registi e centravanti (Salvini, il prescelto)
che non sono piaciute per niente agli azzurri, il Cavaliere ha preferito ascoltare la
durissima requisitoria di Raffaele Fitto in Ufficio di presidenza in silenzio. Sulla difensiva,
ha fatto una mezza marcia indietro: «Mai detto che Salvini sarà il nostro candidato, ma
solo che in questo momento è un goleador, non l’unico. Non date retta ai giornali, li
leggono in 30 mila...». Infine, ha cercato di sedare il ribelle: «Perché non ci vediamo
domani a pranzo? Vieni a trovarmi».
Nonostante la rabbia, nonostante non abbia sostanzialmente concesso nulla di concreto al
suo sfidante, non può permettersi Berlusconi la deflagrazione del partito, nè di allontanare
Fitto e i suoi, pena la perdita di mezza FI o giù di lì. Vorrebbe che le critiche rimanessero
nel chiuso delle stanze: «Non fate polemiche pubbliche, ci fanno solo perdere voti!», ha
pregato i suoi prima che lo sfogatoio avesse inizio. Tutto inutile. Fitto non ha alcuna
intenzione, né interesse, a tenere la sua battaglia lontana dai riflettori. Anzi, rilancia: oggi
(dopo il probabile incontro col Cavaliere a pranzo) al Tempio di Adriano terrà un convegno
con ospiti di alto livello in rappresentanza delle categorie produttive e con la
partecipazione prevista di truppe nutrite di sostenitori. Ufficialmente, si parlerà di legge di
Stabilità, in pratica sarà un mostrare i muscoli per dimostrare il peso reale e la potenza di
fuoco della sua componente nel partito.
Forte di questo, Fitto ieri ha usato toni duri alla riunione azzurra, che proseguirà la
prossima settimana per esplicito volere di un Berlusconi che ha definito «molto utile e
interessante» la discussione, come tutti i suoi fedelissimi impegnati a spegnere l’incendio.
Fitto non ha chiesto davanti a Berlusconi che anche lui si sottoponga «a primarie
doverose», come aveva fatto in mattinata, né ha esplicitamente preteso «l’azzeramento di
tutte le cariche», come invece ha fatto uscendo da palazzo Grazioli davanti alle
telecamere. Ma, politicamente, il suo è stato un discorso senza sconti: «La sconfitta alle
Regionali è stata enorme. Non possiamo essere gregari di nessun Matteo, non vogliamo
né Forza Renzi né Forza Salvini. Se vuoi chiudere il partito, ce lo devi dire. Qui c’è una
classe dirigente che viene costantemente umiliata da te Presidente, ed è gravissimo. Se
c’è qualcuno più bravo io mi faccio da parte, nessun problema. Ma quando tu indichi come
centravanti Salvini, e non un esponente del tuo partito, l’effetto è devastante. C’è un grave
problema di organizzazione e di gestione in Forza Italia, le cose devono cambiare. Serve
un vero choc, non scorciatoie inutili».
Più morbido semmai Fitto è stato sul Patto del Nazareno, che non è un male in sé ma nel
quale «dobbiamo farci valere, non possiamo accettare tutto quello che ci viene imposto».
E d’altronde su questo punto cruciale Berlusconi era stato chiaro in apertura, difendendo
l’accordo e il suo «ideatore», Denis Verdini, senza il quale «saremmo irrilevanti». Perché,
ha proseguito, non solo le riforme servono, ma serve avere peso nell’elezione del capo
dello Stato che avverrà a breve se è vero che «Napolitano, ci risulta, si dimetterà il 20
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gennaio». Queste sono le cose che contano oggi per il Cavaliere, che dopo gli interventi di
mezzo partito si becca pure il rimbrotto di Capezzone: «Attenzione: i partiti possono anche
sparire», e per salvarli non va che «in televisione a parlare si presentino sempre gli
stessi...». «Non c’entro niente io con questo, non sono io a decidere sulle mie tivù» alza le
mani, remissivo, Berlusconi.
Paola Di Caro
Del 27/11/2014, pag. 4
E dietro l’angolo del Carroccio ora c’è l’oro di
Mosca
I RAPPORTI TRA I PADANI E I COMPAGNI RUSSI SONO CRESCIUTI
IL LEADER LOMBARDO: “SE ARRIVASSERO SOLDI LI ACCETTEREI”
Di Leonardo Cohen
Quando undici mesi fa Matteo Salvini venne eletto per alzata di mano segretario della
Lega al congresso federale del Carroccio che si era riunito in quel del Lingotto, a Torino,
tra gli “amici” osannanti delle destre europee più anti-Ue (fiamminghi, francesi, austriaci,
svedesi) c’erano anche Viktor Zubarev, parlamentare di Russia Unita – il partito di Putin
che egemonizza la vita politica russa – e il quarantaduenne Alexej Komov, ambasciatore
del Congresso Mondiale delle Famiglie all’Onu, noto esponente pro-life della società
cristiana ortodossa, fiero avversario del movimento gay. La loro presenza era
apparentemente formale, l’attestazione di stima nei confronti di Salvini. Il capo leghista,
infatti, si era pubblicamente schierato dalla parte di Putin. Il presidente russo aveva
tuonato contro l’asso - ciazione dell’Ucraina all’Ue, quella che lui chiamava un’in - debita
ingerenza dell’Unione nella sfera d’influenza di Mosca. Un’azione “imperialista”, al soldo
dell’euro, in combutta con gli Stati Uniti. Manna, per la Lega salviniana che aspirava a far
parte dell’alleanza dei partiti identitari ferocemente schierati contro la moneta unica e alla
ricerca di una nuova Europa, quella dei popoli.
PUTIN ERA PIÙ di uno spettatore interessato: a lui premeva appoggiare concretamente
chi poteva sabotare l’Ue, già in crisi. Un disegno nemmeno tanto occulto:
strumentalizzando la questione delle minoranze, si poteva rimettere in discussione lo
stesso equilibrio territoriale dell’Est europeo. In Ucraina, infatti, la violenta protesta
popolare contro il regime corrotto del presidente Viktor Yanukovich, in quella metà di
dicembre del 2013 di lì a poche settimane sarebbe sfociata nella sua fuga. In Occidente
pochissimi immaginavano che la Crimea sarebbe stata inglobata da Mosca, che l’Est
dell’Ucraina si sarebbe ribellato a Kiev e che l’Unione europea, insieme agli Stati Uniti,
avrebbe imposto sanzioni economiche pesantissime nei confronti della Russia. No, in quei
giorni di tripudio salviniano, pareva che il vero interesse del nuovo segretario leghista
fosse quello di rincorrere Beppe Grillo e annodare stretti rapporti con i rappresentanti delle
destre europee razziste e xenofobe. Così, la presenza dei due russi passò in
second’ordine. Invece, qualcosa i russi stavano progettando. Quale migliore cavallo di
Troia, di una innocente associazione culturale? Nell’inverno 2013/2014 nasce
LombardiaRussia. Presidente onorario è Komov. Presidente effettivo è il giornalista
Gianluca Savoini, portavoce di Salvini. L’intento ufficiale dell’associazione è quello di
“stringere i rapporti con la Russia”, nonché quello di dare una “corretta informazione” su
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ciò che succede in Ucraina. Consultando il sito, emerge l’enfasi sulle “idee” putiniane, “le
ammiriamo molto”, e senza tanti fronzoli lo stesso Savoini spiega che LombardiaRussia
serve “per far capire agli italiani che far entrare l’Ucraina, questa Ucraina, in Europa è
sbagliato e dannoso per tutti noi”. In un’intervista, Savoini aggiunge: “Noi facciamo
controinformazione. La Russia di Putin viene descritta in un modo assurdo e fazioso dai
mass media e dai governi occidentali”. Più o meno le parole che ha detto un paio di
settimane fa Dmitri Kisilev, il direttore dell’agenzia MIA (ex Ria Novosti più Russia Today)
foraggiata dal bilancio statale, nell’annunciare il lancio dello “SputnikNe - ws”, il nuovo
strumento di propaganda russa all’estero.
QUANTO ALLA LEGA, la collaborazione con i partiti euro-critici, a cominciare dal Front
National di Marine Le Pen, si intensifica. Ma con quale carburante si scalda questo
motore? Marina Le Pen ha dovuto confermare di avere ottenuto un prestito di ben 9 milioni
di dalla First Czech Russian Bank, un piccolo istituto russo di proprietà dell’oligarca
Roman Yakubovich Popov (amico del premier Dmitri Medvedev e di Putin), banca che
prima era appartenuta alla StrojTransGaz, leader della produzione di gasdotti. La notizia
ha messo in fibrillazione il mondo della politica italiana: vuoi vedere che dopo il Pci, anche
la Lega attinge alle generose casse di Mosca? Salvini ha negato di avere avuto quattrini
dalla Russia. Se arrivassero, perché no, li accetterei, ha detto. È stato di recente a Mosca,
e in Crimea. Ha incontrato Putin (anche a Milano, in margine al Forum Euro-Asiatico). È
noto che negli ultimi mesi, centinaia di piccoli imprenditori e commercianti del Nord Italia,
danneggiati dalle sanzioni, hanno visto con molta simpatia le iniziative pro Russia di
Salvini e della Lega. Nel 2013 l’Italia –so - prattutto il made in Italy della moda e
dell’alimentare – ha esportato in Russia beni per 11 miliardi di Euro (nel 2003, erano 4).
Quest’anno è prevista una sensibile flessione. La lobby dell’interscambio italo-russo punta
su Lega. Nel frattempo, Lombardia Russia ha figliato Lombardia Crimea.
NELL’ALLEANZA Europea dei partiti nazionali, Mosca ha stretto legami con numerosi
parlamentari ultranazionalisti eletti a Strasburgo, al punto da diventare l’epicentro di una
sorta di internazionale nera: miscelando, talvolta – come nel caso di Bela Kovacs, membro
del partito neonazista ungherese Jobbik – spionaggio e finanziamenti, secondo l’accusa
del procuratore generale di Budapest che ha chiesto di togliergli l’immunità parlamentare.
Il politologo ungherese Peter Kreko ha pubblicato, lo scorso marzo, un saggio dal titolo
abbastanza eloquente: The Russian Connection. In cui spiega come il Cremlino abbia
replicato una strategia d’infiltrazione assai simile a quella che utilizzava l’Urss. Lo scopo è
lo stesso: destabilizzare la scena politica europea: “I partiti di estremisti, tutti anti-Ue,
saranno molto utili in questo scenario, per indebolire anche il legame con gli Usa”. La Lega
potrebbe diventare l’efficace grimaldello italiano. Quanto ai soldi, i canali indiretti per
“aiutare” gli amici sono tantissimi, e in questo i russi sono maestri: operano attraverso
miriadi di società in Serbia, Ungheria, Cipro, Finlandia, Spagna, Svizzera, Francia e
Inghilterra (a Londra abitano 500mila russi). Pure in Italia. Dove i russi comprano,
acquisiscono e si installano nei consigli di amministrazione.
Del 27/11/2014, pag. 9
“Grillo è stanco”
Il movimento teme un passo indietro
Nuovo attacco del blog a Pizzarotti. Il sindaco: cortigiani I parlamentari
dissidenti pronti ad aderire alla Leopolda M5S
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ANNALISA CUZZOCREA
Beppe Grillo «è stanco stanco», «non ne può più», «la famiglia gli chiede di mollare»,
«non può fare tutto lui». Chi nell’ultimo mese ha parlato con il capo politico dei 5 stelle, lo
ha visto tentato dalla resa: «Ha detto che dobbiamo camminare sulle nostre gambe, ma sa
che non siamo ancora pronti». Allo stesso modo - su una linea parallela che corre ormai
da tempo - gli attivisti, e parte dei parlamentari, sono stanchi del leader e di una linea
dettata da uno staff senza volto. Così, dopo che il giorno prima - sul blog - Walter Rizzetto
era stato sconfessato per essere andato a Omnibus, ieri i suoi colleghi deputati Tancredi
Turco e Sebastiano Barbanti hanno sfidato il diktat, intervenendo ad Agorà. «Grillo deve
rimanere il nostro megafono - ha detto Turco - ma è opportuno che venga affiancato da
altri megafoni, ovvero da noi parlamentari». In più, sul blog, l’ennesimo attacco a Federico
Pizzarotti - con la pubblicazione della lettera di un ambientalista che gli rimprovera la
mancata chiusura dell’inceneritore di Parma - viene sommerso da una valanga di
commenti che danno ragione al sindaco, e che attaccano lo staff. Continuando a chiedere,
com’era stato ieri per il divieto tv: chi sceglie i post? Chi scrive le scomuniche? Metteteci la
faccia. Due boomerang in due giorni. La guida della Casaleggio Associati appare meno
sicura, e l’area critica del Movimento alza il tiro. La lettera pubblicata risale a un anno
prima, il che dà modo al sindaco di Parma di considerarla «pretestuosa», perché arriva a
meno di due settimane dall’incontro con gli amministratori di tutt’Italia che ha lanciato per il
7 dicembre. La lettera era di un anno fa - spiega il capogruppo M5S in città Marco Bosi - e
dice cose non vere, anche perché la raccolta differenziata Parma l’ha portata al 70%,
prima città di medie dimensioni a farlo, e così facendo sta “affamando” l’inceneritore. A
sera, è lo stesso sindaco a replicare: «Mi dispiace Beppe, il problema dei tuoi invisibili ma
ben noti cortigiani che utilizzano un blog ormai ombra di se stesso è che pontificano sul
lavoro degli altri senza conoscere l’argomento, e senza sporcarsi le mani come fa un
sindaco, un consigliere, un parlamentare. Non c’è proprio tempo per seguire i soliti, e
ormai prevedibili, attacchi sul blog, c’è un Paese là fuori che ha bisogno del Movimento.
Vieni a Parma invece, sei invitato il 7 dicembre».
Per tutta risposta, le adesioni crescono. L’evento è stato intitolato “Il Movimento incontra il
Movimento”, uno dei temi è come fare politica in maggioranza, hanno già annunciato la
loro presenza oltre 160 amministratori da tutt’Italia, e alcuni parlamentari come Giulia
Sarti, Mara Mucci, Massimo Artini. «Se resta un evento tra amministratori non accadrà
niente, se invece c’è del dolo, se si vuole trasformarlo in una riunione contro la linea, le
cose cambiano », racconta chi è riuscito a parlare con Grillo. «Quelli come Pizzarotti,
dentro, sono ancora del Pd. Non lo sanno, ma è così», dice sorridendo Roberto Fico. Il
presidente della Commissione di Vigilanza Rai invita tutti alla cautela, a ragionare, a non
credere a ricette facili come il ritorno in tv. È consapevole che molti attivisti lo chiedono da
mesi («andate a dire quello che facciamo, il web non basta»), ma spiega: «Lo abbiamo già
fatto, ed è stato allora che, in qualche modo, siamo stati incoerenti con la nostra storia. La
televisione può essere l’ultimo tassello di una strategia». Usa la stessa identica
espressione usata il giorno prima da Luigi Di Maio con chi gli andava a chiedere: che si
fa? I due si sono parlati a lungo: per ora, con l’ala critica, non si va allo scontro. «Non
andiamo dietro a chi vuole strumentalizzare questo momento - dice un altro fedelissimo, il
vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali Danilo Toninelli - siamo la
maggioranza e non diamo loro importanza. Voliamo alto per il bene del Movimento ».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 27/11/14, pag. 9
Lotta alla tratta, le associazioni temono un
taglio dei fondi
Liana Vita
ROMA
Migranti. Già dimezzati nel 2014 i finanziamenti destinati ogni anno al
recupero delle vittime del traffico di esseri umani
Sono centinaia le lavoratrici agricole provenienti dalla Romania che vivono nelle
campagne della provincia di Ragusa, in condizioni di sfruttamento e vulnerabilità tali da
poter essere definite di schiavitù. Molte di loro arrivano con i propri figli e vengono
sistemate in abitazioni fatiscenti e isolate, senza alcun contatto con la popolazione locale,
costrette a lavorare nelle serre in nero, sottopagate e dipendenti dai datori di lavoro per
qualsiasi necessità, persino per avere acqua potabile e cibo. E in molti casi sono vittime di
violenze e abusi sessuali. L’unica possibilità per queste donne di affrancarsi è stata, in
questi mesi, l’attività della cooperativa Proxima che è riuscita a inserirne alcune nella rete
nazionale antitratta, assicurando loro protezione e una sistemazione sicura. Questo
intervento è uno dei tanti che rientrano all’interno del sistema nazionale antitratta, una
realtà positiva nel nostro paese, cui hanno dato vita in questi anni associazioni, comuni,
province, coordinata e cofinanziata dal Dipartimento pari opportunità della presidenza del
consiglio.
Una realtà che oggi è a rischio, se il governo non interverrà subito consolidandola e
dotandola delle risorse finanziarie necessarie, come chiesto ripetutamente dagli oltre
cinquanta tra organizzazioni ed enti, distribuiti su tutto il territorio italiano, che ne fanno
parte. Dal 2000 a oggi, infatti, decine di migliaia di uomini e donne sono riuscite a liberarsi
dallo sfruttamento sessuale e lavorativo e ad accedere ai programmi di protezione e
assistenza per le vittime di tratta di esseri umani. È attivo un numero verde, 800290290,
ventiquattrore al giorno, che raccoglie le segnalazioni, valuta i singoli casi e indirizza le
vittime ai servizi esistenti sul territorio. Partono a questo punto due possibili percorsi di
protezione. Una prima assistenza, nell’ambito dei programmi definiti ex art. 13 della L. 228
del 2003, che consente in tempi brevi di ottenere adeguate condizioni di alloggio, di vitto,
di assistenza sanitaria e legale per un minimo di tre mesi. E un programma di protezione e
integrazione sociale, previsto dal testo unico sull’immigrazione (ex art. 18), all’interno del
quale vengono elaborati percorsi individuali a lungo termine, con il rilascio di un permesso
di soggiorno temporaneo per motivi umanitari.
Nel 2014 è stato emanato il decreto legislativo n. 24 per recepire la direttiva 2011/36/UE
sulla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime,
un passo importante nella sistematizzazione degli interventi antitratta.
Il decreto prevedeva, entro il 28 giugno 2014, l’adozione del «Piano nazionale d’azione
contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani» e di altri provvedimenti tra cui
quello relativo ai meccanismi di determinazione dell’età dei minori stranieri non
accompagnati vittime di tratta e il nuovo programma unico di emersione, assistenza e
integrazione in favore di stranieri (compresi i cittadini UE) vittime di tratta e riduzione in
schiavitù nonché di stranieri vittime di violenza o di grave sfruttamento che corrano
concreti pericoli per la loro incolumità. Un Piano nazionale, da finanziarie in modo
adeguato e strutturando i finanziamenti su una programmazione almeno triennale, per
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garantire la continuità dei servizi. Finora, infatti, i fondi dedicati al sistema antitratta hanno
visto una notevole contrazione: per il 2014 sono stati stanziati 3.800.000 euro rispetto ai
7.000.000 del 2013.
Giovanna Martelli, nominata consigliera del presidente del consiglio per le Pari
opportunità, il 21 ottobre scorso ha annunciato l’impegno del governo a rafforzare e
consolidare il finanziamento sul sistema antitratta e l’ha fatto proprio dopo aver visitato le
campagne di Ragusa. Le associazioni e gli enti della rete antitratta aspettano questo
passo. Soprattutto lo aspettano le tante vittime che vivono nel nostro paese, dalle donne
rumene segregate alle nigeriane schiave della criminalità organizzata, che arrivano dalla
Libia, dopo aver attraversato il deserto e aver contratto un debito che anni di violenza e di
strada non riusciranno a sciogliere.
Del 27/11/2014, pag. III RM
Spending review per i migranti
Bando al ribasso e tagli ai servizi
Al Cie di Ponte Galeria ridotte pulizia e catering il costo pro capite
passa da 40,9 a 28,8 al giorno
MAURO FAVALE
UN PRESIDIO infermieristico anziché un medico h24, una riduzione dell’assistenza
psicologica, un contributo economico per gli “ospiti” di 2,5 euro al giorno anziché di 3,5. E
poi risparmi sul catering e sui servizi di pulizia. Nel mirino della spending review finisce il
Cie, il centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria dove a partire da metà
dicembre, il costo pro capite per ogni immigrato che viene rinchiuso lì passerà da 40,9
euro al giorno di oggi a 28,8. È questo l’effetto di una gara d’appalto bandita più di un anno
fa dalla Prefettura di Roma che ha premiato, sul criterio del massimo ribasso con base
d’asta 30 euro, un raggruppamento temporaneo di imprese formato dal- la francese Gepsa
e dall’associazione culturale siciliana Acuarinto. A partire dal 15 dicembre subentreranno
alla Auxilium (classificatasi seconda nella gara) nella gestione di uno dei 5 Cie rimasti in
Italia, quello di Ponte Galeria che nell’ultimo anno ha ospitato in media 120 immigrati al
giorno in attesa di identificazione ed espulsione. A meno di un mese dal passaggio di
testimone c’è preoccupazione da parte di Cgil, Cisl e Uil che temono per le sorti di 67
lavoratori presenti attualmente nella struttura e che potrebbero essere sostituiti dal
personale della Gepsa. I tre sindacati hanno già scritto al prefetto Giuseppe Pecoraro
affinché favorisca un incontro tra i lavoratori e la nuova società, di proprietà del colosso
multinazionale Gdf Suez. In Francia gestisce già 13 carceri e in Italia ha vinto in primavera
il bando per la riapertura del Cie di via Corelli a Milano. Qui a Roma, fino a pochi mesi fa,
si occupava del Cara, il centro per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto. Una gestione
finita sotto la lente proprio della Prefettura che a fine settembre ha inviato a Gepsa e alla
Acuarinto quattro dettagliate pagine di rilievi espressi dopo un sopralluogo nel centro.
Si va da un’ambulanza mai acquistata «contrariamente al capitolato d’appalto» al «numero
dei pasti preparati ed erogati inferiori al numero di ospiti». E ancora, scrive il prefetto
Pecoraro che firma le 4 pagine: «Non vi è corrispondenza tra le 11 mila ore del servizio di
pulizia previste dall’offerta tecnica e quelle che si risultano dal calcolo delle ore
effettivamente lavorate dal personale concretamente impiegato ». Inoltre viene contestato
il subappalto per la somministrazione dei pasti (non per la preparazione, invece) che
secondo il contratto spettava direttamente alla Gepsa. Rilievi, però, che non hanno
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impedito al raggruppamento temporaneo di imprese di vincere l’appalto e avvicendarsi con
Auxilium. Quest’ultima società, infatti, dal Cie è passata ora a gestire proprio il Cara di
Castelnuovo di Porto. La gara della Prefettura con base d’asta 30 euro I vincitori già
criticati per la gestione del Cara.
del 27/11/14, pag. 9
Europa e Africa, accordo sui migranti
Carlo Lania
ROMA
Processo di Khartoum. Campi per i profughi in Africa gestiti da Unhcr e
Oim. Ma c’è chi teme la nascita di nuovi ghetti
Le speranze sono molte, almeno quante sono le preoccupazioni che da diverse settimane
circondano l’iniziativa. Dopo Triton, la missione europea che ha il compito di controllare le
frontiere marittime del continente, l’Unione europea si prepara ora a lanciare un nuovo
piano — battezzato Processo di Khartoum — destinato a contrastare il traffico di esseri
umani ma anche al controllo dei flussi migratori provenienti dal Corno d’Africa. Un progetto
messo a punto nei mesi scorso in accordo con l’Unione africana e che verrà presentato
domani al termine della IV Conferenza ministeriale euro-africana su migrazioni e sviluppo
in corso a Roma. Per l’occasione sono presenti i ministri degli Esteri e degli Interni dei 28
Paesi membri dell’Unione, più quelli di Eritrea, Egitto, Etiopia, Gibuti, Kenya, Libia,
Somalia, Sudan, Sud Sudan e Tunisia, ovvero i paesi da cui parte o in cui transita la
maggior parte dei migranti che — attraversano viaggi estremamente pericoli che spesso
durano molti mesi — cercano di arrivare in Europa.
L’iniziativa prende avvio a pochi giorni di distanza dallo stop imposto dal governo italiano
all’operazione Mare nostrum che in un anno ha salvato 160 mila migranti, e proprio come
Triton punta sì al contrasto dei trafficanti di uomini, ma anche a una riduzione degli arrivi
lungo le nostre coste.
I dubbi sulla nuova operazione nascono proprio sui metodi scelti per raggiungere questi
due obiettivi. Anche se finora non c’è nulla di ufficiale al centro del Processo di Khartoum
c’è la realizzazione di campi profughi nei Paesi che si trovano a Sud della Libia, in
particolare Etiopia, Sudan, Sud Sudan e Niger, attraversati oggi con mille pericoli dai
migranti prima di arrivare nel Paese nordafricano dove poi si imbarcano diretti verso le
coste italiane. I campi dovrebbe essere gestiti dall’Alto commissariato dell’Onu per i
rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), e dovrebbero
offrire un rifugio protetto ai migranti consentendo anche di stabilire quanti di loro hanno
diritto alla protezione internazionale.
Da parte sua l’Europa si impegna ad accogliere, dividendoli nei vari Paesi membri, i
rifugiati la cui richiesta di asilo è stata accolta. «In questo modo — spiegano al Viminale —
riusciamo a togliere i profughi dalle mani dei trafficanti, dal momento che non dovrebbero
più affidarsi a loro per attraversare il Mediterraneo».
Del Processo di Khartoum si è parlato ieri a Bruxelles nella sede del nuovo commissario
europeo per l’immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, mentre a dicembre a Ginevra
si terrà la conferenza dei Paesi dell’Ue per stabilire le quote di accoglienza e i
finanziamenti da destinare all’operazione. Soldi che dovranno servire anche per
l’addestramento delle varie polizie di frontiera africane e per avviare campagne di
informazione nei Paesi di origine dei migranti. Probabile, come già avviene in alcuni Paesi
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africani, che l’obiettivo sia quello di dissuadere quanti fuggono dall’intraprendere il viaggio,
ponendo l’accento sui rischi che questo comporta.
Fin qui il progetto, che però al di là delle buone intenzioni non è privo di zone grigie. A
partire dalla scelta fatta dall’Europa, e in particolare dall’Italia, di avviare rapporti di
collaborazione con dittature come quelle presenti in Sudan e Eritrea. Come spiega don
Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia che da anni denuncia le violenze del
regime di Asmara. «Che garanzie offrono questi paesi perché l’Italia possa dialogare con
loro?», chiede il sacerdote. «L’Onu ha avviato una commissione d’inchiesta proprio per
accertare le violazione dei diritti umani in Eritrea, e adesso l’Italia legittima quel paese che
è privo perfino di una Costituzione». Dubbi che si estendono anche alla realizzazione dei
campi, che secondo don Zerai l’Europa potrebbe usare per raccogliere i migranti
lasciandoli poi lì. «Campi così esistono già nel nord dell’Etiopia, dove sono stipati 80 mila
profughi, e in Sudan dove migliaia e migliaia di persone aspettano mesi e mesi che
qualcuno esamini le loro domande di asilo».
C’è poi, e non è certo secondario, il problema su chi garantisce la sicurezza dei campi.
L’idea sarebbe di affidarla alla polizia dei locale che però, come ricorda don Zerai, è
spesso corrotta e collusa con i trafficanti. «La mia paura — conclude il sacerdote — è che
in realtà l’Europa voglia aprire quest campi per trattenere i profughi, impedendogli così di
arrivare fino a noi».
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SOCIETA’
del 27/11/14, pag. 19
Dai peperoni alla cannabis
La svolta illegale nei campi
Complice la crisi, sempre più agricoltori si danno al business delle
droghe
Massimo Numa
Racket addio. Non servi più. I coltivatori italiani di cannabis producono lo stupefacente in
aziende agricole o in serre costruite in ogni dove, capannoni, magazzini, scantinati. La
produzione fai-da-te di hashish e marijuana, almeno in Piemonte, sta aumentando in modo
esponenziale. Poi viene venduta, senza alcun tipo di passaggio, al consumatore, divisa in
dosi o in quantitativi più importanti. Via Internet. I carabinieri del comando provinciale di
Torino hanno individuato nel web decine di «app» dove è possibile acquistare la droga. Da
aprile a novembre hanno sequestrato 27 serre clandestine, dotate anche di attrezzature
sofisticate, come se la cannabis fosse ormai una pianta-ortaggio qualsiasi. Tra gli arrestati
o i denunciati ci sono agricoltori di professione, disc-jockey, assicuratori, commercianti,
universitari, attivisti dei centri sociali. Età dai 20 ai 60 anni. Incensurati e, salvo le solite
eccezioni, con profili personali lontanissimi dai vecchi cliché, cioè l’hippie o l’alternativo
che getta disordinatamente in un vaso i semi comprati nei coffee shop di Amsterdam e
dintorni. Gli italiani, quando si impegnano, lavorano al top e la cannabis coltivata
seguendo tutte le prescrizioni tecniche è di qualità elevata, con una resa e un principio
attivo molto alto. I più organizzati hanno creato una linea di produzione che va dalla
coltivazione, all’essicazione, al taglio e al confezionamento delle dosi, in vari format.
Qualcuno, certo dell’impunità, «firma» il prodotto con un logo particolare, per non perdere
l’effetto identitario, un marchio Doc, per fidelizzare ulteriormente il consumatore.
Raramente si trasformano in pusher. Ma un agricoltore di origine valdostana, fermato dai
carabinieri, aveva lasciato la sua serra nei dintorni di Torino per vendere «2,17 grammi» di
marijuana a una studentessa di 19 anni. In casa aveva un piccolo negozio di vendita al
minuto, con dosi già graziosamente confezionate. «Nel corso delle indagini - spiegano gli
investigatori dell’Arma - abbiamo constatato che, quasi sempre, la droga viene distribuita
da una rete scollegata dal racket, che invece continua ad importare lo stesso tipo di
stupefacente dai Paesi tradizionalmente produttori». Ma quanti agricoltori vanno
convertendo le loro coltivazioni verso l’area illegale? «Tanti. Le operazioni in corso sono
solo la punta di un iceberg. La crisi ha investito anche le campagne, molti terreni sono
incolti, le cascine abbandonate. Coltivare la cannabis costa relativamente poco e i profitti
sono elevati, diciamo che, investendo 100 euro se ne ricavano 500. Il mercato on-line, se il
prodotto è buono, è pronto a pagare e anche bene, con ampi margini di discrezionalità e
sicurezza».
In questo test limitato solo a Torino e provincia, piantagioni di piccole, medie e grandi
dimensioni sono state scoperte dai carabinieri a Settimo Torinese, Casalborgone,
Montanaro, Pianezza, Sant’Ambrogio, Grugliasco, Reano, Giaveno, Rivarolo, San Giorgio
Canavese, Alice Superiore, Orbassano, Venaria e Torino. Paesi una volta noti per i
pomodori, peperoni o per qualche ortaggio particolare e unico. A Nichelino la Narcotici
della polizia aveva arrestato, a settembre, tre fratelli agricoltori incensurati che avevano
trasformato la loro cascina in un centro-modello della cannabis.
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CULTURA E SCUOLA
Del 27/11/2014, pag. 1-14
L’Europa boccia l’Italia “Basta precari nelle
scuole dopo tre anni vanno assunti”
La Corte di giustizia: “No al rinnovo illimitato dei contratti” I sindacati:
ricorsi per 250mila, effetti sul resto del pubblico impiego
Con puntualità lussemburghese, le 9.33 di ieri mattina, il presidente sloveno della Corte di
Giustizia europea, Marko Ilesic, dà lettura dell’attesa sentenza sui precari italiani della
scuola. In tre pagine scritte nella nostra lingua, la sentenza dice: i contratti a tempo
determinato per gli insegnanti italiani chiamati a sostituire docenti di cattedra violano le
direttive europee. Poi, i precari che hanno superato i trentasei mesi di insegnamento a
scuola e che sono stati chiamati in ruolo ma solo a tempo determinato devono essere
assunti oppure risarciti. L’Italia, infine, deve dare un’alternativa certa alle graduatorie,
ovvero fare i concorsi pubblici. È una sentenza attesa, ma da noi deflagra in tutta la sua
potenza. Secondo i calcoli dell’Anief, un piccolo sindacato palermitano che ha iniziato per
primo questa battaglia nel 2010, sono 250-270 mila gli insegnanti precari saliti in cattedra
per almeno 36 mesi negli ultimi undici anni. Lo dicono le graduatorie storiche del Miur e i
dati Inps. Se i “precari + 36” si rivolgeranno a un tribunale del lavoro italiano, con in mano
la nuova sentenza europea, la strada della loro assunzione diventerà certa. Il dispositivo
lussemburghese, che interessa anche amministrativi e bidelli (Ata), prevede indennizzi per
gli scatti d’anzianità fin qui non riconosciuti, dal 2002 al 2012.
Sono due miliardi di euro, secondo i calcoli sindacali. L’avvocato dell’Anief Walter Miceli,
che cura il ricorso dal 2012, quando la Cassazione lo fermò e un Tribunale del lavoro di
Napoli chiese successivamente lumi alla Corte europea, allarga la platea dei possibili
lavoratori sanabili: «Questa sentenza può essere applicata a tutto il pubblico impiego,
apriremo vertenze per la formazione musicale, nella Sanità, nelle Regioni, nei Comuni. È
una sentenza storica». Così la Cgil scuola con il segretario Domenico Pantaleo: «Farà da
apripista per centinaia di migliaia di precari che da anni coprono posti vacanti facendo
funzionare tutte le pubbliche amministrazioni». La Gilda: «Se il ministro riduce tutto a 18
mila aventi diritto non ha capito la portata della sentenza. A dicembre, visto il volume delle
iniziative giudiziarie, comprenderà».
Del 27/11/2014, pag. 52
Lanciato dalla tv on demand di Telecom Italia, parte la seconda edizione
del contest online per aspiranti registi di tutte le età
Tecnologia e creatività unite per sviluppare il mercato del futuro e far
emergere una nuova generazione di film-maker
Ciak si gira In digitale
JAIME D’ALESSANDRO
L’anello mancante o la quadratura del cerchio, a voi la scelta. Al mondo vulcanico dei
video online, serie web in primis, serve ancora un tassello. Negli ultimi tre anni è cresciuto
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in maniera esponenziale, si è evoluto, ha raggiunto la popolarità. Ma non è una vera
industria. Che la tecnologia aiuti a confezionare buoni prodotti a costi relativamente bassi
è un fatto, che non ci si sbarchi il lunario è un’altra realtà assodata. Almeno fino ad oggi.
La buona notizia? Le cose potrebbero cambiare presto. Anzi, forse mai come ora sul
campo ci sono tutte le condizioni necessarie per fare il salto di qualità. A patto di avere un
po’ di mestiere, la giusta tecnica e di cominciare da un’idea che abbia un senso,
soprattutto dal punto di vista produttivo.
«Sperimentazioni. Èquesto quel che il web ha permesso e permette oggi», raccontano i
The Jackal, gruppo partenopeo conosciuto per Lost in Google e diventato famoso con Gli
effetti di Gomorra sulla gente , tre puntate dedicate alla serie tv di Sky con ospiti di
eccezione fra i quali lo scrittore Roberto Saviano. Un successo fatto da poco meno di nove
milioni di persone che hanno visto e condiviso la serie e ora sono in attesa della quarta
puntata che il gruppo sta prepa- rando. «All’inizio basta una buona reflex per riprendere,
un computer per montare e una discreta dose di creatività», continuano. «Con Lost in
Google ad esempio la trama cambiava secondo le indicazioni del pubblico. Ma è stato
faticoso. Se veniva chiesta una scena con una sparatoria, bisognava trovare la location
giusta e coinvolgere altri attori. Non era prevedibile quale piega avrebbero preso gli eventi
e quindi individuare dei finanziamenti attraverso il “product placement”. Ma la sfida è
proprio quella: coniugare sperimentazione e investimenti. Altrimenti bisogna limitarsi a due
attori, con campo e controcampo come in Gli effetti di Gomorra sulla gente , sapendo però
che per quante siano le visualizzazioni non si diventerà certo ricchi. Noi ad esempio, per
far quadrare i conti, facciamo video aziendali e virali».
Il problema è che Google, con il You-Tube Online Partnerships, divide con gli youtubers
più costanti una piccola fetta degli introiti pubblicitari. E per fare soldi veri bisognerebbe
avere un bacino di utenti enorme che un Paese come l’Italia non può offrire. E allora non
resta che puntare le fiches su diversi tavoli, mandando il proprio lavoro anche a concorsi e
festival. Questo mese ad esempio si possono inviare al TimVision Awards. Verranno votati
sul web e fra quelli che otterranno più consensi verranno scelti i vincitori dalla giuria
composta, fra gli altri, da Carlo Verdone, Paola Cortellesi, Pif e presieduta da Gabriele
Salvatores. In palio ci sono stage sul set di film importanti, ma soprattutto la possibilità di
farsi notare. «I conti per ora non tornano», conferma Francesca Cima che, oltre ad essere
il presidente della Sezione produttori dell’Anica, con la Indigo Film ha vinto un oscar con
La grande bellezza di Paolo Sorrentino e prodotto con Rcs e Rai Fiction la serie web Una
mamma imperfetta, scritta e diretta da Ivan Cotroneo. «Il fenomeno è importante, anzi è
una mano santa», prosegue. «Equivale a quel che un tempo veniva chiamato “sviluppo e
innovazione”. Non a caso i The Jackal o La buoncostume, quelli di Il candidato, sono dei
gruppi, delle factory creative. Però dal punto di vista meramente economico bisogna fare
ancora molta strada. Attualmente si realizzano video e serie a costo basso che, quando
vengono acquistate, sono pagate pochissimo. Se non c’è una vera valorizzazione, come
avviene altrove grazie alla scesa in campo di Google, Netflix, Amazon, non c’è speranza di
farne un sistema economico. Ma sono convinta che sia questo il momento giusto: le
aziende hanno bisogno di comunicare in maniera diversa, più efficace, e i video sul web
sono il mezzo giusto. Basta mettere assieme i pezzi. Del resto House of Cards cos’è se
non una gigantesca operazione di marketing, grazie alla quale Netflix ha costruito la sua
nuova immagine senza nemmeno dover mostrare il suo marchio ».
Servirebbe però un progetto editoriale da parte delle aziende, una visione di insieme, che
invece latita. E dall’altra parte, la parte di chi si lancia nel mondo dei video, l’intelligenza di
pensare fin dall’inizio un progetto che possa essere finanziato senza sacrificare troppo in
termini di creatività o indipendenza. In una sorta di Carosello 2.0 che unisca tutti questi
aspetti. Non è un caso che l’ultimo Roma Web Fest, il festival più importante dedicato alle
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produzioni per la rete curato da Janet De Nardis, abbia premiato quest’anno un progetto
come Milano Underground , quattro puntate girate nella metropolitana della città lombarda.
L’autore, il trentacinquenne Giovanni Esposito, ha una formazione ibrida fra studi di
marketing e di cinematografia, e diverse esperienze fatte in tv. «Quella del carosello di
nuova generazione, o “branded content” che dir si voglia, è la strada più probabile»,
spiega. «Marchi che finanziano una serie perché ne condividono la filosofia e non certo o
non solo per piazzare il loro prodotto in primo piano. Ma l’intelligenza sta anche nello
scegliere la giusta ambientazione per ottenere il massimo risultato spendendo il meno
possibile. La metropolitana è un set perfetto: non hai bisogno di luci né devi costruire
scenografie. In seguito bisogna pensare a far sviluppare la serie sul lungo periodo,
impossibile altrimenti attrarre investimenti, diversificandola per la tv tradizionale o il
cinema». Insomma, una strada tutta in salita, ma pur sempre una strada. Non è poco di
questi tempi e in fondo non è poco nemmeno rispetto al passato quando al talento, nei
canali tradizionali della televisione italiana, raramente veniva data una chance.
Del 27/11/2014, pag. 15
L’autunno nero dei libri
EDITORIA, IL 2014 SI CHIUDERÀ CON UN MENO 4%. ANCHE IL
DIGITALE NON CRESCE COME PREVISTO
Quando ne L’arte del romanzo Milan Kundera nota che si pubblicano libri con caratteri
sempre più piccoli immagina la fine della letteratura. “A poco a poco, senza che nessuno
se ne accorga, i caratteri rimpiccioliranno fino a diventare completamente invisibili”. È un
paradosso, la letteratura non è morta (anche se non si sente molto bene, di sicuro) e
comunque poi sono arrivati i supporti digitali con la possibilità di definire la grandezza dei
caratteri. E non solo. Ormai da qualche anno l'ossessione del mercato del libro si chiama
digitale. Eppure i dati dicono che in Italia cresce ma non troppo. Almeno, non come ci si
aspettava: da gennaio a novembre 2014, secondo Nielsen (una delle maggiori società di
ricerca), l’incremento del mercato degli e-book è stato del 40% (l’e-commerce invece
+29%). E fin qui almeno si parla di segni positivi. Se ci spostiamo sul mercato tradizionale
scopriamo che ottobre 2014, rispetto allo stesso mese del 2013, è stato nerissimo: -9,4
per cento a copie, -7,5 a valore (la differenza sta a significare che si vendono meno i libri
economici). Nel complesso nei primi 10 mesi dell’anno, sempre Nielsen rileva che le copie
totali scendono del 7%, il mercato a valore del 4,6%. E tutto questo rispetto a un 2013 che
si era chiuso a -5% circa.
“UN PERIODO difficile come questo l'Italia dal dopoguerra non l'aveva mai visto, e anno
dopo anno il peso si sente”, commenta Massimo Turchetta, direttore generale Rcs libri.
“Per Gfk (un'altra importante società di ricerca, ndr) però il progressivo a fine anno è un
po' meno drammatico: -2,6%. Gli acquirenti di libri in Italia, i lettori forti, sono 5 milioni di
persone: il 70% è rappresentato da donne tra 35 e i 55 anni che lavorano e hanno un titolo
di studio medio-alto. Spesso sono insegnanti, o fanno mestieri che non implicano
situazioni economiche brillanti: non è gente che ha i soldi in Svizzera, per capirci. Soffre la
parte migliore del Paese, una specie di cui invece bisognerebbe prendersi cura. Sono
sicuro però che ci sarà una ripresa a Natale: la stessa cosa era accaduta l'anno scorso,
con un'estate incredibilmente positiva e con un brutto ottobre. Per generi, si salva la
narrativa per ragazzi: l'unico segmento che cresce in tutto il mondo – dai libri senza parole
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fino alla narrativa per giovani adulti – è quello. Tra l'altro i nativi digitali leggono di più e
moltissimo su carta. Per noi il fenomeno più macroscopico è stato John Green, che ha
venduto 750 mila copie”. Non un crollo, ma quasi? “Se dovessi dare un titolo a questo
scenario sarebbe: il mercato del libro continua a calare, ma continua a non precipitare”,
risponde Gianluca Foglia, direttore editoriale di Feltrinelli. “Moltissimi piccoli editori non ce
la fanno più. E i principali gruppi hanno ridotto la quantità di titoli: il mercato si sta
riassestando, cercando un nuovo equilibrio tra il numero di titoli, le tirature e le copie
vendute. Che il mercato continui a calare è la prospettiva più credibile. Quest'anno poi è
orfano di grandi best-seller: voglio dire che non c'è stato nessun titolo paragonabile alle
Sfumature , a Saviano a Gramellini. I best-seller di questo tipo danno una falsa idea di
tenuta mentre in realtà la crisi c’è. Tutti i consumi stanno diminuendo: per certi versi il
2014 è l'anno della verità, nel senso che dà la percezione di come stanno le cose davvero.
IL DIGITALE non compensa questa ulteriore perdita di vendite, perché non sta crescendo
come avevamo previsto che potesse crescere”. Si riflette su questo anche a Segrate, dove
si è appena costituita la nuova newco che raggruppa tutte le case editrici. “Avevamo
previsto una crescita del 110%”, spiega il direttore generale di Mondadori libri Riccardo
Cavallero. “Guardiamo le cifre: nel 2011 valeva 3 milioni di fatturato, nel 2012 18 milioni,
nel 2013 32 milioni, nel 2014 chiuderà a 40 milioni. È una frenata impressionate. Causata
da una serie di circostanze: la prima, e riguarda gli editori, è non aver incrementato la
digitalizzazione dei titoli. Oltre ai ragazzi, un segmento che va bene è la narrativa rosa.
Cresce in generale e diventa un fenomeno sul digitale perché supera punte del 20 per
cento rispetto al cartaceo. La decrescita, però, rallenta: nei prossimi due anni stimo un
andamento del mercato sul -2/3%. Certo il 2014 chiuderà con un -4%, ma noi abbiamo
una serie di titoli forti in uscita, quindi credo che oltre al Natale, anche solo per quanto
pesa Mondadori sul mercato totale, ci sarà un miglioramento”. Stefano Mauri, presidente e
ad del gruppo Gems è cauto, ma non pessimista: “Il mercato dei lettori che amano poter
scegliere tra tutti i libri che l'editoria italiana offre (si è venduta almeno una copia di 485
mila titoli nei primi 11 mesi) quest'anno nel suo complesso tiene. La domanda si sposta in
parte sui nuovi canali, sia l'ecommerce (+29%) che l'e-book (+40%) dove l'offerta comincia
a essere ragguardevole. I titoli dei quali è disponibile la versione e-book coprono circa il
60% dei libri acquistati su carta ma c'è anche il vantaggio che sono sempre disponibili, mai
esauriti. E qui va detto che il panorama dell'Europa continentale è più plurale di quello in
lingua inglese: oltre a Kindle hanno un buon peso in Italia Kobo, Apple e adesso sbarca
anche Tolino, il reader best- seller in Germania (dal terzo trimestre 2014 è leader di
mercato). È a due cifre (-14%) la flessione delle vendite nei supermercati. Comunque
Gems chiude l'anno in lieve crescita e con un eccellente risultato nel digitale”.
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ECONOMIA E LAVORO
del 27/11/14, pag. 2
Contro il governo la Cgil imbocca la «via
giudiziaria»
Massimo Franchi
Jobs Act. Camusso annuncia: ricorso alla Corte europea su art.18,
demansionamento e controlli a distanza. I giuristi di Corso Italia: «Sulle
leggi del lavoro siamo alla guerriglia» Tempi lunghi per il giudizio sul
decreto Poletti
A chi la vorrebbe partito politico conclamato dalla regia dell’astensione in Emilia-Romagna,
risponde con il ritorno alla “via giudiziaria”. Contro il governo e il suo Jobs act, la Cgil
imbocca la strada che porta nei tribunali, nello specifico alla Corte di giustizia europea in
Lussemburgo.
I conti del voto di martedì – 33 dissenzienti sui 308 deputati Pd – hanno dimostrato come
nessuna sponda politica sia in grado di fermare la corsa della riforma del lavoro. E allora –
confermando vieppiù la ritrovata sintonia con la Fiom di Maurizio Landini, precursore della
via giudiziaria fino alla vittoria in Corte Costituzionale sull’articolo 19 dello Statuto contro la
Fiat di Marchionne e che già aveva anticipato l’idea dei ricorsi contro il Jobs act – ecco
l’annuncio di Susanna Camusso.
Corroborata dalla sentenza di ieri a favore dei precari della scuola, il segretario della Cgil
lo dice chiaro e tondo: «Contro il Jobs act valuteremo tutte le strade, anche il ricorso
all’Europa. La lettura degli articoli 30 e 31 della carta di Nizza dice che è possibile, ci
penseremo, ci proveremo. Questi sono i casi in cui diciamo: meno male che l’Europa c’è».
Leggiamoli allora assieme questi articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, sottoscritta il 7 dicembre 2000 nella città francese. «Articolo 30 (Tutela in caso di
licenziamento ingiustificato):Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni
licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e
prassi nazionali. Articolo 31(Condizioni di lavoro giuste ed eque) 1. Ogni lavoratore ha
diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose».
Articoli che stridono con ciò che è previsto nel decreto delega al governo in fatto di
contratto a tutele crescenti sostanzialmente senza articolo 18, demansionamento e
controllo a distanza, specie nel riferimento alle «prassi nazionali».
Naturalmente per presentare una denuncia la Cgil dovrà attendere la cosiddetta «attualità
del danno» e dunque il testo della delega – in bianco – al governo e il deposito dei decreti
delegati. «Vedremo come li scriveranno. Vedremo se decidono nel chiuso delle stanze o
se aprono un confronto», sottolinea Camusso. «Non è l’approvazione al Parlamento che ci
ferma per cambiare le norme che riteniamo sbagliate, continueremo la nostra iniziativa e
anche alla luce della sentenza di oggi (ieri, ndr) che ha confermato che, quando dicevamo
che l’uso dei contratti a termine in quel modo contrastava con le direttive europee,
avevamo ragione», sottolinea il segretario della Cgil.
A proposito di un’eventuale consultazione Susanna Camusso avverte: «C’è tanta strada
prima di porsi il tema del referendum», invece già appoggiato nel caso in cui il quesito
della Lega in fatto di abolizione della riforma Fornero delle pensioni passasse il giudizio di
legittimità della Corte costituzionale.
La denuncia contro il decreto Poletti – la legge 78 che prevede l’assenza di casualità e la
reiterazione fino a 3 anni del contratto a tempo determinato, andando contro la
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«prevalenza» del tempo indeterminato fissata nella carta europea — la Cgil l’ha
presentata il 15 luglio alla Commissione europea. «L’auspicio è che la commissione ne
discuta entro l’anno», si augura Ivano Corradini, responsabile dell’Ufficio giudiziario della
Cgil, la vecchia “consulta”.
A spiegare meglio i termini della questione è uno dei componenti, il professor Amos
Andreoni dell’università Sapienza di Roma: «La Commissione europea deve valutare
l’attendibilità del ricorso e poi trasferire la denuncia alla Corte di Giustizia. Una procedura
molto più veloce ci sarebbe se un giudice italiano, in caso di ricorso contro il decreto
Poletti, rilevasse che quella norma collida con quella europea e decidesse per un rinvio
pregiudiziale direttamente alla Corte di giustizia europea».
Più in generale Andreoni critica l’atteggiamento del governo e della Confindustria. «Se
fossi un consulente del lavoro per conto di un’impresa sarei molto preoccupato. La
legislazione del 2001 in poi in fatto di lavoro è stata sempre sbagliata, ha sempre lasciato
spazio a contenziosi e ricorsi. Da anni va avanti una guerriglia giudiziaria che ha avuto
come conseguenza una delocalizzazione massiccia. Anche il Jobs act va in questa
direzione, altro che certezza del diritto», conclude.
del 27/11/14, pag. 3
La borsa del prestigiatore
Anna Maria Merlo
PARIGI
Rilancio economico Ue. Solo 5 miliardi della Bei di "denaro fresco". Il
resto è moltiplicazione dei pani e dei pesci, per mantenere la promessa
di investimenti di 315 miliardi in tre anni. Katainen ai comandi. Tensioni
tra i paesi per ottenere finanziamenti, nella speranza che si ritrovi
"fiducia" e che i privati partecipino perché si realizzi l' "effetto leva",
solo orizzonte del neonato Fondo europeo per gli investimenti strategici
. "Promessa" di non calcolare nel deficit gli investimenti pubblici
destinati al Fondo
Denaro virtuale, con la magia della moltiplicazione dei pani e dei pesci, per far fronte a una
crisi economica ben reale, con una disoccupazione che colpisce nella Ue 24,8 milioni di
persone (di cui 18,4 nella zona euro). Jean-Claude Juncker ha rivelato ieri alcuni dettagli
del piano di rilancio, la promessa che lo ha fatto eleggere alla presidenza della
Commissione (grazie anche ai voti dei social-democratici): “l’Europa sta voltando pagina
— ha assicurato — ora puo’ offrire speranza al mondo su crescita e occupazione”. Il
termine-chiave è “fiducia”, cioè lo scopo del piano, che prende il nome di Fondo europeo
per gli investimenti strategici (Feis), è scommettere in un ritorno della fiducia da parte dei
privati. Difatti, l’ipotesi dei social-democratici di un piano di investimenti pubblici
consistente, non si realizza.
Praticamente, il Feis, creato dalla Bei (Banca europea di investimenti, la banca che
finanzia i progetti di infrastrutture europee nel lungo periodo) in una struttura ad hoc, avrà
solo 5 miliardi di euro di denaro fresco. La banca, cioè, resta estremamente prudente
perché non vuole perdere il rating AAA.
A questi 5 miliardi la Commissione addiziona 16 miliardi di “garanzie” degli stati,
virtualmente presenti nel bilancio Ue: ma il bilancio dell’Unione è stato rivisto al ribasso, è
addirittura in rosso e, inoltre, c’è chi non paga, come la Gran Bretagna. Cosi’, su 16
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miliardi, in realtà ce ne sono solo 8, più o meno esistenti da dare in garanzia. Juncker e i
suoi esperti ritengono che questi 21 miliardi in parte virtuali avranno un potere di “effetto
leva” pari a 15: 21x15=315. Ecco tornare, come per magia, la famosa cifra promessa, il
“piano di rilancio di 300 miliardi”, il New Deal della Commissione dell’ultima spiaggia.
E c’è di più: la Bei, prudentissima, finanzierà al massimo il 20% dei progetti che verranno
accettati, il resto dovrà venire dai privati, che grazie alla forza del Feis avranno ritrovato la
“fiducia” scomparsa a causa della grande crisi. E poi la fantasia puo’ scatenarsi: “prometto
che non considereremo i contributi degli stati al Fondo di investimento nei calcoli del Patto
di stabilità”, ha detto Juncker, aprendo uno spiraglio interessante (perché non togliere dal
calcolo anche altre spese? Per esempio, la Francia vorrebbe “comunitarizzare” la spesa
militare, se spendesse come la Germania per la Difesa – rispettivamente 2,2% del pil
contro l’1,4% — rispetterebbe il Fiscal Compact). Ma anche se i paesi in crisi, costretti a
grattare il fondo del barile per tentare di rientrare nei parametri, potranno destinare dei
soldi al Feis, non avranno la garanzia di avere in cambio finanziamenti per i propri progetti.
Juncker promette “trasparenza”, le decisioni su quali progetti finanziare saranno prese da
un comitato indipendente, un consiglio di amministrazione del Feis composto da 16
membri provenienti dalla Commissione (“non politici né tecnocrati”, assicurano a
Bruxelles), più 5 nominati dalla Bei. Il problema è che nell’affanno generale suscitato dalla
promessa del Feis, a Bruxelles sono arrivate 1800 proposte di progetti, per un valore di
1100 miliardi, cifra ben lontana anche dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci dei 315
miliardi.
La gestione del piano sarà messa sotto il controllo del potente vice-presidente della
Commissione incaricato della crescita, Jyrki Katainen. Pierre Moscovici, commissario agli
Affari economici e monetari, ha rivelato che anche per i 5 miliardi di denaro fresco ci sono
state reticenze: “ma senza denaro fresco il piano sarebbe apparso all’opinione pubblica un
gioco di prestigio e di conseguenza sarebbe stato un flop”.
Il problema è che i “soldi freschi” non ci sono: gli stati del sud non li hanno e quelli del nord
non vogliono spendere.
Dal 2007, gli investimenti nella Ue sono diminuiti di 430 miliardi di euro (il 75% di questi
mancati investimenti sono stati concentrati in Francia, Italia, Grecia, Spagna e Gran
Bretagna). Contemporaneamente, gli Usa hanno immesso nel mercato quasi 800 miliardi
di dollari. E il risultato si vede: la ripresa statunitense è superiore al 4%, mentre la Ue è
allo 0,1%, con investimenti sempre in calo.
del 27/11/14, pag. 4
La ricchissima Alcoa licenzia
Costantino Cossu
CAGLIARI
Sardegna. Landini a Cagliari: «Una crisi così grave non l’ha mai vissuta
nessuno, serve coraggio, unità e soluzioni nuove». A Portovesme
spedite le lettere di licenziamento a 800 operai. Trattativa con Glencore
appesa a un filo. E nel frattempo il gigante Usa dell’alluminio fugge e
rilancia
A che gioco gioca Alcoa? Domanda più che legittima se a soli dieci giorni dall’inizio delle
trattative per verificare la possibilità dell’acquisto dello stabilimento di Portovesme da parte
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dei Glencore — un altro dei colossi mondiali dell’alluminio — ora cominciano ad arrivate le
lettere di licenziamento per i 437 operai in cassa integrazione.
La notizia è arrivata martedì 25 da fonti sindacali, più esattamente dalla Fim Cisl: «I
licenziamenti — dice per il sindacato Moreno Muresu — rientrano nel quadro degli accordi
di mobilità che sono stati stabiliti con Alcoa. Anche la data è stata decisa al momento in
cui sono scattati gli ammortizzatori sociali. Se infatti le lettere fossero arrivate dopo il 31
dicembre del 2014 si sarebbe attivato il quadro normativo previsto dalla legge Fornero,
decisamente peggiore. Questo non toglie nulla alla drammaticità della situazione. Le
lettere di licenziamento sanciscono il disimpegno definitivo e irrevocabile di Alcoa. Ora per
tutti i 437 della fabbrica di Portovesme, ma anche per i 360 dell’indotto, che le notifiche di
cessazione del rapporto di lavoro hanno cominciato a riceverle anche prima, tutto dipende
dall’esito della trattativa tra Alcoa e Glencore».
«Non bisogna gettare la spugna — aggiunge il segretario generale della Fim Marco
Bentivogli — A questo punto serve dettare un’agenda serrata di confronto tra le due
aziende perché si superino presto i nodi aperti. Chiediamo che il governo faccia pressing
in questo senso. E’ una vera vergogna nazionale, in particolare, la condizione dei
lavoratori degli appalti: nei rimpalli tra Regione Sardegna e governo, gli ammortizzatori
sociali in deroga spesso lasciano i lavoratori senza reddito. Ci batteremo fino all’ultimo per
tenere accesa la speranza e per risolvere positivamente questa vertenza, simbolo del
vuoto di una politica incapace di definire una valida strategia di rilancio dell’ industria
italiana».
Il tavolo di trattativa tra Alcoa a Glencore si è aperto lunedì della scorsa settimana al
ministero dello sviluppo economico. Garanti del confronto, il governo e la Regione
Sardegna. Che cosa ne uscirà, nessuno al momento può prevederlo.
Glencore chiede una drastica riduzione dei costi energetici, che in Sardegna superano di
molto la media europea per una serie di motivi strutturali legati all’isolamento della
regione. Il governo si è impegnato a trovare i modi per venire incontro alle richieste di
Glencore, ma la strada è molto stretta. Anche perché qualsiasi intervento diretto di
riduzione delle tariffe energetiche correrebbe il rischio di essere cassato dall’Unione
europea.
E poi i sindacati non nascondono la preoccupazione sulle reali intenzioni di Alcoa.
Glencore, sul mercato mondiale dell’alluminio, è uno dei concorrenti più temibili della
multinazionale americana, la cui freddezza nell’accettare la trattativa per la cessione dello
stabilimento sardo potrebbe spiegarsi con la riluttanza dei manager Usa a fornire anche il
più piccolo vantaggio a uno dei principali competitor.
Il gigante statunitense dell’alluminio è molto attivo. Smobilita in Sardegna perché giudica
troppo alti i costi di produzione ma poche settimane fa ha completato l’acquisizione di Firth
Rixson, un leader della componentistica dei motori aerospaziali. Alcoa calcola che con
quest’acquisizione i ricavi aumenteranno di 1,6 miliardi dollari entro il 2016. Circa il 70% di
questa crescita, che porterebbe a un incremento dei ricavi di 2 miliardi di dollari entro il
2019, sarebbe garantita da contratti di lungo termine già acquisiti.
Le prime lettere di licenziamento per gli operai Alcoa sono arrivate nello stesso giorno,
martedì 25, in cui Maurizio Landini era a Cagliari per lo sciopero generale.
«La Sardegna — ha detto il segretario della Fiom in piazza ai circa duemila manifestanti
— si trova di fronte a una situazione drammatica. Un quadro di questa natura non c’è mai
stato, non l’ha mai vissuto nessuno, per questo serve uno sforzo collettivo che affronti in
modo nuovo e diverso la situazione». Sotto il palco operai da tutta la Sardegna.
In prima fila, insieme con i lavoratori Alcoa, anche le tute blu Eurallumina e le magliette
rosse dei 1634 cassintegrati Meridiana.
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Del 27/11/2014, pag. 11
Pensioni d’anzianità con 42 anni di contributi
La legge di Stabilità abolisce il limite minimo di 62 anni. I politici
potranno detrarre le donazioni fatte ai partiti
ROBERTO PETRINI
Doppio colpo di piccone alla contestata riforma delle pensioni firmata nel 2011 dall’allora
ministro del Lavoro del governo Monti, Elsa Fornero. Di fatto scompare l’istituto della
«pensione di vecchiaia anticipata » che sostituì le defunte, come si disse allora, «pensioni
di anzianità ». La Commissione Bilancio della Camera ha approvato infatti ieri un
emendamento alla legge di Stabilità a firma Gnecchi (Pd) che cancella le penalizzazioni
per chi attualmente intende lasciare il lavoro dopo aver raggiunto i 42 anni e 1 mese di
contributi ma non ancora i 62 anni di età anagrafica.
Il meccanismo delle penalizzazioni, introdotto dalla legge Fornero, accantonava il vecchio
sistema in base al quale i 40 anni di contributi rappresentavano una sorta di «tana libera
tutti » e, indipendentemente dall’età anagrafica, visti i numerosi anni di lavoro alle spalle,
offrivano un via libera per lasciare il lavoro. Con la Fornero si cambiò: anche i 40 anni (che
nel frattempo erano saliti a 42 e un mese per le riforme Sacconi e Tremonti) non erano più
l’unico criterio che apriva la strada alla pensione, ma era necessario anche avere 62 anni
di età anagrafica. Se si voleva andare prima dei 62 anni anagrafici si doveva accettare un
taglio all’assegno pari all’1 per cento per ciascuno dei primi due anni e del 2 per cento per
i successivi (per 4 anni di anticipo si «pagava» il 6 per cento). Con l’emendamento
approvato ieri si torna alla situazione pre Fornero, rimasta in vigore dal 1° gennaio del
2012 al 1° gennaio del 2015: con 42 anni e 1 mese di contributi si va liberamente in
pensione e senza penalità. Turata anche la «falla» nella legge Fornero che consentiva a
chi resta al lavoro fino a tarda età, intorno ai 70 anni e ha uno stipendio alto, di ottenere
una pensione del 20 per cento superiore all’ultimo stipendio. La questione riguarda 160
mila dipendenti pubblici e privati (ma naturalmente morde di più sugli alti burocrati che
possono lavorare fino a 70 anni e che hanno stipendi alti) e sarebbe costata circa 2,5
miliardi in dieci anni. Il sistema contributivo della riforma Fornero fa crescere la pensione
con il passare degli anni mentre il retributivo la bloccava all’80 per cento del vecchio
stipendio. Ci sarebbe voluto un «tetto» che ora viene introdotto a partire dal 2015 anche
sui trattamenti che sono stati liquidati negli ultimi tre anni.
La legge di Stabilità ha concluso ieri il suo cammino in Commissione Bilancio della
Camera: oggi passa in aula dove l’esame si concluderà, come annunciato dal governo,
con il probabile voto di fiducia tra il week end e lunedì. Insistono sul sociale e sul lavoro
alcune delle norme approvate nelle ultime ore: dopo il bonus di 80 euro per i lavoratori
dipendenti e quello di egual misura per le neo mamme con reddito Isee fino a 25 mila
euro, arrivano bonus speciali monetizzabili per le famiglie numerose e incentivi per i buoni
pasto. Ridefinizione dei criteri per i patronati, che diminuiranno di numero, ma il taglio dei
fondi a loro riservati si dimezza a 75 mitra lioni di euro L’Agenzia delle Entrate potrà
utilizzare appieno le banche dati sul fisco senza concentrarsi solo sui contribuenti a
maggior rischio evasione, come previsto dai criteri di selezione inseriti del decreto Salva
Italia. Altro emendamento aiuterà i politici: I candidati e gli eletti alle cariche Pubbliche
potranno detrarre i finanziamenti ai partiti considerati erogazioni liberali.
Tra le norme approvate ieri quella proposta da Ncd, che prevede un bonus-pannolini per
circa 45 mila famiglie con più di quattro figli e con reddito complessivo di 8.500 Isee (circa
46
40 mila Irpef): avranno circa 1.000 euro l’anno in buoni acquisto che si sommeranno, in
questi casi specifici, al bonus bebè. Al- importante norma, votata in Stabilità, è l’aumento a
7 euro della deducibilità fiscale dei buoni pasto elettronici (ferma da 15 anni a 5,29):
l’emendamento del Pd Causi, che scatterà dal luglio del 2015, porterà circa 400 milioni
l’anno in più di spesa per la pausa pranzo di un esercito di lavoratori dipendenti.
Le deduzioni Irap per i neo assunti vengono estese anche ai lavoratori agricoli e sono
previsti mutui agevolati per i giovani agricoltori. Apprezzamento anche da Rete imprese
per il ritorno della “piccola mobilità”, gli sgravi alle piccole aziende che assumono lavoratori
espulsi da altre aziende anche nel 2012 e nel 2013.
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