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Quel che resta della Guerra
fredda
Usa-Russia: Il confronto di oggi non ha radici ideologiche e rivalità economiche. È
una partita radicata nella diffidenza reciproca e nell’inconciliabilità degli approcci
geopolitici
/ 01.10.2016
di Lucio Caracciolo
Russi e americani di nuovo in rotta di collisione? Parrebbe proprio di sì. Sono passati 25 anni dalla
dissoluzione dell’Unione Sovietica, sigillo del trionfo degli Stati Uniti nella Guerra fredda, ma fra
Washington e Mosca permane una forte ostilità. Guerra ibrida, la chiamano gli strateghi: attacchi
lungo tutto lo spettro elettromagnetico (cyberwarfare), spionaggio e disinformazione, ma anche
conflitti armati indiretti, ad esempio in Siria e in Ucraina, dove americani e russi usano i loro
effettivi o presunti clienti locali per perseguire i propri interessi e contrastare quelli dell’avversario.
Sì, perché se non proprio nemici, Federazione Russa e Stati Uniti si considerano in perenne
competizione. E danno per scontato che fra loro una vera pace è e sarà impossibile. Perché?
Anzitutto per la sfiducia reciproca fra due mondi troppo diversi. Certo, le ideologie sono morte e
immaginare che Putin e associati siano dei bolscevichi travestiti è davvero eccesso di fantasia. Non
però per molti americani, anche fra le élite e gli apparati di Washington, dove la memoria dell’Orso
rosso traligna nello stereotipo dell’Orso russo. Sul fronte opposto, la convinzione che gli USA siano
sempre una superpotenza imperialista, determinata a destabilizzare e poi a distruggere la
madrepatria, resta piuttosto diffusa. Trascorsi sono gli anni del breve idillio, nel decennio Novanta
dello scorso secolo, quando otto russi su dieci guardavano con simpatia mista a invidia al modello
americano, salvo rapidamente disilludersi circa il suo carattere benigno.
Molti parlano di «nuova guerra fredda». Non è così. Il mezzo secolo di Guerra fredda esprimeva un
ordine mondiale, basato sulla contrapposizione fra due poli in opposizione permanente sul fronte
ideologico, militare, culturale ed economico, i quali dominavano i rispettivi blocchi ma erano
trattenuti dal farsi la guerra a causa del deterrente atomico. La guerra ibrida russo-americana di
oggi non ha radici ideologiche – in Russia il comunismo è (quasi) morto, anche se in America la
liberaldemocrazia non sta benissimo – né esprime una qualsiasi competizione economica, dato che i
due rivali hanno ridotto al minimo le relazioni commerciali, per di più infragilite dalle sanzioni
occidentali contro Mosca. È una partita radicata nella diffidenza reciproca e nell’inconciliabilità
degli approcci geopolitici.
A Washington prevale l’idea che Putin sia un pericoloso imperialista, deciso a ricostruire l’Unione
Sovietica o almeno un suo surrogato. E per questo disposto anche a rischiare la guerra calda.
L’annessione della Crimea, il sostegno ai ribelli separatisti del Donbass, nell’Ucraina orientale, oltre
all’assai propagandato intervento «fuori area» in Siria, ne sarebbero testimonianza. Di qui l’impegno
di Obama a calmare le ansie degli alleati del Baltico e dell’Europa orientale, materializzata
nell’annunciato schieramento di quattro battaglioni multinazionali Nato in Polonia, Estonia, Lettonia
e Lituania, a simbolica protezione del fianco Nord-Est dell’Alleanza. E l’accelerazione della messa in
opera dello scudo anti-missili balistici in Europa, che tanto preoccupa Putin perché ne metterebbe in
questione l’ombrello nucleare. Nell’amministrazione uscente è peraltro in corso l’ennesima
guerriglia tra apparati, con il Pentagono impegnato a disfare di notte quel che il Dipartimento di
Stato tesse di giorno nel defatigante dialogo diplomatico gestito da Kerry e Lavrov (foto).
A Mosca si è invece certi che gli Stati Uniti minaccino l’esistenza stessa della Federazione Russa, da
abbattere attraverso una «rivoluzione colorata» del genere di quelle già sperimentate nell’ex area di
controllo o di influenza sovietica. Il caso Kiev esemplifica questo senso della minaccia: quello che in
Occidente è generalmente percepito come genuino moto di popolo, diretto contro la corrotta
gestione del paese da parte del russofilo presidente Viktor Yanukovich, per i russi è colpo di Stato in
piena regola ordito dalla Cia. La quale aspira a riprodurlo quando possibile al Cremlino, liquidando
Putin e aprendo il vaso di Pandora dei separatismi latenti nello spazio russo.
In mezzo ci siamo noi europei. Oramai quasi tutti nella NATO – comunque anche i neutrali, dalla
Svezia alla Finlandia, dalla Svizzera all’Austria, vengono computati, a torto o a ragione, nello
schieramento anti-russo in caso di guerra aperta. Lo scontro fra Washington e Mosca coglie però gli
Stati del nostro continente impegnati nell’accentuata disintegrazione di quanto di comune costruito
dopo la Seconda guerra mondiale, a cominciare dall’Unione Europea. È il momento dei nazionalismi
e dei particolarismi, sviluppati dai flussi migratori dal Sud, dall’emergenza terroristica, dal
complessivo declino del benessere e della qualità della vita. E soprattutto dalla sensazione che la
politica non sia in grado di far fronte a tante crisi. Uno scenario del quale Putin cerca di profittare,
anche sostenendo vari gruppi nazionalisti, di destra oppure di sinistra, considerati utili strumenti per
confondere il campo avversario.
Alcuni reputati analisti, come il russo Sergej Karaganov e l’americano George Friedman, vedono
avvicinarsi la terza guerra mondiale. Probabilmente non è così. Ma il rischio di conflitti nel cuore
dell’Europa non è mai stato tanto forte dopo la fine della Guerra fredda. Soprattutto, potremmo
finirci dentro quasi senza accorgercene. Come ha dimostrato Christopher Clark nel suo profondo
studio intorno alle origini della Grande Guerra, siamo un continente di sonnambuli. Fama che urge
smentire.