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RASSEGNA STAMPA giovedì 27 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Repubblica.it del 26/11/14 (Genova) "La mafia non è lavoro". Doria alla Maddalena con i commercianti La Comunità di San Benedetto lancia l'iniziativa con un hashstag "La mafia non è lavoro". Doria alla Maddalena con i commerciantiMarco doria insieme nella falegnameria Dateci un martello in via delle Vigne L'hashtag è #lamafianonè, e il primo a usarlo è simbolicamente il sindaco di Genova Marco Doria: si è fatto immortalare insieme a diversi commercianti della Maddalena, con cartelli come "La mafia non è lavoro", e "La mafia non è folklore": "Abbiamo lanciato il tweet dal profilo di don Gallo, di sicuro ne sarebbe stato felice", spiega Domenico Chionetti della Comunità di San Benedetto. È partita così "Sapori di giustizia", la campagna della Maddalena contro le mafie, la loro presenza sul territorio e il negazionismo diffuso. Si sono messi in rete - sull'esempio di quello che fecero con AddioPizzo i negozi di Palermo 10 anni fa - una decina di commercianti, e si spera che saranno sempre di più: venderanno prodotti dei terreni confiscati, o li proporranno tra gli ingredienti in menù, esponendo anche in vetrina volantini sugli "impegni assunti nella tutela del lavoro e nel contrasto alle mafie presenti in città". E tutti i cittadini e i genovesi illustri sono invitati a seguire l'esempio del Sindaco: passare in questi luoghi, farsi foto (o selfie, se preferite) e diffonderle sul web, anche scrivendo un proprio pensiero sotto "la mafia non è". "Una forte azione di antimafia sociale e social", come la definisce Stefano Kovac di Arci, che è promossa appunto da Arci, il circolo Belleville e San Benedetto, con il presidio di Libera Francesca Morvillo e l'associazione Ama; e poi il Civ della Maddalena, consorzio di commercianti che si è appena dato un innovativo Codice Etico che prevede di partecipare alla vita associativa, applicare in modo trasparente i contratti di lavoro, "accrescere la reputazione della classe imprenditoriale" con il rispetto della legalità. Una rete che era uscita allo scoperto, qualche settimana fa, con l'"invasione" notturna del Centro storico, tappezzandolo di frasi sulle mafie in Liguria tratte da relazioni parlamentari e processi. Ora, l'avvio del percorso con i commercianti, "e un'alleanza con i residenti del quartiere - dice Silvia Melloni del circolo Arci Belleville - per urlare tutti insieme che le mafie non sono cosa buona". Soprattutto che "La mafia non è una banca", "perché la percezione maggiore della criminalità nel Centro storico si ha vedendo negozi "aiutati", o meglio "inquinati", da chi ha i soldi, che poi li rileva - spiega Daniela Vallarino, presidente del Civ - Il fenomeno è in crescita e preoccupante. Deve crescere anche la consapevolezza, dobbiamo creare gli anticorpi". E allora eccoli, i primi negozi della rete, da cui passare, a costo di deviare i propri percorsi quotidiani, in nome di un consumo critico e consapevole: sono Pulsatilla di via dei Macelli, l'erboristeria Altea di piazza delle Vigne e la vicina falegnameria Dateci un martello, la taperia Jalapeno di via della Maddalena, Mielaus di vico della Rosa, Mimì e Cocò di piazza del Ferro, Bio Soziglia in piazzetta Macelli, GloGlo Bistrot di piazza Lavagna, il Teatro Altrove di piazzetta Cambiaso, il Salotto 2 Creativo ai Quattro Canti di San Francesco e In Scia Stradda, il bene confiscato di vico Mele che San Benedetto sta trasformando da bottega equo solidale a spazio per iniziative sociali. Qui, da In Scia Stradda, sabato 29 c'è anche un incontro di formazione sulle cooperative che lavorano le terre confiscate: appuntamento alle 18.30. "Quanta vita, alla Maddalena, in poche centinaia di metri quadrati - conclude Stefania Orengo di Ama alimentiamola". http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/11/26/news/maddalena-101512436/ Da il Secolo XIX del 26/11/14 «Mafia non è...» alla Maddalena nasce il patto tra commercianti e cittadini Beatrice D'Oria Genova - «Mafia non è folklore», «Mafia non è una banca»: basta un selfie per ribadire ancora una volta la lotta alle mafie. Si chiama "Sapori di giustizia" il progetto a cui aderiscono Arci Genova, San Benedetto al Porto, associazione Belleville e presidio Libera Francesca Morvillo, insieme ad Ama - abitanti della Maddalena e al Civ di quartiere, progetto che vede riuniti in un network gli esercizi commerciali che si oppongono alle mafie. Da venerdì e sabato una decina di commercianti esporranno un cartello dichiarando di essere commercianti anti-mafie e terranno a titolo simbolico nelle loro vetrine un prodotto di Libera, sostenendo la lotta alle mafie. Anche i social network aiutano la consapevolezza: «Con l'hashtag #lamafianone proviamo a sensibilizzare anche attraverso la rete - spiega Domenico Chionetti della Comunità di San Benedetto - il primo è stato il sindaco che, questa mattina, ha lanciato la campagna nella falegnameria "Dammi un martello" di vico Lepre posando per un selfie: bisogna continuare a parlarne perché la mafia si insinua in tutti i gangli ed è importante esserne consapevoli» Un'iniziativa che segue quella della notte del 2 novembre, quando un collettivo di silenziosi "attacchini" ha tappezzato la zona di volantini con scritte anti-mafie: «Si tratta di una rete che da tempo si interroga su quali implicazioni ha l'infiltrazione mafiosa nel nostro quartiere - spiega la presidente del Civ Maddalena Daniela Vallarino - la nostra intenzione è creare una consapevolezza su questo problema». http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/11/26/AR7XjtgCcommercianti_maddalena_cittadini.shtml 3 ESTERI del 27/11/14, pag. 7 Tripoli contro Tobruk, è battaglia a Bengasi Giuseppe Acconcia Libia. Mandato di arresto per il generale filo-Usa Khalifa Haftar, raid su Tripoli, la Farnesina si schiera per l’intervento La Farnesina sembra cambiare marcia e diventa ancora una volta interventista, e stavolta in Libia. Dietro gli interessi espliciti, quelli petroliferi e quelli non dichiarati di controllo dell’immigrazione, per l’ennesima volta che cosa si nasconde? Pare cogente il disastroso attacco di Francia e Gran Bretagna del 2011 che ha di fatto spodestato l’Italia, pure disponibile, con gli Usa, alla guerra e la Germania, contraria all’ intervento armato, nel controllo delle risorse petrolifere a favore di Parigi e Londra. E così, ieri il ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni ha parlato del possibile invio di una forza armata, tanto per cambiare di «peace-keeping con l’avallo delle Nazioni unite» — ma lì è in corso una feroce guerra civile con almeno due governi e due parlamenti contrapposti, in mezzo a centinaia di milizie armate fino ai denti. «Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente, per la sicurezza della Libia», ha detto il ministro. Già martedì era arrivato un forte appello, lontano dai toni consueti, della Farnesina a una cessazione immediata dei raid dell’esercito, vicino al generale Haftar, su Tripoli per non pregiudicare gli sforzi dell’inviato speciale del Segretario generale dell’Onu per la Libia, Bernardino Leon. Raid sull’aeroporto I velivoli coinvolti nei raid su Tripoli sono partiti martedì dall’aeroporto militare libico di Mitiga, vicino Tripoli. Testimoni riferiscono di aver visto un solo aereo passare a bassa quota sullo scalo e di aver sentito subito dopo una forte esplosione, seguita da una colonna di fumo. Tre giorni fa, i militari vicini all’ex agente Cia, Khalifa Haftar, che controlla il parlamento illegittimo di Tobruk e sostiene il premier Abdullah al-Thinni, con l’avallo del Cairo, avevano annunciato l’avvio di un’operazione per liberare la capitale libica dalle milizie filo-islamiste. Haftar ha lanciato un ultimatum di 24 ore alle milizie Scudo di Misurata per lasciare la capitale. La procura di Tripoli ha risposto spiccando un mandato di arresto contro Haftar. Poche settimane fa la Corte suprema libica si era espressa per lo scioglimento in toto del parlamento di Tobruk, eletto lo scorso giugno da una minoranza di libici, la cui sede si trova ancorata su una nave a largo delle coste di Bengasi, per le instabili condizioni di sicurezza. Non solo, il Congresso Nazionale Generale di Tripoli, vicino ai Fratelli musulmani libici, ha anche emesso un decreto che vieta alle organizzazioni internazionali e ai governi stranieri di mantenere contatti con qualsiasi parte «illegittima». Battaglia a Bengasi Ma la guerra continua anche a Bengasi dove non si fermano i raid di Haftar contro Ansar al-Sharia, gruppo radicale inserito nella lista dei gruppi terroristici dagli Stati uniti. Ieri due soldati sono morti nei raid sul capoluogo della Cirenaica. Tuttavia, la roccaforte dei jihadisti è la città orientale di Derna che ha ora un’organizzazione amministrativa autonoma a cui capo siede Abu al Baraa al Azdi, di origini yemenite. A Derna sono attive anche la brigata Rafallah al Sahati, 17 febbraio e l’esercito dei mujahedin. Questi gruppi dichiarano la loro fedeltà ai jihadisti dello Stato islamico (Isis), attivi in Iraq e Siria. 1.700 milizie 4 La Libia è attraversata da un’instabilità politica cronica sin dal 2011. Sono oltre 1700 le milizie presenti nel paese, in cui circolano indisturbate enormi quantità di armi, dopo i sanguinosi attacchi della Nato (2011) e la morte violenta del colonnello Muammar Gheddafi. Sin dal suo insediamento, il fragile governo islamista di Ali Zeidan è stato incapace di disarmare i miliziani. Lo scorso ottobre, Zeidan era stato preso in ostaggio per alcune ore. Ma la sfiducia per l’esecutivo, targato Fratelli musulmani, è arrivata lo scorso marzo, quando Zeidan si è dimostrato incapace di impedire l’esportazione di petrolio al cargo Morning Glory da parte dei separatisti della Cirenaica. Proprio da Bengasi è partito il tentativo di golpe dell’ex generale, critico verso Gheddafi, Khalifa Haftar, insieme ai miliziani di Zintan, che ha conquistato Bengasi ma non è riuscito ad entrare a Tripoli. Dopo le elezioni del 25 giugno scorso, con una vittoria dei laici e la formazione del parlamento pro-Haftar a Tobruk, le milizie jihadiste hanno di nuovo conquistato posizioni. Come la Somalia In seguito agli scontri che hanno distrutto l’aeroporto di Tripoli e causato oltre 200 morti, nel luglio scorso i gruppi radicali avevano dichiarato la nascita dell’«Emirato di Bengasi», dopo aver preso il controllo delle basi delle forze speciali della seconda città libica. Da allora Haftar ha lanciato almeno tre offensive per sottrarre agli islamisti il controllo di Tripoli. Fin qui l’unico risultato è una Libia sempre più lacerata, sulla stessa terribile strada della Somalia, e spaccata in tre: Cirenaica, Tripolitania e sud desertico che è terra di nessuno. Finalmente anche l’Italia se ne è accorta. del 27/11/14, pag. 7 Sacrosanto ministro Gentiloni Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci «L’Italia sta attrezzandosi per fronteggiare la guerra che le si presenta alle porte?»: Gad Lerner è andato a chiederlo al nuovo ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, «formatosi nella cultura del pacifismo e del disarmo, oggi rimessa drammaticamente in discussione dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare, a cominciare dalla vicinissima Libia». Nell’intervista (la Repubblica, 26 novembre), che il ministero degli esteri riporta nel suo sito dandole carattere ufficiale, Gentiloni ribadisce che, di fronte all’attuale crisi libica, «certo non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi: abbatterlo era una causa sacrosanta». Spiega quindi che, poiché «la Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico», il governo sta lavorando, manco a dirlo, per «un intervento di peacekeeping, che vedrebbe l‘Italia impegnata in prima fila». E alla domanda di Lerner se «bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta contro l’Isis», risponde: «È un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi ottomila km di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa minaccia». E aggiunge che «abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e pacificato, ma ora sappiamo di non poter più delegare le nostre responsabilità agli americani, strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente». Questa in sintesi l’intervista che, se non fosse per la drammaticità dell’argomento, rischia di apparire come un teatrino comico. Paolo Gentiloni (Pd), formatosi secondo Lerner nella «cultura del pacifismo e del disarmo» — come si sa, in Italia tutti sono stati da giovani contro la guerra, (perfino Benito 5 Mussolini) — è però ora esponente di quello schieramento politico bipartisan che, stracciato l’articolo 11 della nostra Costituzione (e l’allora trattato di amicizia italo-libico), ha messo a disposizione nel 2011 le basi e le forze aeree e navali dell’Italia per la guerra Usa/Nato alla Libia. In sette mesi i cacciabombardieri, decollando per la maggior parte dall’Italia, effettuavano 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. Venivano allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani e occidentali. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Tra questi, i primi nuclei del futuro Isis, frutto diretto della «sacrasonta», per Gentiloni, cacciata di Gheddafi — che, dopo aver contribuito a rovesciare il Colonnello libico, sono passati in Siria per rovesciare Assad. Una domanda: ma se è sacrosanto l’abbattimento di Gheddafi perché non dovrebbe essere altrettanto «sacrosanto» l’Isis che è stato il prevedibile effetto collaterale di quella guerra voluta a tutti i costi dalla Nato? Qui in Libia, a Bengasi l’11 settembre 2012, le milizie jihadiste si sono ribellate agli alleati e istruttori Usa assaltando il consolato americano e uccidendo l’ambasciatore Chris Stevens. Uno smacco per gli Usa. Si dimise il capo della Cia Petraeus e uscì di scena il segretario di Stato Hillary Clinton (è la spina nel fianco della sua candidatura presidenziale). E in Siria, nel 2013, è nato l’Isis che ha ricevuto finanziamenti, armi e vie di transito dai più stretti alleati degli Usa (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia, Giordania) in un piano coordinato da Washington (in barba al «disimpegno occidentale» di cui parla Lerner), lanciando poi l’offensiva in Iraq. Ma a quanto pare per l’Italia è come se questo disastro non fosse mai accaduto. È la stessa Italia che ha contribuito ad appiccare «l’incendio» di cui parla Lerner, scaturito dalla demolizione dello Stato libico e dal tentativo, non riuscito, di demolire quello siriano in base agli interessi strategici degli Usa e delle maggiori potenze europee, provocando centinaia di migliaia di vittime (per la maggior parte civili) e milioni di profughi. La battuta non-sense di Gentiloni che gli Usa sono «strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente» è un penoso tentativo di nascondere la realtà. Il lancio in Libia di una operazione di «peacekeeping» (ossia di guerra, visto il caos militare libico), con l’Italia in prima fila, rientra nei piani di Washington che, non volendo impegnare truppe Usa in una operazione terrestre in Nordafrica (che nella strategia Usa è considerato un tutt’uno col Medio Oriente), cerca alleati disponibili a farlo e a pagarne costi e rischi. Già nel giugno 2013, nell’incontro col premier Letta al G8, il presidente Obama chiese «una mano all’Italia per risolvere le tensioni in Libia». E Letta, da scolaro modello, portò il compito già fatto: «Un piano italiano per la Libia». Quello che il premier Renzi ha copiato e ora ripropone per bocca del sacrosanto Gentiloni, promosso a ministro degli esteri anche per i meriti acquisiti quale presidente della sezione Italia-Stati Uniti dell’Unione Interparlamentare. del 27/11/14, pag. 7 Apre Rafah, breve sollievo per migliaia di palestinesi Michele Giorgio 6 GERUSALEMME Striscia di Gaza. Il terminal tornato operativo ieri rimarrà aperto anche oggi. A casa però potrà fare ritorno solo una parte delle migliaia di palestinesi bloccati da un mese in Egitto dopo le misure punitive decise dal regime di al Sisi. La pioggia intanto aggrava la condizione degli sfollati che hanno avuto l'abitazione distrutta dai bombardamenti israeliani. «Avevo programmato di viaggiare con mio figlio per due settimane, per dimenticare l’ultima guerra a Gaza. Ora stiamo affrontando una realtà altrettanto difficile. Dal 5 novembre siamo bloccati in una stanza d’albergo al Cairo…Mi manca mia figlia Zeina». É questo il racconto che qualche giorno fa Abu Abdallah Tafesh, un abitante di Gaza, ha fatto a una giornalista di al Monitor. Una storia amara simile a quella che potrebbero dirci i 3500 palestinesi, secondo stime prudenti, 6000 secondo altri dati, bloccati al Cairo, a El Arish e in altre località da circa un mese, da quando gli egiziani hanno ordinato la chiusura del valico di Rafah in risposta a un attentato (33 soldati uccisi) compiuto il 24 ottobre nel Sinai da Ansar Beit al Maqdes, una formazione jihadista affiliata allo Stato Islamico (Isis). Attentato che, sostiene il regime del presidente Abdul Fattah al Sisi, sarebbe stato concepito nella Striscia di Gaza. Una versione poco convincente che probabilmente serve, sussurra qualcuno, alle autorità del Cairo per mascherare il fallimento di oltre un anno di operazioni militari che hanno soltanto scalfito i jihadisti. Al Sisi e il resto dell’establishment egiziano, dal giorno del golpe anti-islamista del 2013, sono impegnati in una dura campagna contro i Fratelli musulmani e il loro braccio palestinese, Hamas. Al punto che il presidente in una intervista al Corriere ha di fatto proposto l’occupazione militare egiziana di Gaza descrivendola come un contributo alla stabilità del territorio palestinese e alla sicurezza di Israele. In questo mese l’esercito egiziano ha cambiato il volto dei 13 km di frontiera con Gaza, creando una zona cuscinetto larga un chilometro, demolendo almeno 1500 abitazioni e trasferendo da un giorno all’altro decine di migliaia di civili a El Arish e altre località (promettendo risarcimenti irrisori). I militari hanno anche riferito di aver chiuso altre decine di tunnel sotterranei tra la Striscia e l’Egitto. A ciò ha aggiunto la chiusura prolungata del valico di Rafah, l’unica porta sul mondo a disposizione dei palestinesi di Gaza. Il terminal ieri ha finalmente riaperto, per qualche ora, e oggi resterà operativo dalle 9 alle 16, però solo in uscita dall’Egitto. E’ una buona notizia ma nessuno sa quanti palestinesi potranno passare. E nessuno è in grado di prevedere quando il valico tornerà ad essere aperto in futuro. Abu Abdullah Tafesh e il figlio forse non saranno in grado di rientrare a Gaza dove l’uomo, un insegnante di educazione fisica, è atteso dalla famiglia e dai suoi studenti. Probabilmente saranno costretti a tornare davanti all’ambasciata palestinese al Cairo a chiedere aiuto per pagare l’albergo. L’ambasciatore Jamal al-Shobaki ripete che gli abitanti di Gaza sono le vittime degli attentati terroristici nel Sinai, proprio come i soldati che sono stati uccisi. Parole che non portano alcun conforto a chi è bloccato da settimane, in particolare agli 800 palestinesi costretti ad aspettare all’estero, spesso in condizioni precarie negli aeroporti, quando l’Egitto fisserà una nuova data per l’apertura del valico di Rafah. Il regime di al Sisi consente l’arrivo allo scalo del Cairo ai palestinesi diretti a Gaza solo se il terminal di confine è aperto. Da un anno l’Egitto preme affinchè la guardia presidenziale dell’Anp di Abu Mazen prenda il controllo del versante palestinese di Rafah, in sostituzione della polizia di Hamas. Il dramma di tanti civili palestinesi ai quali viene impedito, con una decisione politica, di tornare a casa, finisce per apparire marginale di fronte alla condizione spaventosa delle decime di migliaia di palestinesi ai quali i bombardamenti israeliani della scorsa estate 7 hanno distrutto l’abitazione. Piove tanto su Israele e Territori occupati. E la pioggia cade copiosa anche su Gaza trasformando in laghi Shujayea, Beit Hanun, Kuzaa e le altre località ridotte in macerie. Molte famiglie, con il tempo asciutto, avevano montato tende accanto alla casa distrutta o si erano adattate a vivere negli edifici danneggiati ma ancora in piedi. La pioggia però filtra ovunque, allaga, non lascia altra possibilità che quella di tornare in quelle scuole dove gli sfollati, senza altra possibilità di sistemazione, sono ospitati da mesi. La ricostruzione di Gaza, dopo le fanfare del 12 ottobre alla conferenza dei Donatori (promessi 5,4 miliardi di dollari), rimane una parola scritta su fogli di carta. Israele due giorni fa ha consentito l’ingresso a Gaza di un convoglio di 28 autocarri carichi di cemento e materiali per l’edilizia, appena il secondo in tre mesi. A questo ritmo una nuova casa gli sfollati potranno averla tra una dozzina di anni. Del 27/11/2014, pag. 19 “Nazione ebraica”, Rivlin contro Netanyahu Il presidente attacca il premier per la proposta di legge che farà diventare la Torah fonte del diritto “È anti-democratica e spaccherà il Paese”. La protesta della comunità araba e delle altre minoranze FABIO SCUTO Interrotto dai fischi e dalle proteste, incurante delle critiche che piovono da gran parte di Israele e da quelle che arrivano da Stati Uniti e Europa, il premier Benjamin Netanyahu ha difeso ieri davanti alla Knesset il disegno di legge che definisce Israele “Stato della Nazione ebraica”. E’ una legge necessaria, ha argomentato il premier annunciando che sarà votata la prossima settimana, per sventare iniziative volte a cambiare Israele ed evitare che il Paese sia «inondato» da profughi palestinesi. Una legge che nelle sue pieghe afferma che l’ebraismo sarà la fonte del diritto nella legislazione, e che lo Stato come tale sosterrà solo l’educazione ebraica, altri gruppi sociali religiosi o etnici dovranno provvedere per proprio conto. Stabilisce che fra ebraismo e democrazia, il primo è superiore al secondo. Una legge voluta dai “falchi” dell’ultradestra del Likud e dai nazionalisti di Focolare ebraico, che rischia di essere benzina sulla crisi di queste settimane e aumentare le tensioni fra israeliani e arabi, che sono il 20 % della popolazione di Israele, ma anche di ferire i rapporti con le altre comunità, come i drusi che sono da sempre fedeli alleati del popolo ebraico. I fiumi di parole sui giornali e nei talk show hanno spinto il capo dello Stato Reuven Rivlin a dire la propria sulla legge che tanto sta a cuore al premier. Il successore di Shimon Peres — ex avvocato, giurista ed ex presidente della Knesset — ha scelto un forum di magistrati per denunciare che la «nuova legge non rafforzerà lo Stato ebraico di Israele ma anzi lo indebolirà». Gli israeliani, ha detto il presidente, hanno una gloriosa casa nazionale, parlano ebraico e producono una ricca cultura nella propria lingua, le festività ebraiche sono celebrate in pubblico, la bandiera con la Stella di David e l’inno nazionale sono chiaramente presenti negli eventi sportivi mondiali, il simbolo dello Stato è sul passaporto di tutti gli israeliani. «E allora perché questa legge superflua e dannosa?» che è contro la visione di uguaglianza con i cittadini arabi dei padri fondatori, si è chiesto il presidente; «Israele è già di fatto lo Stato nazione del popolo ebraico». Su questa legge si gioca la sopravvivenza del governo. “Netanyahu contro lo Stato di Israele”, titolava ieri Yedioth Ahronoth, accusando il premier di pensare solo alla sua sopravvivenza politica. La legge, spiega il giornale, è il ticket che il premier deve pagare 8 alla destra ultrà del Likud se vuole ottenere ancora la nomination alle primarie di gennaio, in vista del sicuro voto anticipato. Lo scontro nell’Esecutivo è al vetriolo. Yair Lapid, ministro del Tesoro e capo dei centristi di “Yesh Atid” giudica che pure il capo storico della destra israeliana «Menachem Begin si sentirebbe fuori posto dentro questo Likud». Non meno tenera la signora Tzipi Livni, ministro della Giustizia che a Repubblica sintetizza così lo scontro: «E’ una lotta fra sionisti che sostengono la democrazia e i membri estremisti di un Tea-Party israeliano che vogliono uno Stato religioso ebraico che si nasconde e si isola, uno Stato che alla fine è anti- sionista e anti-democratico». Il disagio del presidente Rivlin, uomo di destra e da sempre nel Likud, è condiviso giuristi come il Procuratore Generale Yehuda Weinstein che ha definito la legge in contrasto con gli intenti della dichiarazione di indipendenza (Israele non ha una Costituzione) e con i principi democratici dello Stato. Non è un giurista né un politico Mahmoud Seif, è lo zio del poliziotto ucciso nella sparatoria alla Sinagoga la scorsa settimana. «Mio nipote - dice - è caduto in battaglia contro i terroristi e prima, come tutti i drusi, ha fatto il servizio militare nell’Esercito e adesso perché deve passare una legge che mette la nostra lealtà in dubbio?». del 27/11/14, pag. 17 “A Kabul gli alleati Nato rispettino gli impegni presi” L’inviato di Obama per l’Afghanistan: combatteremo ancora i taleban Paolo Mastrolilli «Nel corso del processo di revisione della missione in Afghanistan da parte delle nostre agenzie governative, è stato raccomandato al presidente Obama che le truppe americane possano, in circostanze limitate, dare supporto alle Forze di sicurezza afghane per evitare effetti strategici dannosi». Dan Feldman, Rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Afghanistan e il Pakistan, descrive con queste parole il cambiamento avvenuto nella missione per il 2015, che quindi potrà avere ancora obiettivi di combattimento contro i taleban. Ciò non riguarda direttamente l’atteggiamento tattico degli altri contingenti, come quello italiano, che Washington si aspetta di vedere ancora attivo nella regione di Herat, però starà ai militari di Roma decidere se fare eventuali aggiustamenti anche alla loro postura per motivi di sicurezza. Feldman concede questa intervista esclusiva a «La Stampa» in vista della conferenza di dicembre a Londra, dove il nuovo presidente Ghani e il Chief Executive Abdullah presenteranno ai donatori le loro necessità per avere successo nella stabilizzazione del Paese. L’offensiva dell’Isis in Iraq, e la necessità di evitare che qualcosa del genere si ripeta in Afghanistan dopo il ritiro del 2014, ha cambiato i vostri piani? «La nostra missione non è mutata, rispetto a quanto aveva annunciato il presidente a maggio. Naturalmente le cose che accadono nel resto del mondo vengono tenute presenti da chi prende le decisioni, ma vorrei tenere separati i due teatri. La revisione è stata fatta pensando solo alle esigenze dell’Afghanistan». Il «New York Times» ha scritto che il presidente Obama ha approvato una direttiva segreta, per continuare le operazioni di combattimento anche nel 2015. E’ vero? «C’è stata un po’ di confusione e di esagerazione. Dopo la revisione di cui ho parlato, il presidente ha accettato la raccomandazione che le nostre truppe non attaccheranno più i belligeranti in quanto taleban, ma in circostanze straordinarie daranno supporto alle forze 9 di sicurezza afghane per evitare effetti strategici dannosi, e garantire che siano più efficaci possibile. Nello stesso tempo, faremo tutto il necessario per la sicurezza del nostro personale. Sono chiarimenti legali, ma la missione non cambia». Questi aggiustamenti avranno un effetto anche sull’atteggiamento tattico degli altri contingenti in Afghanistan? «Riguardano solo le forze americane e la sicurezza del nostro personale. Sono separati dalla decisioni che prenderanno la Nato o i singoli Paesi». Quindi sta all’Italia determinare autonomamente che deve cambiare l’atteggiamento tattico del suo contingente in Afghanistan, per ragione di sicurezza? «Sì, esatto. Io posso parlare solo delle raccomandazioni presentate al presidente per le forze americane». Cosa vi aspettate dagli italiani? Resteranno nella zona di Herat per curare l’addestramento? «Hanno fatto una lavoro straordinario nella regione occidentale dell’Afghanistan, ci auguriamo di continuare questa collaborazione». In base ai piani originari di Resolute Support, l’operazione che comincerà nel 2015, gli Usa dovevano fornire 9800 soldati e la Nato i restanti 2200. Ieri però la Reuters ha scritto che alcuni alleati hanno segnalato la difficoltà di avere i loro contingenti pronti, a causa dei ritardi nella definizione della missione. Come risponderete? Sarete costretti ad aumentare i vostri militari? «Le forze Usa in Afghanistan nel 2015 saranno circa 10.000 uomini, e ci aspettiamo che i partner della Nato rispettino i propri impegni. Naturalmente si riconosce che ci sono stati ritardi a causa delle elezioni, e quindi la missione post 2014 è indietro di qualche mese rispetto a quanto avremmo voluto. Ci aspettiamo comunque che all’inizio del 2015 sarà completamente formata e in grado di svolgere i suoi compiti». del 27/11/14, pag. 8 Lo Stato prigione Marco Omizzolo, Roberto Lessio Inchiesta. Almeno diecimila prigionieri politici. Leva obbligatoria fino a 50 anni per gli uomini e 40 per le donne. Obbligo di versare una percentuale dei guadagni per chi fugge all’estero. Pena: ritorsioni contro le famiglie. E’ l’Eritrea di Isaias Afewerki In Eritrea da anni domina uno dei regimi più violenti al mondo. Il dittatore Isaias Afewerki, al potere dal 1993, non ha scrupoli con la popolazione locale e con quanti cercano di scappare dal paese. Chi sta con lui vive, chi lo contesta muore o è costretto a fuggire. Ricordare la violenza di questa dittatura è utile in vista della conferenza ministeriale organizzata dal viceministro per gli Affari Esteri Lapo Pistelli per oggi e domani a Roma con lo scopo di lanciare il Processo di Khartoum: un dialogo rafforzato tra i paesi africani e l’Ue per impegnarsi sulla gestione delle migrazioni. Alla conferenza prenderanno parte i rappresentanti dei paesi di origine e transito della Horn of Africa Migratory Route, la principale rotta migratoria verso l’Europa, tra i quali uno del governo eritreo. In concomitanza, il Comitato Giustizia per i nuovi desaparecidos ha convocato per domani una conferenza stampa alla Camera dei deputati per denunciare le morti di migranti nell’area mediterranea, ricostruire la verità, sanzionare i responsabili e rendere giustizia a vittime e familiari. A partire da quelle del regime eritreo. I portavoce del Comitato, tra cui 10 Enrico Calamai, chiedono che il Processo di Khartoum non impedisca all’Italia di condannare Afewerki e di sostenere il popolo eritreo, vittima di una dittatura che ha cancellato ogni libertà, tutti i diritti civili e politici, qualsiasi tentativo di opposizione. Le ultime elezioni si sono svolte nel 1994 mentre la costituzione, approvata nel 1997, non è mai stata applicata. Dal 2001 sono agli arresti una quindicina tra ministri, funzionari e alti ufficiali dell’esercito, senza essere comparsi davanti a un giudice per conoscere almeno le accuse a loro carico. E numerosi giornalisti, leader religiosi, politici, obiettori di coscienza, semplici cittadini, sono scomparsi in prigione, spesso senza processo. Secondo Amnesty International sono almeno 10mila i prigionieri politici eritrei rinchiusi nelle carceri di Asmara, alcuni anche da vent’anni. Lager in realtà, non semplici prigioni. Come ad Eiraeiro, dove molti sono morti durante la carcerazione, come i giornalisti Dawit Isaak (cittadino svedese oltre che eritreo) e Yohannes Fesshaye, del quale non si conosce nemmeno l’anno preciso del decesso. Vige nel paese inoltre la leva militare obbligatoria fino al 50esimo anno per gli uomini e al 40esimo per le donne. Gli eritrei di questa età non possono espatriare e molti, quindi, fuggono illegalmente, spesso morendo nel Mediterraneo o lungo il deserto, quando non diventano prede di trafficanti di esseri umani che, come denunciato dalle Nazioni unite, sono collusi con l’establishment militare. Secondo il The human trafficking cycle: Sinai and beyond della giornalista eritrea Meros Estefanos redatto con van Reisen e Rijken dell’università olandese di Tilburg, sarebbero circa 30 mila le persone imprigionate, tra il 2009 e il 2013, da clan di beduini. Questi rapiscono i profughi in fuga dall’Eritrea, insieme a sudanesi ed etiopi, per ottenere un riscatto passato in pochi anni da mille dollari a persona a 30–40 mila. Il giro d’affari è di circa 622 milioni di dollari, 453 milioni di euro. Le vittime sono soprattutto giovani eritrei (circa nove su dieci, secondo il rapporto) e spesso vengono dai campi profughi in Sudan o dal campo militare di Sawa. I sequestratori sono invece militari eritrei che gestiscono i campi di addestramento e che li vendono ai trafficanti di uomini. Questi operano lungo la frontiera Sudan-Eritrea e appartengono alle stesse bande di predoni, legate a organizzazioni internazionali del crimine, che per anni, nel Sinai, hanno sequestrato, ricattato, torturato e spesso ucciso migliaia di persone che tentavano di varcare il confine tra Egitto e Israele. Un business mafioso La loro presenza ai margini del confine settentrionale eritreo è la prosecuzione dello stesso business mafioso, giocato sulla vita di chi cerca di evitare guerre e persecuzioni. L’unica differenza è che le basi operative dei vari clan si sono trasferite dal deserto del Sinai in Sudan, e che ai vecchi clan di predoni si sono aggiunti gruppi di terroristi che fanno del traffico di uomini una lucrosa fonte di finanziamento. Una spinta decisiva in questa direzione è arrivata dalla costruzione della barriera che ha blindato nel deserto la frontiera israeliana. La conseguenza non è stata la fine del flusso crescente di profughi ma solo il suo spostamento. I primi segnali si sono avuti con la presenza di emissari dei mercanti di morte intorno o addirittura all’interno dei campi profughi sudanesi: personaggi senza scrupoli che si propongono come intermediari per la traversata del Sahara verso la Libia o addirittura rapiscono nei campi le loro vittime per venderle alle varie bande organizzate. Questo sistema criminale si è ramificato intorno ai confini con l’Etiopia e controlla sia la frontiera che il suo retroterra, intercettando e sequestrando un numero crescente di profughi. L’ultima conferma viene da un episodio recente: almeno 15 ragazzi, tra i 20 e i 23 anni, sono stati catturati da predoni armati a pochi chilometri dal confine, mentre tentavano di raggiungere il campo di Shakarab o di proseguire verso Khartoum. La loro sorte è stata segnalata all’agenzia Habeshia dalla famiglia di uno del gruppo; un ventenne che, come i suoi compagni, ha disertato dall’esercito eritreo. Il ragazzo è riuscito a contattare un familiare attraverso il cellulare messogli a disposizione dai rapitori per 11 chiedere il riscatto: 15 mila dollari. Una cifra inesigibile. «Piangeva e urlava di dolore – ha raccontato il familiare – perché durante la telefonata lo picchiavano e lo torturavano per rendere più convincenti le sue parole…». Lui stesso ha raccontato come è stato rapito e che erano una quindicina, incatenati l’uno all’altro, chiusi in una piccola casa nel deserto. Se la famiglia non riuscirà a pagare la sua liberazione sarà venduto ad un’altra banda e poi ad un’altra ancora, con crescita del riscatto ad ogni passaggio e la minaccia finale di passarlo ai trafficanti di organi per i trapianti clandestini. Ricatti alle famiglie Anche le famiglie di chi fugge subiscono continue ritorsioni; i genitori o i parenti di primo grado possono essere arrestati e obbligati a pagare una multa elevatissima. Un modo per l’Eritrea di rimediare risorse per la propria sopravvivenza: è la cosiddetta diaspora taxation. Ogni eritreo all’estero deve versare il 2% del proprio reddito al regime; una tassa pagata alla dittatura proprio da chi fugge da essa e cerca di ricostruirsi una vita. Il regime di Asmara liquida come provocazioni le contestazioni che si moltiplicano in Eritrea e all’estero tra le migliaia di rifugiati della diaspora e parla di congiura internazionale per giustificare la progressiva crisi del paese. Intanto la povertà domina. L’Eritrea è uno dei paesi più poveri al mondo. Il pil pro capite è di 792 dollari l’anno. La carestia che ha investito il Corno d’Africa nel 2010 è stata devastante. Ma il regime ha negato l’emergenza e rifiutato gli aiuti internazionali per ragioni politiche e di prestigio, condannando la popolazione a sofferenze enormi. La dittatura è accusata anche di armare i gruppi fondamentalisti che operano nel Corno d’Africa. Hillary Clinton, allora segretario di stato americana, ne ha parlato fin dal 2008–2009, con riferimento agli estremisti islamici di Al Shebaab, il movimento legato ad Al Qaeda che opera in Somalia e vicino al califfato dell’Isis. Il medesimo gruppo che ha attaccato recentemente un autobus pubblico a Mandera, nel nord del Kenya, uccidendo 28 persone e ferendone molte altre. La stessa contestazione è stata mossa ad Asmara da tutti gli Stati del Corno d’Africa. La Svezia, invece, ha inserito nella lista dei personaggi da perseguire il presidente Afewerki e alcuni suoi ministri. La Chiesa eritrea ha denunciato duramente l’attuale situazione con una coraggiosa lettera pastorale firmata da tutti i vescovi. Inoltre, il Consiglio delle chiese, riunitosi a Ginevra nel luglio scorso, ha fatto proprie le posizioni dei vescovi eritrei e protestato contro l’arresto e detenzione ai domiciliari, dal 2004, del patriarca Antonio. L’Eritrea è stata dunque isolata da quasi tutti i governi democratici. L’incontro del 28 novembre potrebbe essere l’occasione per un impegno reale dell’Italia contro il dittatore e in favore della popolazione eritrea. A patto di usare quel palcoscenico per combattere al fianco di un popolo oppresso e superare piccoli e grandi interessi che varie aziende italiane continuano ad avere con la dittatura. Ma questo è un altro capitolo che affronteremo a breve. del 27/11/14, pag. 16 Guerra allo stupro Giuseppe Acconcia Congo. Intervista al medico congolese Denis Mukwege, premio Sakharov 2014: «Salviamo le donne il cui corpo è trasformato in campo di battaglia. La violenza sessuale di gruppo è un atto pianificato di guerra. Per conquistare territorio» 12 Abbiamo incontrato il carismatico medico congolese Denis Mukwege, un padre d’Africa che ha appena ritirato il XXVI premio Sakharov 2014 del Parlamento europeo (che fu di Nelson Mandela nell’88) per il suo impegno nel curare le donne congolesi vittime di stupro di guerra. Mukwege ha dedicato il premio a tutte le vittime di stupro. Tra i nominati di quest’anno c’era anche l’attivista per i diritti umani dell’Azerbaijan, Leyla Yunus, attualmente in prigione: è stato impedito a una delegazione dell’Europarlamento di farle visita. Nel 1999, Mukwege ha fondato l’ospedale Panzi, a otto chilometri dalla città di Bukavu nella provincia del Sud Kivu nella zona orientale della Repubblica democratica del Congo, dilaniata da uno dei conflitti più cruenti che sconvolgono la regione. Mukwege lavora con un’équipe di sette medici con l’aiuto anche di tecnologia belga per «ridare la vita alle donne incurabili»: alle vittime di stupri di guerra; e per ridurre gli altissimi tassi di mortalità materna nel suo paese. Cos’è uno stupro di guerra? Il corpo delle donne è trasformato in campo di battaglia. La violenza sulle donne come arma di guerra nulla ha a che vedere con lo stupro che subisce una donna che non acconsente a un rapporto. Le donne che curiamo subiscono stupri di gruppo, torture sull’apparato genitale. Molte di loro sono inoperabili quando arrivano al nostro ambulatorio e spesso hanno 14 o 15 anni. In Congo i gruppi armati terrorizzano le donne violentandole davanti a tutti. E la tendenza è a un aumento esponenziale di questi stupri di gruppo anche al di fuori delle regioni colpite dal conflitto. Come può un uomo commettere un atto tanto atroce? I violentatori subiscono sin dall’età di dieci anni il lavaggio del cervello perché commettano violenze sulle donne: lo fanno già all’interno delle loro famiglie con le madri e le sorelle. Il 70% di costoro, che poi si arruola, ha sindromi post-traumatiche gravi: sono formati per violentare. Per questo lavoriamo con l’Università di Stoccolma soprattutto per aiutare le donne a superare il trauma da un punto di vista psicologico. In Congo normalmente è la comunità a prendersi cura di una donna violentata, ma questo meccanismo è interrotto dalla guerra in corso: la società è traumatizzata. Non possiamo avere un esercito, poliziotti e amministratori stupratori, criminali, che violentano il proprio popolo. Cosa succede alle donne che hanno subito uno stupro di guerra in Congo? Le donne stuprate lasciano la loro terra per vergogna, se rimangono diventano schiave, costrette a lavorare per caporali. Lo stupro di guerra disumanizza, umilia e disonora. E’ un modo per negare l’umanità della donna come portatrice della vita. Centinaia di donne devono fare chilometri e chilometri a piedi per raggiungere il nostro ospedale. Chiediamo che gli ospedali pubblici in Congo offrano la stessa cura olistica per avvicinare le cure alle vittime. Come è nato il suo impegno al fianco delle donne? Il numero di vittime di stupri di guerra era talmente alto che non poteva essere un danno collaterale ma un atto pianificato di guerra. Quando operavo le vittime mi rendevo conto che questi stupri sono come delle firme: è possibile distinguere se la violenza è opera di un gruppo o di un altro. E così decisi di fondare l’ospedale Panzi. Abbiamo curato 42 mila donne dal 1998 a oggi. Ma non ci occupiamo solo dei danni fisici, forniamo una cura olistica che consideri anche le profonde conseguenze psicologiche e legali che le donne stuprate in Congo subiscono. E ci occupiamo poi dell’assistenza socio-economica alla famiglia che è una vittima indiretta dello stupro: pensate a un bambino traumatizzato che ha visto con i suoi occhi la madre subire uno stupro e un padre umiliato per la violenza subita dalla sua donna come possono vivere. Ma la guerra nel Congo orientale continua… Abbiamo lavorato per anni nel silenzio totale dei media occidentali ora ci sentiamo ripagati dei nostri sforzi, ma per sradicare questo abominio è necessario fermare la guerra in 13 Congo. Da venti anni attendiamo un trattato di pace credibile: ci sono sempre stati accordi che avevano in sé il germe di nuovi conflitti. Abbiamo dato credito agli accordi di Addis Abeba del 2013 ma fin qui non hanno portato a nulla. Subìamo le conseguenze di un’economia militarizzata e istituzioni fragili. E’ diventato anche un conflitto per il controllo delle ingenti risorse di coltan presenti nel sottosuolo congolese? Viviamo in una condizione di sicurezza degradata nell’Est del paese. Qui operano gruppi armati di Burundi, Uganda, Rwanda a cui si aggiungono i giovani Mai Mai, gruppi armati locali che violentano le donne per costringerle a lasciare la loro terra e occuparla. E così queste bande armate diventano proprietarie del suolo e del sottosuolo. Come interviene la giustizia congolese? Gli stupratori operano nell’impunità totale. Abbiamo leggi per la difesa dei diritti umani, una riforma della sicurezza, votata dal parlamento, ma mai implementata. Vorremmo che venisse creato un tribunale misto per formare i magistrati congolesi. Il Congo è la capitale dello stupro ma non ci sono processi penali che condannino gli stupratori. Chiediamo poi camere separate. Non è possibile che le donne violentate stiano di fronte a poliziotti e soldati che sono stati i perpetratori della violenza quando decidono di denunciarli. Dopo il tentativo di assassinio che ha subìto per il suo impegno al fianco delle donne («una resistenza testarda», come è stata definita) ha pensato di lasciare il suo paese? Mi sono trasferito in Belgio per qualche tempo. Le donne che avevamo curato hanno scritto a tutte le autorità congolesi chiedendo il mio rientro. Hanno assicurato che avrebbero fatto loro stesse da sicurezza per evitare che subissi altri attentati. Ogni settimana portavano i loro prodotti per pagarmi il biglietto aereo di ritorno, allora ho deciso di fare rientro in Congo. Qual è il primo passo perché lo stupro non sia più usato come strumento di guerra? E’ molto importante che siano gli uomini a impegnarsi. Deve nascere un movimento di uomini che lotta contro la violenza sulle donne. Sappiamo che il 99% degli uomini non commette stupri, per questo sono gli uomini a dover lavorare insieme alle associazioni di donne per superare questa piaga. Del 27/11/2014, pag. 16 La rivolta delle star nere “Ferguson, uno scandalo” L’America scende in piazza La rabbia corre in Rete. Arresti a Los Angeles Magic Johnson: “Basta con le morti inutili” FEDERICO RAMPINI FERGUSON L’AMERICA intera protesta per l’ingiustizia di Ferguson, con la cittadina del Missouri solidarizzano le metropoli dalla East Coast alla West Coast. E si mobilita con una coesione rara il mondo delle star afroamericane, dallo sport allo spettacolo. Twitter, Facebook, tutti i social media sono inondati di messaggi che vengono dalle celebrità nere. Sono reazioni durissime contro l’assoluzione del Grand Jury per l’agente Darren Wilson, che il 9 agosto uccise il 18enne nero Michael Brown, disarmato. Serena Williams commenta: «Wow. Vergognoso». Magic Johnson: «Dobbiamo lavorare insieme per porre fine alle morti inutili di giovani di colore. A Ferguson non è stata fatta giustizia». LeBron 14 James riecheggia la linea di Barack Obama, un richiamo alla questione razziale e una dissociazione dalle violenze: «Come società dobbiamo evitare il ripetersi di queste morti. Sono vicino alle famiglie, ma la vendetta non è la risposta». L’attore Chris Brown condanna con sarcasmo la lunghezza del procedimento del Grand Jury: «Non ci vogliono 100 giorni per decidere se un omicidio è un crimine, ci vogliono 100 giorni per capire come dirlo agli americani». Il mondo dello sport e quello della musica, il cinema e la televisione, è un coro di indignazione. Era dai tempi della prima elezione di Obama nel 2008, che gli opinion leader della comunità afroamericana non scendevano in campo così compatti e decisi. È una coalizione di celebrità che interpreta gli umori dei neri ed anche delle giovani generazioni di tutte le etnie. È la conferma che Ferguson è diventata un simbolo. Al di là delle polemiche che proseguono sulle testimonianze di parte, sulle scelte controverse del magistrato che ha orientato il Grand Jury, la morte di Brown riapre un dibattito nazionale sulla questione razziale. Un tema unifica le proteste: l’American Dream ha tradito una parte di questa società. La ripresa economica che dura da cinque anni non ha sanato le diseguaglianze crescenti, e i giovani maschi afroamericani sono la componente più debole, hanno i salari più bassi, il tasso di disoccupazione più elevato. Per loro la percentuale di arresti, condanne al carcere, uccisioni sotto il fuoco della polizia, è un multiplo della media nazionale. Il coro delle star fa amplificare quello che succede nella società civile. A Ferguson gli scontri violenti sono stati contenuti dalla mobilitazione eccezionale di forze dell’ordine, 2.200 militari della National Guard schierati dal governatore del Missouri, Jay Nixon. Ma nella metropoli vicina e più grande, Saint Louis, le manifestazioni hanno costretto a chiudere il palazzo del municipio. Dopo che un gruppo di manifestanti era riuscito a introdursi dentro il City Hall, centinaia di poliziotti sono accorsi in rinforzo, fino a “blindare” la sede comunale, evacuando il personale e chiudendone l’attività. Ormai l’epicentro della protesta non è più solo il Missouri ma l’America tutta intera. La giornata di ieri è stata segnata proprio da questo salto di dimensione, la “nazionalizzazione” delle proteste. L’elenco si è allungato a centinaia di città. A New York il traffico è stato bloccato in diversi quartieri: il corteo principale è partito da Union Square, diretto a Times Square. Altri gruppi di ma- nifestanti hanno bloccato ponti tra Manhattan e Brooklyn col risultato di un caos nei trasporti, alla vigilia di Thanksgiving. Da Chicago ad Atlanta, le maggiori metropoli hanno visto dei cortei in piazza, guidati da leader religiosi e da politici afroamericani. La maggioranza sono state pacifiche, solo in alcuni casi le proteste sono sfociate in scontri con la polizia. A Los Angeles ci sono stati 130 arresti. Sempre in California, a Oakland la tensione con le forze dell’ordine è stata alta. 44 arresti a Chicago, 21 ad Atlanta. Nel Midwest il Minnesota ha visto uno dei cortei più vasti. Nelle proteste di piazza si sono visti anche bianchi e ispanici, soprattutto giovani. Ma la “maggioranza silenziosa”, come venne chiamata fin dai tempi di Richard Nixon l’opinione pubblica bianca e moderata, vive in altro modo la vicenda di Ferguson. Il confronto con l’era Nixon richiama alla memoria una stagione di rivolte ben più radicali, violente e di massa: le ribellioni nei ghetti metropolitani degli anni Sessanta, quando ci furono anche movimenti di lotta armata (Black Panthers) che contrastavano la non violenza di Martin Luther King. Oggi non esiste più un “terrorismo nero”, eppure i bianchi continuano a percepire gli afroamericani come un pericolo per l’ordine pubblico. Gli ultimi sondaggi, dalla Cnn all’ Huffington Post , rivelano che due terzi dei bianchi condividono l’assoluzione dell’agente Wilson; mentre due terzi dei neri sono convinti che andava incriminato per omicidio. 15 del 27/11/14, pag. 1/15 Il sistema della violenza Bruno Cartosio Ferguson e dopo . Per il rapporto del 2013 Operation Ghetto Storm, nel 2012 una persona afroamericana è stata uccisa ogni 28 ore da un agente, un poliziotto privato o un vigilante. E lo storico Robin Kelley ha elencato su Counterpunch tutti gli ultimi casi di ingiustificabile e mortale violenza poliziesca in Ohio, Illinois, Michigan, Utah, California, New York Di nuovo l’eruzione della protesta a Ferguson, ma stavolta i suoi lapilli incandescenti ricadono su tutto il resto degli Stati Uniti: manifestazioni di varie entità e caratterizzate da comportamenti diversi – e non composte da soli afroamericani – hanno luogo da lunedì scorso in tutte le maggiori città, da una costa all’altra. Perché le parole con cui il procuratore della contea di St. Louis ha annunciato la decisione del gran giurì sono state tanto offensive, quanto la decisione di non rinviare a giudizio l’agente Darren Wilson. Ma anche perché, nei tre mesi passati tra l’omicidio di Michael Brown e ora, altri fatti come quello sono successi in altre parti del paese. Soltanto i più assurdi – come quelli del dodicenne Tamir Rice ucciso in un parco di Cleveland perché aveva in mano una pistola giocattolo o del ventottenne Akai Gurley ammazzato sulle scale scure di casa sua a New York – fanno notizia fuori degli Stati Uniti. Di tanti altri, al loro interno, spesso sono solo i media locali a dare notizia, con maggiore o minore rilievo. Invece la comunità nera tiene i conti. La giornalista Melissa Harris-Perry ha denunciato che almeno due cittadini afroamericani sono stati uccisi ogni settimana da poliziotti bianchi tra il 2006 e il 2012. Il Malcolm X Grassroots Movement ha pubblicato l’anno scorso un rapporto – Operation Ghetto Storm – da cui risulta che nel 2012 una persona afroamericana è stata uccisa ogni 28 ore da un agente, un poliziotto privato o un vigilante. E nei giorni scorsi lo storico Robin Kelley ha elencato su Counterpunch tutti gli ultimi casi di ingiustificabile e mortale violenza poliziesca accaduti in Ohio, Illinois, Michigan, Utah, California, New York. Perché la protesta si allarga Ed è proprio la diffusione di tale violenza su tutto il territorio nazionale che dopo avere prodotto infinite iniziative di denuncia e organizzazione ha portato ora all’allargamento della protesta. Ferguson ha fatto da catalizzatore. La stessa lentezza del gran giurì e i dubbi intorno ai suoi lavori hanno favorito la crescita del movimento a St. Louis, che dopo avere organizzato manifestazioni pacifiche nei mesi scorsi, è stato al centro della risposta di piazza, non più pacifica, il 24 novembre. Dopo il 9 agosto, tutti avevano scritto che a Ferguson il corpo di polizia era quasi totalmente bianco in un contesto sociale prevalentemente nero e tutti avevano scritto dell’impoverimento della sua popolazione afroamericana. L’espropriazione dei poveri Ma solo ora, grazie al lungo, impressionante saggio-inchiesta di Radley Balko, un giornalista del Washington Post, le più generali analisi sociologiche e politiche sulla oppressione di casta e classe hanno conferma nei «numeri» e nella casistica minuta delle «persecuzioni e umiliazioni giornaliere» inflitte ai neri poveri in quella parte del Missouri. Anzitutto, soltanto in una delle 31 municipalità della contea di St. Louis, cui appartiene anche Ferguson, la proporzione di neri nei singoli corpi di polizia è superiore a quelle dei locali residenti neri. E pressoché ovunque i comportamenti di poliziotti e magistrati sono 16 così stabilmente, e spesso pretestuosamente, mirati a colpire i residenti afroamericani con incriminazioni, pene e sanzioni da giustificare che, da una parte, Robin Kelley possa parlare di una «guerra di bassa intensità» contro le componenti povere della popolazione e che, dall’altra, si possa dire che attraverso essa viene anche messo in atto un letterale esproprio ai loro danni. A Ferguson il numero degli arresti è pazzesco: su 21.000 abitanti, 32.000 mandati d’arresto nel 2012. Per alcune delle municipalità circostanti i proventi dalle multe e sanzioni costituiscono fino al 40 per cento delle entrate. Non è dappertutto così, naturalmente. E le forme persecutorie cambiano a seconda delle aree e di quale è la minoranza più numerosa. Qui i poveri sono soprattutto afroamericani, altrove sono anche latinoamericani. A New York o a Los Angeles neri e latinos insieme costituiscono l’ottanta per cento delle persone fermate e perquisite dalla polizia. Il procuratore McCulloch e i «suoi» giurati hanno ritenuto insufficienti le prove necessarie per sottoporre l’agente Darren Wilson a un regolare processo in una corte di giustizia. Tuttavia il caso di Ferguson non è chiuso. Rimane in piedi l’indagine federale sul suo corpo di polizia voluta da Obama e affidata al ministro della Giustizia Holder. La speranza è che l’impunità della polizia venga infine scardinata, grazie alla tenaglia della protesta dal basso e dell’intervento dall’alto; ma le aspettative, realisticamente, non sono altrettanto ottimistiche. Il debito del debole Obama Il pessimismo è giustificato dalla situazione in cui si trovano il Presidente e il suo gabinetto. Il dato di partenza è che gli afroamericani e i latinos hanno votato in percentuali molto alte per Obama e per i democratici. A loro la Presidenza attuale deve molto. Per questo Obama ha inaugurato i suoi ultimi due anni di mandato con un ordine esecutivo che apre la strada verso la regolarizzazione a 4–5 milioni di immigrati illegali i cui figli sono nati negli Stati Uniti (e che per il vigente ius soli sono cittadini statunitensi). L’ordine esecutivo è stato motivato con il fatto che la maggioranza repubblicana ha sempre impedito che venisse discusso alla Camera il progetto di riforma approvato dal Senato. Esso rivela, però, anche l’isolamento dell’esecutivo. Ora che i repubblicani sono in maggioranza in entrambe le camere, cercheranno di sgonfiare l’operatività della decisione di Obama. Lo faranno senza fanfara, per non perdere il voto latino nelle prossime elezioni; ma lo faranno, impugnando l’ordine esecutivo sul piano procedurale e magari proponendo un altro progetto di legge destinato a essere discusso e attuato dopo le votazioni del 2016. Nulla per le minoranze Per quanto riguarda gli afroamericani, quali che siano le conclusioni cui arriverà l’indagine Holder – che è inevitabile che censuri i comportamenti della polizia – è assai difficile che essa possa portare a cambiamenti sostanziali. Questi sarebbero possibili soltanto attraverso un mutamento politico-culturale generalizzato, che l’amministrazione Obama non è in grado di favorire e tanto meno di imporre. Le maggioranze repubblicane in Congresso e magari un futuro presidente repubblicano non faranno nulla a favore della minoranza afroamericana, né di altre minoranze, né dei poveri. L’elezione dell’afroamericano Obama alla presidenza ha avuto un straordinario valore simbolico, positivo per molti, ma negativo per molti altri. Lo hanno testimoniato le denigrazioni, gli insulti e gli attacchi propriamente politici di cui è stato oggetto in Congresso e fuori. E ora che Obama è «solo» nessuno avrà ragioni per cambiare atteggiamento nei confronti di una minoranza che lo ha votato al 90 per cento. Soprattutto, per di più, se il farlo implicasse – come implica, di fatto – cambiare gli orientamenti economico-politici a favore delle fasce povere della popolazione. Rimangono i movimenti. Sono numerosi e resi più combattivi dalle vicende di questi ultimi anni e mesi. Gli avvenimenti hanno anche costretto l’opinione pubblica e i media a focalizzare l’attenzione sulla realtà oggetto delle loro denunce. Ma per ora, anche loro, sono troppo soli. 17 Del 27/11/2014, pag. 1-38 Ogni sedici minuti un Intoccabile è vittima di un crimine. Come Surekha, uccisa perché aveva lottato per i suoi diritti. Perché, chiede la scrittrice Arundhati Roy, il mondo si mobilita contro le ingiustizie, ma non censura il sistema sociale induista? ARUNDHATI ROY Il mondo si ribelli all’India delle caste MIO PADRE era un Indù riformato, un Brahmo. L’ho conosciuto solo da adulta. Sono cresciuta con mia madre nella sua famiglia cristiana siriana del villaggio di Ayemenem, in Kerala, nell’India sud occidentale. Allora governavano i comunisti, ma vivevo tra le divisioni del sistema delle caste che squarciava e crepava il tessuto sociale. Ayemenem aveva la sua chiesa “Paraiyan”, in cui sacerdoti “Paraiyan” predicavano ai fedeli “intoccabili”. La casta si evinceva dal nome delle persone, da come si riferivano le une alle altre, dal lavoro che facevano, dagli abiti che indossavano, dai matrimoni che combinavano, dalla lingua che parlavano. Ma da studentessa in nessun testo scolastico trovai menzione del concetto di casta, mai. Fu leggendo Annientamento della Casta il testo scritto per una conferenza del 1936 da BR Ambedkar, autore e pensatore indiano, che mi resi conto, allarmata, della falla esistente nel nostro universo pedagogico. Leggere Ambedkar mi chiarì anche il motivo per cui quella falla esiste e continuerà ad esistere finché la società indiana non subirà un cambiamento radicale e rivoluzionario. Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai, una dei due vincitori del premio Nobel per la pace di quest’anno, ma non di Surekha Bhotmange, vi invito a leggere Ambedkar. Malala aveva solo 15anni, ma aveva già commesso vari reati. Innanzitutto era una ragazza, abitava nella valle dello Swat in Pakistan, poi era una blogger della Bbc , era apparsa in un video del New York Times e frequentava la scuola. Malala voleva fare il medico, suo padre voleva che entrasse in politica. Era coraggiosa. Lei (e il padre) ignorarono i Taliban quando dichiararono che le scuole non erano destinate alle ragazze e minacciarono di uccidere Malala se non avesse smesso di criticarli apertamente. Il 9 ottobre 2012 un killer la fece scendere dal bus della scuola e le piantò una pallottola in testa. Malala fu trasportata in aereo in Inghilterra e, dopo aver ricevuto le cure migliori del caso, sopravvisse. Fu un miracolo. Il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato americano le inviarono messaggi di sostegno e solidarietà. Madonna le dedicò un brano. Angelina Jolie scrisse un articolo su di lei. Malala è apparsa sulla copertina del Time . Pochi giorni dopo il tentato omicidio, Gordon Brown, inviato speciale delle Nazioni Unite per l’educazione globale, lanciò la petizione “Io sono Malala” per esortare il governo del Pakistan a garantire l’istruzione a tutte le bambine. In Pakistan proseguono i raid dei droni americani con la missione femminista di “far fuori” i terroristi islamisti misogini. Surekha Bhotmange aveva 40 anni e, come Malala, vari reati alle spalle. Era una donna in primis — una dalit “intoccabile” che viveva in India ed era povera in canna. Era più istruita del marito, quindi faceva le veci di capo famiglia. Ambedkar era il suo idolo. Come lui, la famiglia di Surekha aveva ripudiato l’induismo per convertirsi al buddismo. I figli di Surekha erano istruiti. I due maschi, Sudhir e Roshan, avevano frequentato l’università. La figlia, Priyanka, aveva 17 anni e stava terminando le superiori. Surekha e il marito avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel villaggio di Khairlanji, nello 18 stato del Maharashtra. La loro proprietà era circondata da fattorie appartenenti a caste che si consideravano superiori alla casta Mahar, cui apparteneva Surekha. Poiché era una Dalit e non aveva diritto ad aspirare a vivere bene, la panchayat (assemblea) del villaggio non le permise di collegarsi alla rete elettrica né di trasformare la capanna di fango col tetto di paglia in una casa di mattoni. Gli abitanti del villaggio non permettevano alla famiglia di Surekha di irrigare i campi con l’acqua del canale, o di attingere al pozzo pubblico. Cercarono di costruire una strada pubblica attraverso la proprietà della donna e, alle sue proteste, passarono coi carri trainati da buoi sui suoi terreni. Lasciavano le loro bestie pascolare sulle sue coltivazioni. Ma Surekha non cedette. Si rivolse alla polizia che non le prestò orecchio. Nel corso dei mesi la tensione nel villaggio salì alle stelle. A mo’ di avvertimento, gli abitanti aggredirono un parente della donna, lasciandolo moribondo. Surekha sporse nuovamente denuncia. Questa volta la polizia procedette a degli arresti, ma gli accusati furono rilasciati su cauzione quasi subito. Il giorno del rilascio, il 29 settembre 2006, alle sei di sera, circa 40 persone del villaggio, uomini e donne, arrivarono furibondi sui trattori e circondarono la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal, che era nei campi, udì il rumore e corse a casa. Nascosto dietro un cespuglio vide la folla aggredire la sua famiglia. Corse a Dusala, la città più vicina e, attraverso un parente, riuscì a chiamare la polizia. (Servono i contatti giusti anche solo perché la polizia risponda a telefono). I poliziotti non arrivarono mai. La folla trascinò fuori di casa Surekha, Priyanka e i due ragazzi, uno parzialmente non vedente. Ai ragazzi fu ordinato di stuprare la madre e la sorella; al loro rifiuto vennero mutilati dei genitali e infine linciati. Surekha e Priyanka subirono uno stupro di gruppo e vennero massacrate di botte. I quattro corpi vennero gettati nel vicino canale dove furono ritrovati il giorno successivo. Inizialmente la stampa presentò l’accaduto come “delitto d’onore”, riportando che gli abitanti del villaggio erano indignati perché Surekha aveva una relazione con un parente (la vittima della precedente aggressione). A seguito delle proteste di massa inscenate dalle organizzazioni Dalit, la magistratura fu infine spinta a prendere atto del delitto. Comitati di cittadini indagarono sull’accaduto, rivelando l’inquinamento delle prove. Nel primo grado di giudizio i principali autori del delitto vennero condannati a morte, ma non venne invocata la legge di Prevenzione delle atrocità riferita alle caste e alle tribù intoccabili — il giudice ritenne che il massacro di Khairlanji fosse un crimine dettato da desiderio di “vendetta”. Disse che non sussistevano prove dello stupro e che l’omicidio non aveva connotazioni di casta. Se un giudice indebolisce il quadro giuridico in cui è inserito il reato per il quale commina poi la pena di morte, non fa che spianare la strada alla riduzione o addirittura alla commutazione della pena da parte dell’organo di giudizio superiore. Non è una prassi insolita, in India. La condanna a morte di un individuo, per quanto efferato sia il suo crimine, difficilmente può essere definita un atto di giustizia. L’ammissione da parte del tribunale che il pregiudizio di casta continua ad essere un’orrenda realtà in India sarebbe stato un passo in direzione della giustizia. Invece il giudice si è limitato a cancellare la casta dal quadro. Surekha Bhotmange e i suoi figli vivevano in una democrazia orientata al mercato, quindi niente petizioni Onu con lo slogan “Io sono Surekha”, né messaggi indignati di capi di stato rivolti al governo indiano. Meno male, non vogliamo mica che ci sgancino bombe addosso solo perché da noi vige il sistema delle caste. «Per gli intoccabili», scrisse Ambedkar nel 1945, con un coraggio che gli intellettuali di oggi in India fanno fatica a trovare, «l’induismo è una vera camera degli orrori». Per un autore dover usare termini come “Intoccabili”, “casta intoccabile”, “classe arretrata” e “altre classi arretrate” per definire esseri umani come lui è come vivere in una camera degli orrori. Dato che Ambedkar ha usato il termine “Intoccabili” con rabbia fredda, lucida, e senza batter ciglio, devo farlo anch’io. Oggi il termine “Intoccabile” è stato sostituito da quello Marathi “Dalit” (“gente svantaggiata ”), che viene a sua volta usato in maniera 19 intercambiabile con “casta registrata.” Questa prassi, come indica lo studioso Rupa Viswanath, non è corretta, perché il termine “Dalit” include intoccabili che si sono convertiti ad altre religioni per sfuggire allo stigma della casta (come i Paraiyan del mio villaggio che si erano convertiti al cristianesimo), non considerati nell’accezione “casta registrata”. La nomenclatura ufficiale del pregiudizio è un labirinto che porta ad una burocratizzazione del discorso. Per tentare di evitarlo, nella maggior parte dei casi, ma non sempre, uso il termine “Intoccabile” quando mi riferisco al passato e “Dalit” quando scrivo del presente. In riferimento a Dalit convertiti ad altre religioni specifico Dalit sikh, Dalit musulmani, o Dalit cristiani. Stando ai dati ufficiali del National Crime Records Bureau ogni sedici minuti un Dalit è vittima di un crimine commesso ai suoi danni da un non Dalit; ogni giorno più di quattro donne Intoccabili vengono stuprate da Toccabili; ogni settimana 13 Dalit vengono assassinati e sei Dalit rapiti; nel solo 2012, l’anno in cui una ventitreenne venne uccisa a Dehli dopo uno stupro di gruppo, sono state violentate 1574 donne Dalit (di regola si calcola che venga denunciato solo il 10 per cento degli stupri o altri reati commessi ai danni di Dalit) e 651 Dalit sono stati assassinati. Questo solo per quanto riguarda gli stupri e le carneficine. Non sono contemplate le umiliazioni, come essere denudati e costretti a sfilare nudi, a mangiare merda (letteralmente), i sequestri dei terreni, il boicottaggio sociale in varie forme, la limitazione di accesso all’acqua potabile. Bant Singh, un Dalit Mazhabi Sikh dello stato del Punjab, nel 2005 ha subito l’amputazione di entrambe le braccia e di una gamba perché aveva osato sporgere denuncia contro gli stupratori della sorella. Il suo caso non compare nelle statistiche ufficiali dei reati: non esiste la categoria “triplice amputazione”. «Se la comunità si oppone ai diritti fondamentali non c’è legge, né parlamento, né magistratura che possa garantirli nel vero senso della parola», diceva Ambedkar. «Cosa se ne fanno dei diritti fondamentali i negri in America, gli ebrei in Germania e gli intoccabili in India? Come diceva Burke, non si è ancora trovato il metodo per punire le masse». Chiedete a un qualunque poliziotto di campagna in India e probabilmente vi dirà che il suo compito è “mantenere la pace”. Questo si fa per lo più difendendo il sistema delle caste. Le istanze dei Dalit infrangono la pace. Altri abomini contemporanei come l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo economico e il fondamentalismo religioso sono stati oggetto di critica sotto il profilo politico e intellettuale a livello internazionale. Come mai il sistema delle caste in India — una delle modalità più brutali di organizzazione sociale gerarchica che l’umanità conosca — è riuscito a sfuggire a un simile scrutinio e censura? Forse perché è ormai talmente fuso con l’Induismo e, per estensione, con ciò che è giudicato bello e buono (il misticismo, lo spiritualismo, la non violenza, la tolleranza, il vegetarismo, Gandhi, lo yoga, il turismo zaino in spalla, i Beatles) che, almeno dal di fuori, sembra impossibile scardinarlo e tentare di comprenderlo. del 27/11/14, pag. 13 Hong Kong, studenti in manette La polizia arresta Joshua Wong, il leader 18enne dei manifestanti di Occupy Central Travolte le barricate nel quartiere di Mong Kok. I giovani: «Torneremo in piazza» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO Per sessanta giorni i ragazzi del movimento democratico di Hong Kong e la polizia si erano affrontati in una sfida di logoramento con pochissimi episodi di violenza. Ma nelle ultime ore la situazione sta 20 subendo un’accelerazione drammatica per la tradizione pacifica del territorio. Gli agenti sono andati all’attacco dei blocchi stradali nel quartiere Mong Kok a Kowloon, la zona continentale di fronte all’isola di Hong Kong. Ci sono stati scontri, manganellate, uso di spray urticanti e 148 arresti, compreso Joshua Wong, il diciottenne che guida l’organizzazione «Scholarism», il suo compagno Lester Shum della «Federation of Students» e altri due giovani leader. Tra i feriti o contusi anche una ventina di agenti. Teatro degli scontri è stata Nathan Road, l’arteria a sei corsie che attraversa Mong Kok ed è il centro della sua attività commerciale. I ragazzi avevano piazzato tende e barricate che per otto settimane hanno fermato il traffico: l’ordine di sgombero è venuto dalla magistratura indipendente di Hong Kong, sollecitata da una cooperativa di tassisti esasperati. Quella delle ingiunzioni giudiziarie è la tattica alla quale si è affidato il governo di Hong Kong, incapace di dare una risposta politica alla protesta dei ragazzi, che chiedono candidature libere per le elezioni del governatore, nel 2017. La settimana scorsa gli studenti si erano ritirati da una parte di Admiralty, il quartiere degli affari di Hong Kong, quasi senza opporre resistenza; era stata spaccata solo una porta a vetri del Legislative Council, l’assemblea parlamentare: episodio subito condannato come provocazione di una piccola frangia del movimento. L’altra sera a Nathan Road invece ci sono stati corpo a corpo tra gruppi di manifestanti e poliziotti: uno choc destinato a lasciare il segno in una città non abituata alla violenza di piazza. Così come ha danneggiato l’immagine della polizia il pestaggio di un attivista ripreso dalle telecamere il 15 ottobre: ieri sette agenti sono stati arrestati. Dalla cella dove sono detenuti, i quattro leader studenteschi hanno twittato: «Ci accusano di oltraggio al tribunale e resistenza alle forze dell’ordine». Il loro arresto potrebbe riaccendere la protesta, che aveva perso di slancio ed era stata sconfessata anche dalla maggioranza della popolazione, stanca dei disagi. «Torneremo in strada e saremo in tanti», dicevano diversi studenti ieri notte. La situazione del movimento democratico però si è fatta precaria: sono emerse divisioni al suo interno, non c’è coordinamento con il gruppo di docenti universitari che avevano lanciato «Occupy Central», non c’è dialogo politico con le autorità. Che cosa succederà nelle prossime ore? Steve Vickers, capo dell’intelligence della polizia fino al 1997, quando Hong Kong è stata restituita alla Cina dalla Gran Bretagna, ora dirige una società di «valutazione rischi», ed è pessimista: «Il governo locale non fa nulla, Occupy Central non ha una leadership unita: così si è dato un pretesto a Pechino e ai suoi servizi di sicurezza per giocare un ruolo più attivo a Hong Kong. Ci sono in giro agitatori, provocatori, anche legati alle Triadi; la polizia si trova in mezzo, con pochi ordini, demoralizzata». Potrebbe finire male, con scontri gravi e con la Cina «costretta» a prendere il controllo. Guido Santevecchi 21 INTERNI Del 27/11/2014, pag. 2 Renzi: “Su Italicum e Senato chiudiamo entro gennaio” Incontro con Napolitano Vertice sulle riforme. “Preoccupazioni” sulla costituzionalità della legge elettorale in aula a Palazzo Madama dal 16 dicembre Attenzione alle «preoccupazioni delle forze politiche». Per quanto riguarda l’aria di elezioni anticipate che alcune di esse sembrano avvertire. E soprattutto per quanto riguarda «il rapporto tra legislazione elettorale e riforme costituzionali». Giorgio Napolitano riceve Matteo Renzi per fare il punto sul percorso delle riforme che, concordano i due, «deve essere condivisibile con un ampio arco di forze». Garantendo in questo modo — è il punto di vista dell’inquilino del Colle — che l’approvazione dell’Italicum 8in aula al Senato dal 16 dicembre) non diventi l’anticamera della fine della legislatura. E per dare un segnale concreto, ecco che sul tavolo dell’incontro entra l’ipotesi di una “clausola di salvaguardia” che preveda di andare ad elezioni solo quando sia la Camera che il Senato avranno un nuovo sistema elettorale evitando i dubbi di costituzionalità. Il premier rassicura il capo dello Stato sulla tenuta del Patto del Nazareno, dopo le fibrillazione innescate nella minoranza del Pd e dentro Forza Italia dai risultati delle regionali. «Sulle riforme andremo velocissimi», spiega poi Renzi ai microfoni del Tg1. Per rendere l’Italia più semplice e più efficiente, «meno politici, più semplicità nel procedimento della creazione della legge, riduzione del potere delle regioni e naturalmente una legge elettorale in cui non ci sia la solita confusione italica in cui non si sa mai chi ha vinto». Su queste riforme, prevede, «siamo ad un passo dalla chiusura, tra dicembre e gennaio tutto sarà finalmente realizzato». Rassicurazioni al capo dello Stato sull’orizzonte della legislatura che arriverà fino al 2018? «Napolitano — è la risposta del premier — non ha bisogno di essere rassicurato. Sa che se il Parlamento fa le leggi e lavora anche sabato e domenica per rispettare i tempi dati, arriverà a scadenza naturale». Fatte le riforme, conclude, bisognerà dire un grande grazie a Napolitano, che su questo «ha speso tutta la sua forza e la sua autorevolezza». Il presidente della Repubblica prende atto degli impegni del presidente del Consiglio. Anche se le urne deserte alle regionali lo preoccupano molto, e a maggior ragione in questo contesto di fuga dalla politica il portare il paese alle urne rischierebbe di innescare contraccolpi pesantissimi. E’ la ragione per cui il capo dello Stato ribadisce che non metterebbe la sua firme sotto un atto di scioglimento, tanto più in vista del suo addio al Colle. Un amaro calice che toccherebbe al suo successore, ma il capo dello Stato prova a lasciare il Quirinale assicurando una rete di protezione per allontanare il rischio. Così nel colloquio di stamattina fra Renzi e Napolitano, presente anche il ministro delle Riforme Boschi, è stato «ampiamente esposto» il percorso che il governo considera «possibile e condivisibile con un ampio arco di forze politiche» per quello che riguarda l’iter parlamentare dei due provvedimenti fondamentali già approvati in prima lettura, ovvero legge elettorale e legge costituzionale per la riforma del Senato. Per scongiurare rotture. 22 Del 27/11/2014, pag. 2 E il Colle chiede garanzie: niente elezioni con la nuova legge finché ci sono due Camere FRANCESCO BEI UMBERTO ROSSO Il secondo mandato è agli sgoccioli. Ma il capo dello Stato non rinuncia a farsi interprete delle «legittime preoccupazioni » di quanti temono un Renzi pigliatutto. Va bene la fretta sulle riforme dopo anni di chiacchiere, a patto però che la corsa non finisca nel burrone delle elezioni anticipate. Così il colloquio sul Colle di ieri mattina, presente anche il ministro Maria Elena Boschi, è meno fluido del solito, alcune obiezioni del presidente della Repubblica effettivamente mettono il premier in imbarazzo. Una su tutte: la richiesta di una «clausola di salvaguardia» nell’Italicum che impedisca l’ipotesi di andare al voto anticipato senza una legge elettorale valida anche per il Senato. Ovvero una rete di protezione per scongiurare la tentazione attribuita a Renzi di precipitarsi alle urne una volta incassato la riforma elettorale (e con il Consultellum per palazzo Madama). «Non è mio compito fornire indicazioni di merito, suggerire soluzioni tecniche per raggiungere questo obiettivo ma — è il ragionamento svolto sul Colle — di certo bisogna tenere insieme il cammino della legge elettorale con quello della riforma costituzionale». In un sistema bicamerale perfetto, sono le riflessioni di Napolitano, non si possono avere due leggi elettorali diverse. Il risultato sarebbe «schizofrenico», come hanno già fatto notare nei giorni scorsi i due presidenti emeriti della Consulta, Tesauro e Silvestri, sentiti dalla commissione affari costituzionali del Senato. Proprio i due giudici che erano in carica quando la Corte bocciò il Porcellum. Renzi ascolta e reagisce. Il ministro Boschi già da giorni, per averne discusso con Anna Finocchiaro, conosce il problema e ne ha informato il capo del governo. «Presidente — replica Renzi — finché la maggioranza procede con le riforme, come accaduto ieri con il Jobs Act, siamo noi i primi a voler andare avanti. Il nostro orizzonte resta quello del 2018 e posso garantirle che non c’è alcuna voglia di andare a elezioni anticipate. L’ho detto anche a Berlusconi». Il premier di conseguenza frena. Inoltre, che forma dovrebbe avere questa clausola di salvaguardia? Per Renzi sarebbe sbagliato, come pretende la minoranza dem, rinviare l’entrata in vigore della legge elettorale per aspettare l’approvazione della riforma costituzionale. «Vorrebbero inserire una norma transitoria per sterilizzare l’Italicum — racconta il premier al capo dello Stato — ma in questo modo passerebbe almeno un anno prima di avere la legge pronta per l’uso». Una rigidità «inaccettabile». Per il premier basterebbe un «impegno politico », al massimo un ordine del giorno in Parlamento: stessa sostanza della norma transitoria — ovvero collegare riforma del Senato e legge elettorale — ma senza vincoli formali. Sulla linea dell’ordine del giorno presentato ieri in commissione da Roberto Calderoli. Un’arma anti-elezioni che però, per il Quirinale, sembra caricata a salve. Troppo poco. E se Renzi lamenta il rischio di tempi infiniti per l’entrata in vigore della nuova legge, sul Colle immaginano almeno un paio di ipotesi che possano ovviare a un Italicum- tartaruga. Per esempio estendere la legge maggioritaria della Camera anche al Senato (nonostante la minoranza dem pretese la cancellazione dell’articolo 2 che prevedeva proprio questo), oppure approvare una legge ad hoc solo per il Senato, adattando il Consultellum su base regionale. Nel colloquio al Colle ufficialmente il tema delle dimissioni di Napolitano non entra. Per palazzo Chigi è evidente tuttavia il pericolo di un ingorgo in caso di un addio troppo ravvicinato dell’inquilino del Quirinale. Renzi ne ha parlato ai suoi collaboratori: «Se si apre subito la corsa alla presidenza della Repubblica, mentre abbiamo ancora aperto il fronte 23 riforme, saremo esposti a mille ricatti. Dei nostri e di Forza Italia. Meglio sarebbe se Napolitano restasse ancora. Così potrebbe firmare egli stesso la legge elettorale ». E tuttavia al Colle una cosa la mettono in chiaro: «Nessun legame fra dimissioni di Napolitano e approvazione della legge elettorale». Non si tratta di stabilire record di velocità o di appuntarsi medaglie a fine mandato. La riforma va fatta bene, deve rispondere a quei criteri di costituzionalità ben evidenziati dalla Consulta nella sentenza n.1 del 2014, quella che uccise il Porcellum. La minoranza Pd apprezza, sono preoccupazioni che vanno incontro anche alle richieste di Ncd e Forza Italia. Anche Berlusconi, nella sua altalena di posizioni, trova in questi richiami del Quirinale la garanzia che non si dovrà misurare troppo presto con le urne. Come se ne esce? Il governo lavora a un compromesso, un’ipotesi che non fissi in una norma precisa la clausola di salvaguardia ma non sconfessi le attese di Napolitano. Si tratterebbe di approvare subito, «entro dicembre», l’Italicum al Senato. Quindi la legge andrebbe nel congelatore, senza l’ultimo passaggio a Montecitorio, quello definitivo. Nel frattempo la Camera procederebbe con più velocità alla seconda lettura della riforma istituzionale. In modo tale da ricongiungere i due binari e portarli insieme alla stazione finale. del 27/11/14, pag. 3 Addio al Colle possibile già a metà dicembre: l’ipotesi inquieta il premier di Maria Teresa Meli ROMA Il presidente della Repubblica è preoccupato per le voci di elezioni anticipate che si rincorrono da qualche giorno. Il presidente del Consiglio è preoccupato perché ha saputo della tentazione del capo dello Stato di annunciare il suo addio a metà dicembre nel consueto scambio di auguri pre-natalizio con le istituzioni e le alte autorità. Non è stato un incontro facile, quello al Quirinale tra Matteo Renzi, accompagnato dalla ministra Maria Elena Boschi, e Giorgio Napolitano. Il premier si è speso per convincere l’inquilino del Colle a restare, garantendogli la prosecuzione della legislatura e l’approvazione delle riforme. Ma pare che Napolitano sia stato irremovibile: al massimo aspetterà fine anno, non oltre. E certo non potrà certificare lui la fine della legislatura. «Ma la legislatura andrà avanti, se si faranno le riforme», gli ha ribadito il premier, il quale, però, ha dovuto ammettere che «il quadro non tiene come dovrebbe». E non solo perché Berlusconi sta mandando tutto per le lunghe. C’è anche il problema della minoranza pd, che ieri si è presentata al gran completo in commissione Affari costituzionali del Senato. La quale commissione lavorerà a ritmo forsennato, pur di arrivare al dunque, in quei tempi «brevi» richiesti da Renzi. «Siamo a un passo dalla chiusura, tra dicembre e gennaio tutto sarà finalmente realizzato», dice il premier. E per tutto intende non solo la riforma elettorale, che dovrà essere approvata dall’aula di Palazzo Madama, ma anche quella del Senato, che la commissione della Camera dovrà licenziare in tempi brevi, e il Jobs act, varato a Montecitorio, e approdato ora nell’altro ramo del Parlamento. Anche a Palazzo Madama, lascia intendere, il premier, il governo potrebbe non chiedere la fiducia su questo provvedimento. Un modo per tentare di svelenire il clima, e, nel contempo, per sfidare la minoranza interna. Perché far cadere quella legge delega equivarrebbe a far saltare la legislatura. 24 Non è questo l’ obiettivo primario del presidente del Consiglio, il quale lo ha ribadito più di una volta a un preoccupatissimo Napolitano. Il suo traguardo è un altro: mandare a termine lo «storytelling», ossia la narrazione, che ha fatto all’Italia e su cui si gioca la «credibilità»: «È su quello che promettiamo e che poi manteniamo che la gente ci giudicherà e che restituiremo fiducia nella politica e nelle istituzioni». Ma per raggiungere questo obiettivo sulla riforma elettorale Renzi non può pensare di far a meno di Berlusconi e di un ampio consenso in Parlamento, è stato il ragionamento del presidente della Repubblica. Se così non fosse, il premier deve comunque sapere che il capo dello Stato, a un certo punto si dimetterà, a riforme fatte o non fatte, e quindi il cerino gli rimarrà in mano. E non è un caso, allora, se, intervistato dal Tg1 , il premier ripete che il «patto del Nazareno ha ancora un senso» e che le «regole del gioco si fanno con Berlusconi». Insomma, non è vero che Renzi intende andare avanti comunque senza Forza Italia. La sua era stata una minaccia, un tentativo per costringere Berlusconi a non continuare a temporeggiare. Ma, come gli ha spiegato il capo dello Stato, un «accordo va trovato». Anche se lo stesso presidente non sembra tanto ottimista, dal momento che non lega più la sua permanenza al Quirinale alla riforma del sistema elettorale. Il che complica non poco le cose a Renzi. Che a casa sua, cioè nel Pd, deve fronteggiare l’offensiva della minoranza che chiede meno capilista bloccati nell’Italicum e degli alleati che reclamano la clausola sospensiva della legge per esorcizzare la paura del voto anticipato. Paura comprensibile, dal momento che il Pd di Renzi, persino se si andasse alle elezioni con il Consultellum avrebbe una maggioranza ben consolidata al Senato e di stretta misura (320 voti) alla Camera, stando alle proiezioni dei voti delle europee. Insomma, per farla breve, come ammette lo stesso Renzi «le elezioni in realtà converrebbero solo a me, con qualsiasi sistema, di certo non a Berlusconi, checché se ne dica, anche ne caso in cui il centrodestra schierasse Salvini di cui non ho certo paura. Ma, ripeto, non sono le elezioni il mio obiettivo». «Il mio obiettivo sono le riforme. Però questa legislatura ha un senso solo se le fa», confida più tardi ai collaboratori. Ben sapendo che, comunque, le elezioni del presidente della Repubblica, inevitabili, dopo la presa di posizione di Napolitano, non gli permettono grandi spazi di manovra. Un accordo con Berlusconi va comunque fatto. del 27/11/14, pag. 5 «C’eravamo poco amati», nel Pd si litiga sulla scissione impossibile Daniela Preziosi Democrack. Sul voto del jobs act esplodono vecchie ruggini e nuovi rancori. Serracchiani contro Bindi, Cuperlo contro Orfini. Il presidente: «I dissidenti non pensino che può finire con una pacca sulla spalla» Il day after il voto sul jobs act che ha fatto emergere i 33 volti della ’sinistra non allineata’ del Pd, da di<CW-26>stinguere dalla sinistra riformista ex bersaniana in avvicinamento al segretario e da quella renzista dei giovani turchi già da mesi solidamente in maggioranza, il Pd è uno spettacolo pirotecnico di esplosioni variopinte. Ormai è chiaro che dei 33 «del dissenso metodologico» (copyright Matteo Orfini, la frase finisce così: «perché nel merito non mi pare che fra Fassina, Boccia e Bindi ci siano grandi punti di contatto») solo Civati mette in conto un abbandono del partito. Ma senza fretta perché a sua volta è alle prese 25 con il non facile aggancio di una sinistra-sinistra non tutta in linea con la sua idea di «rifondazione del centrosinistra». Altro elemento ormai lampante è che le tre sinistre, tre semplificando molto, dovranno convivere fra loro a lungo, oltreché fare i conti con un segretario che se ne infischia del dissenso interno: «Mi preoccupano i precari. Se qualcuno non rispetta gli accordi è un problema suo», ha spiegato ieri al Tg1. Così i forzati della coabitazione accendono singolar tenzoni. Ci sono litigi nuovi di zecca come lo scontro fra Rosy Bindi e Debora Serracchiani. L’una sul Corriere della sera invoca un Pd che torni «a essere il partito dell’Ulivo». L’altra replica: «L’esperienza dell’Ulivo è nata 20 anni fa, sicuramente un’esperienza vincente, ma ora non risponde più alle domande del paese». Chiosa non elegante dell renzianissimo Marcucci: «Ascoltando a Radio radicale l’intervista di Bindi, per un attimo ho pensato ad interferenza con Rai Storia». Poi ci sono vecchie ruggini che affiorano finalmente alla luce del sole, come quella fra Gianni Cuperlo e Matteo Orfini. Si consuma su facebook, il social che consente riflessioni ponderose, libero dalla tirannia dei 140 caratteri di twitter. I due dirigenti hanno una lunga storia di comunanza non sempre cordiale. Compagni di mozione al congresso in cui Cuperlo era candidato, dopo la sconfitta il giovane turco ha subito traghettato la sua area in zona Renzi. E alla fine ha sostituito l’ex leader alla presidenza del Pd. Cuperlo ieri gli ha indirizzato una dolente lettera aperta dove si dichiarava «impressionato dal tono e dal merito» di una sua definizione a proposito dei dissidenti: «Primedonne vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno». Risposta di Orfini: «Se tutti ci comportassimo come avete fatto voi, questo partito diventerebbe uno spazio politico, e non un soggetto politico (per citare Bersani). E non durerebbe a lungo». La fibrillazione interna è destinata a crescere. Oggi pomeriggio alla camera il Pd ha convocato la riunione dei deputati sulla legge di stabilità, sulla quale i dissidenti conducono un serrato lavorìo emendativo. Già si annuncia il voto di fiducia. Ma il renziano Roberto Giachetti attacca: «Vorrei capire che senso ha tornare a riunire il gruppo e votare se poi queste decisioni non sono vincolanti ed ognuno senza colpo ferire fa come vuole. Dichiaro pubblicamente che voterò a favore della legge di stabilità ed evito di partecipare a quello che qualcuno ha voluto trasformare in un inutile teatrino». Intanto ieri il senato ha respinto le dimissioni di Walter Tocci, rassegnate dopo un sofferto sì proprio al jobs act. In aula Tocci ha ribadito tutto il suo dissenso sulla legge delega, rincarando la dose con la preoccupazione per la trasformazione del parlamento in un «apparato di consenso, peraltro mal tollerato, di una burocrazia dominante», ha concluso citando Max Weber. In settimana il jobs act arriverà in aula per il sì definivo. Già annunciato il no di Corradino Mineo. I dissensi si incrociano, destinati a sfociare in una zuffa da saloon alla direzione di lunedì dove il pasticcio jobs act si combinerà all’analisi del voto sulle regionali. Sulle quali gli ex bersaniani, stavolta di nuovo uniti, accusano il segretario di sottovalutare l’astensionismo. Dalla parte opposta Orfini ragiona così: «Spero che Renzi non minimizzi, ma del resto è assurda la linea di chi non ha capito che in Emilia il sistema dei corpi intermedi, partito cooperative confindustria università, sta andando in esaurimento. E gli esclusi che non vanno a votare sono proprio i figli di questo sistema». Quanto ai dissidenti, nessun provvedimento disciplinare, ma «quelli che non hanno votato il jobs act non possono pensare che la cosa finisca con una pacca sulla spalla». 26 Del 27/11/2014, pag. 4 Jobs Act, scontro in casa Pd Orfini accusa le “primedonne” Cuperlo: difendo le mie idee La Cgil prepara un ricorso alla Corte di giustizia europea Riforma in Senato il 2 dicembre, ok prima dello sciopero Il giorno dopo l’approvazione del Jobs act nel Pd non arriva la quiete dopo la tempesta. Nonostante gli sforzi di Matteo Renzi per sdrammatizzare la situazione. «Sono più preoccupato dei precari, delle mamme senza maternità, dei cassintegrati cinquantenni che non delle legittime opinioni diverse all’interno del Pd», dice il premier al Tg1. Anche se non rinuncia ad una stoccata agli avversari: «Il Pd si è riunito, ha ragionato, ha discusso, ha trovato punto di accordo: se qualcuno non ha rispettato quel punto di accordo è un problema suo». Acqua sul fuoco, comunque. E non sembra neanche preoccuparlo l’annuncio di Susanna Camusso di un ricorso alla Corte di giustizia europea contro il Jobs act. Gli stessi giudici che hanno dichiarati illegittime le norme sui precari della scuola. «Valuteremo tutte le strade perchè siamo in presenza di una manomissione violenta dello Statuto dei Lavoratori» annuncia Susanna Camusso. Renzi glissa, ma lo scontro nel Pd ormai divampa. Quello fra Matteo Orfini, per esempio, e Gianni Cuperlo. Il presidente del Pd definisce i dissidenti sul Jobs act «primedonne, vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno». Parole che non piacciono a Cuperlo che risponde: «Primedonne? No, solo donne e uomini con le loro convinzioni e la loro coerenza». E ricorda all’attuale presidente che gli ha lasciato quella poltrona e lo ha votato, che lui «dovrebbe essere una figura di garanzia verso tutti». Orfini non la prende bene. Replica e nega di avere mai parlato di “primedonne”. Nel frattempo si accedono altri fuochi. Rosy Bindi assicura che non pensa alla scissione, ma attacca duramente il premier. Ospite di Lilli Gruber dice: «Non voglio uscire dal Pd, ma non voglio che il Pd esca da se stesso. Renzi fa sempre molta fatica a riconoscere gli errori, come per l’astensionismo in Emilia Romagna che ha definito irrilevante. Per la prima volta dopo mesi di trionfo Renzi registra una battuta d’arresto sulla quale andrebbe fatta una riflessione». La Bindi parla di ritorno all’Ulivo, la formazione che portò al governo Romano Prodi. L’idea viene subito girata a Prodi stesso. E il suo commento è: «Ho combattuto per l’Ulivo tanti anni perché pensavo fosse la creazione di un sistema bipolare che unisse diversi riformismi. Ci ho dato metà della mia vita. Non posso essere contro». Renzi in ogni caso vuole andare avanti a tappe forzate. Il Jobs act arriverà al Senato il 2 dicembre e l’obiettivo è di approvarlo prima del 12 dicembre, data dello sciopero generale convocato da Cgil e Uil. A discuterne nell’aula di Palazzo Madama ci sarà anche il democratico Walter Tocci che aveva presentato le dimissioni dopo avere votato quel testo — senza condividerlo — ad ottobre. Il Senato ieri, a larghissima maggioranza, ha respinto le sue dimissioni. Del 27/11/2014, pag. 4 E la sinistra interna prepara la rivincita al Senato: senza di noi il governo non ha i voti TOMMASO CIRIACO GOFFREDO DE MARCHIS 27 IL RETROSCENA Allontanare la scissione, contare molto di più nel Pd approfittando di un Renzi che non sembra invincibile come due mesi fa. «Quelli che l’altro ieri sono usciti dall’aula durante il voto sul Jobs Act formano un gruppo molto più grande dell’Ncd », avverte Stefano Fassina. «Non ci faremo sentire soltanto sul lavoro, ma anche sulle riforme costituzionali ed elettorale. E sulla scelta del nuovo presidente della Repubblica». Ecco la vera partita, il Quirinale, anche dentro al Partito democratico. Per questo l’obiettivo è far ballare il governo al Senato sull’articolo 18 così come è avvenuto a Montecitorio. Con numeri della maggioranza che a Palazzo Madama sono in bilico fin dalla partenza dell’esecutivo Renzi. Diventare la seconda gamba del governo è l’obiettivo della minoranza, seppure divisa e senza un leader riconosciuto. Costringere il premier a trattare con l’opposizione interna punto su punto. E non abbandonare il partito, ovviamente, come invece ipotizzano Rosy Bindi e Pippo Civati. I civatiani del Senato si comporteranno come il loro leader alla Camera. E sono 4 voti a sfavore della riforma del lavoro, anche nel caso di una votazione di fiducia. Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti, Felice Casson e Walter Tocci sono in trincea. «La fiducia sarebbe una vergogna nazionale. Se Matteo la mette faccio un casino pazzesco», annuncia l’ex direttore Rai. Tocci ha visto le sue dimissioni respinte proprio ieri e si sente aneviterebbe cora più libero di manifestare il proprio dissenso. «Questo Jobs Act non lo avrebbe scritto neanche la Fornero», dice Ricchiuti. Questo tipo di opposizione è già stato digerito dal governo in occasione dell’abolizione del Senato elettivo. Ma la maggioranza continua a viaggiare sul crinale di 7 voti di scarto tra la vita e la caduta dell’esecutivo quindi a Palazzo Chigi i movimenti sono continuamente monitorati. I tempi sono strettissimi. Il Jobs Act arriva a Palazzo Madama martedì, mercoledì e giovedì si vota. La fiducia non è decisa ma nessuno si sente di escluderla. Un voto sul governo altre plateali spaccature perché il grosso dei dissidenti non dirà no a Renzi. Se invece il dibattito sarà aperto i dissensi si manifesteranno più chiaramente. Magari con la stessa modalità di Montecitorio ossia l’uscita dall’aula. Federico Fornaro, bersaniano, sta già preparando un documento critico e conta di ottenere le firme di 25 senatori. «Non è accettabile il doppio binario per cui allo stesso banco di lavoro sederanno un dipendente con l’articolo 18 e uno senza», dice. Se davvero i parlamentari contrari alla linea saranno 25 ovvero uno su quattro dentro il gruppo Pd, si rafforzerà la minaccia di Fassina. «Sono tutti i voti che sommati a quelli della Camera peseranno nella successione a Giorgio Napolitano», pronostica Massimo Mucchetti. Una battaglia del genere, per avere un minimo respiro, va condotta sotto le insegne del Pd. «Bersani lo ha detto chiaramente — dice Alfredo D’Attorre —. La parola scissione dobbiamo cancellarla dal vocabolario. E noi vogliamo correggere oltre alle scelte di Renzi anche le oscillazioni di Bindi e Civati». Fondamentale diventa una sostanziale unità della minoranza dem. Obiettivo ancora lontano. «Non vogliamo alzare alcun muro — dice Fassina —. Tutti insieme vogliamo cambiare la strada intrapresa da Renzi. Non funziona sia politicamente sia economicamente. Lo dicono i lavoratori, le piazze che non sono fatte da funzionari della Cgil in gita». I fronti aperti sono tanti. «Sulla legge elettorale non accetteremo più come risposta Berlusconi non è d’accordo», avverte D’Attorre. E i rapporti di forza, continua Fassina, «sono cambiati. Abbiamo riconosciuto il grande lavoro fatto da Speranza e Damiano. Si può fare di più. Stando dentro il Pd». Manca un leader, è vero, lo ammette anche D’Attorre. «Uscirà fuori». Magari proprio al momento chiave, il voto per l’elezione del presidente della Repubblica, la madre di tutte le battaglie. 28 del 27/11/14, pag. 4 «Mai gregari di qualche Matteo» Fitto accusa e Berlusconi frena Tensione su Salvini (e Renzi). Il Cavaliere si difende: lui solo uno dei potenziali leader L’ex premier giustifica il Nazareno: ringrazio Verdini, altrimenti saremmo irrilevanti ROMA L’ultima volta che si era permesso di contestare punto su punto la linea del partito, le scelte, le nomine, Silvio Berlusconi gli aveva puntato il dito contro, minacciandolo: «Io ti caccio!». Ieri, indebolito da un voto drammatico che ha mandato nel panico l’intero partito, reduce da dichiarazioni su leadership, allenatori, registi e centravanti (Salvini, il prescelto) che non sono piaciute per niente agli azzurri, il Cavaliere ha preferito ascoltare la durissima requisitoria di Raffaele Fitto in Ufficio di presidenza in silenzio. Sulla difensiva, ha fatto una mezza marcia indietro: «Mai detto che Salvini sarà il nostro candidato, ma solo che in questo momento è un goleador, non l’unico. Non date retta ai giornali, li leggono in 30 mila...». Infine, ha cercato di sedare il ribelle: «Perché non ci vediamo domani a pranzo? Vieni a trovarmi». Nonostante la rabbia, nonostante non abbia sostanzialmente concesso nulla di concreto al suo sfidante, non può permettersi Berlusconi la deflagrazione del partito, nè di allontanare Fitto e i suoi, pena la perdita di mezza FI o giù di lì. Vorrebbe che le critiche rimanessero nel chiuso delle stanze: «Non fate polemiche pubbliche, ci fanno solo perdere voti!», ha pregato i suoi prima che lo sfogatoio avesse inizio. Tutto inutile. Fitto non ha alcuna intenzione, né interesse, a tenere la sua battaglia lontana dai riflettori. Anzi, rilancia: oggi (dopo il probabile incontro col Cavaliere a pranzo) al Tempio di Adriano terrà un convegno con ospiti di alto livello in rappresentanza delle categorie produttive e con la partecipazione prevista di truppe nutrite di sostenitori. Ufficialmente, si parlerà di legge di Stabilità, in pratica sarà un mostrare i muscoli per dimostrare il peso reale e la potenza di fuoco della sua componente nel partito. Forte di questo, Fitto ieri ha usato toni duri alla riunione azzurra, che proseguirà la prossima settimana per esplicito volere di un Berlusconi che ha definito «molto utile e interessante» la discussione, come tutti i suoi fedelissimi impegnati a spegnere l’incendio. Fitto non ha chiesto davanti a Berlusconi che anche lui si sottoponga «a primarie doverose», come aveva fatto in mattinata, né ha esplicitamente preteso «l’azzeramento di tutte le cariche», come invece ha fatto uscendo da palazzo Grazioli davanti alle telecamere. Ma, politicamente, il suo è stato un discorso senza sconti: «La sconfitta alle Regionali è stata enorme. Non possiamo essere gregari di nessun Matteo, non vogliamo né Forza Renzi né Forza Salvini. Se vuoi chiudere il partito, ce lo devi dire. Qui c’è una classe dirigente che viene costantemente umiliata da te Presidente, ed è gravissimo. Se c’è qualcuno più bravo io mi faccio da parte, nessun problema. Ma quando tu indichi come centravanti Salvini, e non un esponente del tuo partito, l’effetto è devastante. C’è un grave problema di organizzazione e di gestione in Forza Italia, le cose devono cambiare. Serve un vero choc, non scorciatoie inutili». Più morbido semmai Fitto è stato sul Patto del Nazareno, che non è un male in sé ma nel quale «dobbiamo farci valere, non possiamo accettare tutto quello che ci viene imposto». E d’altronde su questo punto cruciale Berlusconi era stato chiaro in apertura, difendendo l’accordo e il suo «ideatore», Denis Verdini, senza il quale «saremmo irrilevanti». Perché, ha proseguito, non solo le riforme servono, ma serve avere peso nell’elezione del capo dello Stato che avverrà a breve se è vero che «Napolitano, ci risulta, si dimetterà il 20 29 gennaio». Queste sono le cose che contano oggi per il Cavaliere, che dopo gli interventi di mezzo partito si becca pure il rimbrotto di Capezzone: «Attenzione: i partiti possono anche sparire», e per salvarli non va che «in televisione a parlare si presentino sempre gli stessi...». «Non c’entro niente io con questo, non sono io a decidere sulle mie tivù» alza le mani, remissivo, Berlusconi. Paola Di Caro Del 27/11/2014, pag. 4 E dietro l’angolo del Carroccio ora c’è l’oro di Mosca I RAPPORTI TRA I PADANI E I COMPAGNI RUSSI SONO CRESCIUTI IL LEADER LOMBARDO: “SE ARRIVASSERO SOLDI LI ACCETTEREI” Di Leonardo Cohen Quando undici mesi fa Matteo Salvini venne eletto per alzata di mano segretario della Lega al congresso federale del Carroccio che si era riunito in quel del Lingotto, a Torino, tra gli “amici” osannanti delle destre europee più anti-Ue (fiamminghi, francesi, austriaci, svedesi) c’erano anche Viktor Zubarev, parlamentare di Russia Unita – il partito di Putin che egemonizza la vita politica russa – e il quarantaduenne Alexej Komov, ambasciatore del Congresso Mondiale delle Famiglie all’Onu, noto esponente pro-life della società cristiana ortodossa, fiero avversario del movimento gay. La loro presenza era apparentemente formale, l’attestazione di stima nei confronti di Salvini. Il capo leghista, infatti, si era pubblicamente schierato dalla parte di Putin. Il presidente russo aveva tuonato contro l’asso - ciazione dell’Ucraina all’Ue, quella che lui chiamava un’in - debita ingerenza dell’Unione nella sfera d’influenza di Mosca. Un’azione “imperialista”, al soldo dell’euro, in combutta con gli Stati Uniti. Manna, per la Lega salviniana che aspirava a far parte dell’alleanza dei partiti identitari ferocemente schierati contro la moneta unica e alla ricerca di una nuova Europa, quella dei popoli. PUTIN ERA PIÙ di uno spettatore interessato: a lui premeva appoggiare concretamente chi poteva sabotare l’Ue, già in crisi. Un disegno nemmeno tanto occulto: strumentalizzando la questione delle minoranze, si poteva rimettere in discussione lo stesso equilibrio territoriale dell’Est europeo. In Ucraina, infatti, la violenta protesta popolare contro il regime corrotto del presidente Viktor Yanukovich, in quella metà di dicembre del 2013 di lì a poche settimane sarebbe sfociata nella sua fuga. In Occidente pochissimi immaginavano che la Crimea sarebbe stata inglobata da Mosca, che l’Est dell’Ucraina si sarebbe ribellato a Kiev e che l’Unione europea, insieme agli Stati Uniti, avrebbe imposto sanzioni economiche pesantissime nei confronti della Russia. No, in quei giorni di tripudio salviniano, pareva che il vero interesse del nuovo segretario leghista fosse quello di rincorrere Beppe Grillo e annodare stretti rapporti con i rappresentanti delle destre europee razziste e xenofobe. Così, la presenza dei due russi passò in second’ordine. Invece, qualcosa i russi stavano progettando. Quale migliore cavallo di Troia, di una innocente associazione culturale? Nell’inverno 2013/2014 nasce LombardiaRussia. Presidente onorario è Komov. Presidente effettivo è il giornalista Gianluca Savoini, portavoce di Salvini. L’intento ufficiale dell’associazione è quello di “stringere i rapporti con la Russia”, nonché quello di dare una “corretta informazione” su 30 ciò che succede in Ucraina. Consultando il sito, emerge l’enfasi sulle “idee” putiniane, “le ammiriamo molto”, e senza tanti fronzoli lo stesso Savoini spiega che LombardiaRussia serve “per far capire agli italiani che far entrare l’Ucraina, questa Ucraina, in Europa è sbagliato e dannoso per tutti noi”. In un’intervista, Savoini aggiunge: “Noi facciamo controinformazione. La Russia di Putin viene descritta in un modo assurdo e fazioso dai mass media e dai governi occidentali”. Più o meno le parole che ha detto un paio di settimane fa Dmitri Kisilev, il direttore dell’agenzia MIA (ex Ria Novosti più Russia Today) foraggiata dal bilancio statale, nell’annunciare il lancio dello “SputnikNe - ws”, il nuovo strumento di propaganda russa all’estero. QUANTO ALLA LEGA, la collaborazione con i partiti euro-critici, a cominciare dal Front National di Marine Le Pen, si intensifica. Ma con quale carburante si scalda questo motore? Marina Le Pen ha dovuto confermare di avere ottenuto un prestito di ben 9 milioni di dalla First Czech Russian Bank, un piccolo istituto russo di proprietà dell’oligarca Roman Yakubovich Popov (amico del premier Dmitri Medvedev e di Putin), banca che prima era appartenuta alla StrojTransGaz, leader della produzione di gasdotti. La notizia ha messo in fibrillazione il mondo della politica italiana: vuoi vedere che dopo il Pci, anche la Lega attinge alle generose casse di Mosca? Salvini ha negato di avere avuto quattrini dalla Russia. Se arrivassero, perché no, li accetterei, ha detto. È stato di recente a Mosca, e in Crimea. Ha incontrato Putin (anche a Milano, in margine al Forum Euro-Asiatico). È noto che negli ultimi mesi, centinaia di piccoli imprenditori e commercianti del Nord Italia, danneggiati dalle sanzioni, hanno visto con molta simpatia le iniziative pro Russia di Salvini e della Lega. Nel 2013 l’Italia –so - prattutto il made in Italy della moda e dell’alimentare – ha esportato in Russia beni per 11 miliardi di Euro (nel 2003, erano 4). Quest’anno è prevista una sensibile flessione. La lobby dell’interscambio italo-russo punta su Lega. Nel frattempo, Lombardia Russia ha figliato Lombardia Crimea. NELL’ALLEANZA Europea dei partiti nazionali, Mosca ha stretto legami con numerosi parlamentari ultranazionalisti eletti a Strasburgo, al punto da diventare l’epicentro di una sorta di internazionale nera: miscelando, talvolta – come nel caso di Bela Kovacs, membro del partito neonazista ungherese Jobbik – spionaggio e finanziamenti, secondo l’accusa del procuratore generale di Budapest che ha chiesto di togliergli l’immunità parlamentare. Il politologo ungherese Peter Kreko ha pubblicato, lo scorso marzo, un saggio dal titolo abbastanza eloquente: The Russian Connection. In cui spiega come il Cremlino abbia replicato una strategia d’infiltrazione assai simile a quella che utilizzava l’Urss. Lo scopo è lo stesso: destabilizzare la scena politica europea: “I partiti di estremisti, tutti anti-Ue, saranno molto utili in questo scenario, per indebolire anche il legame con gli Usa”. La Lega potrebbe diventare l’efficace grimaldello italiano. Quanto ai soldi, i canali indiretti per “aiutare” gli amici sono tantissimi, e in questo i russi sono maestri: operano attraverso miriadi di società in Serbia, Ungheria, Cipro, Finlandia, Spagna, Svizzera, Francia e Inghilterra (a Londra abitano 500mila russi). Pure in Italia. Dove i russi comprano, acquisiscono e si installano nei consigli di amministrazione. Del 27/11/2014, pag. 9 “Grillo è stanco” Il movimento teme un passo indietro Nuovo attacco del blog a Pizzarotti. Il sindaco: cortigiani I parlamentari dissidenti pronti ad aderire alla Leopolda M5S 31 ANNALISA CUZZOCREA Beppe Grillo «è stanco stanco», «non ne può più», «la famiglia gli chiede di mollare», «non può fare tutto lui». Chi nell’ultimo mese ha parlato con il capo politico dei 5 stelle, lo ha visto tentato dalla resa: «Ha detto che dobbiamo camminare sulle nostre gambe, ma sa che non siamo ancora pronti». Allo stesso modo - su una linea parallela che corre ormai da tempo - gli attivisti, e parte dei parlamentari, sono stanchi del leader e di una linea dettata da uno staff senza volto. Così, dopo che il giorno prima - sul blog - Walter Rizzetto era stato sconfessato per essere andato a Omnibus, ieri i suoi colleghi deputati Tancredi Turco e Sebastiano Barbanti hanno sfidato il diktat, intervenendo ad Agorà. «Grillo deve rimanere il nostro megafono - ha detto Turco - ma è opportuno che venga affiancato da altri megafoni, ovvero da noi parlamentari». In più, sul blog, l’ennesimo attacco a Federico Pizzarotti - con la pubblicazione della lettera di un ambientalista che gli rimprovera la mancata chiusura dell’inceneritore di Parma - viene sommerso da una valanga di commenti che danno ragione al sindaco, e che attaccano lo staff. Continuando a chiedere, com’era stato ieri per il divieto tv: chi sceglie i post? Chi scrive le scomuniche? Metteteci la faccia. Due boomerang in due giorni. La guida della Casaleggio Associati appare meno sicura, e l’area critica del Movimento alza il tiro. La lettera pubblicata risale a un anno prima, il che dà modo al sindaco di Parma di considerarla «pretestuosa», perché arriva a meno di due settimane dall’incontro con gli amministratori di tutt’Italia che ha lanciato per il 7 dicembre. La lettera era di un anno fa - spiega il capogruppo M5S in città Marco Bosi - e dice cose non vere, anche perché la raccolta differenziata Parma l’ha portata al 70%, prima città di medie dimensioni a farlo, e così facendo sta “affamando” l’inceneritore. A sera, è lo stesso sindaco a replicare: «Mi dispiace Beppe, il problema dei tuoi invisibili ma ben noti cortigiani che utilizzano un blog ormai ombra di se stesso è che pontificano sul lavoro degli altri senza conoscere l’argomento, e senza sporcarsi le mani come fa un sindaco, un consigliere, un parlamentare. Non c’è proprio tempo per seguire i soliti, e ormai prevedibili, attacchi sul blog, c’è un Paese là fuori che ha bisogno del Movimento. Vieni a Parma invece, sei invitato il 7 dicembre». Per tutta risposta, le adesioni crescono. L’evento è stato intitolato “Il Movimento incontra il Movimento”, uno dei temi è come fare politica in maggioranza, hanno già annunciato la loro presenza oltre 160 amministratori da tutt’Italia, e alcuni parlamentari come Giulia Sarti, Mara Mucci, Massimo Artini. «Se resta un evento tra amministratori non accadrà niente, se invece c’è del dolo, se si vuole trasformarlo in una riunione contro la linea, le cose cambiano », racconta chi è riuscito a parlare con Grillo. «Quelli come Pizzarotti, dentro, sono ancora del Pd. Non lo sanno, ma è così», dice sorridendo Roberto Fico. Il presidente della Commissione di Vigilanza Rai invita tutti alla cautela, a ragionare, a non credere a ricette facili come il ritorno in tv. È consapevole che molti attivisti lo chiedono da mesi («andate a dire quello che facciamo, il web non basta»), ma spiega: «Lo abbiamo già fatto, ed è stato allora che, in qualche modo, siamo stati incoerenti con la nostra storia. La televisione può essere l’ultimo tassello di una strategia». Usa la stessa identica espressione usata il giorno prima da Luigi Di Maio con chi gli andava a chiedere: che si fa? I due si sono parlati a lungo: per ora, con l’ala critica, non si va allo scontro. «Non andiamo dietro a chi vuole strumentalizzare questo momento - dice un altro fedelissimo, il vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali Danilo Toninelli - siamo la maggioranza e non diamo loro importanza. Voliamo alto per il bene del Movimento ». 32 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 27/11/14, pag. 9 Lotta alla tratta, le associazioni temono un taglio dei fondi Liana Vita ROMA Migranti. Già dimezzati nel 2014 i finanziamenti destinati ogni anno al recupero delle vittime del traffico di esseri umani Sono centinaia le lavoratrici agricole provenienti dalla Romania che vivono nelle campagne della provincia di Ragusa, in condizioni di sfruttamento e vulnerabilità tali da poter essere definite di schiavitù. Molte di loro arrivano con i propri figli e vengono sistemate in abitazioni fatiscenti e isolate, senza alcun contatto con la popolazione locale, costrette a lavorare nelle serre in nero, sottopagate e dipendenti dai datori di lavoro per qualsiasi necessità, persino per avere acqua potabile e cibo. E in molti casi sono vittime di violenze e abusi sessuali. L’unica possibilità per queste donne di affrancarsi è stata, in questi mesi, l’attività della cooperativa Proxima che è riuscita a inserirne alcune nella rete nazionale antitratta, assicurando loro protezione e una sistemazione sicura. Questo intervento è uno dei tanti che rientrano all’interno del sistema nazionale antitratta, una realtà positiva nel nostro paese, cui hanno dato vita in questi anni associazioni, comuni, province, coordinata e cofinanziata dal Dipartimento pari opportunità della presidenza del consiglio. Una realtà che oggi è a rischio, se il governo non interverrà subito consolidandola e dotandola delle risorse finanziarie necessarie, come chiesto ripetutamente dagli oltre cinquanta tra organizzazioni ed enti, distribuiti su tutto il territorio italiano, che ne fanno parte. Dal 2000 a oggi, infatti, decine di migliaia di uomini e donne sono riuscite a liberarsi dallo sfruttamento sessuale e lavorativo e ad accedere ai programmi di protezione e assistenza per le vittime di tratta di esseri umani. È attivo un numero verde, 800290290, ventiquattrore al giorno, che raccoglie le segnalazioni, valuta i singoli casi e indirizza le vittime ai servizi esistenti sul territorio. Partono a questo punto due possibili percorsi di protezione. Una prima assistenza, nell’ambito dei programmi definiti ex art. 13 della L. 228 del 2003, che consente in tempi brevi di ottenere adeguate condizioni di alloggio, di vitto, di assistenza sanitaria e legale per un minimo di tre mesi. E un programma di protezione e integrazione sociale, previsto dal testo unico sull’immigrazione (ex art. 18), all’interno del quale vengono elaborati percorsi individuali a lungo termine, con il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari. Nel 2014 è stato emanato il decreto legislativo n. 24 per recepire la direttiva 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, un passo importante nella sistematizzazione degli interventi antitratta. Il decreto prevedeva, entro il 28 giugno 2014, l’adozione del «Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani» e di altri provvedimenti tra cui quello relativo ai meccanismi di determinazione dell’età dei minori stranieri non accompagnati vittime di tratta e il nuovo programma unico di emersione, assistenza e integrazione in favore di stranieri (compresi i cittadini UE) vittime di tratta e riduzione in schiavitù nonché di stranieri vittime di violenza o di grave sfruttamento che corrano concreti pericoli per la loro incolumità. Un Piano nazionale, da finanziarie in modo adeguato e strutturando i finanziamenti su una programmazione almeno triennale, per 33 garantire la continuità dei servizi. Finora, infatti, i fondi dedicati al sistema antitratta hanno visto una notevole contrazione: per il 2014 sono stati stanziati 3.800.000 euro rispetto ai 7.000.000 del 2013. Giovanna Martelli, nominata consigliera del presidente del consiglio per le Pari opportunità, il 21 ottobre scorso ha annunciato l’impegno del governo a rafforzare e consolidare il finanziamento sul sistema antitratta e l’ha fatto proprio dopo aver visitato le campagne di Ragusa. Le associazioni e gli enti della rete antitratta aspettano questo passo. Soprattutto lo aspettano le tante vittime che vivono nel nostro paese, dalle donne rumene segregate alle nigeriane schiave della criminalità organizzata, che arrivano dalla Libia, dopo aver attraversato il deserto e aver contratto un debito che anni di violenza e di strada non riusciranno a sciogliere. Del 27/11/2014, pag. III RM Spending review per i migranti Bando al ribasso e tagli ai servizi Al Cie di Ponte Galeria ridotte pulizia e catering il costo pro capite passa da 40,9 a 28,8 al giorno MAURO FAVALE UN PRESIDIO infermieristico anziché un medico h24, una riduzione dell’assistenza psicologica, un contributo economico per gli “ospiti” di 2,5 euro al giorno anziché di 3,5. E poi risparmi sul catering e sui servizi di pulizia. Nel mirino della spending review finisce il Cie, il centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria dove a partire da metà dicembre, il costo pro capite per ogni immigrato che viene rinchiuso lì passerà da 40,9 euro al giorno di oggi a 28,8. È questo l’effetto di una gara d’appalto bandita più di un anno fa dalla Prefettura di Roma che ha premiato, sul criterio del massimo ribasso con base d’asta 30 euro, un raggruppamento temporaneo di imprese formato dal- la francese Gepsa e dall’associazione culturale siciliana Acuarinto. A partire dal 15 dicembre subentreranno alla Auxilium (classificatasi seconda nella gara) nella gestione di uno dei 5 Cie rimasti in Italia, quello di Ponte Galeria che nell’ultimo anno ha ospitato in media 120 immigrati al giorno in attesa di identificazione ed espulsione. A meno di un mese dal passaggio di testimone c’è preoccupazione da parte di Cgil, Cisl e Uil che temono per le sorti di 67 lavoratori presenti attualmente nella struttura e che potrebbero essere sostituiti dal personale della Gepsa. I tre sindacati hanno già scritto al prefetto Giuseppe Pecoraro affinché favorisca un incontro tra i lavoratori e la nuova società, di proprietà del colosso multinazionale Gdf Suez. In Francia gestisce già 13 carceri e in Italia ha vinto in primavera il bando per la riapertura del Cie di via Corelli a Milano. Qui a Roma, fino a pochi mesi fa, si occupava del Cara, il centro per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto. Una gestione finita sotto la lente proprio della Prefettura che a fine settembre ha inviato a Gepsa e alla Acuarinto quattro dettagliate pagine di rilievi espressi dopo un sopralluogo nel centro. Si va da un’ambulanza mai acquistata «contrariamente al capitolato d’appalto» al «numero dei pasti preparati ed erogati inferiori al numero di ospiti». E ancora, scrive il prefetto Pecoraro che firma le 4 pagine: «Non vi è corrispondenza tra le 11 mila ore del servizio di pulizia previste dall’offerta tecnica e quelle che si risultano dal calcolo delle ore effettivamente lavorate dal personale concretamente impiegato ». Inoltre viene contestato il subappalto per la somministrazione dei pasti (non per la preparazione, invece) che secondo il contratto spettava direttamente alla Gepsa. Rilievi, però, che non hanno 34 impedito al raggruppamento temporaneo di imprese di vincere l’appalto e avvicendarsi con Auxilium. Quest’ultima società, infatti, dal Cie è passata ora a gestire proprio il Cara di Castelnuovo di Porto. La gara della Prefettura con base d’asta 30 euro I vincitori già criticati per la gestione del Cara. del 27/11/14, pag. 9 Europa e Africa, accordo sui migranti Carlo Lania ROMA Processo di Khartoum. Campi per i profughi in Africa gestiti da Unhcr e Oim. Ma c’è chi teme la nascita di nuovi ghetti Le speranze sono molte, almeno quante sono le preoccupazioni che da diverse settimane circondano l’iniziativa. Dopo Triton, la missione europea che ha il compito di controllare le frontiere marittime del continente, l’Unione europea si prepara ora a lanciare un nuovo piano — battezzato Processo di Khartoum — destinato a contrastare il traffico di esseri umani ma anche al controllo dei flussi migratori provenienti dal Corno d’Africa. Un progetto messo a punto nei mesi scorso in accordo con l’Unione africana e che verrà presentato domani al termine della IV Conferenza ministeriale euro-africana su migrazioni e sviluppo in corso a Roma. Per l’occasione sono presenti i ministri degli Esteri e degli Interni dei 28 Paesi membri dell’Unione, più quelli di Eritrea, Egitto, Etiopia, Gibuti, Kenya, Libia, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Tunisia, ovvero i paesi da cui parte o in cui transita la maggior parte dei migranti che — attraversano viaggi estremamente pericoli che spesso durano molti mesi — cercano di arrivare in Europa. L’iniziativa prende avvio a pochi giorni di distanza dallo stop imposto dal governo italiano all’operazione Mare nostrum che in un anno ha salvato 160 mila migranti, e proprio come Triton punta sì al contrasto dei trafficanti di uomini, ma anche a una riduzione degli arrivi lungo le nostre coste. I dubbi sulla nuova operazione nascono proprio sui metodi scelti per raggiungere questi due obiettivi. Anche se finora non c’è nulla di ufficiale al centro del Processo di Khartoum c’è la realizzazione di campi profughi nei Paesi che si trovano a Sud della Libia, in particolare Etiopia, Sudan, Sud Sudan e Niger, attraversati oggi con mille pericoli dai migranti prima di arrivare nel Paese nordafricano dove poi si imbarcano diretti verso le coste italiane. I campi dovrebbe essere gestiti dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), e dovrebbero offrire un rifugio protetto ai migranti consentendo anche di stabilire quanti di loro hanno diritto alla protezione internazionale. Da parte sua l’Europa si impegna ad accogliere, dividendoli nei vari Paesi membri, i rifugiati la cui richiesta di asilo è stata accolta. «In questo modo — spiegano al Viminale — riusciamo a togliere i profughi dalle mani dei trafficanti, dal momento che non dovrebbero più affidarsi a loro per attraversare il Mediterraneo». Del Processo di Khartoum si è parlato ieri a Bruxelles nella sede del nuovo commissario europeo per l’immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, mentre a dicembre a Ginevra si terrà la conferenza dei Paesi dell’Ue per stabilire le quote di accoglienza e i finanziamenti da destinare all’operazione. Soldi che dovranno servire anche per l’addestramento delle varie polizie di frontiera africane e per avviare campagne di informazione nei Paesi di origine dei migranti. Probabile, come già avviene in alcuni Paesi 35 africani, che l’obiettivo sia quello di dissuadere quanti fuggono dall’intraprendere il viaggio, ponendo l’accento sui rischi che questo comporta. Fin qui il progetto, che però al di là delle buone intenzioni non è privo di zone grigie. A partire dalla scelta fatta dall’Europa, e in particolare dall’Italia, di avviare rapporti di collaborazione con dittature come quelle presenti in Sudan e Eritrea. Come spiega don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia che da anni denuncia le violenze del regime di Asmara. «Che garanzie offrono questi paesi perché l’Italia possa dialogare con loro?», chiede il sacerdote. «L’Onu ha avviato una commissione d’inchiesta proprio per accertare le violazione dei diritti umani in Eritrea, e adesso l’Italia legittima quel paese che è privo perfino di una Costituzione». Dubbi che si estendono anche alla realizzazione dei campi, che secondo don Zerai l’Europa potrebbe usare per raccogliere i migranti lasciandoli poi lì. «Campi così esistono già nel nord dell’Etiopia, dove sono stipati 80 mila profughi, e in Sudan dove migliaia e migliaia di persone aspettano mesi e mesi che qualcuno esamini le loro domande di asilo». C’è poi, e non è certo secondario, il problema su chi garantisce la sicurezza dei campi. L’idea sarebbe di affidarla alla polizia dei locale che però, come ricorda don Zerai, è spesso corrotta e collusa con i trafficanti. «La mia paura — conclude il sacerdote — è che in realtà l’Europa voglia aprire quest campi per trattenere i profughi, impedendogli così di arrivare fino a noi». 36 SOCIETA’ del 27/11/14, pag. 19 Dai peperoni alla cannabis La svolta illegale nei campi Complice la crisi, sempre più agricoltori si danno al business delle droghe Massimo Numa Racket addio. Non servi più. I coltivatori italiani di cannabis producono lo stupefacente in aziende agricole o in serre costruite in ogni dove, capannoni, magazzini, scantinati. La produzione fai-da-te di hashish e marijuana, almeno in Piemonte, sta aumentando in modo esponenziale. Poi viene venduta, senza alcun tipo di passaggio, al consumatore, divisa in dosi o in quantitativi più importanti. Via Internet. I carabinieri del comando provinciale di Torino hanno individuato nel web decine di «app» dove è possibile acquistare la droga. Da aprile a novembre hanno sequestrato 27 serre clandestine, dotate anche di attrezzature sofisticate, come se la cannabis fosse ormai una pianta-ortaggio qualsiasi. Tra gli arrestati o i denunciati ci sono agricoltori di professione, disc-jockey, assicuratori, commercianti, universitari, attivisti dei centri sociali. Età dai 20 ai 60 anni. Incensurati e, salvo le solite eccezioni, con profili personali lontanissimi dai vecchi cliché, cioè l’hippie o l’alternativo che getta disordinatamente in un vaso i semi comprati nei coffee shop di Amsterdam e dintorni. Gli italiani, quando si impegnano, lavorano al top e la cannabis coltivata seguendo tutte le prescrizioni tecniche è di qualità elevata, con una resa e un principio attivo molto alto. I più organizzati hanno creato una linea di produzione che va dalla coltivazione, all’essicazione, al taglio e al confezionamento delle dosi, in vari format. Qualcuno, certo dell’impunità, «firma» il prodotto con un logo particolare, per non perdere l’effetto identitario, un marchio Doc, per fidelizzare ulteriormente il consumatore. Raramente si trasformano in pusher. Ma un agricoltore di origine valdostana, fermato dai carabinieri, aveva lasciato la sua serra nei dintorni di Torino per vendere «2,17 grammi» di marijuana a una studentessa di 19 anni. In casa aveva un piccolo negozio di vendita al minuto, con dosi già graziosamente confezionate. «Nel corso delle indagini - spiegano gli investigatori dell’Arma - abbiamo constatato che, quasi sempre, la droga viene distribuita da una rete scollegata dal racket, che invece continua ad importare lo stesso tipo di stupefacente dai Paesi tradizionalmente produttori». Ma quanti agricoltori vanno convertendo le loro coltivazioni verso l’area illegale? «Tanti. Le operazioni in corso sono solo la punta di un iceberg. La crisi ha investito anche le campagne, molti terreni sono incolti, le cascine abbandonate. Coltivare la cannabis costa relativamente poco e i profitti sono elevati, diciamo che, investendo 100 euro se ne ricavano 500. Il mercato on-line, se il prodotto è buono, è pronto a pagare e anche bene, con ampi margini di discrezionalità e sicurezza». In questo test limitato solo a Torino e provincia, piantagioni di piccole, medie e grandi dimensioni sono state scoperte dai carabinieri a Settimo Torinese, Casalborgone, Montanaro, Pianezza, Sant’Ambrogio, Grugliasco, Reano, Giaveno, Rivarolo, San Giorgio Canavese, Alice Superiore, Orbassano, Venaria e Torino. Paesi una volta noti per i pomodori, peperoni o per qualche ortaggio particolare e unico. A Nichelino la Narcotici della polizia aveva arrestato, a settembre, tre fratelli agricoltori incensurati che avevano trasformato la loro cascina in un centro-modello della cannabis. 37 CULTURA E SCUOLA Del 27/11/2014, pag. 1-14 L’Europa boccia l’Italia “Basta precari nelle scuole dopo tre anni vanno assunti” La Corte di giustizia: “No al rinnovo illimitato dei contratti” I sindacati: ricorsi per 250mila, effetti sul resto del pubblico impiego Con puntualità lussemburghese, le 9.33 di ieri mattina, il presidente sloveno della Corte di Giustizia europea, Marko Ilesic, dà lettura dell’attesa sentenza sui precari italiani della scuola. In tre pagine scritte nella nostra lingua, la sentenza dice: i contratti a tempo determinato per gli insegnanti italiani chiamati a sostituire docenti di cattedra violano le direttive europee. Poi, i precari che hanno superato i trentasei mesi di insegnamento a scuola e che sono stati chiamati in ruolo ma solo a tempo determinato devono essere assunti oppure risarciti. L’Italia, infine, deve dare un’alternativa certa alle graduatorie, ovvero fare i concorsi pubblici. È una sentenza attesa, ma da noi deflagra in tutta la sua potenza. Secondo i calcoli dell’Anief, un piccolo sindacato palermitano che ha iniziato per primo questa battaglia nel 2010, sono 250-270 mila gli insegnanti precari saliti in cattedra per almeno 36 mesi negli ultimi undici anni. Lo dicono le graduatorie storiche del Miur e i dati Inps. Se i “precari + 36” si rivolgeranno a un tribunale del lavoro italiano, con in mano la nuova sentenza europea, la strada della loro assunzione diventerà certa. Il dispositivo lussemburghese, che interessa anche amministrativi e bidelli (Ata), prevede indennizzi per gli scatti d’anzianità fin qui non riconosciuti, dal 2002 al 2012. Sono due miliardi di euro, secondo i calcoli sindacali. L’avvocato dell’Anief Walter Miceli, che cura il ricorso dal 2012, quando la Cassazione lo fermò e un Tribunale del lavoro di Napoli chiese successivamente lumi alla Corte europea, allarga la platea dei possibili lavoratori sanabili: «Questa sentenza può essere applicata a tutto il pubblico impiego, apriremo vertenze per la formazione musicale, nella Sanità, nelle Regioni, nei Comuni. È una sentenza storica». Così la Cgil scuola con il segretario Domenico Pantaleo: «Farà da apripista per centinaia di migliaia di precari che da anni coprono posti vacanti facendo funzionare tutte le pubbliche amministrazioni». La Gilda: «Se il ministro riduce tutto a 18 mila aventi diritto non ha capito la portata della sentenza. A dicembre, visto il volume delle iniziative giudiziarie, comprenderà». Del 27/11/2014, pag. 52 Lanciato dalla tv on demand di Telecom Italia, parte la seconda edizione del contest online per aspiranti registi di tutte le età Tecnologia e creatività unite per sviluppare il mercato del futuro e far emergere una nuova generazione di film-maker Ciak si gira In digitale JAIME D’ALESSANDRO L’anello mancante o la quadratura del cerchio, a voi la scelta. Al mondo vulcanico dei video online, serie web in primis, serve ancora un tassello. Negli ultimi tre anni è cresciuto 38 in maniera esponenziale, si è evoluto, ha raggiunto la popolarità. Ma non è una vera industria. Che la tecnologia aiuti a confezionare buoni prodotti a costi relativamente bassi è un fatto, che non ci si sbarchi il lunario è un’altra realtà assodata. Almeno fino ad oggi. La buona notizia? Le cose potrebbero cambiare presto. Anzi, forse mai come ora sul campo ci sono tutte le condizioni necessarie per fare il salto di qualità. A patto di avere un po’ di mestiere, la giusta tecnica e di cominciare da un’idea che abbia un senso, soprattutto dal punto di vista produttivo. «Sperimentazioni. Èquesto quel che il web ha permesso e permette oggi», raccontano i The Jackal, gruppo partenopeo conosciuto per Lost in Google e diventato famoso con Gli effetti di Gomorra sulla gente , tre puntate dedicate alla serie tv di Sky con ospiti di eccezione fra i quali lo scrittore Roberto Saviano. Un successo fatto da poco meno di nove milioni di persone che hanno visto e condiviso la serie e ora sono in attesa della quarta puntata che il gruppo sta prepa- rando. «All’inizio basta una buona reflex per riprendere, un computer per montare e una discreta dose di creatività», continuano. «Con Lost in Google ad esempio la trama cambiava secondo le indicazioni del pubblico. Ma è stato faticoso. Se veniva chiesta una scena con una sparatoria, bisognava trovare la location giusta e coinvolgere altri attori. Non era prevedibile quale piega avrebbero preso gli eventi e quindi individuare dei finanziamenti attraverso il “product placement”. Ma la sfida è proprio quella: coniugare sperimentazione e investimenti. Altrimenti bisogna limitarsi a due attori, con campo e controcampo come in Gli effetti di Gomorra sulla gente , sapendo però che per quante siano le visualizzazioni non si diventerà certo ricchi. Noi ad esempio, per far quadrare i conti, facciamo video aziendali e virali». Il problema è che Google, con il You-Tube Online Partnerships, divide con gli youtubers più costanti una piccola fetta degli introiti pubblicitari. E per fare soldi veri bisognerebbe avere un bacino di utenti enorme che un Paese come l’Italia non può offrire. E allora non resta che puntare le fiches su diversi tavoli, mandando il proprio lavoro anche a concorsi e festival. Questo mese ad esempio si possono inviare al TimVision Awards. Verranno votati sul web e fra quelli che otterranno più consensi verranno scelti i vincitori dalla giuria composta, fra gli altri, da Carlo Verdone, Paola Cortellesi, Pif e presieduta da Gabriele Salvatores. In palio ci sono stage sul set di film importanti, ma soprattutto la possibilità di farsi notare. «I conti per ora non tornano», conferma Francesca Cima che, oltre ad essere il presidente della Sezione produttori dell’Anica, con la Indigo Film ha vinto un oscar con La grande bellezza di Paolo Sorrentino e prodotto con Rcs e Rai Fiction la serie web Una mamma imperfetta, scritta e diretta da Ivan Cotroneo. «Il fenomeno è importante, anzi è una mano santa», prosegue. «Equivale a quel che un tempo veniva chiamato “sviluppo e innovazione”. Non a caso i The Jackal o La buoncostume, quelli di Il candidato, sono dei gruppi, delle factory creative. Però dal punto di vista meramente economico bisogna fare ancora molta strada. Attualmente si realizzano video e serie a costo basso che, quando vengono acquistate, sono pagate pochissimo. Se non c’è una vera valorizzazione, come avviene altrove grazie alla scesa in campo di Google, Netflix, Amazon, non c’è speranza di farne un sistema economico. Ma sono convinta che sia questo il momento giusto: le aziende hanno bisogno di comunicare in maniera diversa, più efficace, e i video sul web sono il mezzo giusto. Basta mettere assieme i pezzi. Del resto House of Cards cos’è se non una gigantesca operazione di marketing, grazie alla quale Netflix ha costruito la sua nuova immagine senza nemmeno dover mostrare il suo marchio ». Servirebbe però un progetto editoriale da parte delle aziende, una visione di insieme, che invece latita. E dall’altra parte, la parte di chi si lancia nel mondo dei video, l’intelligenza di pensare fin dall’inizio un progetto che possa essere finanziato senza sacrificare troppo in termini di creatività o indipendenza. In una sorta di Carosello 2.0 che unisca tutti questi aspetti. Non è un caso che l’ultimo Roma Web Fest, il festival più importante dedicato alle 39 produzioni per la rete curato da Janet De Nardis, abbia premiato quest’anno un progetto come Milano Underground , quattro puntate girate nella metropolitana della città lombarda. L’autore, il trentacinquenne Giovanni Esposito, ha una formazione ibrida fra studi di marketing e di cinematografia, e diverse esperienze fatte in tv. «Quella del carosello di nuova generazione, o “branded content” che dir si voglia, è la strada più probabile», spiega. «Marchi che finanziano una serie perché ne condividono la filosofia e non certo o non solo per piazzare il loro prodotto in primo piano. Ma l’intelligenza sta anche nello scegliere la giusta ambientazione per ottenere il massimo risultato spendendo il meno possibile. La metropolitana è un set perfetto: non hai bisogno di luci né devi costruire scenografie. In seguito bisogna pensare a far sviluppare la serie sul lungo periodo, impossibile altrimenti attrarre investimenti, diversificandola per la tv tradizionale o il cinema». Insomma, una strada tutta in salita, ma pur sempre una strada. Non è poco di questi tempi e in fondo non è poco nemmeno rispetto al passato quando al talento, nei canali tradizionali della televisione italiana, raramente veniva data una chance. Del 27/11/2014, pag. 15 L’autunno nero dei libri EDITORIA, IL 2014 SI CHIUDERÀ CON UN MENO 4%. ANCHE IL DIGITALE NON CRESCE COME PREVISTO Quando ne L’arte del romanzo Milan Kundera nota che si pubblicano libri con caratteri sempre più piccoli immagina la fine della letteratura. “A poco a poco, senza che nessuno se ne accorga, i caratteri rimpiccioliranno fino a diventare completamente invisibili”. È un paradosso, la letteratura non è morta (anche se non si sente molto bene, di sicuro) e comunque poi sono arrivati i supporti digitali con la possibilità di definire la grandezza dei caratteri. E non solo. Ormai da qualche anno l'ossessione del mercato del libro si chiama digitale. Eppure i dati dicono che in Italia cresce ma non troppo. Almeno, non come ci si aspettava: da gennaio a novembre 2014, secondo Nielsen (una delle maggiori società di ricerca), l’incremento del mercato degli e-book è stato del 40% (l’e-commerce invece +29%). E fin qui almeno si parla di segni positivi. Se ci spostiamo sul mercato tradizionale scopriamo che ottobre 2014, rispetto allo stesso mese del 2013, è stato nerissimo: -9,4 per cento a copie, -7,5 a valore (la differenza sta a significare che si vendono meno i libri economici). Nel complesso nei primi 10 mesi dell’anno, sempre Nielsen rileva che le copie totali scendono del 7%, il mercato a valore del 4,6%. E tutto questo rispetto a un 2013 che si era chiuso a -5% circa. “UN PERIODO difficile come questo l'Italia dal dopoguerra non l'aveva mai visto, e anno dopo anno il peso si sente”, commenta Massimo Turchetta, direttore generale Rcs libri. “Per Gfk (un'altra importante società di ricerca, ndr) però il progressivo a fine anno è un po' meno drammatico: -2,6%. Gli acquirenti di libri in Italia, i lettori forti, sono 5 milioni di persone: il 70% è rappresentato da donne tra 35 e i 55 anni che lavorano e hanno un titolo di studio medio-alto. Spesso sono insegnanti, o fanno mestieri che non implicano situazioni economiche brillanti: non è gente che ha i soldi in Svizzera, per capirci. Soffre la parte migliore del Paese, una specie di cui invece bisognerebbe prendersi cura. Sono sicuro però che ci sarà una ripresa a Natale: la stessa cosa era accaduta l'anno scorso, con un'estate incredibilmente positiva e con un brutto ottobre. Per generi, si salva la narrativa per ragazzi: l'unico segmento che cresce in tutto il mondo – dai libri senza parole 40 fino alla narrativa per giovani adulti – è quello. Tra l'altro i nativi digitali leggono di più e moltissimo su carta. Per noi il fenomeno più macroscopico è stato John Green, che ha venduto 750 mila copie”. Non un crollo, ma quasi? “Se dovessi dare un titolo a questo scenario sarebbe: il mercato del libro continua a calare, ma continua a non precipitare”, risponde Gianluca Foglia, direttore editoriale di Feltrinelli. “Moltissimi piccoli editori non ce la fanno più. E i principali gruppi hanno ridotto la quantità di titoli: il mercato si sta riassestando, cercando un nuovo equilibrio tra il numero di titoli, le tirature e le copie vendute. Che il mercato continui a calare è la prospettiva più credibile. Quest'anno poi è orfano di grandi best-seller: voglio dire che non c'è stato nessun titolo paragonabile alle Sfumature , a Saviano a Gramellini. I best-seller di questo tipo danno una falsa idea di tenuta mentre in realtà la crisi c’è. Tutti i consumi stanno diminuendo: per certi versi il 2014 è l'anno della verità, nel senso che dà la percezione di come stanno le cose davvero. IL DIGITALE non compensa questa ulteriore perdita di vendite, perché non sta crescendo come avevamo previsto che potesse crescere”. Si riflette su questo anche a Segrate, dove si è appena costituita la nuova newco che raggruppa tutte le case editrici. “Avevamo previsto una crescita del 110%”, spiega il direttore generale di Mondadori libri Riccardo Cavallero. “Guardiamo le cifre: nel 2011 valeva 3 milioni di fatturato, nel 2012 18 milioni, nel 2013 32 milioni, nel 2014 chiuderà a 40 milioni. È una frenata impressionate. Causata da una serie di circostanze: la prima, e riguarda gli editori, è non aver incrementato la digitalizzazione dei titoli. Oltre ai ragazzi, un segmento che va bene è la narrativa rosa. Cresce in generale e diventa un fenomeno sul digitale perché supera punte del 20 per cento rispetto al cartaceo. La decrescita, però, rallenta: nei prossimi due anni stimo un andamento del mercato sul -2/3%. Certo il 2014 chiuderà con un -4%, ma noi abbiamo una serie di titoli forti in uscita, quindi credo che oltre al Natale, anche solo per quanto pesa Mondadori sul mercato totale, ci sarà un miglioramento”. Stefano Mauri, presidente e ad del gruppo Gems è cauto, ma non pessimista: “Il mercato dei lettori che amano poter scegliere tra tutti i libri che l'editoria italiana offre (si è venduta almeno una copia di 485 mila titoli nei primi 11 mesi) quest'anno nel suo complesso tiene. La domanda si sposta in parte sui nuovi canali, sia l'ecommerce (+29%) che l'e-book (+40%) dove l'offerta comincia a essere ragguardevole. I titoli dei quali è disponibile la versione e-book coprono circa il 60% dei libri acquistati su carta ma c'è anche il vantaggio che sono sempre disponibili, mai esauriti. E qui va detto che il panorama dell'Europa continentale è più plurale di quello in lingua inglese: oltre a Kindle hanno un buon peso in Italia Kobo, Apple e adesso sbarca anche Tolino, il reader best- seller in Germania (dal terzo trimestre 2014 è leader di mercato). È a due cifre (-14%) la flessione delle vendite nei supermercati. Comunque Gems chiude l'anno in lieve crescita e con un eccellente risultato nel digitale”. 41 ECONOMIA E LAVORO del 27/11/14, pag. 2 Contro il governo la Cgil imbocca la «via giudiziaria» Massimo Franchi Jobs Act. Camusso annuncia: ricorso alla Corte europea su art.18, demansionamento e controlli a distanza. I giuristi di Corso Italia: «Sulle leggi del lavoro siamo alla guerriglia» Tempi lunghi per il giudizio sul decreto Poletti A chi la vorrebbe partito politico conclamato dalla regia dell’astensione in Emilia-Romagna, risponde con il ritorno alla “via giudiziaria”. Contro il governo e il suo Jobs act, la Cgil imbocca la strada che porta nei tribunali, nello specifico alla Corte di giustizia europea in Lussemburgo. I conti del voto di martedì – 33 dissenzienti sui 308 deputati Pd – hanno dimostrato come nessuna sponda politica sia in grado di fermare la corsa della riforma del lavoro. E allora – confermando vieppiù la ritrovata sintonia con la Fiom di Maurizio Landini, precursore della via giudiziaria fino alla vittoria in Corte Costituzionale sull’articolo 19 dello Statuto contro la Fiat di Marchionne e che già aveva anticipato l’idea dei ricorsi contro il Jobs act – ecco l’annuncio di Susanna Camusso. Corroborata dalla sentenza di ieri a favore dei precari della scuola, il segretario della Cgil lo dice chiaro e tondo: «Contro il Jobs act valuteremo tutte le strade, anche il ricorso all’Europa. La lettura degli articoli 30 e 31 della carta di Nizza dice che è possibile, ci penseremo, ci proveremo. Questi sono i casi in cui diciamo: meno male che l’Europa c’è». Leggiamoli allora assieme questi articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sottoscritta il 7 dicembre 2000 nella città francese. «Articolo 30 (Tutela in caso di licenziamento ingiustificato):Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali. Articolo 31(Condizioni di lavoro giuste ed eque) 1. Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose». Articoli che stridono con ciò che è previsto nel decreto delega al governo in fatto di contratto a tutele crescenti sostanzialmente senza articolo 18, demansionamento e controllo a distanza, specie nel riferimento alle «prassi nazionali». Naturalmente per presentare una denuncia la Cgil dovrà attendere la cosiddetta «attualità del danno» e dunque il testo della delega – in bianco – al governo e il deposito dei decreti delegati. «Vedremo come li scriveranno. Vedremo se decidono nel chiuso delle stanze o se aprono un confronto», sottolinea Camusso. «Non è l’approvazione al Parlamento che ci ferma per cambiare le norme che riteniamo sbagliate, continueremo la nostra iniziativa e anche alla luce della sentenza di oggi (ieri, ndr) che ha confermato che, quando dicevamo che l’uso dei contratti a termine in quel modo contrastava con le direttive europee, avevamo ragione», sottolinea il segretario della Cgil. A proposito di un’eventuale consultazione Susanna Camusso avverte: «C’è tanta strada prima di porsi il tema del referendum», invece già appoggiato nel caso in cui il quesito della Lega in fatto di abolizione della riforma Fornero delle pensioni passasse il giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La denuncia contro il decreto Poletti – la legge 78 che prevede l’assenza di casualità e la reiterazione fino a 3 anni del contratto a tempo determinato, andando contro la 42 «prevalenza» del tempo indeterminato fissata nella carta europea — la Cgil l’ha presentata il 15 luglio alla Commissione europea. «L’auspicio è che la commissione ne discuta entro l’anno», si augura Ivano Corradini, responsabile dell’Ufficio giudiziario della Cgil, la vecchia “consulta”. A spiegare meglio i termini della questione è uno dei componenti, il professor Amos Andreoni dell’università Sapienza di Roma: «La Commissione europea deve valutare l’attendibilità del ricorso e poi trasferire la denuncia alla Corte di Giustizia. Una procedura molto più veloce ci sarebbe se un giudice italiano, in caso di ricorso contro il decreto Poletti, rilevasse che quella norma collida con quella europea e decidesse per un rinvio pregiudiziale direttamente alla Corte di giustizia europea». Più in generale Andreoni critica l’atteggiamento del governo e della Confindustria. «Se fossi un consulente del lavoro per conto di un’impresa sarei molto preoccupato. La legislazione del 2001 in poi in fatto di lavoro è stata sempre sbagliata, ha sempre lasciato spazio a contenziosi e ricorsi. Da anni va avanti una guerriglia giudiziaria che ha avuto come conseguenza una delocalizzazione massiccia. Anche il Jobs act va in questa direzione, altro che certezza del diritto», conclude. del 27/11/14, pag. 3 La borsa del prestigiatore Anna Maria Merlo PARIGI Rilancio economico Ue. Solo 5 miliardi della Bei di "denaro fresco". Il resto è moltiplicazione dei pani e dei pesci, per mantenere la promessa di investimenti di 315 miliardi in tre anni. Katainen ai comandi. Tensioni tra i paesi per ottenere finanziamenti, nella speranza che si ritrovi "fiducia" e che i privati partecipino perché si realizzi l' "effetto leva", solo orizzonte del neonato Fondo europeo per gli investimenti strategici . "Promessa" di non calcolare nel deficit gli investimenti pubblici destinati al Fondo Denaro virtuale, con la magia della moltiplicazione dei pani e dei pesci, per far fronte a una crisi economica ben reale, con una disoccupazione che colpisce nella Ue 24,8 milioni di persone (di cui 18,4 nella zona euro). Jean-Claude Juncker ha rivelato ieri alcuni dettagli del piano di rilancio, la promessa che lo ha fatto eleggere alla presidenza della Commissione (grazie anche ai voti dei social-democratici): “l’Europa sta voltando pagina — ha assicurato — ora puo’ offrire speranza al mondo su crescita e occupazione”. Il termine-chiave è “fiducia”, cioè lo scopo del piano, che prende il nome di Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), è scommettere in un ritorno della fiducia da parte dei privati. Difatti, l’ipotesi dei social-democratici di un piano di investimenti pubblici consistente, non si realizza. Praticamente, il Feis, creato dalla Bei (Banca europea di investimenti, la banca che finanzia i progetti di infrastrutture europee nel lungo periodo) in una struttura ad hoc, avrà solo 5 miliardi di euro di denaro fresco. La banca, cioè, resta estremamente prudente perché non vuole perdere il rating AAA. A questi 5 miliardi la Commissione addiziona 16 miliardi di “garanzie” degli stati, virtualmente presenti nel bilancio Ue: ma il bilancio dell’Unione è stato rivisto al ribasso, è addirittura in rosso e, inoltre, c’è chi non paga, come la Gran Bretagna. Cosi’, su 16 43 miliardi, in realtà ce ne sono solo 8, più o meno esistenti da dare in garanzia. Juncker e i suoi esperti ritengono che questi 21 miliardi in parte virtuali avranno un potere di “effetto leva” pari a 15: 21x15=315. Ecco tornare, come per magia, la famosa cifra promessa, il “piano di rilancio di 300 miliardi”, il New Deal della Commissione dell’ultima spiaggia. E c’è di più: la Bei, prudentissima, finanzierà al massimo il 20% dei progetti che verranno accettati, il resto dovrà venire dai privati, che grazie alla forza del Feis avranno ritrovato la “fiducia” scomparsa a causa della grande crisi. E poi la fantasia puo’ scatenarsi: “prometto che non considereremo i contributi degli stati al Fondo di investimento nei calcoli del Patto di stabilità”, ha detto Juncker, aprendo uno spiraglio interessante (perché non togliere dal calcolo anche altre spese? Per esempio, la Francia vorrebbe “comunitarizzare” la spesa militare, se spendesse come la Germania per la Difesa – rispettivamente 2,2% del pil contro l’1,4% — rispetterebbe il Fiscal Compact). Ma anche se i paesi in crisi, costretti a grattare il fondo del barile per tentare di rientrare nei parametri, potranno destinare dei soldi al Feis, non avranno la garanzia di avere in cambio finanziamenti per i propri progetti. Juncker promette “trasparenza”, le decisioni su quali progetti finanziare saranno prese da un comitato indipendente, un consiglio di amministrazione del Feis composto da 16 membri provenienti dalla Commissione (“non politici né tecnocrati”, assicurano a Bruxelles), più 5 nominati dalla Bei. Il problema è che nell’affanno generale suscitato dalla promessa del Feis, a Bruxelles sono arrivate 1800 proposte di progetti, per un valore di 1100 miliardi, cifra ben lontana anche dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci dei 315 miliardi. La gestione del piano sarà messa sotto il controllo del potente vice-presidente della Commissione incaricato della crescita, Jyrki Katainen. Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici e monetari, ha rivelato che anche per i 5 miliardi di denaro fresco ci sono state reticenze: “ma senza denaro fresco il piano sarebbe apparso all’opinione pubblica un gioco di prestigio e di conseguenza sarebbe stato un flop”. Il problema è che i “soldi freschi” non ci sono: gli stati del sud non li hanno e quelli del nord non vogliono spendere. Dal 2007, gli investimenti nella Ue sono diminuiti di 430 miliardi di euro (il 75% di questi mancati investimenti sono stati concentrati in Francia, Italia, Grecia, Spagna e Gran Bretagna). Contemporaneamente, gli Usa hanno immesso nel mercato quasi 800 miliardi di dollari. E il risultato si vede: la ripresa statunitense è superiore al 4%, mentre la Ue è allo 0,1%, con investimenti sempre in calo. del 27/11/14, pag. 4 La ricchissima Alcoa licenzia Costantino Cossu CAGLIARI Sardegna. Landini a Cagliari: «Una crisi così grave non l’ha mai vissuta nessuno, serve coraggio, unità e soluzioni nuove». A Portovesme spedite le lettere di licenziamento a 800 operai. Trattativa con Glencore appesa a un filo. E nel frattempo il gigante Usa dell’alluminio fugge e rilancia A che gioco gioca Alcoa? Domanda più che legittima se a soli dieci giorni dall’inizio delle trattative per verificare la possibilità dell’acquisto dello stabilimento di Portovesme da parte 44 dei Glencore — un altro dei colossi mondiali dell’alluminio — ora cominciano ad arrivate le lettere di licenziamento per i 437 operai in cassa integrazione. La notizia è arrivata martedì 25 da fonti sindacali, più esattamente dalla Fim Cisl: «I licenziamenti — dice per il sindacato Moreno Muresu — rientrano nel quadro degli accordi di mobilità che sono stati stabiliti con Alcoa. Anche la data è stata decisa al momento in cui sono scattati gli ammortizzatori sociali. Se infatti le lettere fossero arrivate dopo il 31 dicembre del 2014 si sarebbe attivato il quadro normativo previsto dalla legge Fornero, decisamente peggiore. Questo non toglie nulla alla drammaticità della situazione. Le lettere di licenziamento sanciscono il disimpegno definitivo e irrevocabile di Alcoa. Ora per tutti i 437 della fabbrica di Portovesme, ma anche per i 360 dell’indotto, che le notifiche di cessazione del rapporto di lavoro hanno cominciato a riceverle anche prima, tutto dipende dall’esito della trattativa tra Alcoa e Glencore». «Non bisogna gettare la spugna — aggiunge il segretario generale della Fim Marco Bentivogli — A questo punto serve dettare un’agenda serrata di confronto tra le due aziende perché si superino presto i nodi aperti. Chiediamo che il governo faccia pressing in questo senso. E’ una vera vergogna nazionale, in particolare, la condizione dei lavoratori degli appalti: nei rimpalli tra Regione Sardegna e governo, gli ammortizzatori sociali in deroga spesso lasciano i lavoratori senza reddito. Ci batteremo fino all’ultimo per tenere accesa la speranza e per risolvere positivamente questa vertenza, simbolo del vuoto di una politica incapace di definire una valida strategia di rilancio dell’ industria italiana». Il tavolo di trattativa tra Alcoa a Glencore si è aperto lunedì della scorsa settimana al ministero dello sviluppo economico. Garanti del confronto, il governo e la Regione Sardegna. Che cosa ne uscirà, nessuno al momento può prevederlo. Glencore chiede una drastica riduzione dei costi energetici, che in Sardegna superano di molto la media europea per una serie di motivi strutturali legati all’isolamento della regione. Il governo si è impegnato a trovare i modi per venire incontro alle richieste di Glencore, ma la strada è molto stretta. Anche perché qualsiasi intervento diretto di riduzione delle tariffe energetiche correrebbe il rischio di essere cassato dall’Unione europea. E poi i sindacati non nascondono la preoccupazione sulle reali intenzioni di Alcoa. Glencore, sul mercato mondiale dell’alluminio, è uno dei concorrenti più temibili della multinazionale americana, la cui freddezza nell’accettare la trattativa per la cessione dello stabilimento sardo potrebbe spiegarsi con la riluttanza dei manager Usa a fornire anche il più piccolo vantaggio a uno dei principali competitor. Il gigante statunitense dell’alluminio è molto attivo. Smobilita in Sardegna perché giudica troppo alti i costi di produzione ma poche settimane fa ha completato l’acquisizione di Firth Rixson, un leader della componentistica dei motori aerospaziali. Alcoa calcola che con quest’acquisizione i ricavi aumenteranno di 1,6 miliardi dollari entro il 2016. Circa il 70% di questa crescita, che porterebbe a un incremento dei ricavi di 2 miliardi di dollari entro il 2019, sarebbe garantita da contratti di lungo termine già acquisiti. Le prime lettere di licenziamento per gli operai Alcoa sono arrivate nello stesso giorno, martedì 25, in cui Maurizio Landini era a Cagliari per lo sciopero generale. «La Sardegna — ha detto il segretario della Fiom in piazza ai circa duemila manifestanti — si trova di fronte a una situazione drammatica. Un quadro di questa natura non c’è mai stato, non l’ha mai vissuto nessuno, per questo serve uno sforzo collettivo che affronti in modo nuovo e diverso la situazione». Sotto il palco operai da tutta la Sardegna. In prima fila, insieme con i lavoratori Alcoa, anche le tute blu Eurallumina e le magliette rosse dei 1634 cassintegrati Meridiana. 45 Del 27/11/2014, pag. 11 Pensioni d’anzianità con 42 anni di contributi La legge di Stabilità abolisce il limite minimo di 62 anni. I politici potranno detrarre le donazioni fatte ai partiti ROBERTO PETRINI Doppio colpo di piccone alla contestata riforma delle pensioni firmata nel 2011 dall’allora ministro del Lavoro del governo Monti, Elsa Fornero. Di fatto scompare l’istituto della «pensione di vecchiaia anticipata » che sostituì le defunte, come si disse allora, «pensioni di anzianità ». La Commissione Bilancio della Camera ha approvato infatti ieri un emendamento alla legge di Stabilità a firma Gnecchi (Pd) che cancella le penalizzazioni per chi attualmente intende lasciare il lavoro dopo aver raggiunto i 42 anni e 1 mese di contributi ma non ancora i 62 anni di età anagrafica. Il meccanismo delle penalizzazioni, introdotto dalla legge Fornero, accantonava il vecchio sistema in base al quale i 40 anni di contributi rappresentavano una sorta di «tana libera tutti » e, indipendentemente dall’età anagrafica, visti i numerosi anni di lavoro alle spalle, offrivano un via libera per lasciare il lavoro. Con la Fornero si cambiò: anche i 40 anni (che nel frattempo erano saliti a 42 e un mese per le riforme Sacconi e Tremonti) non erano più l’unico criterio che apriva la strada alla pensione, ma era necessario anche avere 62 anni di età anagrafica. Se si voleva andare prima dei 62 anni anagrafici si doveva accettare un taglio all’assegno pari all’1 per cento per ciascuno dei primi due anni e del 2 per cento per i successivi (per 4 anni di anticipo si «pagava» il 6 per cento). Con l’emendamento approvato ieri si torna alla situazione pre Fornero, rimasta in vigore dal 1° gennaio del 2012 al 1° gennaio del 2015: con 42 anni e 1 mese di contributi si va liberamente in pensione e senza penalità. Turata anche la «falla» nella legge Fornero che consentiva a chi resta al lavoro fino a tarda età, intorno ai 70 anni e ha uno stipendio alto, di ottenere una pensione del 20 per cento superiore all’ultimo stipendio. La questione riguarda 160 mila dipendenti pubblici e privati (ma naturalmente morde di più sugli alti burocrati che possono lavorare fino a 70 anni e che hanno stipendi alti) e sarebbe costata circa 2,5 miliardi in dieci anni. Il sistema contributivo della riforma Fornero fa crescere la pensione con il passare degli anni mentre il retributivo la bloccava all’80 per cento del vecchio stipendio. Ci sarebbe voluto un «tetto» che ora viene introdotto a partire dal 2015 anche sui trattamenti che sono stati liquidati negli ultimi tre anni. La legge di Stabilità ha concluso ieri il suo cammino in Commissione Bilancio della Camera: oggi passa in aula dove l’esame si concluderà, come annunciato dal governo, con il probabile voto di fiducia tra il week end e lunedì. Insistono sul sociale e sul lavoro alcune delle norme approvate nelle ultime ore: dopo il bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti e quello di egual misura per le neo mamme con reddito Isee fino a 25 mila euro, arrivano bonus speciali monetizzabili per le famiglie numerose e incentivi per i buoni pasto. Ridefinizione dei criteri per i patronati, che diminuiranno di numero, ma il taglio dei fondi a loro riservati si dimezza a 75 mitra lioni di euro L’Agenzia delle Entrate potrà utilizzare appieno le banche dati sul fisco senza concentrarsi solo sui contribuenti a maggior rischio evasione, come previsto dai criteri di selezione inseriti del decreto Salva Italia. Altro emendamento aiuterà i politici: I candidati e gli eletti alle cariche Pubbliche potranno detrarre i finanziamenti ai partiti considerati erogazioni liberali. Tra le norme approvate ieri quella proposta da Ncd, che prevede un bonus-pannolini per circa 45 mila famiglie con più di quattro figli e con reddito complessivo di 8.500 Isee (circa 46 40 mila Irpef): avranno circa 1.000 euro l’anno in buoni acquisto che si sommeranno, in questi casi specifici, al bonus bebè. Al- importante norma, votata in Stabilità, è l’aumento a 7 euro della deducibilità fiscale dei buoni pasto elettronici (ferma da 15 anni a 5,29): l’emendamento del Pd Causi, che scatterà dal luglio del 2015, porterà circa 400 milioni l’anno in più di spesa per la pausa pranzo di un esercito di lavoratori dipendenti. Le deduzioni Irap per i neo assunti vengono estese anche ai lavoratori agricoli e sono previsti mutui agevolati per i giovani agricoltori. Apprezzamento anche da Rete imprese per il ritorno della “piccola mobilità”, gli sgravi alle piccole aziende che assumono lavoratori espulsi da altre aziende anche nel 2012 e nel 2013. 47