Scuola superiore di studi storici, geografici e antropologici

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Scuola superiore di studi storici, geografici e antropologici
Roberto Ventresca
Scuola superiore di studi storici, geografici e antropologici
Università di Padova
Il ruolo delle tecnocrazie: l'Italia e l' OECE nelle prime fasi del processo di
integrazione europea (1947-1953)
È uno degli enigmi del nostro tempo il fatto che
il trionfo del politico […] abbia potuto essere presentato come il suo contrario.
È accaduto in realtà che l’integrazione della ragione e del personale tecnici ha fornito al dominio politico,
comunque costituito, i mezzi per presentarsi con quei requisiti di legittimazione razionale
che gli consentono di presentarsi come pura amministrazione.
A. Salsano, Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla «rivoluzione manageriale», Torino, Einaudi, 1987.
Premessa
La scelta di utilizzare il concetto di «tecnocrazia» 1, per identificare quella
«élite delle competenze»2 che - dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale - fu
protagonista del reinserimento dell'Italia nel sistema economico internazionale,
impone a nostro avviso una riflessione terminologica preliminare. In primo luogo
occorre precisare cosa si intenda, nel contesto storiografico a cui si fa riferimento
(e per il quale si rinvia alle pagine seguenti), per tecnocrazia. Come è stato
correttamente osservato, la categoria di tecnocrazia rimanda, perlomeno in questa
sede, alle «caratteristiche e alle funzioni oggettive di un gruppo di persone e
insieme alla percezione che quel gruppo ha di se stesso», non già alla
prefigurazione di uno «scenario apocalittico di un governo politico impostato alla
sola fredda logica della “macchina”»3. I tecnocrati italiani (alcuni di essi,
1
Per una ricostruzione del concetto di tecnocrazia a cavallo tra '800 e '900 cfr C. Fumian, Per una storia della
tecnocrazia: utopie meccaniche e ingegneria sociale tra Otto e Novecento, in «Rivista storica italiana», CXIII,
3/2012, pp. 908-959; E. Grandi, D. Paci (a c. di), La politica degli esperti. Tecnici e tecnocrati in età
contemporanea, Milano, Unicopli, 2014.
2
L. D'Antone, Una élite delle competenze per le politiche di sviluppo, «Imprese e storia», 30/2004, pp. 41-59.
3
R. Petri, Storia economica d'Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, il Mulino,
2002, p. 293
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perlomeno) impegnati nelle vicende della ricostruzione post-bellica e della
ricollocazione del Paese nello scenario internazionale si formarono in buona parte
nel corso degli anni Trenta a contatto con gli ambienti dell'IRI e della Banca
d'Italia (solo per citare alcuni nomi: Beneduce, Menichella, Saraceno, Sinigaglia,
il cui lavoro si affiancò a quello compiuto da alcuni degli esponenti più
significativi della vita politica nazionale: basti rammentare la figura di Luigi
Einaudi), e contribuirono ad indirizzare le scelte strategiche intorno alle quali
prese corpo la fisionomia della collocazione del neonato regime repubblicano
all'interno della nuova geografia del capitalismo occidentale.
Sebbene, per ragioni di spazio, non sia possibile approfondire un'indagine
specifica su queste personalità, sembra però opportuno esplicitare la prospettiva
analitica con la quale verrà osservato il ruolo di questi tecnocrati. Condividendo
una prospettiva storiografica incentrata sul riconoscimento di una certa continuità
nell'azione politico-economica di siffatta tecnocrazia - continuità sostanziatasi
nella cosiddetta strategia «neomercantilista» (le cui priorità risiedevano
nell'accumulazione di risparmio nazionale, nella compressione dei consumi, nella
centralità della bilancia dei pagamenti), che ispirò le scelte fondamentali della
politica economica italiana negli anni della ricostruzione4 -, non si vuole tuttavia
leggere e interpretare il ruolo di questa élite in termini di opposizione o di
estraneità rispetto alle vicende della classe politica di quegli anni. A nostro
avviso, questa componente tecnocratica si integrò, talvolta in maniera
problematica, all'interno dei circuiti decisionali delle strutture politicoistituzionali italiane, contribuendo in maniera di certo decisiva a indirizzare le
scelte del Paese in campo internazionale. Tale quadro interpreativo non consente,
pertanto, di istituire una netta divisione (nei ruoli, nelle competenze, nell'effettiva
capacità decisionale) tra il “fronte” dei politici e quello dei tecnici, chiamati
entrambi a interpretare con maggiore o minore abilità (economica, politica,
diplomatica) i nuovi equilibri internazionali sanciti dalla Guerra Fredda 5. Proprio
gli esiti storici della combinazione tra “expertise tecnica” e “decisione politica”
rappresentano alcuni dei principali oggetti di riflessione della presente ricerca, la
quale si incentra
sul ruolo esercitato dall'Italia all'interno dell'OECE
(Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, nata nell'aprile del
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Cfr. R. Petri, Storia economica d'Italia, op. cit.; C. Spagnolo, Tecnici e politici in Italia Riflessioni sulla storia dello
Stato imprenditore dagli anni trenta agli anni cinquanta, Milano, Franco Angeli, 1992.
A. Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-1951, London, Meuthen, 1984; A. Milward, F. Lynch, R.
Ranieri, F. Romero, V. Sorensen, The Frontier of National Sovereignty: History and Theory 1945-1992, London,
Routledge, 1993.
1948).
Questo contributo si dividerà in quattro sezioni, nelle quali verranno
analizzati in primo luogo i quesiti principali e gli obiettivi di fondo della nostra
indagine; successivamente si passerà a illustrare il contesto storiografico e
l'approccio metodologico utilizzati per sviluppare l'analisi qui proposta; si
proporrà in seguito una disamina (ancorché parziale) della metodologia e delle
fonti primarie intorno a cui si articola l'intero lavoro; infine, verrà presentata una
breve sezione nella quale si darà conto delle eventuali integrazioni e dei possibili
ampliamenti – per ciò che concerne sia le fonti da utilizzare, sia i temi da trattare
– di cui la ricerca può ancora giovare.
1. Quesiti centrali e obiettivi della ricerca.
Le motivazioni di fondo che si pongono alla base della ricerca scaturiscono
da una serie di interrogativi storiografici relativi alle modalità con cui l'Italia –
vale a dire alcune delle strutture governative e amministrative apicali dello Stato
italiano, a cui si farà cenno più avanti – interpretò il traumatico passaggio segnato
dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, dalla nascita della Repubblica e
dal successivo reinserimento nell'orizzonte economico e politico occidentale.
Osservando più da vicino i mutamenti profondi che si imposero nel periodo della
“scelta europea” e atlantica dell'Italia6 - solo per citarne alcuni: l'espulsione delle
sinistre dal Governo nel maggio 1947; l'adesione al progetto del Piano Marshall e
di seguito a quello dell'OECE; la (non scontata) partecipazione alla NATO (1949)
-, è possibile cogliere il quadro generale all'interno del quale maturarono gli
equilibri della stagione del centrismo (che qui limitiamo alla successione de
governi De Gasperi tra il maggio 1947 e l'agosto 1953), la quale rappresenta il
nostro arco cronologico di riferimento.
Occorre tuttavia precisare quale sia il focus specifico di questo lavoro,
proprio alla luce degli interrogativi di fondo a cui si accennava poc'anzi. Se i
contributi relativi alla ricostruzione economica del secondo dopoguerra risultano
a dir poco copiosi7, così come abbastanza fitta è la produzione storiografica
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Cfr. A. Varsori, La Cenerentola d'Europa? L'Italia e l'integrazione europea dal 1947 ad oggi, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2010.
Cfr. ad es. M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano (1944-1949),
Milano, Feltrinelli, 1983; Id., Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale, in F. Barbagallo
(a c. di), Storia dell'Italia repubblicana, vol. I, Torino, Einaudi, 1994, pp. 411-453; B. Bottiglieri, La politica
sull'applicazione del Piano Marshall in Italia 8, minore attenzione sembra aver
ricevuto da parte degli studiosi – italiani e stranieri - l'esperienza dell'OECE e,
con essa, l'insieme di “eredità” storiche, più o meno durature, che tale
Organizzazione offrì alle fasi successive dei processi di cooperazione e di
integrazione europea. Rinviando alle pagine seguenti per una riflessione più
approfondita sul dibattito storiografico sviluppatosi intorno a queste tematiche, ci
preme ora sottolineare come questo lavoro di ricerca abbia preso le mosse dalla
necessità di investigare in maniera articolata le strategie con cui l'Italia interpretò
il
proprio
coinvolgimento
nelle
dinamiche
della
cooperazione,
dell'interdipendenza e dell'integrazione europea – processi storici di carattere
differente9 - all'indomani della caduta del fascismo e del profilarsi di un panorama
del tutto rinnovato, nella fisionomia e negli obiettivi, delle relazioni internazionali
in Occidente. Dunque: in che modo e alla luce di quali obiettivi l'Italia entrò a far
parte dell'OECE? Secondo quali prospettive di carattere politico, economico e
diplomatico gli ambienti governativi italiani e le relative strutture tecnicoburocratiche agirono all'interno dell'Organizzazione? E in che termini i loro
differenti approcci si articolarono, confluirono in una visione comune e, talora,
entrarono in conflitto?
Il primo quesito abbraccia le vicende legate alla preparazione e alla
successiva attuazione dello European Recovery Program - annunciato nel giugno
1947 dal Segretario di Stato George Marshall -, destinato a rappresentare uno
degli esempi archetipici dell'egemonia americana all'interno di un'Europa
divenuta, perlomeno dalla metà del 1947, teatro “privilegiato” della Guerra
Fredda. L'ipotesi di prendere parte al programma di aiuti previsti dal Piano
Marshall incontrò l'immediata approvazione da parte dei vertici governativi
italiani (in primis De Gasperi e il Ministro degli Esteri Carlo Sforza), i quali
percepirono l'offerta lanciata dall'Amministrazione Truman sia come uno
strumento indispensabile alla ripresa economica del Paese (benché – e ciò si
manifestò subito dopo l'approvazione del Piano - all'interno dei gruppi d'interesse
economica dell'Italia centrista (1948-1958), Milano, Edizioni di comunità, 1984; D. Ellwod, L'Europa ricostruita.
Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa Occidentale. 1945-1953, Bologna, il Mulino, 1994; A. Giovagnoli,
L'Italia nel “nuovo ordine mondiale”. Politica ed economia dal 1945 al 1947, Milano, Vita e Pensiero, 2000.
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Si vedano, solo tra i più recenti, C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia (19471952),Roma, Carocci, 2001; M.Campus, L'Italia, gli Stati Uniti e il Piano Marshall, 1947-1951, Roma-Bari,
Laterza, 2008; F. Fauri, Il Piano Marshall e l'Italia, Bologna, il Mulino, 2010.
Cfr. A Milward and V. Sorensen, Interdependence pr integration? A national choice, in A. Milward et alii, The
Frontier of national Sovereignty, op, cit., pp.1-32.
italiani non esistesse unanime consenso riguardo alla distribuzione degli aiuti e
all'individuazione dei settori economici “strategici” verso cui dirottare buona
parte dei fondi10), sia come una forma di riconoscimento degli interessi e delle
aspirazioni della neonata repubblica, ansiosa di guadagnare una legittimazione
politica (non estranea a componenti ideologiche fondate sull'idea di un naturale
legame tra la “cattolica” e “latina” nazione italiana e il campo occidentale 11) in
campo internazionale tale da garantirle il recupero di quel ruolo di «media
potenza regionale»12 di cui essa si percepiva storicamente investita. Perché tali
obiettivi potessero essere concretamente raggiunti occorreva, per ovvie ragioni,
che le potenze occidentali uscite vincitrici dalla guerra – USA, Francia, Gran
Bretagna – accogliessero la fondatezza delle aspirazioni italiane, le quali
incontrarono sia forme di condivisione (specie da parte degli Stati Uniti), sia
forme di contrasto (soprattutto ad opera dei britannici). Non a caso, infatti,
nell'ambito della ricerca si tenterà di elaborare un nucleo tematico ulteriore,
relativo allo studio delle posizioni espresse da alcuni dei maggiori protagonisti (in
termini politici, economici e diplomatici) attivi in seno all'OECE, e cioè Francia e
Gran Bretagna, riguardo alle strategie adottate dall'Italia nel periodo 1947-1953:
un obiettivo analitico volto a problematizzare l'esperienza storica dell'Italia
nell'OECE attraverso lo “sguardo esterno” proveniente da quei Paesi che, pur
figurando ufficialmente come partner internazionali, spesso vestirono i panni di
concorrenti economici e politici estremamente combattivi, soprattutto desiderosi
– come l'Italia, del resto – di conservare, di fronte alla prospettiva di una sempre
più intensa dinamica di cooperazione continentale,
un ampio margine di
sovranità nazionale.
Appare invece più complesso riflettere sul secondo dei quesiti menzionati in
precedenza, il quale insiste sull'analisi e sull'interpretazione della partecipazione
dell'Italia alle attività dell'OECE tra il 1947 (quando ancora l'OECE esisteva
soltanto come Conferenza per la Cooperazione Economica Europea, CCEE) e il
1953. Come si è già tentanto di mettere in evidenza, una delle motivazioni di
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Cfr. R. Ranieri, L'integrazione europea e gli ambienti economici italiani, in R. H. Rainero (a c. di), Storia
dell'integrazione europea, vol. I, Milano, Marzorati, 1995, pp.285-329; S.Battilossi, L'Italia nel sistema economico
internazionale. Il management dell'integrazione. Finanza, industria e istituzioni, 1945-1955, Milano, Franco
Angeli-INSMLI, 1996.
Cfr. P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità Atlantica (1943-1954),
Bologna, il Mulino, 2013; non bisogna però dimenticare – e devo queste osservazioni ai preziosi suggerimenti che
mi ha fornito la Prof.ssa Daniela Preda, che qui ringrazio - come anche la componente protestante fosse largamente
rappresentata nel dibattito politico e culturale che animò il processo di costruzione dell'Europa post-bellica
A Varsori, La Cenerentola d'Europa?, op. cit., p.42.
fondo della ricerca si situa appunto nel tentativo di cogliere le strategie plurali e
stratificate che gli organismi tecnici e politici italiani – come, tra gli altri, la
Presidenza
del
Consiglio,
il
CIR
(Comitato
Interministeriale
per
la
Ricostruzione), il Ministero degli Esteri, la Delegazione Italiana all'OECE, il
Ministero del Commercio Estero, la Banca d'Italia – svilupparono rispetto
all'OECE negli anni di cui ci si sta occupando. A questo proposito sembra
opportuno rammentare come l'OECE, da un punto di vista prettamente
storiografico, possa essere considerata come una delle prime esperienze di
cooperazione economica e politica europea all'indomani del 1945, in quanto offrì
ai suoi Paesi membri13 l'occasione di praticare concretamente un'ipotesi di
pacificazione dell'area europea attraverso la creazione di un mercato – o, meglio,
di una serie di mercati nazionali interdipendenti, fondati sulla libera circolazione
delle merci e degli uomini - progressivamente “comune”, benché i risultati dei
tentativi di cooperazione e di integrazione economica tra i vari Stati nazionali
procedettero per lungo tempo con passo molto incerto (perlomeno fino ai Trattati
di Roma del 1957)14.
Ora, pur rinunciando ad addentrarci nell'analisi delle scelte e delle posizioni
dei singoli protagonisti di queste vicende, sembra possibile articolare
ulteriormente la natura degli interrogativi di fondo a cui la ricerca tenta di fornire
una (parziale) risposta, sottolineando come l'ambizione di questo lavoro si
sostanzi proprio nella verifica dell'ipotesi circa la natura della “coincidenza”
esistente (o meno) tra le posizioni espresse in seno alle strutture amministrative
centrali italiane e i loro rappresentanti concretamente coinvolti, a contatto con i
partner europei e statunitensi, nelle attività dell'OECE. In altre parole, in questo
studio si tenterà anche di vagliare il grado di “autonomia politica” e lo spessore
dell'influenza decisionale di cui erano provvisti i funzionari – i “tecnici” presenti
nelle strutture sopra menzionate - incaricati di curare i dossier e le trattative
intorno a cui il lavoro dell'OECE si organizzava, osservando inoltre la dialettica
dei rapporti che si instaurò tra la percezione che essi svilupparono riguardo alle
issues di volta in volta affrontate e le indicazioni provenienti dai responsabili
politici italiani.
Alla luce di questa prospettiva analitica, l'attenzione della ricerca si
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Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo,
Regno Unito, Svezia, Svizzera, Turchia.
F. Petrini, Preludio al grande mercato? Un bilancio storiografico dell'esperienza dell'OECE, in «Memoria e
Ricerca», 14/2003, pp. 51-68.
concentra soprattutto sulla Delegazione italiana all'OECE 15, la quale dipendeva da
un punto di vista amministrativo dalla Direzione Generale Affari Economici del
Ministero degli Esteri. Il ruolo di questo Ministero nella gestione degli affari
relativi all'OECE fu cruciale, per via del peso politico esercitato dal Ministro
Sforza, per la centralità della figura di alcuni ambasciatori – Quaroni a Parigi,
Gallarati Scotti a Londra, Tarchiani a Washington - e, come si diceva prima, per
via dello stretto legame esistente tra questo Ministero e i membri della
Delegazione all’OECE (va però ricordato come il Ministero degli Esteri fu, in
ambito nazionale, parzialmente esautorato dalla diretta gestione del Piano
Marshall da parte di organismi quali il CIR, il Tesoro o la Banca d'Italia 16).
Ovviamente occorre prestare attenzione alla “porosità” della Delegazione, la
quale poteva arricchirsi di personalità provenienti da strutture ministeriali
differenti e dal mondo dell'industria privata, in base alla natura delle trattative
sulle quali la Delegazione stessa era chiamata a esprimere il punto di vista
dell'Italia. Si accenna qui solo brevemente al fatto che questo studio non potrà
passare al setaccio ogni singola trattativa nella quale l'Italia venne coinvolta nel
quadro delle attività promosse dall'OECE, ma si concentrerà su quelle “aree di
interesse” alle quali il Paese attribuiva maggiore priorità, vale a dire le politiche
di liberalizzazione degli scambi e dei pagamenti; le dinamiche relative alla
circolazione della manodopera e, dunque, dei flussi migratori; le trattative
riguardanti i temi della produttività del lavoro e dei piani di sviluppo per
l'integrazione economica europea.
Prendendo in considerazione la natura degli obiettivi già parzialmente
conseguiti e di quelli attesi, un primo punto di riflessione consiste nel
riconoscimento – di cui la storiografia esistente dà già ampiamente conto – delle
motivazioni e degli approcci con cui l'Italia decise di partecipare all'esperienza
dell'OECE, la quale veniva appunto percepita (spesso strumentalmente) come uno
dei viatici necessari sia per tornare a sedere al tavolo dei “grandi” dell'Occidente,
sia per collocare l'economia nazionale all'interno delle nuove dinamiche
capitalistiche (dopo l'esperienza autarchica fascista) emerse dalle macerie della
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La Delegazione, la cui composizione varò nel tempo, venne guidata dal 1947 al '49 da Pietro Campilli, poi sostituito
da Roberto Tremelloni e da Giuseppe Pella. Inizialmente formata da alcuni funzionari del MAE (tra cui Lanza
D'Ajeta,Colonna,Di Falco,De Carnet,Sinfarosa, Malagodi,Caracciolo,etc; per seguire trattative specifiche vennero
chiamati anche esperti estranei al MAE (come Guido Carli, per le questioni monetarie). Cfr. C. Spagnolo, La
stabilizzazione incompiuta, op. cit., p.82.
R. Ranieri, L'Italia, la ricostruzione e il sistema internazionale, in F. Romero, A. Varsori (a c. di), Nazione,
Interdipendenza, Integrazione. Le relazioni internazionali dell'Italia (1917-1989), Roma, Carocci, 2005, pp. 131153.
guerra. Se si può affermare con sufficiente certezza che questi stessi approcci non
erano però condivisi in maniera unanime all'interno del contesto economico e
politico italiano - differenziandosi esso tra quanti spingevano per una maggiore
integrazione dell'economia italiana nel contesto europeo e quanti, al contrario,
auspicavano che i rapporti tra i vari mercati nazionali si articolassero in termini di
più limitata interdipendenza, con l'obiettivo di conservare un livello di protezione
molto consistente rispetto ai crescenti standard della concorrenza continentale 17-,
bisogna ancora verificare in che modo tali conflitti si siano riversati nella
definizione di una più o meno chiara azione politica all'interno dell'OECE, e
soprattutto come tali strategie (e talvolta l'assenza di strategie) siano state
interpretate e rielaborate dai membri della Delegazione e dai tecnici italiani che a
vario titolo operavano nell'OECE. Volendo in proposito avanzare soltanto una
prima e parziale ipotesi interpretativa, i telegrammi e i memoranda (contenuti
soprattutto nel fondo DGAE dell’archivio della Farnesina, di cui si dirà più
avanti) scambiati tra i membri della Delegazione e il Ministero degli Esteri
sembrano offrire delle tracce significative: l'impressione generale, come annota
ad esempio Giovanni Malagodi18, è che i membri coinvolti nelle difficili
dinamiche dell'OECE costituissero un «falso fronte» della diplomazia economicopolitica del Paese, vale a dire una sorta di “avanguardia internazionale” sovente
sprovvista dell'imprescindibile guida che invece sarebbe dovuta pervenire da
parte delle strutture politiche e amministrative italiane. La percezione di una
tendenziale incapacità dei vertici politici “romani” (o di quanti non vivevano a
diretto contatto con il susseguirsi delle trattative tra i partner occidentali) di
cogliere la natura e la portata dei nuovi equilibri internazionali - scaturiti dalla
ricomposizione capitalistica determinata dalle scelte di Bretton Woods e
dall'attuazione del Piano Marshall - è una delle impressioni più frequenti tra
quelle che emergono dalla lettura dei documenti d'archivio e della letteratura
dedicata a queste tematiche. E tale incapacità - o, se si vuole, inadeguatezza, sul
cui valore “euristico”, in termini storiografici, bisognerà indagare ulteriormente –
sembra aver condizionato fortemente, alla luce degli studi condotti sinora, i
comportamenti e le prospettive di chi aveva poi il compito di tradurre in progetti
concreti la posizione dell'Italia all'interno degli organismi dell'OECE.
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8
Cfr. F. Petrini, Il liberismo ad una dimensione: la Confindustria e l'integrazione europea,1947-1957, Milano,
Franco Angeli, 2005, p. 16.
Cfr. il diario personale di Malagodi, conservato presso l'Archivio della Fondazione Einaudi di Roma e pubblicato in
G. Malagodi, Aprire l'Italia all'aria d'Europa. Il diario europeo (1950-1951), a c. di G. Farese, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2011.
2. Contesto storiografico e stato dell'arte
Dopo aver esaminato i nuclei tematici sulla cui base la ricerca prende corpo,
è opportuno illustrare il contesto storiografico generale nel quale il lavoro si situa,
tentando di evidenziare la stratificazione degli approcci analitici di volta in volta
adottati. Se già nella premessa iniziale si è tentato di restituire una spiegazione
problematizzata del concetto di tecnocrazia, bisogna ora specificare come lo
sfondo generale che accoglie gli sforzi interpretativi di questo lavoro sia
rappresentato in primo luogo dalla storiografia sulle prime fasi del processo di
cooperazione e di integrazione europea19. Proprio l'analisi dei fenomeni relativi
alla storia dell'integrazione economico-politica del Vecchio continente (riferibili
all'arco cronologico preso in considerazione) dimostra quanto poco lineare e
progressivo si sia rivelato tale processo di “riavvicinamento” tra gli Stati europei,
i quali – nelle trattative consacrate alla creazione di accordi e istituzioni che
promuovessero forme di reale cooperazione economico-politica nel Vecchio
continente – furono protagonisti di continue accelerazioni e di repentine marce
indietro, a dimostrazione della validità delle tesi storiografiche più inclini a
mettere in risalto la ricerca di un' effettiva (o quantomeno auspicata)
conservazione di ampie quote di sovranità decisionale da parte delle diverse
compagini nazionali impegnate nell'OECE20.
Un' analoga tendenza a problematizzare i nuclei tematici della ricerca
caratterizza l'approccio di quest'ultima rispetto agli studi di relazioni
internazionali, legati, com'è ovvio, al filone sull'integrazione europea e a quello
più generale dedicato alle vicende della Guerra Fredda 21. Così come si è
accennato alla mancanza di linearità che caratterizzò l'evoluzione del difficile
cammino verso l'integrazione europea, così pure alcuni studi 22 hanno evidenziato
come molti Paesi europei – tra cui l'Italia – riuscirono, sul terreno concreto dei
rapporti economici legati all'azione dell'OECE e all'esperienza del Piano
Marshall, a scongiurare un rapporto di mera sudditanza rispetto al loro partner
americano, il quale fu invece costretto a confrontarsi con la non trascurabile
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Per una panoramica generale cfr. Cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell'Unione Europea (19262013), Roma-Bari, Laterza, 2013.
Cfr. A. Milward,
F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Torino, Einaudi, 2009.
Cfr. C. Esposito, America's Feeble Weapon. Funding the Marshall Plan in France and Italy, 1948-1950, Westport,
Greenwood Press, 1994; A. Brogi, A Question of Self-Esteem: the United States and the Cold War Choices in
France and Italy, 1944-1958, Praeger, Westport-London 2002.
capacità di condizionamento esercitata da quegli attori nazionali europei nei quali
la “minaccia comunista” risultava più preoccupante. Tale contesto storiografico
consente di mettere in luce il grado di pressione politica che i Paesi più esposti
all'influenza dei rispettivi movimenti comunisti – in primis Francia e Italia –
furono in grado di esercitare nei confronti degli USA, in quanto questi ultimi
temevano, anche alla luce delle “paure” espresse dai propri alleati, che un rapido
e ulteriore deterioramento delle condizioni economiche delle nazioni europee
avrebbe alimentato indirettamente il rafforzamento del seguito politico ed
elettorale di cui godevano i locali partiti comunisti. Senza negare in alcun modo il
ruolo decisivo giocato dagli Stati Uniti sul piano economico, politico e culturale
nella ricostruzione dell'Europa occidentale dal '45 in poi 23, emerge in questo
orizzonte interpretativo una lettura non unidirezionale del rapporto istituitosi tra
l'America dell'Amministrazione Truman e i Paesi europei coinvolti nel Piano
Marshall e nell'OECE, laddove questi ultimi, anche alla luce dell'evidente
condizione di precarietà economico-istituzionale interna e dell'azione esercitata
dalle sinistre nei rispettivi contesti nazionali, apparivano paradossalmente in
grado di capitalizzare a proprio vantaggio – in termini di riconoscimento politico
e di persistenza nell’erogazione dei materiali provenienti dagli USA - le gravi
debolezze delle quali soffrivano.
Prendendo in considerazione gli aspetti più precipuamente legati alla
dimensione storiografica nazionale, la ricerca accoglie e rielabora gli stimoli più
fecondi provenienti in particolare dal campo della storia delle istituzioni24 e, in
parte, della storia economica sulla ricostruzione post-bellica e sulla prima
legislatura repubblicana ('47-'53)25. Come si è già accennato in precedenza, uno
degli approcci attraverso i quali la ricerca tenta di articolarsi consiste nell'analisi
del ruolo svolto dalle personalità e dalle strutture amministrative – a livello sia
nazionale che internazionale – coinvolte nelle vicende dell'OECE, con l'obiettivo
di tracciare sia un profilo dei rapporti che sussistevano tra strutture tecnicogovernative centrali (Presidenza del Consiglio, CIR, Ministero degli Esteri,
ministeri
economici,
Banca
d'Italia)
e
organismi
di
“rappresentanza”
internazionali (la Delegazione italiana all'OECE, le ambasciate nei Paesi alleati),
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Cfr. V. De Grazia, Irresistible Empire. America's Advance through 20th Century Europe, Cambridge, Belknap Press,
2005
Cfr. G. Melis, Storia dell'Amministrazione italiana, 1861-1993, Bologna, il Mulino, 1996; M. Salvati,
Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale, in F. Barbagallo (a c. di), Storia dell'Italia
repubblicana, vol. I, Torino, Einaudi, 1994, pp. 411-453.
Cfr. supra, p. 7.
sia una “geografia dei poteri e delle competenze” entro cui si orientò l'azione
politico-diplomatica di tali strutture e delle personalità che vi appartenevano. In
altre parole, una delle intenzione di questo lavoro è quella di sfruttare gli
strumenti offerti dalla storia istituzionale per individuare le sfaccettature proprie
della cultura economica (o, meglio, delle culture economiche) che accompagnò il
reinserimento dell'Italia nel contesto internazionale e che ispirò le scelte compiute
dagli uomini che rappresentavano il Paese in seno all'OECE.
Se tale panoramica storiografica contribuisce a collocare la ricerca
all'interno di coordinate interpretative sufficientemente chiare, lo stato dell'arte
degli studi sulle vicende italiane durante le prime fasi del processo di
cooperazione e di integrazione europea pare abbiano conosciuto negli ultimi anni
un lieve rallentamento. Una delle ragioni di questa tendenza potrebbe originare,
benché si tratti soltanto di un' ipotesi provvisoria, dall'impressione che si siano
oramai consolidate per certi versi le linee interpretative sulla ricostruzione
economica italiana in ambito nazionale e internazionale tra la fine degli anni
Quaranta e l'inizio dei Cinquanta26. Inoltre, una delle possibili cause a cui
ascrivere la scarsa attenzione riservata alla parabola storica dell'OECE andrebbe
forse ricercata nella più o meno radicata convinzione riguardate il valore
relativamente contenuto dell'influenza che l'Organizzazione avrebbe prodotto
nella genesi concreta delle scelte di politica economica e di politica estera dei
Paesi europei durante e subito dopo gli anni del Piano Marshall. Come osserva
Francesco Petrini, se il periodo maggiormente analizzato della vita dell'OECE
corrisponde al biennio '48-'49, dopo il quale si abbandonò l'idea di legare
direttamente l'attuazione del Piano Marshall all'Organizzazione, minore
attenzione è stata riservata agli anni successivi. Ciò si sarebbe determinato a
causa di un «orientamento abbastanza diffuso in storiografia che tende a
sottolineare lo scarso peso dell'OECE nel processo di costruzione del grande
mercato europeo»27.
Successivamente, invece, si è guardato a questa istituzione come a un
laboratorio – o, per meglio dire, a una «palestra» - dell'integrazione continentale,
capace di rappresentare un esempio comunque significativo (per quanto, secondo
alcuni,
26
27
11
poco
efficace)
nella
storia
della
costruzione
di
un'Europa
Ma si prenda visione, ad esempio, del numero monografico di «Storia economica», 1/2012, dedicato ai protagonisti
dell'intervento pubblico nell'Italia repubblicana
F. Petrini, Preludio al grande mercato?, op. cit.
progressivamente “unificata”. Sulla scorta delle analisi di Milward, sottolinea
ancora Petrini, la vicenda storica dell'OECE potrebbe essere interpretata ex-post
come un contributo “in negativo” all'avanzamento della cooperazione intraeuropea, in quanto i Paesi membri dell'Organizzazione, forti della loro concreta
esperienza nel campo della reciproca collaborazione politico-economica
all'interno di questa istituzione, percepirono nel corso degli anni successivi la
necessità di realizzare un modello di integrazione continentale differente ( si pensi
alle tappe che condussero ai Trattati di Roma del 1957) rispetto a quanto
compiuto attraverso gli organismi dell'OECE28.
Se negli ultimi anni i principali contributi – anche rispetto al caso italiano –
non sembrano essersi discostati da quest'ottica interpretativa, la ricerca qui
illustrata, pur condividendo una lettura dell'OECE quale primo – e talvolta poco
incisivo- banco di prova della cooperazione europea post-bellica, tenta però di
ridurre (almeno parzialmente) quella sorta di “vuoto storiografico” che riguarda la
presenza italiana all'interno delle strutture dell'OECE negli anni da noi indicati,
proprio in quanto sembra ancor oggi mancare una ricostruzione dettagliata e
specifica – e dunque non dissolta nel più generale panorama analitico dedicato al
Piano Marshall o ad altre istituzioni comunitarie “originarie”, come ad esempio la
CECA - di quegli avvenimenti. A questo proposito, una delle ambizioni del nostro
lavoro consiste nel tentativo di contribuire per quanto possibile al dibattito
riguardante il concreto dispiegarsi in ambito internazionale della cultura
economica della classe dirigente italiana – osservata nelle sue vesti sia “tecniche”
che “politiche” - durante gli anni del centrismo, attraverso un focus particolare
sulla partecipazione italiana alle attività dell'OECE e alla più generale costruzione
del cosiddetto “grande mercato” europeo.
28
12
Ivi, p. 53.
3. Metodologia e fonti
L'approccio metodologico adottato nella costruzione della ricerca muove
dall'obiettivo di integrare all'interno di un quadro interpretativo il più possibile
solido e coerente i piani tematici su cui finora si è ragionato. In questo senso si è
imposta anzitutto la necessità di approfondire la letteratura secondaria dedicata
allo studio della ricostruzione economica e politica europea all'indomani del
secondo conflitto mondiale, prendendo in considerazione le vicende legate alla
promozione del Piano Marshall e alla nascita dell'OECE, con l'obiettivo di
restituire nella sua complessità la “presa” egemonica americana su di un'Europa
che divenne terreno di scontro tra le due superpotenze uscite vincitrici dalla
guerra (USA e URSS). Tuttavia l'analisi delle contraddizioni interne all'egemonia
esercitata dagli Stati Uniti in siffatto contesto storico induce a leggere le
dinamiche internazionali euro-atlantiche del secondo dopoguerra con occhi critici
e problematici, tentando di sottoporre a verifica i reciproci condizionamenti
politico-economici che gli Stati beneficiari dei fondi statunitensi – nonostante in
questa sede si privilegino per ovvie ragioni gli aspetti relativi all'Italia –
riuscirono a stabilire con l' “alleato americano”. Tale approccio analitico consente
di sviluppare, grazie ai contributi esistenti sul tema, una percezione della
“collaborazione” europea meno appiattita sulla “ovvietà” della preponderante
influenza degli Statunitensi (anch'essi divisi al proprio interno tra “scettici” e
“fautori” del progetto di integrazione economico-politica del Vecchio continente),
e invece più accorto a illuminare gli spazi di autonomia guadagnati da parte dei
Paesi europei.
Un'analoga prospettiva ha ispirato le successive (ovviamente non ancora
concluse) fasi del lavoro: in primo luogo si è tentato di cogliere sia le specificità
che caratterizzarono la parabola storica dell'OECE, sia il contributo che l'Italia
offrì al suo consolidamento durate le prime fasi della stagione repubblicana.
L'analisi approfondita di queste tematiche ha imposto al lavoro di ricerca un
parziale
ripensamento
dell'approccio
metodologico
che
inizialmente
si
immaginava di perseguire: se nelle prime fasi del lavoro di ricerca sussisteva
l'intenzione di ricostruire anzitutto la “mappa” (nomi, funzioni, ruoli,
appartenenze politiche) dei tecnici italiani impegnati nell'attività dell'OECE, la
13
lettura dei documenti e la parallela articolazione di una più consapevole
contestualizzazione storica degli eventi hanno generato l'urgenza di verificare
concretamente l'effettivo “spessore decisionale” e la natura delle reali competenze
dei tecnocrati italiani. In altre parole, la direzione intrapresa durante il lavoro di
ricerca ha suggerito la preferibilità di coltivare uno sguardo il più possibile
“obliquo” nella individuazione degli obiettivi analitici a cui tendere, sia per non
considerare come scontato il “protagonismo” dei tecnici italiani nella specifica
dimensione istituzionale dell'OECE, sia per cogliere le diversità intrinseche a
questa mutevole e polifonica élite, la quale – pur esprimendo una certa
omogeneità in termini di cultura economica condivisa – agiva all'interno di
strutture tecniche e politiche dotate di caratteristiche e di obiettivi di segno
differente.
Tutto ciò ha motivato un ulteriore sforzo di “differenziazione”
nell'approccio allo studio di questi avvenimenti, proprio in quanto la ricostruzione
delle strategie perseguite dall'Italia e dai suoi partner evidenzia quanto fosse
complessa la stratificazione delle posizioni e delle sensibilità politiche presenti
all'interno di ogni singola compagine nazionale. Per ciò che concerne la
partecipazione dell'Italia alle attività dell'OECE, emerge ad esempio il clima di
tensione e di conflitto che alimentava la definizione delle posizioni e delle scelte
ufficiali di volta in volta adottate dal Paese in campo internazionale, producendo
uno scontro tra interessi coagulatisi intorno alle diverse strutture ministeriali – è
nota, ad esempio, la forte contrapposizione tra il Ministero dell'Industria, accorto
“protettore” delle prerogative dei produttori italiani con minore proiezione
internazionale, e il Ministero del Commercio con l'Estero, che fu protagonista
della stagione delle liberalizzazioni commerciali29 - che costituisce, a nostro
avviso, una delle evidenze storiche più interessanti relative al periodo della storia
repubblicana sul quale ci stiamo focalizzando.
Riservando un ultimo accenno alle fonti utilizzate e a quelle da utilizzare,
occorre notare come il “perno documentario” della ricerca sia costituito dalle
carte conservate presso l'Archivio storico del Ministero degli Esteri italiano: si è
fatto particolare riferimento al fondo DGAE (Direzione Generale Affari
Economici), dal cui ufficio dipendeva la composizione e la “direzione” della
29
14
Cfr. J.C. Martinez Oliva, M.L. Stefani, Dal Piano Marshall all'Unione europea dei pagamenti. Alle origini
dell'integrazione europea, in F. Cotula,(a c. di), Stabilità e sviluppo negli anni Cinquanta, vol. I, L'Italia nel
contesto internazionale, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 111-399.
Delegazione italiana all'OECE; ovviamente anche i fondi del Gabinetto, degli
Affari Politici e delle ambasciate (in primis quella di Parigi) accolgono una
varietà di documenti che si sta rivelando fondamentale ai fini di questo lavoro. In
seguito sono state analizzate le carte del CIR (Comitato interministeriale per la
ricostruzione), della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Segreteria
particolare De Gasperi presso l'Archivio Centrale dello Stato (ACS). Questi
documenti hanno consentito di ricostruire i circuiti governativi e amministrativi
preposti alla gestione non solo del Piano Marshall, ma anche – e soprattutto –
delle strategie (e dei conflitti politici che attorno ad esse si dispiegavano) da cui
prese corpo l'azione politica italiana in seno all'OECE. Sempre all'intero dei fondi
custoditi presso l'ACS, sono state analizzate le carte di Ugo La Malfa (ministro
del Commercio estero nei primi anni '50), cruciali per lo studio della
liberalizzazione degli scambi, e quelle del Ministero dei Lavori Pubblici e della
Previdenza Sociale, coinvolto nella elaborazione delle politiche migratorie
italiane all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale. Un ulteriore
nucleo documentario si è rinvenuto tra le carte della Banca d'Italia, probabilmente
il vero centro propulsore (insieme con il Tesoro) della politica economica del
Paese in quegli anni30: sfogliando le carte del Fondo Caffè, del Direttorio
Menichella e del fondo Studi, risalta il ruolo decisivo assunto dalle strutture
tecniche della Banca nelle dinamiche della ricollocazione internazionale
dell'economia italiana nel post-1945. Di grande importanza, inoltre, le carte
personali di Giovanni Malagodi (conservate presso la Fondazione Einaudi di
Roma), rappresentante della Delegazione italiana all'OECE e protagonista della
stesura dei dossier dell'Organizzazione riguardanti le politiche europee sulla
manodopera. Bisognerà recarsi all'archivio della Fondazione Einaudi di Torino
per analizzare le carte dell'ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, al fine di
restituire un quadro sufficientemente articolato della concreta applicazione in
ambito internazionale della cultura economica delle classi dirigenti post-fasciste
durante il periodo '47-'53. Infine si sono presi in considerazione, ancorché
parzialmente, i fondi (caratterizzati dalla presenza di una documentazione per lo
più “tecnica” e relativa ai verbali delle riunioni dei singoli comitati interni
all'OECE) riguardanti all'attività italiana nell'OECE contenuti presso gli Archivi
Storici dell'Unione Europea (Firenze), dove recentemente è stato inventariato un
fondo intitolato “Alcide De Gasperi”, del quale occorrerà prendere visione.
30
15
Cfr. R. Ranieri, L'Italia, la ricostruzione e il sistema internazionale, op. cit.
Verranno infine consultate le carte conservate presso i rispettivi ministeri
degli Esteri di Francia31 e Gran Bretagna: le posizioni assunte dai maggiori player
interni all'OECE nei confronti dell'Italia consentirà di arricchire l'affresco
generale del quadro storico di cui ci si sta occupando. Partendo ad esempio dalle
vicende dell'Unione doganale italo-francese (1947-1949) - volta a regolare non
solo lo scambio di merci tra i due Paesi, ma anche a favorire il trasferimento nei
territori francesi di centinaia di migliaia di manodopera italiana “in esubero” -,
per giungere poi al “dietrofront” unilaterale praticato da Francia e Gran Bretagna
nel '51-'52 rispetto alla progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali
nell'area OECE (gli inglesi passarono dal 90 al 61%, i transalpini sospesero del
tutto, benché temporaneamente, le misure di liberalizzazione, scatenando le ire
dei rispettivi alleati, e in particolare dell'Italia), il quadro complessivo della
ricerca si potrà consolidare e problematizzare in maniera si spera soddisfacente,
offrendo una panoramica dettagliata e, come si diceva, “polifonica” del ruolo
svolto dall'Italia nelle strutture tecniche e politiche dell'OECE.
4.
Approfondimenti e integrazioni: note a margine di una ricerca in corso.
Nonostante l'impianto complessivo della ricerca sia stato globalmente
delineato, bisognerà di certo accogliere suggerimenti esterni, osservazioni e
nuove acquisizioni – in termini contenutistici e metodologici – di cui ci si potrà
giovare fino alla conclusione del lavoro. Pertanto occorre sia continuare nel
percorso di lettura e di interpretazione delle fonti già individuate, sia allargare il
proprio sguardo a ulteriori interrogativi e a nuove piste di ricerca, in modo tale da
formulare in termini ancora più critici e approfonditi le domande – e le risposte,
per quanto provvisorie e parziali possano essere – a partire dalle quali la nostra
analisi sta prendendo corpo.
A questo proposito, sarebbe opportuno in primo luogo elaborare una più
articolata interpretazione del ruolo svolto dai tecnici italiani nell'ambito
dell'OECE e, più in generale, nel contesto della ricostruzione post-bellica. Senza
pretendere di sviluppare una vera e propria “prosopografia” della totalità del
personale tecnocratico coinvolto nell'esperienza dell'OECE - sia per una
questione di difficile reperibilità delle fonti relative a tutti i potenziali esperti
31
16
Per un breve excursus sulle carte francesi si rimanda all'ultimo paragrafo del testo.
menzionati nelle fonti consultate, sia a causa della già menzionata “porosità”
della composizione della Delegazione italiana all'OECE, i cui membri variavano
molto rapidamente al variare dei dossier di volta in volta affrontati -, appare
significativo
interrogarsi non solo sull'influenza più o meno considerevole
esercitata dai tecnici nella formulazione delle decisioni “ultime” adottate dagli
organismi politici italiani sia in ambito nazionale che in seno all'OECE, ma anche
sulle modalità concrete attraverso le quali la componente tecnocratica italiana
contribuì a definire a monte il “perimetro discorsivo” entro cui andavano
rintracciate le possibili soluzioni da adottare in materia di politiche di bilancio,
emigrazione, produttività, etc. In poche parole, risulterebbe interessante gettare
uno sguardo sul processo di definizione preliminare degli “approcci tecnicopolitici” (quasi a dire delle filosofie) mediante i quali l'Italia si impegnò nel
risanamento della sua situazione finanziaria, nella gestione del surplus di
manodopera presente sul territorio nazionale (una problematica che, come noto,
venne trattata prevalentemente come un ostacolo da superare tramite la
facilitazione dei flussi migratori verso l'estero), nella nuova stagione delle
liberalizzazioni commerciali intra-europee, nell'accettazione e nel successivo
riadattamento ai desiderata nazionali del paradigma della produttività. Il passo
successivo dovrebbe poi consistere nella constatazione dell'esistenza o
dell'assenza di un'effettiva consequenzialità tra, da un lato, le aspettative e i
programmi iniziali elaborati dai vertici italiani, e, dall'altro, i risultati ottenuti,
interrogandosi da un punto di vista storico intorno alla natura delle possibili
contraddizioni che maturarono nella macchina politico-burocratica italiana nel
contesto della partecipazione del Paese alla rinascita post-bellica dell'Europa.
In secondo luogo, lo studio del ruolo globale giocato dall'Italia in seno
all'OECE non potrà prescindere da una riflessione ben approfondita riguardo allo
spessore non semplicemente teorico, ma in primis politico del pensiero federalista
ed europeista sviluppato dalla leadership democristiana di quegli anni (De
Gasperi su tutti) e da altri importanti interpreti della stagione degli esecutivi
centristi (basti ricordare figura del Ministro degli Esteri dell'epoca, il
repubblicano Carlo Sforza). Come si è tentato di mettere in luce anche nelle
pagine precedenti, lo spirito europeista manifestato dai maggiori rappresentanti
istituzionali italiani non fu certo scevro da ampie dosi di strumentalità e di
convenienza politica, anche (ma non solo) a causa dei delicati equilibri
internazionali che si produssero dopo il 1945 a seguito della vittoria delle forze
17
alleate e della conseguente affermazione dell'egemonia statunitense nel campo
occidentale, al cui interno figurava per l'appunto anche l'Italia post-fascista.
Tuttavia, pur constatando come la volontà dei vertici politici italiani di partecipare
alla ricostruzione economica, politica e finanche morale dell'Europa maturò non
semplicemente per questioni di disinteressata adesione ideologica, bensì anche
alla luce della evidente necessità di condividere un progetto politico continentale
che offrisse all'Italia gli strumenti concreti per tutelare i propri interessi nazionali,
risulta giocoforza necessario concentrarsi anche sulla sostanza politica del
progetto europeista e federalista della DC e dei suoi alleati. L'importanza, ai fini
della nostra ricerca, di approfondire le caratteristiche peculiari del pensiero
europeista emerso in seno gruppo dirigente centrista corrisponde, ancora una
volta, al bisogno di comprendere in che modo e secondo quali direttrici si
configurò in quegli anni l'intreccio tra le “istanze tecniche” e le “passioni
politiche” espresse dai protagonisti di quella stagione, nel tentativo di cogliere i
rispettivi spazi di autonomia, i reciproci gradi di influenza e, soprattutto, gli
intrecci – di fatto sempre presenti – che si produssero tra le prime (le istanze
tecniche) e le seconde (le passioni politiche).
Uno stimolo ulteriore all'irrobustimento contenutistico della ricerca
potrebbe maturare dall'utilizzo di altre fonti rispetto a quelle già indicate nelle
pagine precedenti. Oltre all'analisi delle carte conservate presso gli archivi italiani
– che ad ogni modo costituiscono la parte preponderante della base
documentaristica di questo lavoro – e allo spoglio delle fonti francesi e
britanniche, sarebbe estremamente interessante accedere agli archivi statunitensi
(ci si riferisce in particolar modo ai National Archives and Records
Administration, oltre ai documenti editi già disponibili nelle collezioni del
Foreign Relations of the United States), così da osservare in maniera più
ravvicinata le posizioni assunte da quella che fu di certo la forza egemone e
trainante all'interno del “nuovo ordine” geopolitico occidentale. Benché, allo stato
attuale della ricerca, sussistano comprensibili difficoltà di ordine materiale e
temporale rispetto alla possibilità di accedere alle carte americane, l'analisi diretta
della “voce” dei protagonisti statunitensi all'interno delle vicende della
ricostruzione post-bellica italiana ed europea arricchirebbe di certo la
rielaborazione storica di quegli anni, benché la storiografia esistente offra già, per
molti versi, un quadro analitico molto ampio e consolidato. Proprio a partire dalla
constatazione delle numerose divergenze interne alle varie componenti politiche e
18
amministrative nordamericane (membri dell'Amministrazione Truman; Congresso
a maggioranza repubblicana; uomini della Economic Cooperation Administration,
l'agenzia americana incaricata di gestire in Europa gli aiuti previsti dal Piano
Marshall), lo studio dei fondi archivistici statunitensi relativi al ruolo italiano
nell'OECE consentirebbe di cogliere in tutta la loro complessità i rapporti
esistenti tra gli esecutivi guidati da De Gasperi e il Governo USA, entrambi
catturati – sebbene a partire da posizioni di forza alquanto differenti – all'interno
di equilibri politici internazionali molto delicati, dove non sempre l'attore
dominante (in questo caso gli Stati Uniti) riuscì a imporsi sull'alleato “minore”, e
cioè l'Italia, dove gli esecutivi democristiani riuscirono a sfruttare a proprio
vantaggio le proprie (vere o presunte) debolezze interne – come la presenza di
una forte componente comunista, che agli occhi del Governo italiano si sarebbe
potuta rafforzare se le condizioni economiche del Paese si fossero ulteriormente
aggravate -. Di qui le pressanti richieste di assistenza materiale e politica avanzate
da Roma nei confronti degli USA, i quali – alla luce degli equilibri interni italiani
e di quelli internazionali - non poterono sottrarsi alla necessità di sostenere un
“alleato scomodo”32 come la DC, la quale molto spesso, pur essendo consapevole
della natura delle richieste americane (come la stesura di progetti dettagliati e
specifici per l'utilizzo dei fondi del Piano Marshall, o la promozione di politiche
economiche più espansive di quanto non consentissero le scelte di Einaudi e
Menichella, orientate prevalentemente al raggiungimento del pareggio di bilancio
e alla lotta contro l'inflazione), non sempre vi si adeguò in maniera immediata.
Nonostante l'ipotesi di accedere nel corso della ricerca al materiale archivistico
statunitense non sia dunque del tutto scontata, resta però valida a nostro avviso lo
sprone a osservare più da vicino le posizioni assunte dai membri tecnici e politici
americani nel quadro più ampio del processo di ricostruzione economico-politica
dell'Italia e del continente europeo, terreno di lotta dello scontro bipolare USAURSS che caratterizzò, negli anni immediatamente successivi alla conclusione
del secondo conflitto mondiale, la stagione della Guerra Fredda.
32
19
Cfr. M. Del Pero, L'alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Roma, Carocci, 2001.
Struttura provvisoria della tesi (capitoli previsti)
Il ruolo delle tecnocrazie: l'Italia e l' OECE nelle prime fasi del processo di integrazione
europea (1947-1953)
Introduzione: La dimensione internazionale della ricostruzione
- Il reinserimento dell'Italia nel contesto occidentale: prospettive e interpretazioni
- Egemonia statunitense, Guerra fredda e Piano Marshall
- All'alba del potere democristiano: i primi passi della stagione del centrismo
1. L'adesione italiana all' OECE
- Dalla Conferenza di Parigi alla nascita dell'OECE
- La scelta europea e atlantica della Dc: le aporie della politica estera degasperiana
- Equilibri internazionali tra cooperazione e interdipendenza
2. L'Italia nell'OECE: strategie e contraddizioni
- Emigrazione e manodopera: le prerogative dell'Italia
- La “liberalizzazione manovrata” dei governi De Gasperi
- Piani di sviluppo e produttività: modernizzazione italiana e integrazione europea
3. “Visti dagli altri”: l'esperienza italiana nell' OECE osservata da Londra e da Parigi
- Un rapporto problematico: Francia e Italia alla prova della cooperazione
- Pregiudizi e contraddizioni nelle relazioni tra l'Italia e la Gran Bretagna
- Quale ruolo per l'Italia nell' OECE: un primo bilancio
4. Expertise tecnocratica e ricostruzione economica
- I protagonisti del reinserimento italiano nel contesto internazionale
- Esperti, tecnici, tecnocrati: una riflessione sul sapere economico “al servizio” della politica
- Autonomia e decisione: quale “spazio politico” per gli esperti italiani nella vicenda storica
dell'OECE.
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